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La letteratura (Volume 4), L'età napoleonica e il Romanticismo. Di Guido Baldi, Mario Rivetti, Giuseppe Zaccaria., Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Sintesi del manuale di Letteratura italiana

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 17/05/2019

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Scarica La letteratura (Volume 4), L'età napoleonica e il Romanticismo. Di Guido Baldi, Mario Rivetti, Giuseppe Zaccaria. e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! PREROMANTICISMO Contesto storico: l’età napoleonica Con l’ingresso degli eserciti francesi in Italia, nel 1796, si ha una svolta fondamentale: crollano i vecchi stati assoluti, si formano organismi politici nuovi, prime le ‘repubbliche giacobine’, poi strutture statali più vaste, come la repubblica cisalpina, che divenne repubblica italiana e poi Regno d’Italia. Gli altri organismi secolari, come il Regno di Napoli, passano sotto il dominio napoleonico. Le strutture statali che si formano sono ispirate al modello francese, hanno carattere moderno nella pubblica amministrazione, ma anche nell’apparato giudiziario (estensione codice napoleonico), nell’apparato giudiziario, nell’esercito e nella scuola. Tutto questo contribuisce a dare una fisionomia nuova e più moderna ai ceti medi italiani, in un paese arretrato, privo di coscienza sociale, e di peso politico e culturale. Il regime napoleonico servì anche a svecchiare strutture economiche dell’àncien-régime: furono aboliti privilegi e istituiti feudali che costituivano un ostacolo all’economia; fu ridato impulso alla libera circolazione della proprietà terriera con vendita di beni ecclesiastici. Si rafforzò così la borghesia terriera; anche commerci e industrie furono avvantaggiati dalla soppressione di barriere doganali. Tutte queste spinte modernizzatrici furono bloccate dalla politica imperiale di Napoleone, che considerava gli Stati vassalli come zone di sfruttamento a favore della Francia e subordinava la loro economia alle esigenze dello Stato dominante. Di conseguenza, la possibilità di espansione produttiva e di sviluppo sociale, furono ben lontane da potersi attuare pienamente. Gli anni 1796-99 sono detti ‘triennio giacobino’: sono anni di grandi illusioni in un profondo rinnovamento politico, a tinte spesso utopiche. All’interno della schiera dei ‘patrioti’, che appoggiano le innovazioni apportate dalla Francia rivoluzionaria, si distinguono i democratici, che aspirano ad un cambiamento, in nome dei principi di eguaglianza; l’altra, di orientamento moderato, che mira a graduali e realistiche riforme che salvaguardino la proprietà privata e l’egemonia dei ceti superiori. E’ quest’ultimo l’indirizzo prediletto dalla politica napoleonica, le idee patriottiche però, furono accolte solo dai ceti colti; le masse popolari ne rimasero escluse. Questa frattura tra le due italie, quella dei ceti colti, patriottici e progressisti, e quella proletarie e contadina, sarà poi un dato costante della successiva formazione dello stato unitario. La componente giacobina (portatrice dei valori della rivoluzione e attaccata dalla Chiesa), vide nell’istaurarsi della dittatura napoleonica un tradimento delle istanze di libertà e di democrazia sorte nel momento del primo fervore rivoluzionario. Il triennio giacobino vide sorgere nuovi istituti culturali; la necessità di coinvolgere il maggior numero di cittadini nel processo di rinnovamento democratico e di diffondere le nuove idee, diede un impulso straordinario alla pubblicistica. L’attività giornalistica ebbe un grande rilievo nel secondo Settecento, ma ora i giornali si moltiplicano ed assumono un’impronta politica. Questa azione di propaganda avviene anche tramite il teatro, si istituiscono teatri nazionali o patriottici a sostenere idee libertarie. Il regime napoleonico, istauratosi dopo il colpo di stato del 18 brumaio 1799 e la vittoria di Marengo, continua a dare impulso a queste forme di comunicazione, piegandole a divenire strumenti di creazione del consenso al dominio personale del dittatore; esse diventano quindi forme di propaganda di regime, questo significa soppressione di ogni libertà di dissenso. Ruolo fondamentale per Napoleone fu per la scuola di Stato, ispirata a concezioni laiche, nella formazione del ceto dirigente, dei burocratici e degli ufficiali Nel triennio giacobino si delineò un ruolo sociale nuovo per l’intellettuale, che andava oltre il philosophe, diffusore dei lumi e consigliere dei principi illuminati: l’intellettuale ora era colui che elaborava e diffondere le ideologie della trasformazione democratica, che aveva il compito di creare consenso di massa intorno a tali 1 idee. Era un ruolo attivo, l’intellettuale doveva immergersi nel cuore stesso del processo politico, quindi fu un periodo di grande partecipazione attiva alla vita politica, vissuto con entusiasmo da parte degli intellettuali, come se loro fossero gli artefici della rigenerazione del mondo. Questo entusiasmo fu spento dall’assestarsi del regime napoleonico, durante questo periodo non ebbero modo di svilupparsi le potenzialità di una funzione nuova dell’intellettuale. Riprese vigore il vecchio ruolo del poeta cortigiano, celebratore dei fasti del potere, questo ruolo fu incarnato da Monti. Oppure, l’intellettuale dovette adattarsi al ruolo di fedele funzionario, nell’amministrazione, nella scuola, nel giornalismo ufficiale, con il compito di mediare il consenso nei confronti dello stato. Ma chi visse la breve fase giacobina, non seppe adattarsi a questi nuovi compiti. La figura di Foscolo fu esemplare in questo senso: fu costantemente alla ricerca di una sistemazione materiale nella burocrazia, nel giornalismo, nell’esercito, ma non si identificò mai nella figura del funzionario di regime; ebbe sempre l’atteggiamento del liber’uomo, pronto a vivere in miseria pur di non servire. La lingua letteraria continua una tradizione secolare: poeti e prosatori si rifanno sempre ai modelli illustri e scrivono in una lingua aulica, lontana da ogni possibile uso parlato. Il lessico della poesia costituisce una lingua a sé: alma per anima, crini per capelli, lumi per occhi; ma anche la sintassi è ampia e complessa. Il linguaggio conferma quanto si osservava riguardo al pubblico e alla circolazione delle opere letterarie: la letteratura è un fatto d’élite, rivolta a pochi, una piccola cerchia di persone che condivide con lo scrittore la cultura, i gusti e il linguaggio. Il tradizionalismo classicistico è ben esemplificato della teoria linguistica del Purismo, che si afferma in quest’età. Il Purismo, come reazione alla libertà linguistica per cui si erano battuti gli illuministi del Caffè, si rifaceva a Bembo e propugnava l’assoluta ‘purezza’. I puristi di più rigida osservanza, furono: Biasilio Puoti, Antonio Cesari, Pietro Giordani. Neoclassicismo e Preromanticismo in Europe e in Italia: nel classicismo dominante in Italia durante l’epoca napoleonica, sono ravvisabili elementi nuovi: per questi si è soliti definirlo con Neo-classicismo. Negli ultimi anni del 1700, le scoperte archeologiche di Ercolano e Pompei, avevano sollecitato la curiosità e l’ammirazione per le forme dell’arte classica. alle scoperte archeologiche si aggiunsero gli studi di arte classica, che suscitarono un vagheggiamento entusiastico della civiltà e della bellezza antiche. D’importanza fondamentale furono le opere dell’archeologo tedesco Hohann Joachim Winkelmann, egli sosteneva che l’arte greca aveva realizzato l’ideale del bello assoluto ed eterno. Le teorie di Winkelmann diedero all’estetica neoclassica i principi fondamentali: l’arte e la letteratura devono mirare al bello ideale, cioè trasfigurare la realtà contingente in forme perfette, in cui non ci siano nulla di eccessivo, scomposto e grezzo. A questo modo di guardare all’antico, si aggiunse poi il classicismo rivoluzionario. I protagonisti della Rivoluzione francese vedevano i Atene, Sparta e Roma un modello di vita repubblicana libera, virtuoso, sobria e forte, che volevano far rivivere nel presente; per cui di identificarono negli eroi antichi, si atteggiavano e parlavano come essi. E’ un classicismo austero ed eroico che, pur nella comune matrice di una riesumazione archeologica dell’antico, è lontanissimo dalla grazia leziosa del classicismo arcadico. Non si celebrano più le virtù repubblicane e libertarie, a si tende ad assimilare il regime napoleonico alle forme imperiali romane. Questo gusto si manifesta nella pittura e nella scultura ufficiali., come nella letteratura tesa a celebrare i fasti del regime, nelle arti decorative e nella moda. Ma al di là del Neo classicismo scenografico e celebrativo, vi è nell’età napoleonica un Neoclassicismo dalle motivazioni ben più profonde e nuove che 2 1789 celebrato gli albori della Rivoluzione nel poemetto La Francia; ma non tardò a ricredersi e restò poi curioso ma appartato testimone, senza viltà ma anche senza profondo impegno spirituale, dei grandi eventi che trasformavano in quegli anni il mondo politico e sociale. Così anche non si impegnò mai nella polemica classico-romantica, pago del suo classicismo a cui inquietudini romantiche non toglievano l'impeccabile decoro formale. Nel 1805 si accinse alla traduzione dell'Odissea (pubbl. 1822), corretta ma un po' scialba. Dello stesso 1805 sono le Epistole in versi. A lui, che aveva iniziato un poemetto su I cimiteri, Foscolo dedicò i Sepolcri: sicché egli interruppe il suo poema e compose un'epistola dallo stesso titolo foscoliano (1807). Tra le altre opere, vanno ricordate le Novelle (1792), i Discorsi riguardanti la tragedia (1812), i Sermoni (1819), il poemetto Il colpo di martello del campanile di San Marco (1820), gli Elogi dei letterati italiani (1826), e soprattutto la tragedia Arminio (1804), ricca di echi alfieriani, shakespeariani e ossianici. Tra le altre tragedie da lui composte: Eteocle e Polinice; Geta e Caracalla; Annibale in Capua. Melchiorre Cesarotti Melchiorre Cesarotti (Padova, 15 maggio 1730 – Padova, 4 novembre 1808) è stato uno scrittore, traduttore, linguista e poeta italiano. Figlio di Giovanni (Zanne) e Medea Bacuchi, Cesarotti nacque da una famiglia di antica origine nobile ma da tempo entrata nel "ceto civile". Studiò nel seminario della sua città, dove ebbe come guida il matematico Toaldo, qui ottenne il titolo e il privilegio di abate - prese gli ordini minori senza diventare sacerdote[ -, e dove fu poi accolto come giovanissimo professore di retorica e belle lettere nei primi anni cinquanta del Settecento. Nel novembre 1760 lasciò Padova per trasferirsi a Venezia come precettore presso la famiglia Grimani. Qui entra in contatto con le personalità più in vista nel mondo culturale come Angelo Emo, i fratelli Gasparo e Carlo Gozzi, Carlo Goldoni e Angelo Querini. Gli esordi e la fama Matura in questo ambiente l'esperienza che gli darà una fama europea, ovvero la traduzione in italiano dei Poems of Ossian da poco pubblicati dallo scozzese James Macpherson (redatta in oltre un decennio, con una prima edizione incompleta nel 1763 e poi quella, definitiva e completa, nel 1772). Nel 1762 pubblicò a Venezia un volume che conteneva, oltre alle traduzioni di due tragedie di Voltaire (La morte di Cesare e Maometto), due dissertazioni teoriche intitolate Ragionamento sopra il diletto della Tragedia e Ragionamento sopra l'origine e i progressi dell'arte poetica, quest'ultimo poi ripudiato ed escluso dall'edizione definitiva delle Opere (1808). L'edizione del 1762 presentava anche un Ragionamento sopra il Cesare e un Ragionamento sopra il Maometto, a partire dai quali, probabilmente, l'abate era giunto alla stesura del saggio di carattere generale. Era infine incluso un componimento in giambi latini, Mercurius. De Poetis tragicis, opera che, passando in rassegna la storia delle varie letterature, assegnava a Voltaire la corona di miglior tragico. Nel 1768 venne nominato professore di lingua greca ed ebraica presso l'Università di Padova: cattedra che mantenne fino al 1797 quando passò, sempre nella stessa Università a quella di belle lettere, ovvero di eloquenza. Appartengono a questo periodo le sue opere più note: come traduttore dal greco (Demostene, Omero), e dalle lingue moderne (ancora l'Ossian, Gessner, Young), e come teorico dell'estetica (Saggio sulla filosofia del gusto) e della lingua (Saggio sopra la lingua italiana). Dopo aver ottenuto la cattedra presso lo Studio patavino, i Riformatori dell'Università commissionarono a Cesarotti la traduzione di opere greche. L'abate si applicò quindi alle versioni di Demostene, che videro la luce in sei volumi tra il 1774 e il 1778, edite da 5 Penada a Padova. In margine a questo lavoro Cesarotti scrisse numerosi testi critici, tra cui la Lettera ai Riformatori (scritta nel 1775 ma pubblicata solo nel 1807 all'interno degli Opera omnia di Cesarotti) e una lettera anteposta al sesto tomo del Demostene, dove, criticando le traduzioni letterali, aveva modo di enunciare i difetti dell'oratoria demostenica, tanto da comunicare la rinuncia, nel secondo testo citato, a tradurre ogni singola orazione di Demostene. Di quelle non tradotte erano stati volti in italiano i passi ritenuti meritevoli di lode.l principio degli anni Ottanta molti discepoli si erano ormai radunati attorno al maestro, in quella che fu una sorta di "famiglia". La fama di Cesarotti era diffusa a livello internazionale, come dimostra la sua vasta corrispondenza con illustri intellettuali di tutta Europa e il ricorso alla sua autorità in riviste e scritti stranieri. Di indole sedentaria, l'abate non aveva mai lasciato la Repubblica di Venezia sino al 1783, quando accettò l'invito a Roma dell'ambasciatore veneto Andrea Memmo. Nella città capitolina fu in Arcadia (nel 1777 era entrato a farne parte con il nome di Meronte Larisseo) e frequentò il salotto della contessa d'Albany. Conobbe inoltre Antonio Canova, il quale gli fece visitare la basilica di San Pietro e i Musei Vaticani. Nel giugno di quello stesso 1783, Cesarotti aveva incontrato a Padova Vittorio Alfieri, che quell'anno dava alle stampe le sue prime dieci tragedie. Alfieri, ammiratore della traduzione ossianica, cercava dall'abate lumi per impossessarsi di uno stile tragico: le loro personalità, opposte sul piano umano e artistico, si scontrarono inevitabilmente. Davanti a Cesarotti e alla sua scuola Alfieri lesse La congiura de' Pazzi, tragedia lontanissima dal modello cesarottiano - fondato sulla ragione e sulla moderazione -, e il professore padovano la criticò in una missiva che l'Astigiano negò di aver ricevuto. Due anni dopo la loro contrapposizione artistica si espresse più chiaramente: Cesarotti scrisse una lettera su Ottavia, Timoleone e Merope, cui il drammaturgo rispose.