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La letteratura (Volume 5) La Scapigliatura, il Verismo e il Decadentismo, di Guido Baldi, Mario Rivetti, Giuseppe Zaccaria., Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Sintesi del manuale di Letteratura italiana, riguardante il suddetto periodo storico.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 16/05/2019

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Scarica La letteratura (Volume 5) La Scapigliatura, il Verismo e il Decadentismo, di Guido Baldi, Mario Rivetti, Giuseppe Zaccaria. e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! L’ETA’ POSTUNITARIA (1861-1900) Le strutture politiche, economiche e sociali Con l’unificazione, l’Italia divenne una monarchia costituzionale, regolata dallo Statuto albertino del 1848. Il nuovo Stato era decisamente accentratore; nonostante le diversità culturali, economiche e sociali, le autonomie locali era praticamente inesistenti. Il governo del paese era espressione di una ristrettissima minoranza, aveva il diritto di voto solo il 2% della popolazione, che erano prevalentemente proprietari terrieri; il resto della popolazione italiana non aveva diritto di influire nella vita politica italiana. Al suffragio universale si arrivò solo nel 1913. All’indomani dell’Unificazione, l’Italia era un paese molto arretrato rispetto alle altre nazione europee, come Francia, Inghilterra e Germania, era lontana una rivoluzione industriale paragonabile a quella delle altre nazioni. La classe politica al potere nel primo quindicennio unitario, la Destra storica, erede del liberalismo cavouriano, era ostile allo sviluppo industriale italiano, perché da un lato riteneva che l’Italia non fosse adatta in quanto mancava di materie prime e in secondo luogo si temeva il nascere del proletariato di fabbrica che poteva innescare potenti rivolte. La Destra liberale era espressione della borghesia agraria, inoltre, era sostenitrice del libero scambio, e applicò quindi a tutto il territorio nazionale delle tenui tariffe doganali del regno di Sardegna, per favorire l’esportazione dei prodotti agricoli e l’importazione dai paesi stranieri dei vari prodotti industriali . Una politica di industrializzazione, avrebbe avuto bisogno di tariffe doganali molto alte per proteggere i prodotti industriali interni alla concorrenza estera. La scelta di questa politica, non stimolò lo sviluppo di nuove industrie, anzi ebbe effetti distruttivi soprattutto sulle industrie del mezzogiorno, che sotto la protezione dei Borbone, avevano dazi doganali molto alti. Quindi l’Italia, durante in quindicennio delle Destra (1861-76) fu tutt’altro che un paese industrializzato, di conseguenza mancava una mentalità che si potesse dire industrializzata. Al contrario, la politica liberoscambista, incrementa lo sviluppo dei prodotti e delle esportazioni agricole. Ma questo comunque non portò ad un’agricoltura moderna; la situazione generale rimane comunque arretrata, con metodi di coltura arcaici (colture estensive nei latifondi, assenza di macchine e concimi chimici) e produzione ancora feudale (mezzadria). Un settore molto vivo è quello della creazione di infrastrutture: ferrovie, ponti, porti, opere pubbliche in genere. Il quadro comincia a cambiare con la svolta segnata dall’avvento della Sinistra (1876). La Sinistra- sempre liberale- coagula gli interessi di gruppi sociali diversi, tenuti finora ai margini. Tra questi, cominciano ad avere rilevanza anche gli imprenditori industriali e questi premevano per l’istituzione di un maggiore protezionismo doganale, che proteggesse i loro interessi. Non a caso, dopo due anni, la Sinistra promuove un primo inasprimento delle tariffe doganali (1878) e si andrà sempre più accentuando nel decennio successivo, fino alla tariffa fortemente protezionistica del 1887. Un impulso all’industrializzazione, viene anche dal tipo di politica instaurata dalla Sinistra, che instaurò una politica di potenza che spingeva ad una corsa agli armamenti, sul modello prussiano. Ciò portava alla necessità di potenziare l’industria siderurgica, per fornire l’acciaio necessario alle navi da guerra e ai cannoni e in questo l’intervento dello Stato fu centrale. A questo impulso all’industrializzazione, si aggiunse un nuovo fattore a partire dal 1880, la crisi agraria. L’arrivo sul mercato di tanto grano americano a buon