[11] A questo punto calò il silenzio, rotto solo nel 1796 quando l'abate scrisse ad Alfieri una lettera di presentazione per Isabella Teotochi Albrizzi, animatrice di un celebre salotto veneziano - frequentato negli anni dallo stesso Cesarotti -, missiva non immune da una vena di sarcasmo riscontrabile anche nella replica dell'Astigiano. Il biografo ottocentesco Giuseppe Vedova affermò che una nota presente nella Dissertazione sopra la tragedia cittadinesca dell'abate Pier Antonio Meneghelli, pubblicata nel 1795, e apertamente ostile nei riguardi di Alfieri, fosse opera di Cesarotti, un'ipotesi tuttavia non dimostrabile.[12] Il moderato impegno civile Da sempre sostenitore delle idee illuministe, Cesarotti fu come molti spiazzato dall'esito violento della Rivoluzione francese. All'arrivo delle truppe napoleoniche in Italia si schierò in favore di Bonaparte: per lui scrisse nel 1797 un sonetto encomiastico, e fece anche parte della delegazione inviata ad accogliere il generale vittorioso. Entrò nella Municipalità di Padova come membro « aggiunto libero » del Comitato di pubblica istruzione. In questa veste scrisse nel 1797 l'Istruzione d'un cittadino a' suoi fratelli meno istrutti, testo pensato per il popolo e decisamente lontano dalle idee radicali dei rivoluzionari, nonostante appoggiasse la causa democratica e fosse stato commissionato dal Comitato. [13] All'Istruzione fece seguito Il patriotismo illuminato. Entrambi gli scritti apparvero a Padova, il 19 maggio e il 10 luglio rispettivamente, per i tipi di Pietro Brandolese. Nel breve periodo della Municipalità - destinata a terminare la sua avventura in quello stesso anno - contribuì anche al piano di riforma dell'Università e delle scuole, presto abortiti in ragione della mutata situazione politica. Cesarotti fece pubblicare il suo contributo al piano di riforma dell'Università nell'edizione completa delle sue opere, con il titolo Saggio sopra le istituzioni scolastiche private e pubbliche, cui premise un Avviso degli editori redatto di suo pugno. Gli ultimi anni Nel 1803 si cimentò in una « festa teatrale », l'Adria consolata, testo composto in occasione del genetliaco di Francesco II d'Asburgo-Lorena, musicato da Ferdinando Bertoni e messo in scena alla Fenice lo stesso anno.[14] 6 A Napoleone Cesarotti dedicherà un discusso poema celebrativo, la Pronea (1807), duramente commentato dal Foscolo: « misera concezione, frasi grottesche, verseggiatura di dramma per musica, e per giunta gran lezzo di adulazione », scrisse l'11 novembre 1807 a Giovanni Battista Niccolini.[15] Nella sua villa a Selvazzano da lungo tempo di proprietà della sua famiglia, ospitò amici come Madame de Stael, Ippolito Pindemonte, e forse anche Foscolo, e impiantò uno dei primi giardini all'inglese in Italia. VINCENZO MONTI: Mónti, Vincenzo. - Poeta (Alfonsine 1754 - Milano 1828); iniziò gli studî sotto la guida di un prete di Fusignano e li continuò nel seminario di Faenza, dove apprese bene il latino e fu educato al gusto della poesia di Virgilio. A Ferrara intraprese gli studî di giurisprudenza, che abbandonò poi per quelli di medicina, e cominciò a dar prova della sua vocazione di poeta dalla facile vena, compiacendosi dei motivi di moda nell'ultima Arcadia. Nel 1775 faceva il suo ingresso in Arcadia col nome di Antonide Saturniano e nel 1776 stampava La visione d'Ezechiello, poemetto in terza rima assai vicino ai modi di A. Varano, che segnò l'inizio della sua fortuna. Nel 1778 il padre acconsentì a mandarlo per tre anni a Roma, dove M. si stabilì assicurandosi la protezione del card. Scipione Borghese. Nel 1779 una sua ode in metro di canzonetta, Prosopopea di Pericle, improvvisata in due giorni, la prima delle sue composizioni encomiastiche, ricca d'impeto oratorio, fu letta in Arcadia con notevole successo. Di genere analogo è La bellezza dell'universo (1781), grandioso epitalamio composto per le nozze del nipote di Pio VI, che valse al poeta la carica di segretario di don Luigi Braschi e altri benefici. La cantica, che ha la sua radice in un discorso di F. M. Zanotti, è ricca di infiniti riecheggiamenti: dalla Bibbia a Milton, da Ovidio ad Ariosto e a Tasso. Al Pellegrino apostolico (1782), il più brutto dei suoi poemi, scritto in occasione di un viaggio di Pio VI a Vienna, seguirono gli endecasillabi sciolti al principe don Sigismondo Chigi (1783) e, nello stesso anno, le lasse di sciolti, Pensieri d'amore, appassionata imitazione di Goethe, ispirati dall'amore per la giovane educanda Carlotta Stewart. Una felice ispirazione virgiliana e un del pari virgiliano lavoro di cesello contraddistinguono la Feroniade, poemetto in versi sciolti (in tre canti), mirabile per equilibrio di composizione delle parti più propriamente narrative, iniziato intorno al 1784 e al quale M. lavorò a più riprese fino agli ultimi giorni della sua vita. Intanto a Roma il principe Chigi era caduto in di sgrazia e i nemici del poeta ne approfittarono per scatenare una lotta contro di lui, che era ingolfato nei debiti. Ma una nuova raccolta di versi, plaudenti ai Braschi, gli fruttò un nuovo beneficio. Poco dopo (1784), M. scrisse una delle sue più famose poesie, l'ode Al signor di Montgolfier. Poi, forse indotto dal favore con cui l'alta società romana aveva accolto le tragedie di Alfieri, si volse al teatro drammatico e scrisse l'Aristodemo (1787), rappresentato con trionfale successo, il Galeotto Manfredi (1788) e il Caio Gracco iniziato nel 1788 e terminato nel 1800. Contemporaneamente alle tragedie, scriveva i quattro sonetti Sulla morte di Giuda e gli sciolti Alla marchesa Anna Malaspina della Bastia. Nel 1791 sposò la bella e giovane Teresa Pikler (1769-1834), figlia di Giovanni Pikler, noto incisore di pietre dure, dalla quale ebbe due figli, Costanza, che sposò in seguito Giulio Perticari, e Giovan-Francesco. Nel 1792 scriveva l'Invito d'un solitario ad un cittadino, ode saffica in cui non difettano tratti di sincera spontaneità idillica, e nel 1793 la cantica in terzine In morte di Ugo Bassville, nota comunemente come la Bassvilliana, nella quale immagina il pellegrinaggio espiatorio dell'anima di N.-J. H. de Bassville (v.), segretario della legazione francese a Roma, che, accompagnata da un angelo, assiste alla rovina nella quale la rivoluzione ha gettato la Francia e, in ultimo, all'esecuzione di Luigi XVI. Il poema ("un Dante passato attraverso l'Arcadia" come replicò De Sanctis a chi aveva parlato entusiasticamente di "un Dante ingentilito"; e fu sempre De Sanctis a osservare che Monti "aveva Dante nell'orecchio, Virgilio nell'immaginazione") fu subito accolto con grande favore e divenne caro alla reazione antifrancese. In Francia, però, il nuovo regime si consolidava e M. si diede allora prudentemente alla stesura di un 7 collaborazioni con diverse riviste inglesi, per migliorare le proprie condizioni, prendendo posizioni contro la scuola romantica che si stava affermando a Milano. Negli ultimi anni, ammalato e in miseria, fu costretto a nascondersi dai creditori, vivendo nei sobborghi più poveri di Londra. Morì nel villaggio di Turnham Green nel 1827, a soli 49 anni. Nel 1871 i suoi resti furono portati in Italia e sepolti a Santa Croce, vicino ai grandi uomini da lui cantati nei Sepolcri. La Culture e le idee Nella formazione di Foscolo, convergono le componenti tipiche della cultura del suo tempo: la cultura classica, le sollecitazioni preromantiche, l’Illuminismo settecentesco. La formazione letteraria avviene nel solco del gusto arcadico, ma a questa letteratura frivola ed evasiva, della perfezione formale, si aggiunge il modello dei grandi classici latini e greci, oltre a quelli italiani, in particolare Dante e Petrarca. Foscolo, inoltre, guarda con ammirazione Parini, e all’ansia di libertà di Alfieri. Allo stesso tempo, sente l’influenza delle suggestioni sentimentali di Rousseau e di Goethe. I poeti cimiteriali, sono da lui interpretati in chiave laica. Subì in primo luogo le influenze di Rousseau, che gli suggerì posizioni egualitarie e democratiche, e lo spinse verso posizioni giacobine. Sempre da lui derivò il culto della natura, come tutto ciò che è autentico e positivo. La visione di Rousseau si basava sulla sul presupposto dell’originaria, naturale bontà dell’uomo, corrotto poi dallo sviluppo della civiltà. In seguito Foscolo si distaccò da questa visione, abbracciando concezioni più aspramente pessimistiche, come quelle di Machiavelli e Hobbes, che lo inducevano a credere nell’ordinaria malvagità dell’uomo, in perenne conflitto con gli altri per sovrastarli. La società allora gli apparve come una guerra di tutti contro tutti. A questo pessimismo, contribuisce un’altra componente filosofica, il materialismo, che proviene sempre dalla cultura materialistica del Settecento, ma anche da apporti dei pensatori greci, come Democrito, Epicureo e il latino Lucrezio. Il materialismo è la posizione di chi ritiene che tutta la realtà sia materia, che esclude quindi lo spirito, se non come prodotto della materia stessa. Ne deriva la negazione del trascendente e della sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Tutto il reale è nient’altro che un’aggregazione di elementi materiali, che poi si disgregano per andare a formare altri corpi. Il mondo non è retto da una superiore intelligenza, ma da una forza meccanica. La morte segna l’annullamento totale dell’individuo. Foscolo è ben consapevole di ciò che può causare un pensiero del genere, vale a dire la negazione di ogni potere superiore; il pessimismo che ne scaturisce può generare indifferenza, fatalismo e passività. La visione eroica propria di Foscolo, provocherà insoddisfazione per queste posizioni e lo spingerà a cercare alternative, recuperando la visione ideale dell’esistenza. Un fondamentale valore alternativo che Foscolo propone è la bellezza, di cui sono depositarie la letteratura e le arti. Ad esse Foscolo affida il compito di depurare l’animo dell’uomo dalle passioni che nascono dai conflitti della vita associata, di consolarlo dalle sofferenze e dalle angosce del vivere. Ma, accanto a questo compito, alla letteratura e alle arti è associato un fine più alto: rasserenando e purificando l’animo umano, lo rendono più umano, lo allontanano dalla condizione feroce che c’è in lui dai tempi primitivi, spingendolo a guerre fratricide, gli insegnano rispetto per gli altri uomini e la compassione per i deboli e sofferenti. Quindi letteratura e arte hanno una funzione civilizzatrice per Foscolo. Ad essa contribuisce anche la funzione di tramandare le memorie, in cui consiste l’anima di un popolo, ciò che ne garantisce l’unità e fa di esso una nazione. LE ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS La prima opera importante di Foscolo fu un romanzo, Ultime lettere di Jacopo Ortis. Lettere si trovava già in un Piano di studi del 1796, ma dell’opera non è rimasta traccia. Una 10 prima redazione dell’opera fu parzialmente stampata a Bologna, nel 1798, ma rimase interrotta per le vicende belliche, che spinsero lo scrittore a combattere con gli Austro- Russi, lo stampatore per vendere il libro, lo face completare da Angelo Sassoli, che usò i materiali di Foscolo stesso. Il romanzo fu ripreso e pubblicato da Foscolo nel 1802, anche se su di esso Foscolo ritornò più volte, nel 1816-17. L’Ortis è dunque un’opera giovanile, che però fu centrale nella sua esperienza. Si tratta di un romanzo epistolare (genere molto fortunato durante il Settecento): il racconto si costruisce attraverso una serie di lettere che il protagonista scrive all’amico Lorenzo Alderani. Il modello a cui Foscolo guarda è soprattutto I dolori del giovane Werther di Goethe, anche se non è da sottovalutare l’influsso di Rousseau. Ispirato a Werther è il nodo fondamentale dell’intreccio, un giovane che si suicida per amore di una donna già destinata come sposa ad un altro. Ma vicino a Goethe è anche il nucleo tematico profondo: la figura di un giovane intellettuale in conflitto con un contesto sociale in cui non può inserirsi. Goethe aveva colto per il primo il conflitto tra intellettuale e società, tema che poi si svilupperà ampiamente in seguito; e aveva avuto la capacità di rappresentare il conflitto attraverso una vicenda provata e psicologica, nell’impossibilità di vivere una relazione con la donna amata e di concluderla con il matrimonio. Foscolo ha la capacità di riprendere questi temi e collocarli nel contesto italiano dei suoi tempi: VICENDA: Jacopo è un giovane patriota che, dopo la cessione di Venezia all’Austria col Trattato di Campoformio, si rifugia sui colli Euganei, per sfuggire alle persecuzioni. Qui si innamora di Teresa, ma il suo amore è impossibile, perché la giovane promessa a Odoardo, che è il contrario di Jacopo, un uomo gretto e prosaico, freddo e razionale, quanto l’eroe è impetuoso e appassionato. La disperazione porta il ragazzo a pellegrinare per l’Italia: Firenze (visita la tomba di Santa Croce), Milano (dove incontra Parini), confine con la Francia, Ventimiglia. La notizia del matrimonio di Teresa lo riporta nel Veneto, rivede ancora la fanciulla amata, si reca a visitare la madre amata e poi si uccide. Come si vede, il conflitto sociale, che nel Werther si misura sul piano privato dei rapporti personali, qui si trasferisce sul piano politico. Ma a cambiare sono proprio i caratteri del conflitto: se nel dramma di Werther è quello di non potersi identificare con la sua classe di provenienza: la sensibilità dell’artista e la passionalità vementi sono respinti dal mondo borghese., che si fonda sulla razionalità e sul calcolo. Diverso è il dramma di Jacopo: non tanto l’urto contro un assetto sociale ferreo che lo respinge, quanto il senso angoscioso di mancanza, di non avere una patria, un tessuto sociale politico in cui inserirsi. L’Ortis fu scritto dopo la Rivoluzione francese, mentre il Werther fu scritta prima di essa. Dietro Werther c’è la Germania assolutistica, dietro il giovane Ortis c’è un’Italia dell’età napoleonica. In Werther c’è la necessità di sentire un mondo diverso, mentre in Jacopo c’è la disperazione, nata dalla delusione per la Rivoluzione francese, nel vedere tradite tutte le speranze patriottiche e democratiche. Non essendovi soluzioni sul piano storico, l’unica via che si offre ad Ortis per uscire da una situazione negativa, al tempo stesso insostenibile e immodificabile, è la morte. Ma, pur nascendo da una situazione così negativa, l’Ortis non è solo un’opera nichilistica. Al suo interno c’è una ricerca di valori positivi, che possano permettere di superare il vicolo cieco della storia: la famiglia, gli affetti, la tradizione culturale italiana, l’eredità classica, la poesia. Il nichilismo è solo uno dei poli della dialettica, presente e attiva in questo momento dell’esperienza foscoliana, destinata ad avere altre soluzioni in futuro. Con l’Ortis, Foscolo riesce a cogliere i problemi che si pongono alle generazioni italiane post-rivoluzionarie, ma anche l’intuizione di trasferire in Italia un modello di romanzo moderno ampiamente diffuso nel resto dell’Europa. Quindi, l’Ortis non inaugura il genere del romanzo in Italia, non c’è in esso un interesse a costruire un intreccio di eventi, ad evocare ambienti sociali e a dipingere personaggi e psicologie: prevale in Foscolo la spinta 11 lirica o saggistica. Più che un racconto, l’opera appare come un lungo monologo, in cui l’eroe si confessa, abbandonandosi ad una lunga serie di meditazioni filosofiche o ad appassionate orazioni politiche. L’opera è scritta in una prosa aulica, pervasa da una continua tensione al sublime; la sintassi è complessa, ci sono continue antitesi o simmetrie, trapassi continui, ellissi; spesso l’enfasi retorica ha il sopravvento, e si avvertono reminiscenze libresche. Un’opera contemporanea all’Ortis è il Sesto tomo dell’Io (rimasto allo stato si semplice abbozzo frammentario) che avrebbe dovuto essere anch’esso un’opera autobiografica, ma l’atteggiamento del Foscolo è umoristico, fatto di distacco ironico e di saggezza contemplativa. Le Odi e i Sonetti: Foscolo cominciò a scrivere sin da ragazzo odi, sonetti, canzoni di metro vario: sono esercizi letterari, testimonianze di un apprendistato poetico che rivelano l’influsso delle tendenze di gusto e delle tematiche correnti del tempo. Il poeta pubblicò nel 1803 le Poesie, che comprendevano solo due odi e dodici sonetti. Le Odi Le due odi: A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata, risalgono al periodo della scrittura dell’Ortis, ma rappresentano tendenze opposte: se l’Ortis, con la sua passionalità e il suo soggettivismo esasperati, con l’eroe sventurato e il ritorno ossessivo della morte, rimanda a tematiche di tipo preromantico, le Odi rappresentano le tendenze più squisitamente neoclassiche della poesia foscoliana. Al centro di entrambe è presente il vagheggiamento della bellezza femminile, trasfigurata dalla sovrapposizione di immagini di divinità greche, ricorrono continui richiami mitologici; il lessico è aulico e sublime e la struttura sintattica riproduce architetture del periodare classico. Mentre l’ode A Luigia Pallavicini conserva un carattere di omaggio galante alla bella donna, All’amica risanata ha l’ambizione di proporsi come un discorso filosofico sula bellezza ideale. Il neoclassicismo di Foscolo si rivela ben diverso da quello montiano e arcadico, esteriore e puramente esornativo; il culto foscoliano della bellezza esprime un’esigenza autentica e profonda, che nasce da un rapporto problematico con un momento storico tormentato e violento e bisogno di contrapporre ad esso calori superiori. I Sonetti: i sonetti sono più vicini alla materia autobiografica e alla passionalità dell’Ortis. C’è un forte impulso soggettivo; fitte sono le reminiscenze di altri poeti, soprattutto Petrarca e dei poeti latini. Tra i sonetti, spiccano tra vertici poetici: Alla sera, A Zacinto, in morte del fratello Giovanni. Sono ripresi anche i temi dell’Ortis: la proiezione del poeta in una figura eroica sventurata e tormentata, il conflitto con il ‘reo tempo’ presente e il ‘nulla esterno’ come unica alternativa., esilio come condizione politica ed esistenziale insieme, l’impossibilità di trovare un terreno stabile su cui poggiare che si traduce nell’impossibilità di trovare rifugio nella famiglia. Ricompare dunque sia il motivo nichilistico dell’Ortis, sia quella ricerca di valori positivi, al fine di un superamento dell’approdo nichilistico. Si conferma quindi quella linea di mediazioni poetica, che troverà il suo culmine nei Sepolcri. Dei Sepolcri I Sepolcri sono un poemetto (definiti da lui carme), in endecasillabi sciolti, sotto forma di epistola poetica, indirizzata all’amico Ippolito Pindemonte. L’occasione fu appunto una discussione avvenuta con questi a Venezia nell’aprile 1806, originata dall’editto napoleonico di Saint-Cloud (1804), con cui si imponevano le sepolture fuori dai confini 12 riferimento a quel terreno storico, come critica di quel presente, come esigenza di un ordine più umano. Tutto ciò resta solo sul piano di pura contemplazione, di affermazione consolatoria: Foscolo è convinto della funzione civilizzatrice della poesia e delle arti , di agire sul mondo sociale e di renderlo più umano. Si può affrontare ora il problema che c’è tra le tendenze romantiche e quelle Neoclassiche che sembrano a prima vista sovrapporti nell’opera foscoliana. In realtà, le due tendenze non sono contraddittorie, ma scaturiscono dalla stessa radice e si pongono in posizione complementare. La radice comune è data dalla condizione storica che si vive nell’Italia napoleonica: le tendenze romantiche sono l’espressione diretta della delusione storica, dei traumi e delle lacerazioni; le tendenze neoclassiche sono il tentativo di opporre a tutto ciò un mondo alternativo di equilibrio, armonia e bellezza . Quindi, anche le tendenze neoclassiche scaturiscono da una matrice romantica, e recano al loro interno la polarità dinamica che le rende diverse dal Neoclassicismo di maniera. ROMANTICISMO In Italia il movimento romantico si affaccia nel 1816, ma le tendenze romantiche erano in atto già da tempo in Europa, sin dagli ultimi decenni del Settecento e anche Italia alcuni aspetti che possono rientrare nella matrice romantica erano presenti già da tempo, nell’età napoleonica e in Foscolo. Il termine Romanticismo può essere usato come categoria storica, ed indicare un intero periodo nelle sue varie manifestazioni, oppure può essere utilizzato per designare un movimento, che si concreta in scuole o gruppi intellettuali legati da principi comuni, ispirati da una precisa poetica. Secondo questa distinzione, alcuni intellettuali che non fecero parte di movimenti romantici, rientrano comunque nel Romanticismo nell’accezione più larga del termine, in quanto parteciparono alla visione del mondo e alle tendenze di quel periodo. Il Romanticismo, investe tutti gli aspetti della civiltà occidentale da fine Settecento a metà circa dell’Ottocento, condizionando e inglobando in sé anche delle tendenze che vi si oppongono ( classicismi). Coinvolge non solo la letteratura, ma un po' tutte le arti, come musica, pittura e la mentalità in generale. Darne una definizione sintetica potrebbe risultare errato, in quanto un periodo così vasto non può essere racchiuso in una formula poiché si potrebbe incorrere in eventi anche contraddittori nello stesso arco temporale. Si può cercare però delle caratteristiche che possono essere assunte come denominatore comune nella pluralità delle manifestazioni culturali. Bisogna essere consapevoli che nella realtà il Romanticismo non esiste, esso è il risultato di un processo di astrazione: esistono solo scrittori, pensatori e artisti che trattano determinati temi in determinate forme espressive. Parlando dei denominatori comuni, quello che colpisce immediatamente chi osserva le produzioni di questo periodo, è che nella poesia, nella letteratura e nelle arti in generale, trionfano le tematiche negative: la malinconia, il dolore, l’angoscia, il tedio, l’inquietudine, l’orrore. E’ emblematico il titolo di un’opera che inaugura il nuovo clima culturale, I dolori del giovane Werther. Il periodo in questione, è segnato da profonde trasformazioni, che sconvolgono assetti secolari, nelle istituzioni politiche, nell’organizzazione economica e sociale; vi è innanzitutto la rivoluzione politica che dalla Francia si irradia a coinvolgere l’Europa intera, crolla la monarchia assoluta di diritto divino e il re, rappresentante di quest’ultima, viene ucciso; si ha inoltre la grande sovranità del popolo, alle idee d gerarchia, si oppongono quelle di libertà e di eguaglianza, quindi il potere è assunto dai rappresentati eletti dal popolo. Un’latra rivoluzione, oltre quella politica, forse meno evidente alla coscienza collettiva, era la rivoluzione economica determinata dalla rivoluzione industriale. Originatasi nella 15 metà del Settecento in Inghilterra, essa si estende progressivamente nel corso dell’Ottocento in tutto Europa. La rivoluzione economica determina un dinamismo dirompente nella società, sconvolgendo le stratificazioni sociali tradizionali. Nuovi ceti, prima in condizioni subalterne, si affacciano alla scena sociale e lottano per affermare la propria egemonia; grazie alla propria intraprendenza personale e la propria audacia, si formano potenze economiche colossali. Una quantità di merci impensabile, invade il mercato, grazie all’uso delle macchine che moltiplicano la produzione e i consumi si estendono a ceti che prima ne erano esclusi. Cambia il rapporto campagna-città e sorgono nuove città industriali, dove si concentrano masse di lavoratori. Entra in crisi il lavoro artigianale e muta la forma stessa del lavoro, che diviene sempre più spersonalizzato. Anche i trasporti, grazie alla macchina a vapore, si fanno più veloci e con essi anche i rapporti tra i diversi paesi, gli scambi di merci e idee. E’ una rivoluzione nella vita umana di proporzioni mai viste prima, nel giro di alcuni decenni il mondo occidentale varia più di quanto fosse cambiato dei millenni precedenti. Tutti questi mutamenti, creano forte contraddizioni, che non possono generare paura e tensione collettiva. Il mercato industriale esige la continua espansione, pena il crollo; ma il mercato non può assorbire illimitatamente le merci prodotte, ciò determina crisi cicliche, che porta effetti rovinosi sull’economia e sulla popolazione. Un sistema economico che appare fondato sul calcolo e sulla razionalità, in realtà è minato da un’oscura irrazionalità. Da ciò, nasce insicurezza, paura, senso di impotenza e l’uomo moderno non si sente più in grado di dominare quello che egli stesso ha creato. Un’altra forza misteriosa sembra nascondersi dietro i prezzi delle merci e le azioni, che si alzano e scendono e sembrano essere determinati dalla volontà dell’uomo, che compra e vende. Le cose, gli oggetti sembrano assumere vitalità diabolica, schiacciando l’uomo, togliendogli autonomia e iniziativa. Questo nuovo sistema industriale crea una nuova forza, quella degli operai sfruttati, che si contrappone ostile al sistema sociale tramite rivolte, scioperi, ma anche con sistemi di vita completamente diversi da quelli dei borghesi. La presenza di questa grande forza ostile, come un grande vulcano che minaccia l’esplosione, incombe sulla coscienza collettiva e percorre le manifestazioni culturali dell’Ottocento. La nuova realtà industriale aggredisce anche la natura: l’industria, con le sue esigenze, muta il volto del paesaggio naturale (ferrovie, ponti, dighe, fabbriche), inoltre lo contamina con i suoi fiumi, le sue scorie e i suoi veleni. E’ un’idea diffusa quella di credere che il Romanticismo abbia le sue radici nella delusione del razionalismo illuministico e delle speranze nelle Rivoluzione francese; ma in realtà alcune tendenze romantiche, erano già in atto prima della Rivoluzione: lo Strurm und Drang, il wertherismo, Rousseau, la letteratura ‘gotica’ e tutto il Preromanticismo… quindi, si può dedurre che il Romanticismo sia l’espressione non soltanto della delusione storica dell’Illuminismo e della Rivoluzione , ma di tutto il grande moto di trasformazione di quell’età. La delusione storica è solo uno di quei momenti del processo, che ha radici più profonde. L’intellettuale che produce questo periodo storico, non vive in un a dimensione separata, in cui non arrivano gli echi del mondo, ma è pur sempre immerso nella realtà, ne patisce le contraddizioni e trasfonde la sua tradizione nella sua opera. In generale, l’artista ha una maggiore predisposizione nel cogliere le tensioni del periodo, l’occhio più acuto nello scandagliare i processi in atto, una coscienza più lucida di quella del cittadino comune. Questo scaturisce non solo dalla particolare sensibilità dell’artista, ma anche dalla sua nuova collocazione sociale che gli fa sentire le contraddizioni dell’epoca. L’intellettuale del passato era appartenente ad un ceto alto oppure era sotto la protezione di questo e mediava il pensiero dell’egemonia, facendosene portatore. Ora, invece con l’avvento del nuovo sistema borghese, l’intellettuale perde in genere la sua posizione privilegiata. Non deriva dal clero o dalla nobiltà e deve trovarsi 16 un’occupazione per mantenersi e sono spesso occupazioni poco remunerate e di poco prestigio sociale (l’insegnate, il precettore privato, il bibliotecario, il giornalista). L’intellettuale è un declassato, posto ai margini del corpo sociale, questo genera in lui rabbia, frustrazione e risentimento verso la società; il suo punto di vista non è più quello del ceto dominante, ma è un punto di vista estraniato. Inoltre, l’artista è portatore del valore della bellezza disinteressata, che in passato poteva coincidere con quello della classe dominante, come la raffinatezza e il culto del superfluo; ora invece dominano l’utile, il calcolo razionale, la produttività; che sono la negazione del bello disinteressato. L’arista è visto come un individuale improduttivo, inutile o come colui che ha il solo compito di intrattenere e divertire. L’intellettuale accumula in questo modo molto risentimento, che generano conflitto con la società, ed a complicare il tutto è che egli proviene dalla classe borghese, quindi è rifiutato proprio dalla matrice da cui è generato. Ciò lo indice ad atteggiamenti di rivolta, di anticonformismo, di rifiuto dei valori correnti. Ma questo conflitto accresce in lui il senso di essere “diverso”, entrando in una sorta di circolo perverso. L’opera d’arte diviene una merce che si scambia sul mercato, che ha un prezzo e presuppone, come nel caso del libro, una vera e propria organizzazione industriale. Anche questo offende l’artista che considera la sua produzione come prodotto della sua geniale creatività ed è per lui un valore incommensurabile, senza prezzo. Questo rapporto con il mercato accresce ancora di più la posizione conflittuale dell’artista verso la società, il suo senso di estraneità. Non mancano soluzioni di compromesso: l’artista può adattarsi al suo nuovo ruolo, accettare il meccanismo del mercato, mirare al successo e all’approvazione generale blandendo i gusti del pubblico e facendosi portatore dei valori correnti. Nonostante questa soluzione, non si possono escludere sentimenti di rancore dell’intellettuale nei confronti della società. Una delle categorie comuni del Romanticismo, è il rifiuto, l’inquietudine, la fuga, la rivolta di fronte ad una realtà sentita come negativa. Il rifiuto romantico si indirizza in primo luogo nei confronti della ragione, è perciò riduttivo parlare di opposizione del Romanticismo al razionalismo dell’illuminismo, quest’ultimo è solo un aspetto delle tendenze alla razionalizzazione della realtà moderna e per di più solo una fase di avvio. Il Romanticismo si presenta come esplorazione dell’irrazionale, di quella parte della realtà sommersa in una zona d’ombra, di quel vasto continente prima di allora appena intuito da scrittori. L’epoca dell’illuminismo era dominata dall’immagine della luce ( il lume); il Romanticismo predilige invece la notte, la tenebra, che sono appunto metafore dell’irrazionale. Questa esplorazione dell’irrazionale si manifesta in un’attenzione per la vita dei sentimenti, per la passionalità, ma soprattutto per gli stati della psiche che escono dalla normalità razionale: il sogno, il delirio, l’ebbrezza, l’allucinazione. Il sogno e la follia, sono i due grandi motivi del romanticismo; essi costituiscono un’alternativa alla vita grigia e abitudinaria. La stessa creazione artistica è assimilata al furore, delirio, follia, in cui si fanno strada le forze profonde che la razionalità comprime. Questo atteggiamento porta ad un soggettivismo esasperato: il romantico tende a sprofondare nell’abisso dell’interiorità, concepita come unica realtà esistente; il mondo esterno non esiste, è solo una proiezione e creazione dell’io. Da qui scaturisce l’ironia romantica, che consiste nel guardare il mondo con distacco, nella consapevolezza che esso è nient’altro che creazione dell’Io. Il soggettivismo, il rifiuto della realtà esterna e della razionalità che regola il mondo, si traducono in una tensione inesausta verso l’infinito, in un’insofferenza per ogni limite e costrizione. Di contro al materialismo, all’ateismo o al deismo illuministico, il Romanticismo segna un netto ritorno alla spirituale e alla religiosità, che si manifesta in vere e proprie 17 parteciparono l’ala progressista e liberale dell’aristocrazia che si interessava attivamente ai progressi dell’attività economica. Una borghesia moderna si può dire che fosse almeno in embrione, con l’alleanza tra l’aristocrazia progressista e ceti medi produttivi; entrarono in questo processo anche i rappresentanti delle professioni liberali, medici, notai, avvocati, ecc.. Tutti questi strati sociali avevano l’interesse di eliminare quei vincoli che l’assolutismo e la divisione politica imponevano allo sviluppo dell’attività economica e civile moderna. Ma ad agire erano anche valori culturali: c’erano idee di ‘libertà’, ‘progresso’ e ‘civiltà’ che provenivano dall’Europa più avanzata e aspiravano ad allineare anche l’Italia al livello civile di quelle nazioni. Vi era poi la volontà di far parte di una nazione unita, l’ideale patriottico, eliminando la dipendenza dalle forze dominanti straniere; per questo motivo il culto del passato glorioso dell’Italia e delle grandi memorie letterarie era elemento ideologico dei vari strati che costituivano questa borghesia italiana. Da questa idea nazionale erano esclusi i ceti popolari. Essendo l’Italia ancora lontana da una rivoluzione industriale, non esisteva una classe operaia nel senso attuale del termine. Il ‘quarto stato’ era prevalentemente composto da contadini, artigiani, operai di manifatture artigianali e i domestici di case. Questi vivevano in condizioni di miseria, vittime dello sfruttamento e della fatica, della fame e della malattia ma soprattutto erano escluse dalla circolazione della cultura contemporanea a causa del loro analfabetismo. Per cui, anche l’idea di patria era a loro estranea, rimanendo patrimonio esclusivo dei ceti più elevati e della piccola borghesia. Questa esclusione dei ceti popolari dalla formazione dello Stato italiano peserà poi negativamente sulla sua vita politica e sociale, all’indomani dell’unità. La migliore intellettualità italiana si riconosceva unanimemente nell’idea nazionale, con i suoi corollari di libertà e progresso. Per questo, in Italia furono inutili le manifestazioni favorevoli all’assolutismo, alla restaurazione di sovrani legittimi. Le ideologie dominanti nella cultura risorgimentale si possono suddividere in due grandi schieramenti: quello liberale moderato e quello democratico. • Il liberalismo moderato era caratterizzato da rifiuto della Rivoluzione francese e del giacobismo, che aveva portato alla sovversione violenta. Il suo progetto politico escludeva rotture rivoluzionarie e moti insurrezionali. La soluzione al problema nazionale doveva giungere attraverso l’iniziativa dei sovrani, non attraverso la reazione popolare violenta, grazie a graduali riforme che non sconvolgessero l’assetto vigente e fossero controllate dall’alto. Sul piano politico, si proponeva una federazione degli Stati italiani esistenti, con la liberalizzazione dei commerci, potenziando le comunicazioni. Solo una élite di nobili e alto-borghesi si riteneva potesse avere le competenze, la saggezza e la lungimiranza per gestire la cosa pubblica ed elaborare le leggi, avendo come fine il bene pubblico. A questi ideali moderati e liberali, si appoggiarono molti cattolici che non rientravano nell’indirizzo dominante del cattolicesimo della Restaurazione (questi pensavano che i valori di libertà e progresso civile potessero concordare con i valori religiosi); su queste posizioni fu Manzoni, che di quelle idee nutrì il suo capolavoro. • Le tendenze democratiche, che in Italia facevano capo a Giuseppe Mazzini, puntavano proprio sull’iniziativa popolare e sui movimenti insurrezionali. Proponevano cambiamenti radicali a livello politico; la forma propugnata era quella repubblicana ed unitaria, contro le idee di federazione degli stati monarchici esistenti, proprie dei moderati. Dinnanzi al problema delle masse delle masse popolari, miserabili e abbruttite, le posizioni liberali e democratiche si avvicinano notevolmente. Comune ad entrambe era l’idea di una progressiva elevazione dei ceti popolari, che fosse non solo materiale, ma anche e soprattutto spirituale. Questo poteva 20 accadere tramite un’educazione intellettuale e morale e l’idea di un affratellamento fra le classi che eliminasse i contrasti violenti o rivolte da parte dei lavoratori. Da questo presupposto, il liberalismo moderato inclinava ad un paternalismo illuminato nei confronti della plebe, mentre la democrazia assumeva un atteggiamento di tipo populistico. Queste correnti ideologiche si riflessero in campo letterario, ed era inevitabile dato che gli intellettuali vivevano a pieno il proprio periodo storico; inoltre questi sentivano il peso dell’impegno nazionale e patriottico. Occorre puntualizzare il fatto che il polo moderato ebbe una forza di attrazione di gran lunga maggiore rispetto a quello democratico. Forse anche grazie Manzoni (liberale) che divenne una figura emblematica e un grande caposcuola. La corrente democratica non ebbe nessuno scrittore a rappresentarla. Gli scrittori italiani furono in maggioranza moderati, anche nelle scelte tematiche, evitando sia quegli argomenti inquietanti del Romanticismo, sia soluzione formali evasive. Tra scrittori e pubblico si creò una situazione di armonica consonanza di valori. In Italia, in questo periodo, declinarono le due istituzioni che in passato presiedevano per eccellenza all’aggregazione degli intellettuali e all’elaborazione e diffusione della cultura: la corte e l’accademia. Lo Stato non rinuncia a controllare la produzione culturale, i sovrani sovvenzionano iniziative culturali ed editoriali, concedendo agli scrittori cattedre e cariche, pensioni e promuovono la produzione di periodici. La società che viene emergendo durante l’Ottocento, però, è molto complessa, e il centro di aggregazione non può essere più la corte: il potere di orientamento si decentra, passa all’opinione pubblica, al mercato, al gusto dei lettori; il ruolo dello Stato si riduce sempre di più, la vita culturale ruota intorno a due poli nuovi: l’editoria e il giornalismo. Con il passare degli anni l’attività editoriale assume sempre più la fisionomia dell’impresa capitalistica. L’editore, diventa una nuova figura di imprenditore, che investe capitali nella produzione di libri, al fine di ricavarne profitti da investire ulteriormente; ma è anche operatore culturale perché decide quali libri stampare, dando vita ad una politica culturale. Fu soprattutto Milano la città in cui fu più sensibile questa trasformazione e non è un caso che questa città fosse proprio quella più avanzata dal punto di vista delle condizioni economiche e sociali e per le tradizioni culturali e quindi la più vicina al livello europeo. La trasformazione dell’editore in imprenditore, è possibile grazie alla trasformazione borghese della società e alla diffusione dell’istruzione: il libro e il giornale restano oggetti per gran parte estranei alle masse popolari, ma si viene a creare un nuovo pubblico. Anche le evoluzioni tecnologiche giocano un grande ruolo, infatti, utilizzando torchi a vapore, si possono stampare un maggior numero di copie più rapidamente e con minori costi. Questo circolo continuo è figlio dell’economia capitalistica, che si manifesta anche nel caso della merca che è il libro. Ad ostacolare l’espansione dell’industria editoriale e la diffusione del libro, sono le divisioni politiche; queste impediscono la creazione di un vasto mercato editoriale nazionale a causa delle dogane e dei dazi molto alti e anche a causa di pesanti censure poliziesche. Esistevano dei privilegi di stampa attribuiti dai governi agli stampatori, ma questi valevano solo per lo Stato in cui avveniva la pubblicazione; chiunque poteva stampare il libro negli altri Stati senza corrispondere alcun diritto d’autore all’editore; questo limitava i profitti dell’editore, frenando l’espansione dell’editoria come impresa capitalistica. Un esempio sono I Promessi Sposi, questi ebbero grande successo in tutta Italia e questo spinse a tantissime edizioni abusive. Manzoni cercò di evitare ciò 21 stampando una nuova edizione dell’opera a sue spese, con un testo riveduto e arricchito, ma questo non fu assorbito dal mercato. La consapevolezza di questo problema, portò all’istituzione del diritto d’autore. Si sviluppò, parallelamente all’editoria, in Italia nei primi decenni dell’Ottocento, il giornalismo. Già esistevano nel Settecento alcuni esempi di ciò, come il Caffè, e gazzette di notizie e curiosità; ma il fenomeno divenne sempre più di larga portata durante l’Ottocento. Un ruolo fondamentale rivestì ‘il Conciliatore’, che fu espressione del gruppo romantico lombardo e ne diffuse le teorie letterarie innovatrici, in polemica con il conservatorismo classicista. A Firenze, ebbe un ruolo importante l’Antologia, attorno al quale si raccoglievano i liberali moderati toscani. Si ebbe anche l’apertura di un ‘Gabinetto di lettura’, una biblioteca dove si poteva accedere per leggere giornali e libri. Si diffusero inoltre anche giornali quotidiani, gazzette con notizie di politica e di cronaca, con appendici che contenevano recensioni di libri, spettacoli teatrali ed esposizioni d’arte. Figuravano così i romanzi a puntate, che incatenavano l’attenzione del pubblico, spingendolo ad acquistare il giornale per scoprirne il seguito. Il giornale diventa fondamentale in quanto diffusore di idee che saranno proprie dell’opinione pubblica. Gli intellettuali: fisionomia e ruolo sociale Tutti questi procedimenti modificano anche la figura sociale dell’intellettuale rispetto al Settecento e all’età napoleonica. L’intellettuale, nella società dell’antico regime, era sotto la protezione di un nobile, oppure era un chierico e in cambio della protezione diffondeva idee che elogiavano il signore. Il movimento illuministico in Italia non aveva modificato sostanzialmente questo quadro, restando fenomeno d’élite. Dopo la crisi giacobina, il periodo napoleonico tese a restaurare la figura del vecchio intellettuale cortigiano, stipendiato dal potere in funzione della creazione del consenso intorno al regime. Nell’età della Restaurazione e del Risorgimento, appaiono ancora figure di intellettuali di estrazione aristocratica, che vivono delle loro rendite. Spesso, questi intellettuali aristocratici, assumono una fisionomia prettamente borghese. Manzoni ad esempio, è conte, ma rifiuta di essere chiamato con il titolo nobiliare e cura personalmente le sue proprietà agricole; Leopardi, anche lui conte, ha una visione ancora molto aristocratica e deve prestare la sua penna per un editore, per mantenersi economicamente lontano da casa. Crolla anche la percentuale di chierici. La maggior parte degli scrittori dell’Ottocento italiano, è laica e borghese, proviene sia dall’alta, media che bassa borghesia. Pochi riescono a vivere grazie alla propria attività intellettuale, collaborando con giornali, traducendo e curando edizioni; molti devono affiancare il lavoro di intellettuale a quello di libere professioni (avvocati, notai e medici). Tuttavia, il lavoro di intellettuale comincia ad assumere la fisionomica di un’autentica professione; in questo periodo, però, nessuno riesce a vivere dei proventi ricavati dalla vendita delle proprie opere, dato l’insufficiente sviluppo del mercato letterario e l’assenza di una disciplina legale del diritto d’autore. il letterato ottocentesco, prevalentemente di astrazione borghese, dato che deve dedicarsi ad un lavoro per vivere, non gode più dell’otium letterario, assicurato dalla rendita agli scrittori aristocratici o dai benefici concessi ai chierici. Questo gli toglie tempo, svolgendo un’attività estranea, noiosa e mortificante. In compenso, tutti questi intellettuali sono indipendenti rispetto al condizionamento ideologico del potere rispetto ai letterati cortigiani tradizionali, che dipendevano dai favori dei signori. Questa nuove indipendenza è motivo d’orgoglio per lo scrittore borghese. Nei Paesi in cui le rivoluzioni nazionali si sono svolte già anni prima, si profila un conflitto tra intellettuale e società: l’intellettuale si sente privo di un ruolo e messo ai margini del sistema della razionalizzazione produttiva. 22 il problema si pone vivo a Manzoni quando si accinge a scrivere il romanzo, cioè un’opera destinata ad un pubblico più vasto dei lettori comuni, ma da qui, il problema si allarga, fino ad abbracciare il problema della lingua come strumento di comunicazione generale del popolo italiano. Lo scrittore si rende conto di come l’italiano sia una lingua povera e incerta, non possiede infatti tutti i termini e i costrutti che servono per l’uso quotidiano, per cui, chi lo scrive o lo parla, non ha certezza di essere inteso appieno dal destinatario. La soluzione proposta da Manzoni è di individuare il modello di una lingua comune nel fiorentino dell’uso vivo, attuale. Tale “codice linguistico” è raccomandabile per due motivi: 1. Essendo una lingua viva, parlata attualmente, è un codice completo e certo, che offre tutti i termini e i costrutti per la comunicazione; 2. La completezza è un pregio di tutte le lingue municipali parlate in Italia, ma il fiorentino ha il pregio di essere affine alla lingua letteraria tradizionale; nessun’latra lingua avrebbe la forza di imporsi come lingua nazionale, data la sua distanza dalla lingua colta. La soluzione manzoniana ebbe una grande importanza nel campo letterario, perché, con l’edizione definitiva dei Promessi Sposi, creava una lingua letteraria nuova, agile, agevolmente comprensibile, dando un duro colpo alla tradizione accademica, retorica e pedantesca della cultura italiana. Per tutti il corso del Risorgimento, l’unificazione linguistica fu un ideale ben lontano dalla sua realizzazione. Le masse popolari, specie quelle contadine, rimanevano nel loro universo dialettale. Questo dimostra la lontananza degli intellettuali e delle persone colte in genere dai ceti subalterni e l’estraneità delle masse popolari alla vita politica e culturale nella nazione. ALESSANDRO MANZONI Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785, dal conte Pietro e Giulia Beccaria, figlia di Casare Beccaria. Separatisi ben presto i genitori, trascorse la fanciullezza e l’adolescenza, fino al 1801, in collegi retti da padri somaschi e barnabiti, dove ricette un’educazione classica ma concepì anche un’avversione per l’arido formalismo religioso. Uscita dal collegio a 16 anni, si inserì in ambienti culturali milanesi e frequentò poeti come Foscolo e Monti. Nel 1805 abbandonò la casa paterna e raggiunse la madre a Parigi, dopo la morte di Carlo Imbonati, l’uomo con cui aveva vissuto dopo la separazione dal marito. Tra madre e figlio nacque un rapporto affettivo molto forte, che segnò la vita di Manzoni. A Parigi, Manzoni entrò in contatto con un gruppo di intellettuali, “gli ideologi” (Fauriel, Thierry, Cabanis, Tracy), liberali e eredi della corrente illuministica; questi influirono molto nella formazione ideologica di Manzoni. Fauriel strinse un forte rapporto di amicizia con Manzoni, divenendo per quest’ultimo un importante punto di riferimento. A Parigi, il contatto con ecclesiastici di orientamento giansenista, incise anche sulla conversione religiosa. Sul suo ritorno alla fede cattolica Manzoni mantenne sempre uno stretto riserbo; dovette essere determinante l’influsso della giovane moglie Enrichetta Blondel, che a Parigi si converti dal calvinismo al cattolicesimo. Quando nel 1810 abbandonò Parigi per tornare a Milano, si era compiuto un grande rinnovamento nella sua visione della realtà, ormai ispirata al cattolicesimo. Il rinnovamento coinvolse anche l’attività intellettuale e letteraria: Manzoni abbandonò la poesia classicheggiante e si dedicò alla stesura degli Inni sacri (1812-15). Dopo il ritorno in Italia, Manzoni divise la sua vita tra la sua casa milanese e la villa di Brusuglio; dedicò tutto ilo tempo allo studio, alla scrittura, alla famiglia e alle pratiche religiose. Fu vicino ai movimenti romantici, ma non partecipò alle polemiche con i classicisti in modo diretto. Anche nelle questioni politiche assunse lo stesso comportamento, seguì gli avvenimenti del 1820-21, ma non partecipò attivamente, per questo non fu toccato dalla repressione austriaca. 25 Sono questi gli anni in cui nascono le Odi civili: la Pentecoste, le tragedie e le prime stesure del romanzo. Con la pubblicazione dei Promessi Sposi, nel 1827, si può dire concluso il periodo creativo di Manzoni. Assunse un atteggiamento di distacco nei confronti della forma del romanzo storico stesso e tendeva sempre più a rifiutare la poesia, considerandola falsità di contro al vero storico e morale. Lavorò fino al 1840 alla terza redazione del romanzo, ma con intenti linguistici, secondo la fiorentinità della lingua toscana. Antonio Rosmini divenne sua grande guida intellettuale, e in questi ultimi anni fu toccato da tante morti (la moglie, la madre e parecchi figli) e dissapori famigliari. Il suo romanzo aveva sempre più successo e fu stampato continuamente in tutta Italia; Manzoni era ormai una figura pubblica, nel 1848 seguì con entusiasmo gli eventi politici e diede alle stampe l’ode patriottica Marzo 1821. Costituitosi il Regno d’Italia, nel 1860, fu nominato senatore, e pur essendo estremamente cattolico, era sfavorevole al potere temporale e favorevole a Roma capitale: nel 1861 votò a favore del trasferimento della capitale da Torino a Firenze, come tappa intermedia verso Roma. Negli ultimi anni della sua vecchiaia, Manzoni fu circondato dalla venerazione della borghesia italiana, che vedeva in lui un grande maestro, una guida intellettuale, morale e politica. Morì a Milano nel 1873, a 88 anni; gli furono tributati solenni funerali e sepolto nel cimitero monumentale. Prima della conversione: le opere classicistiche Tra 1801-1810, cioè tra i 16-24 anni, Manzoni compone opere allineate al gusto classicistico allora dominante. Sono opere scritte il linguaggio aulico e con ornamentazione retorica, fitte di rimandi mitologici e mitici. Nel 1801 scrive una “visione” allegorica in terzine, il Trionfo della libertà, il pometto inneggia alla Rivoluzione francese e si scaglia contro la tirannide politica e religiosa. Seguono l’Adda, poemetto idillico, indirizzato a Monti e quattro Sermoni, avendo come modello Parini, polemizza contro aspetti del costume contemporaneo. Nel 1805, abbiamo il Carme in morte di Carlo Imbonati, Manzoni immagina che Imbonati, che lui ammirava molto come un padre, gli appaia in sogno dandogli nobili ammaestramenti di vita e di poesia. Qui si può vedere il nascere del “giusto solitario”, che si ritrae dinnanzi al caos della storia contemporanea e si rifugia nella propria virtù e nella propria solitudine. Nel 1809 compone un poemetto, Urania, che tratta un tema caro alla cultura neoclassica, ovvero il valore incivilitore della bellezza e delle arti. A Parteneide è invece una risposta al poeta danese Baggesen, con cui Manzoni si scusa di non poter tradurre il suo idillio borghese Parthenais. Dopo la conversione: la concezione della storia e della letteratura La conversione fu per Manzoni un fatto totalizzante; ne sono un esempio le Osservazioni sulla morale cattolica (1819), scritte in risposta allo storico Simonde de Sismondi nella Storia delle repubbliche italiane nel Medioevo, e cioè che la morale cattolica era stata radice della corruzione del costume italiano. Dalle argomentazioni di Manzoni si evince una fiducia assoluta nella religione come fonte di tutto ciò che è buono e vero, come punto di riferimento per ogni tipo di scelta. L’approdo al cristianesimo è lo sbocco di un processo che aveva messo in crisi non solo scelte esistenziali ma anche orientamenti ideologici e culturali. Se la lunga tradizione del classicismo aveva portato a vedere nel mondo romano un modello supremo di civiltà e l’antecedente diretto della cultura moderna; l’adozione di una prospettiva cristiana, induce Manzoni ad un atteggiamento anticlassico: I romani, egli sostiene, furono un popolo violento, feroce ed oppressore, animato da superbia e disprezzo per il resto del genere umano. Nasce in lui un nuovo interesse per il Medioevo cristiano, come vera 26 matrice della civiltà moderna. Da questo ripudio della visione classica, scaturisce il rifiuto della concezione eroica ed aristocratica che celebra solo i grandi, i potenti e i vincitori. Questa visione influenza anche la concezione manzoniana della letteratura, diviene centrale il problema della caduta, del male radicato nella storia, si forma in lui una visione tragica del reale che non tollera più l’idea della serenità classica; c’è l’esigenza di una letteratura che guardi al vero. Ne deriva il rifiuto del formalismo retorico, dell’arte come esercizio ornamentale, l’esigenza di un’arte che scaturisca da esigenze sentite, che affronti contenuti vivi nella coscienza e si prefigga come fine l’utile. Proprio Manzoni, in una lettera a Cesare D’Azeglio (1823), fisserà in una formula sintetica i principi che muovono la ricerca letteraria sua e degli altri intellettuali: “l’utile per scopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo” . Manzoni, infatti, realizzerà le esigenze di rinnovamento letterario proprie del gruppo romantico, sia teoricamente sia nella sua produzione letteraria. Tutta la produzione manzoniana nel genere- lirico, drammatico e narrativo- si presenta con un aspetto fortemente innovatore. Gli Inni sacri La prima opera scritta dopo la conversione, gli Inni Sacri, nati tra 1812-15, fornisce l’esempio concreto di una poesia nuova. Per comprendere a portata della rottura, basta riflettere sul modello poetico dominante in quegli anni: quello consacrato da Monti e Foscolo, fondato sul culto del mondo antico e sull’adozione della mitologia classica come argomento per eccellenza. Manzoni rifiuta tutto questo, sentendo la materia mitologica come repertorio ormai morto di temi ed espedienti formali, come qualcosa di “falso” e decide di cantare temi che siano vivi nella coscienza contemporanea, cioè aderenti al “vero”. Ne deriva una poesia che non si rivolge più alla cerchia iniziatica dei letterati, ma vuole avere un orizzonte “popolare”, trattare ciò che è sentito da una larga massa di persone. Per questo il poeta rinuncia all’aristocratico egocentrismo della poesia precedente, e si propone come semplice interprete corale della coscienza cristiana. Manzoni ricorre a metri dal ritmo agile e popolareggiante (settenari, ottonari e decasillabi), versi dal ritmo incalzante e che appaiono lontanissimi dalla solennità dell’endecasillabo classico. Anche il linguaggio si libera dalle forme auliche del classicismo. Manzoni aveva progettato 12 Inni, che cantassero le principali festività dell’anno liturgico, ma ne scrisse solo quattro, pubblicati nel 1815: La Resurrezione, il Natale, La Passione, Il nome di Maria. Un quinto, La Pentecoste ebbe una gestazione più travagliata, e fu condotto a termine nel 1822, passano per varie stesure. I primi quattro inni, in più antichi, sono costruiti seguendo uno schema fisso: 1. enunciazione del tema; 2. rievocazione dell’episodio centrale; 3. commento che affronta le conseguenze dottrinali e morali dell’evento; la Pentecoste, invece, rompe lo schema, mettendo da parte i motivi teologici e l’episodio e insiste sul rivolgimento portato dallo Spirito nella sua discesa nel mondo, culminando con un’invocazione affinché esso scenda sull’intera umanità. La lirica patriottica e civile Anche la lirica patriottica e civile possiede un’analoga forza di rottura. Dopo Aprile 1814 e Il proclama di Rimini, lasciate interrotte; nel 1821 Manzoni compone l’ode Marzo 1821, dedicata ai moti rivoluzionari di quell’anno e alla speranza che l’esercito piemontesi di unisse agli insorti lombardi; e Il cinque maggio, ispirato alla morte di Napoleone. Anche qui non resta più nulla del repertorio mitologico del passato mondo classico e di riferimenti storici antichi. 27 La più compiuta realizzazione della nuova concezione della letteratura si può trovare nel romanzo manzoniano: I promessi sposi sono l’opera che possiede la più alta carica innovativa della tradizione letteraria italiana. Già la scelta del romanzo, nel 1821, è una scelta del tutto azzardata, coraggiosa e di rottura, piena di pregiudizi; questo perché la mentalità classicistica riteneva inferiore questo genere e indegno di entrare nel campo della letteratura. Manzoni trova nel romanzo lo strumento ideale per tradurre in atto i principi che ispiravano la battaglia romantica per un rinnovamento culturale italiano. Il romanzo, risponde alla poetica del “vero”, dell’interessante e dell’utile: consente di rappresentare la realtà senza le astrazioni e gli artifici convenzionali propri della letteratura classicheggiante. Inoltre, si rivolge ad un più vasto pubblico, non solo alla casta chiusa dei letterati, poiché attraverso un linguaggio più semplice, stimola l’interesse del lettore comune. E’ facile anche introdurre nella narrazione l’esposizione di idee, precetti e cognizioni varie. In questo modo, il romanzo risponde alle esigenze dell’impegno civile dello scrittore e fornisce un mezzo per comunicare al lettore notizie storiche, ideali politici e principi morali, secondo quella concezione educativa e utilitaria della letteratura che i romantici lombardi ereditano dagli illuministi. Inoltre, essendo il romanzo un genere nuovo, questo permette una più ampia e libera scrittura. Uno dei principi che Manzoni può evitare è quello della ‘separazione degli stili’ secondo il quale solo ciò che è nobile può essere rappresentato in forme sublimi. Nelle tragedie, a causa della lunga tradizione del genere, Manzoni non aveva potuto evitare questo principio, rappresentando re e principi; nel romanzo invece sceglie di rappresentare una realtà umile, ignorata dalla letteratura classica o vista solo in chiave comica; sceglie come protagonisti due semplici popolani della campagna lombarda e rappresenta la loro vicenda in tutta la sua tragicità. La rappresentazione seria della realtà quotidiana è il tratto caratterizzante del moderno realismo europeo. Ma la rappresentazione del quotidiano è possibile perché i personaggi sono immersi nella storia e acquistano profondità. Il personaggio non è più posto su uno sfondo astratto, fuori dal tempo e dallo spazio reale (come accadeva nella produzione classica), ma è rappresentato in rapporto organico con un dato ambiente e un dato moderno. Inoltre, Manzoni rappresenta individui dalla personalità unica, inconfondibile e irripetibile, complessa e mobile, rilevando quella tendenza all’individuale e al concreto, propria della cultura borghese moderna; al contrario della tradizione classica che trasformava i personaggi in tipi generali, personificazioni di un tratto psicologico. Ne deriva il rifiuto di quella idealizzazione del personaggio, propria della cultura classica; i due protagonisti, pur essendo portatori di virtù alte, non cessano di essere contadini e conservano della loro condizione la mentalità, il linguaggio e i comportamenti. Per la sua opera narrativa, Manzoni sceglie il romanzo storico, che in questo periodo gode di una grande fama a livello europeo ( Walter Scott). Con i Promessi Sposi si propone di riprodurre un quadro di un’epoca del passato, ricostruendo tutti gli aspetti della società. Secondo il modello scottiano, protagonisti non sono le grandi personalità storiche, ma personaggi inventati, di oscura condizione, quelli di cui la storiografia non si occupa. I grandi personaggi e gli uomini famosi, costituiscono lo sfondo delle vicende vissute da questi personaggi. Manzoni si documenta con lo scrupolo di un autentico storico per tracciare il suo quadro, leggendo cronache del tempo, biografie e raccolte di leggi. Manzoni pur rifacendosi al modello di Scott, è critico nei suoi confronti: gli rimprovera l’eccessiva disinvoltura con cui tratta la storia, romanzandola attraverso l’immaginazione. Per Manzoni, personaggi e fatti storici devono essere affrontati nel modo più rigoroso. Lo stesso scrupolo del “vero” lo induce, nella costruzione dell’intreccio, a respingere il ‘romanzesco’, cioè a considerare nella realtà la maniera d’agire degli uomini e di evitare di stabilire dei rapporti interessanti tra i vari personaggi. 30 La società di cui Manzoni vuol fornire un quadro nel suo romanzo è quella lombarda del Seicento, sotto la dominazione spagnola. E’ un quadro fortemente polemico. Manzoni si colloca nei confronti del passato con l’atteggiamento dell’illuminista, acuto nel cogliere le irrazionalità, aberrazioni, pregiudizi e ingiustizie. Il Seicento lombardo, ai suoi occhi, appare come il trionfo dell’ingiustizia, dell’arbitrio e della prepotenza da parte del governo, dell’aristocrazia e delle masse popolari, è il trionfo dell’irrazionalità nella cultura, nell’opinione comune e nel costume. La data di inizio della composizione offre a questo proposito indicazioni illuminanti. Nel marzo del 1821 si verificano moti liberali, che Manzoni segue con fervore, falliti i moti, Manzoni inizia la stesura dell’opera. Nel momento in cui la borghesia progressista comincia la propria rivoluzione nazionale, e subisce una battuta d’arresto nella lotta, Manzoni risale al passato per cercare le radici d’arretratezza in cui si trova l’Italia e attraverso la critica della società del Seicento, offre alle nascenti forze borghesi il modello di una società futura da costruire. Ideale manzoniano di società Per comprendere l’idea manzoniana di società, si può partire dall’immagine tracciata della società lombarda del 1600. Partendo dalla necessità di indipendenza nazionale, le esigenze essenziali sono: un saldo potere statale che si opponga agli interessi provati; una legislazione razionale ed equa ed un apparato della giustizia che sappia farla osservare; una politica economica oculata che sappia rispettare le leggi del mercato e sia in grado di stimolare l’iniziativa dei singoli; un’organizzazione sociale giusta, ma senza i conflitti nati dalle lotte di classe, dove l’aristocrazia metta a disposizione i suoi beni che possiede in abbondanza a disposizione di chi ciò non ha e le classi inferiori rinuncino a lottare per rivendicare i propri diritti con la forza, accettando la propria miseria cristianamente, attendendo il premio della prossima vita. Don Rodrigo e Gertrude rappresentano la funzione negativa dell’aristocrazia, che viene meno alle sue responsabilità ed usa il privilegio in modo oppressivo; il cardinal Federigo costituisce la parte positiva, con la sua attività benefica instancabile; l’innominato, con la sua conversione, indica il passaggio esemplare dalla nobiltà di funzione negativa a quella di funzione positiva, dedicando la sua vita a beneficare gli umili. Per i ceti popolari, l’immagine negativa è rappresentata dalla folla violenta di Milano, mentre il positivo è la rassegnazione cristiana di Lucia; mentre Renzo -come l’innominato- rappresenta il passaggio da una posizione negativa ad una positiva. Questo ideale di società si nutre dei principi della nascente borghesia liberale, ma alla componente laica si aggiunge quella religiosa. Il modello di una società giusta e senza conflitti tra le classi, dove i privilegiati diano volontariamente a chi non ha e diseredati sopportino le proprie miserie, secondo Manzoni è proposto da Vangelo stesso; secondo lui la Chiesa può avere una funzione centrale nella diffusione di questo modello. La visione religiosa di Manzoni, lo porta ad avere una visione pessimistica e tragica della storia umana, scaturita dal peccato originale. Manzoni è convinto che sulla terra sia impossibile ricostruire una felicità originaria, ma non per questo ritiene che occorre assumere un atteggiamento di fatalistica rassegnazione di fronte al male sociale. Diviene un dovere per l’uomo agire per contrastare il negativo della società e della storia. Per questo il cattolicesimo manzoniano può arrivare a fondersi con un progressismo moderato di impronta laica e liberale. La società che Manzoni idealizza, dovrà ispirarsi sia al liberalismo borghese sia ai principi religiosi del cattolicesimo. 31 La vicenda prende le mosse da una situazione iniziale di quiete e di serenità: i due sposi promessi, nel loro villaggio sulla rive del lago, vagheggiano un avvenire di tranquilla felicità (gioie domestiche, pratiche religiose e lavoro). Questa tranquillità è solo apparente, infatti, la vita dei due giovani è insidiata da Don Rodrigo; Renzo e Lucia sono strappati dalla loro vita tranquilla e inseriti nel flusso turbolento della storia. La loro vicenda è un’esplorazione del negativo della realtà storica: Renzo lo sperimenta nel campo politico e sociale (sommossa di San Martino, Milano appestata), Lucia soprattutto nel campo morale ( capriccio del signorotto, corruzione monaca); ma attraverso questa sperimentazione si compie anche la loro maturazione, le loro vicende compiono una sorte di romanzo di formazione. I percorsi di formazione die due protagonisti sono però diversi; Renzo ha tutte le virtù proprie del popolo contadino, in lui c’è una componente ribelle, un’insofferenza per ogni forma di sopruso e la convinzione che l’oppresso possa farsi giustizia da sé. Il suo percorso di formazione consiste nel giungere ad abbandonare ogni velleità d’azione e a rassegnarsi alla volontà di Dio. La formazione si attua attraverso le due esperienze della sommossa e della Milano sconvolta dalla peste: attraverso esse Renzo arriva a comprendere la vanità delle pretese umane di reintegrare la giustizia umana con l’azione. Lucia, al contrario di Renzo, sembra possedere sin dall’inizio la consapevolezza della vanità dell’azione, come dono divino, consapevolezza che Renzo acquisterà solo successivamente. In lei c’è rifiuto della violenza e totale abbandono alla volontà di Dio. Lucia è vista come un personaggio statico, ma in realtà anche lei attraversa un percorso di formazione, superando i limiti che aveva all’inizio. Lucia, all’inizio, appare prigioniera di una visione della vita idillica, nella convinzione che una vita innocente e senza colpa basti a tenere lontani dai guai, che la Provvidenza pensi sempre a preservare i giusti dalla sfortuna e a guidare la loro esistenza. A Lucia manca quella consapevolezza del male, che è necessaria per capire la vera natura della realtà umana, cogliendo il negativo del mondo. Attraverso le sue peripezie, arriverà a comprendere che non può esistere l’Eden in terra, e che le sventure si abbattono anche su chi non ha colpe. Anche Renzo matura una simile consapevolezza accanto a Lucia. La consapevolezza si manifesta nel “sugo” che i due giovani traggono dalla meditazione delle loro vicende. Lucia insieme con Renzo, ha preso coscienza della reale tragicità del vivere in un mondo segnato dalla caduta e dall’incombere del male sulla realtà umana e attraverso esse, prendono coscienza anche nella positività provvidenziale del male. Nella conclusione trovata dai due umili protagonisti, sono presenti i cardini della visione manzoniana: 1. il rifiuto dell’idillio, inteso come rappresentazione di una vita quiete, senza scosse, nell’ambito della vita domestica e lontana dai tumulti della storia. 2. Manzoni ha del reale una visione tragica, ma se la vita, di conseguenza è inquinata dal male e dal dolore, ogni rappresentazione idillica delle realtà, è difforme dalla verità. si può quindi capire perché Manzoni respinga ogni forma di rappresentazione idillica. Al temine, la vita futura dei due sposi non sarà come quella precedente, poichè, attraverso le esperienze vissute, hanno maturato l’esistenza del male e della tragicità del vivere che può colpire anche i più innocenti. Per questo la loro vita non è finalizzata a vivere bene ma a “fare bene”, ad avere una posizione attiva verso il male e la sofferenza. Si chiarisce in quel “sugo” anche la funzione della Provvidenza secondo la concezione manzoniana. E’ stato osservato che, nel romanzo, l’interpretazione provvidenziale della realtà non è enunciata in prima persona dal narratore, ma è affidata ai soli personaggi. Renzo e Lucia hanno una concezione elementare ed ingenua della Provvidenza, che identifica virtù e felicità: per loro Dio interviene a difendere e a premiare i buoni, e a garantire il trionfo della giustizia . Nella visione teologica di Manzoni, virtù e felicità 32 Le tesi manzoniane incontrano il favore della classe politica dello stato unitario, il ministro della Pubblica istruzione, Broglio, aveva affidato a Manzoni la presidenza della sezione milanese di una commissione, che aveva il compito di proporre i mezzi per la diffusione della lingua italiana. Nel 1868, Manzoni presentò la sua relazione, la sua proposta era quella di diffondere la lingua fiorentina con un vocabolario, che costituisse un punto di riferimento sicuro. La proposta manzoniana fu seguita dallo Stato nella sua politica scolastica, ma la lingua italiana, quella che parliamo oggi, si originò solo attraverso processi più lunghi e complessi. GIACOMO LEOPARDI Giacomo Leopardi nacque a Recanati il 28 giugno 1798, primogenito del conte Monaldo e di Adelaide Antici. Recanati era un borgo dello Stato pontificio, attardato e retrivo. La famiglia Leopardi era una grande possidente terriera, ma non si trovava in cattive condizioni patrimoniali. Il padre era un uomo colto, e aveva messo insieme nel suo palazzo una notevole biblioteca, ma possedeva un’educazione accademica e attardata. I suoi orientamenti politici erano reazionari, ostili a tutte le idee nuove che erano state diffuse dalla Rivoluzione francese. Giacomo crebbe in quest’ambiente bigotto, che inizialmente influenzò il suo pensiero. La vita famigliare era dominata dalla madre, donna dura e gretta, dedita alla cura del patrimonio dissestato. Giacomo fu istruito inizialmente da precettori ecclesiastici, intorno ai dieci anni, non ebbe più nulla da imparare da essi e continuò gli studi da solo, chiudendosi nella biblioteca paterna e seguendo quello ‘studio matto e disperato’ per sette anni, che contribuì ad indebolire il suo fisico già fragile. Imparò in breve tempo: latino, greco e ebraico; condusse diversi studi filologici, compose diverse opere di compilazione erudita e contemporaneamente scrisse componimenti poetici, odi e sonetti; inoltre tradusse testi greci e latini: le Odi di Orazio, il libro dell’Odissea e il II libro dell’Eneide. Se questa produzione stupisce in un adolescente, c’è da osservare che ne emerge il quadro di una cultura arcaica e superata, ispirata ancor a modelli arcaico- illuministici, e di un’erudizione (possesso di un determinato sapere e conoscenze) arida e accademica, dagli orizzonti ristretti. Anche su piano politico, Giacomo inizialmente segue gli orientamenti reazionari del padre, come dimostra l’orazione Agli italiani per la liberazione del Piceno (1815), nel quale esalta il vecchio dispotismo illuminato e paternalistico, distogliendo gli italiani dalle aspirazioni patriottiche. Tra 1815-16 si attua quello che lo stesso Leopardi chiama conversione “dall’erudizione al bello”; abbandona le aride minuzie filologiche e si appassiona per i grandi poeti Virgilio, Omero, Dante. Comincia a leggere i moderni Rousseau, la Vita di Alfieri, l’Ortis; entrando in contatto con la cultura romantica. Un elemento fondamentale, è la sua amicizia con Pietro Giordani, un intellettuale importante, di orientamento classicistico, ma di idee democratiche e laiche. Nella corrispondenza letteraria con Giordani, leopardi può trovare quella confidenza affettuosa che gli manca nella sua famiglia. I contatti con l’esterno, gli fanno sentire ancora di più la necessità di uscire dall’ambiente chiuso di Recanati, per entrare nel vivo di esperienze intellettuali più ampie. Nell’estate 1819, Leopardi tenterà la fuga dalla casa paterna, ma il tentativo viene scoperto e sventato. Lo stato d’animo che seguì questo avvenimento, unito ad un’infermità agli occhi che gli impedisce la lettura, lo portano ad uno stato d’animo di totale prostrazione e aridità; arriva così alla percezione della nullità di tutte le cose, nucleo del suo sistema pessimistico. Questa crisi del 1819, porta ad un altro passaggio dal “bello” al “vero”, dalla poesia d’immaginazione e fantasia al una poesia nutrita di pensiero. C’è anche un periodo di 35 sperimentazioni, ma con l’Infinito comincia la stagione più originale della sua produzione; si infittiscono anche le note dello Zibaldone, una sorta di diario intellettuale, iniziato due anni prima. Nel 1822, ha finalmente la possibilità di uscire da Recanati e andare a Roma, ospite dello zio Carlo Antici. Ma l’uscita tanto desiderata, si risolve in una cocente disillusione; gli ambienti intellettuali di Roma gli appaiono vuoti e meschini, la stessa grandezza monumentale della città, lo infastidisce. Tornato a Recanati nel ’23, si dedica alla scrittura delle Operette morali. E’ cominciato un periodo di aridità interiore, che gli impedisce di scrivere versi, perciò si dedica alla prosa, investigando “l’acerbo vero” (questo durerà fino al 1828). Nel 1825, ha la possibilità di abbandonare la sua famiglia e mantenersi con il proprio lavoro intellettuale; l’editore milanese Stella, gli offre un assegno fisso per una serie di collaborazioni. Nel 1827, passa a Firenze, entrando in rapporto con un gruppo di intellettuali che facevano capo alla rivista ‘Antologia’, erede in un certo senso del Conciliatore. Passò del tempo a Pisa tra il 1827-28 e il clima favorevole gli permette di alleviare i suoi mali e di riattivare le sue capacità di immaginare e sentire. Nella primavera del ’28, nasce così A Silvia, che apre la serie dei “Grandi Idilli”. Le necessità economiche lo incalzano. Nel 1828, aggravatesi le condizioni di salute, divenuto impossibile ogni lavoro e sospeso l’assegno dell’editore, è costretto a tornare a Recanati. Rimane lì per un anno e mezzo (sedici mesi di notte orribile), vive isolato nel palazzo paterno, immerso nella sua tetra malinconia. Nel 1830, accetta l’offerta degli amici fiorentini, che prima aveva rifiutato; un assegno mensile per un anno. Lascia Recanati, per non farvi mai più ritorno . Comincia così un nuovo periodo per la sua esperienza intellettuale: esce dalla cerchia chiusa del suo Io ed entra in contatto con il dibattito culturale e politico, partecipandovi. A Firenze, vive anche la passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti e la delusione subita, porta alla creazione di un nuovo ciclo di canti, il “Ciclo di Aspasia”, con soluzioni poetiche nuove. Stringe amicizia con Antonio Ranieri, con cui farà vita comune fino alla morte, inoltre, a causa delle sue misere condizioni economiche, riceve un piccolo assegno mensile da parte della famiglia. Dal 1833, si stabilisce a Napoli con Ranieri; qui intra in polemica con l’ambiente culturale, dominato da tendenze idealistiche e spiritualistiche, avverse al suo materialismo ateo. A Napoli lo coglie la morte il 14 giugno 1837. Il pensiero: tutta l’opera leopardiana, si fonda su un sistema di idee in continuo sviluppo, il cui processo di formazione si può sviluppare attraverso lo Zibaldone. Al centro della meditazione leopardiana, si pone subito un motivo pessimistico: l’infelicità dell’uomo. Restando fedele al pensiero settecentesco e sensistico, identifica la felicità con il piacere, sensibile e materiale; ma l’uomo non desidera un piacere, bensì il piacere, aspira cioè ad un piacere che sia infinito. Siccome nessuno dei piaceri particolari goduti dall’uomo può soddisfare quest’esigenza, nasce in lui in senso di insoddisfazione perpetua, un vuoto incolmabile. Da questa tensione infinita ed inappagata verso un piacere che sempre gli sfugge, porta l’infelicità dell’uomo. Leopardi si preoccupa di specificare che ciò non va inteso in senso religioso e metafisico, ma in senso puramente materiale. Concezione di natura benigna: L’uomo è, per Leopardi, necessariamente infelice. Ma la natura, come madre benigna e attenta al bene delle sue creature, ha voluto sin dalle origini offrire un rimedio all’uomo: l’immaginazione e le illusioni, grazie alle quali ha velato gli occhi degli uomini le sue effettive condizioni di miseria. 36 Per questo i Greci e i Romani e gli uomini primitivi erano più vicini alla natura, quindi capaci di illudersi e immaginare, per questo felici. Il processo di civiltà, ha allontanato l’uomo dalla natura, mettendolo davanti al vero e rendendolo infelice. Il pessimismo storico: la prima fase del pensiero leopardiano, è tutta basata sull’opposizione tra natura e ragione, antichi e moderni. Gli antichi, nutriti di immaginazione e illusioni, erano capaci di azioni eroiche e magnanime; a loro vita era più attiva e intenso e ciò faceva dimenticare loro il vuoto dell’esistenza. Il progresso della civiltà e della ragione, ha spento le illusioni e lo slancio magnanimo, rendendo i moderni incapaci di azioni magnanime. La colpa di una vita infelice è attribuita all’uomo stesso, che si è allontanato dalla via tracciata dalla natura benigna. Leopardi dà un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni, la vede dominata dall’inerzia e dal tedio. Ne scaturisce una visione civile e patriottica: il poeta, come unico depositario della virtù antica, si erge solitario a sfidare il fato maligno che ha condannato l’Italia a tanta abiezione (stato di degradazione). Questa fase del pensiero leopardiano, è stata identificata come pessimismo storico: nel senso che la condizione negativa del presente viene vista come effetto di un processo storico di decadenza e allontanamento dalla condizione positiva originaria, di felicità e pienezza vitale. Si trattava pur sempre di una felicità relativa, poiché Leopardi è ben consapevole che la condizione dell’uomo è quella dell’infelicità e che la felicità antica era solo un’illusione, di un generoso e provvidenziale inganno. La natura malvagia: questa concezione della natura benigna entra però in crisi; Leopardi si rende conto che, la natura, più che al bene dei singoli individui, miri alla conservazione della specie e per questo può anche sacrificare il bene dell’individuo. Il male, quindi, rientra nel piano della natura. Inoltre, si rende conto che la natura ha messo nell’uomo quel desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi per soddisfarlo. In una fase intermedia, Leopardi dava la colpa al fato, proponendo uno scontro tra natura benigna e fato maligno; ma ben presto arriva ad una diversa consapevolezza, espressa nel Dialogo della Natura e di un Islandese (1824), preceduto da un lungo travaglio presente nello Zibaldone. Leopardi concepisce la natura non più come madre benigna, ma come meccanismo cieco, indifferente alle sorti delle sue creature, dove gli individui devono soffrire per assicurare la conservazione del mondo (gli animali sono uccisi per essere mangiati da altri animali). E’ una concezione non più finalistica, ma meccanicistica e materialista (tutta la realtà è regolata da leggi meccaniche). La colpa dell’infelicità dell’uomo non è dell’uomo stesso, ma della natura, l’uomo è solo vittima della sua crudeltà. Se filosoficamente Leopardi rappresenta la natura come meccanismo inconsapevole, somma di leggi oggettive non dominata da forze provvidenziali, miticamente ama rappresentarla come divinità malvagia, che opera per distruggere e far soffrire le sue creature. Alla natura sono attribuite le caratteristiche prima date al fato, la malvagità crudele e persecutoria. Muta anche il senso dell’infelicità umana: prima era concepita come assenza di piacere, ora l’infelicità è dovuta soprattutto ai mali esterni: malattie, elementi atmosferici, cataclismi, vecchiaia e morte. Il pessimismo cosmico: se causa dell’infelicità è la natura stessa, allora tutti gli uomini, in ogni tempo, in ogni luogo, sono necessariamente infelici; anche gli antichi, anche essendo capaci ad illudersi, erano vittime di quei terribili mali. Al pessimismo storico, subentra il pessimismo 37 Caratteristiche diverse hanno il Bruto minore (1821) e l’Ultimo canto di Saffo. Leopardi non parla più in prima persona, ma delega il discorso a due personaggi dell’antichità, entrambi suicidi Bruto, uccisore di Cesare e Saffo, poetessa greca. Il pessimismo storico arriva ad una svolta: si delinea l’idea di un’umanità infelice come condizione assoluta, non come periodo momentaneo. Ancora non si incolpa la Natura, ma gli dei e il fato (forze malvagie che perseguitano l’uomo). Si contrappone a ciò l’eroe, che ribella a questo con la forza, affermando la propria libertà con il suicidio (titanismo eroico di Leopardi). Gli Idilli Un carattere molto diverso dalle Canzoni presentano gli Idilli, sia nelle tematiche, intime ed autobiografiche, sia nel linguaggio, più colloquiale e di limpida semplicità. Con queste caratteristiche, Leopardi designò diversi componimenti: La sera del dì di festa, La ricordanza (Alla luna), Il sogno, Lo spavento notturno e La vita solitaria. Negli anni precedenti, Leopardi aveva tradotto idilli pastorali del poeta greco Mosco, e composto poesie pastorali. Ma questi idilli del 1819-21 non hanno più nulla a che fare con la tradizione bucolica classica, che rappresentava una campagna stilizzata e figure idealizzate di pastori. Non hanno nulla a che fare nemmeno con l’idillio borghese, che rappresentava scene di vita quotidiana di personaggi di mediocre condizione. Anni dopo, nel 1828, Leopardi definì gli idilli come espressione di “sentimenti, affezioni, avventure storiche del suo animo”. Negli Idilli, la rappresentazione della realtà esterna è tutta in funzione soggettiva: Leopardi rappresenta momenti essenziali sulla sua vita essenziale. Esemplare è l’Infinito, in cui compare una situazione che può ricordare l’Idillio classico (la siepe definisce uno spazio limitato), ma non è lo scenario quiete di una situazione rasserenante, bensì c’è lo spunto per una meditazione lirica sull’idea di infinito, creato dall’immaginazione. Alla luna (1820) invece, affronta il tema complementare della “ricordanza”, che trasfigura il reale e lo abbellisce, come l’immaginazione. La sera del dì di festa, prende spunto da un notturno lunare, una scena suggestiva per la sua vaghezza e indeterminatezza, che poi porta ad una confessione di infelicità e di esclusione, patite dal poeta. Il sogno (1821) è un colloquio con una fanciulla morta e affronta il motivo della giovinezza spezzata e delle illusioni non realizzate. In questi componimenti, tutti in endecasillabi sciolti, Leopardi fa la prova di temi particolari e anche di un originale linguaggio poetico. Il “risorgimento” e i “grandi idilli” del ’28-’30: dopo la stagione delle canzoni e degli idilli, comincia un periodo di silenzio poetico per Leopardi, fino alla primavera del 1828. Egli stesso lamenta la fine delle illusioni giovanili, che gli impedisce ogni moto dell’immaginazione e del sentimento. Per questo non scrive più poesie, che per lui può nascere solo da quegli stimoli, e vuole dedicarsi solo all’investigazione dell’ “arido vero”. Il frutto letterario di questo periodo sono le Operette morali, nate in gran parte ne 1824, età di passaggio al pessimismo assoluto. Ne deriva un atteggiamento più ironico e distaccato nei confronti della realtà. Una svolta si realizza nel periodo pisano, nel 1828. Il periodo di silenzio poetico, che coincideva con un periodo di aridità interiore, si è concluso. Il poeta assiste ad un “risorgimento” delle sue facoltà di sentire, commuoversi ed immaginare, testimoni di ciò sono i compimenti: Il risorgimento e pochi giorni dopo A Silvia. 40 Anche tornando a Recanati, a causa della mancanza di soldi per mantenersi, il suo fervore poetico non si interruppe. Compose nel 1829: Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio; poi tra ’29-’30 scrisse: il Canto notturno di un pastore errante dell’sia e poi Il Passero solitario (non datata precisamente). Questi componimenti, nati dal “risorgimento” della sensibilità giovanile, riprendono temi, atteggiamenti e linguaggi degli idilli del ’19-’20: le illusioni, le speranze, proprie della gioventù, le rimembranze, la suggestione di immagini e suoni vaghi e indefiniti. Il linguaggio è limpido e musicale, lontano dall’aulicità del linguaggio delle canzoni ma arricchito da locuzioni “peregrine”; per questo è in uso identificare i canti pisano-recanatesi del ’28-’30 come “grandi idilli”. Ma questi componimenti non sono la semplice ripresa della poesia di dieci anni prima. Infatti, nel frattempo si ha la fine delle illusioni e la scoperta del vero, come anche la costruzione del sistema filosofico fondato sul pessimismo. Perciò, anche se la memoria recupera la stagione dell’illusione e della speranza dal passato, facendo rivivere immagini e sensazioni ad esse correlate, a questo riaffiorare si accompagna sempre la consapevolezza del “vero” e della vanità di quegli ameno inganni. Per questo motivo i “grandi idilli” sono attraversati da immagini liete, ma queste sono come rarefatte, assottigliate: create dalla memoria, si accampano sfondo del nulla; sono accompagnate costantemente dalla consapevolezza del nulla, del vuoto dell’esistenza e della morte. Sarebbe un errore ridurre i “grandi idilli” agli “idilli”, trascurando la componente del “vero”, come fece la critica crociana. Ma questo non esercita una funzione distruttiva dato che è richiamato con delicatezza e riserbo, pur impregrando di sé ogni immagine evocata. La caratteristica essenziale dei “grandi idilli” è l’equilibrio tra il “caro immaginar” e il “vero”. Proprio quest’equilibrio, determina un’altra grande differenza tra gli idilli e i grandi idilli: non compaiono più gli slanci, i fremiti gli impeti di disperazione e rivolta. Leopardi ha assunto un atteggiamento di contemplazione ferma e di lucido dominio razionale dinnanzi alla verità dolorosa dell’infelicità di tutti gli esseri . Coerente è il linguaggio, misurato sia nella direzione della tenerezza che della dolcezza, quando viene evocata la giovinezza e l’illusione, sia nella desolazione quando vien evocato il “vero”. Nuova è anche l’architettura metrica: il poeta non usa più l’endecasillabo sciolto, ma una strofa di endecasillabi e settenari che si susseguono liberamente, senza alcun schema fisso. Questa libertà metrica rispecchia proprio quel senso di vaghezza e indefinitezza delle immagini e del movimento fantastico, grande conquista rispetto al modello del primo Ottocento, ancora legato ad uno schema fisso. Il “ciclo di Aspasia”: l’ultima stagione leopardiana, che si colloca dopo il 1830 e dopo l’allontanamento definitivo da Recanati, segna una grande svolta rispetto alla produzione precedente. Presupposto della produzione leopardiana è sempre quel pessimismo assoluto, a cui era approdato tra ’24-’25. Ma dopo la fase delle Operette e dopo il ripiegamento sull’io, Leopardi ristabilisce un contatto diretto con gli uomini, le idee e i problemi del suo tempo; appare più orgoglioso di sé, della propria grandezza spirituale e pronto a diffondere le sue idee. L’apertura avviene anche a livello personale, a Firenze infatti, nasce l’amicizia con Antonio Ranieri e la prima esperienza amorosa del poeta: un’autentica passione, non più quella adolescenziale, ma una passione vissuta con intenso fervore, per la dama fiorentina Fanny Targioni Tozzetti. La delusione per questa esperienza, porta alla fine dell’ “inganno estremo”, che aveva creduto eterno, ovvero l’amore. Dalla passione e della delusione, nasce il cosiddetto “Ciclo di Aspasia”, dal nome greco con cui il poeta designa la donna amata (Aspasia era la cortigiana amata da Pericle, nell’Atena del V secolo a.C.). il ciclo contiene cinque componimenti, scritti tra 1833-35: Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, Aspasia e A se stesso. 41 Si ha un nuovo modello di poesia (escludendo Consalvo, che è una sorta di novella sentimentale), profondamente diversa da quella idillica: il discorso non si basa più su immagine vaghe e indefinite, sul vagheggiamento degli ‘ameni inganni’ giovanili, tantomeno è presente il linguaggio semplice e musicale correlato a quelle immagini. Qui si ha una poesia nuda, severa, quasi priva di immagini sensibili, fatta di puro pensiero; compaiono atteggiamenti combattivi, eroici; il linguaggio si fa aspro, antimusicale, la sintassi spezzata e complessa. Alla base di ciò, si può identificare una “nuova poetica”, diversa da quella del vago e dell’indefinito. La polemica contro l’ottimismo progressista: in questo periodo, soprattutto, si instaura un rapporto intenso con le correnti ideologiche del tempo. La critica di Leopardi si indirizza contro tutte le ideologie ottimistiche che esaltano il progresso e profetizzano un miglioramento indefinito della vita degli uomini ; bersaglio polemico sono inoltre le tendenze di tipo spiritualistico e neocattolico che, tramontato l’illuminismo, si vanno sempre più affermando nel periodo della Restaurazione, combinandosi con l’ottimismo delle correnti liberali moderate. A queste ideologie, Leopardi oppone le proprie concezioni pessimistiche, che escludono qualsiasi miglioramento della condizione dell’uomo, affermando che la sofferenza e l’infelicità sono dati di natura, eterni e immodificabili. Allo spiritismo che cerca consolazione nell’aldilà, Leopardi oppone in suo duro materialismo, che nega ogni speranza in un’altra vita, bollando quelle credenze come favole infantili e sciocche, al tempo stesso vili e superbe. (SUPREMO LEO) Questa polemica è condotta tramite opere come la Palinodia al marchese Gino Capponi (1831), che è una sorta di satira nei confronti della società moderna e della sua fede nelle conquiste del progresso, inserito poi nei Canti. Poi, si hanno: un abbozzo di inno Ad Arimane (1833), il principio del male secondo l’antica religione persiana; I nuovi credenti, satira di certi ambienti culturali napoletani di orientamento cattolico; i Paralipomeni della Batracomiomachia, ampio poemetto satirico in ottave, che si presenta come continuazione della Batracomiomachia, poemetto ellenico erroneamente attribuito a Omero, tradotto anni prima da Leopardi. In quest’ultima opera, leopardi, sotto forma di favola, discute gli avvenimenti politici del ’20-’21 e del fallimento dei moti liberali. I topi sono i liberali napoletani, le rane i borbonici, aiutati da granchi-austriaci; il poeta critica sia la reazione ottusa e brutale dei granchi-austriaci, ma non risparmia nemmeno i topi-liberali; Leopardi critica il liberalismo moderato, tipico dei patrioti, non in nome di posizioni politiche più avanzate e democratiche, ma dal suo punto di vista pessimistico. La ginestra e l’idea leopardiana di progresso Una svolta fondamentale si presenta con La ginestra, il testamento spirituale di Leopardi, la lirica che chiude il percorso poetico; il componimento ripropone la dura polemica antiottimistica e antuireligiosa. Qui però Leopardi non nega la possibilità di progresso civile, anzi cerca di costruirlo proprio sul suo pessimismo. La consapevolezza lucida della reale condizione umana, indicando la natura come nemica, può indurre gli uomini ad unirsi in “social catena”, che combattere la sua minaccia. Questo legame può far cessare le sopraffazioni e le ingiustizie della società, dando vita a giustizia e pietà tra gli uomini. La filosofia di Leopardi, si apre qui ad una generosa utopia, basata sulla solidarietà fraterna tra gli uomini, che nasce dalla diffusione del vero. La ginestra, è anche la realizzazione di quella “nuova poetica” già sperimentata a partire dal 1830. Questo è un vasto poemetto, costruito sull’alternanza dei toni, dal quadro tragico del vulcano che minaccia di distruggere, all’aspra polemica ideologica, agli squarci cosmici che proiettano la nullità della terra e dell’uomo, nell’immensità dell’universo, sino alle note gentili dedicate “al fiore del deserto”, in cui si compendiano la pietà verso la 42
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