mercato, fa crollare i prezzi. Questo mise definitivamente in crisi i sistemi agricoli arcaici e non competitivi, determinando la scomparsa della piccola proprietà contadina. La crisi è un fattore che accelera la modernizzazione dell’agricoltura e la concentrazione capitalistica nelle campagne; inoltre spinge a investire sull’industria, divenuta più redditizia dell’investimento agricolo. Sul piano sociale e politico, induce i grandi proprietari latifondisti a premere anch’essi nella direzione del protezionismo, per difendere i profitti minacciati dalla caduta dei prezzi del grano. Si delinea così quel blocco agrario-industriale, che caratterizza la classe dirigente italiana. Questo porta ad un ulteriore impoverimento del Mezzogiorno, che si vede ora danneggiato dal protezionismo nell’esportazione di prodotti pregiati (olio, vino e agrumi), costretto a comprare prodotti industriali dal Nord Italia a prezzi maggiori, che nel frattempo si è industrializzato. Il rapporto tra Nord-Sud, si definisce come un rapporto di tipo coloniale, fondato sullo “scambio ineguale” (prodotti agricoli-prodotti industriali). Si va delineando così ‘la questione meridionale’, del divario nello sviluppo economico tra Nord e Sud. La struttura sociale: aristocrazie e borghesia Le trasformazioni della base economica, generano naturalmente, anche se con lentezza, trasformazioni della struttura sociale italiana. 1 L’aristocrazia gode ancora di grande peso e prestigio sociale, fornendo modelli di comportamento anche ai ceti borghesi che si vanno formando. Ne è un esempio la letteratura, dove i nobili appaiono come protagonisti di romanzi, novelle, grazie al fascino che i loro stili di vita esercitano sul pubblico. Accanto a questa componente tradizionale dei grandi possidenti terrieri (nobili), si collocano molti borghesi, arricchitisi con l’acquisto di beni ecclesiastici e terreni demaniali. Lo strato dell’alta borghesia, comprende anche alti funzionari dello Stato e magistrati, banchieri e finanzieri. Una figura che impressiona l’opinione pubblica in questi anni è quella dello speculatore, un finanziere senza scrupoli, al centro del giro poco pulito di capitali o arricchitosi grazie agli appalti di opere pubbliche. Nel ceto medio, è ancora prevalente la componente tradizionale: professionisti, commercianti piccoli proprietari agricoli, artigiani. Ma è un ceto medio che entra ben presto in crisi, in conseguenza delle trasformazioni in atto. La crisi dei ceti medi è una componente che sarà molto influente sulla letteratura: molti scrittori provengono da questo strato sociale, ne patiscono la decadenza e la riflettono nelle loro opere. Questa è la matrice di una tematica molto diffusa: il rimpianto del mondo antico, in particolare di un mondo agrario, dipinto dalla nostalgia a colori idillici, spezzato via dal progresso moderno. Viene a delinearsi un nuovo ceto, quello impiegatizio, ingigantito dalle esigenze della pubblica amministrazione di un grande Stato accentratore. I ceti popolari: i ceti popolari sono ancora composti perlopiù da contadini. Gli operai, dato lo scarso sviluppo industriale, sono una minoranza, anche se in progressiva espansione. Le condizioni delle masse contadine, dopo l’Unità, peggiorano ulteriormente; lo sviluppo economico avviene grazie alla compressione dei consumi delle classi rurali. A ciò si aggiunge un’elevata pressione fiscale, imposta sul nuovo Stato per sanare il deficit del bilancio. Tale pressione grava sui ceti inferiori, soprattutto tramite le imposte indirette, come la ‘tassa sul macinato’, che colpisce la base dell’alimentazione popolare, come anche la farina, generando forti tensioni sociali. A tutto ciò si affianca la leva militare obbligatoria, che vale 5 anni e sottrae braccia all’agricoltura e in generale alle attività di cui vivono i ceti popolari. I contadini, inoltre, sono afflitti da malattie, dovute alla denutrizione e alla scarsissima igiene, aggiunta alla mancanza di assistenza medica. A ciò si aggiunge l’esclusione culturale, infatti, l’unità d’Italia non aveva modificato il modo di vivere precedente. Le masse rurali, a Nord come a Sud, sono totalmente estranee al nuovo Stato unitario, ne ignorano i principi ispiratori, non sanno neppure chi sia il re o contro chi si combattono le guerre a cui sono chiamati a partecipare. Queste condizioni erano più gravi a Sud, data la maggiore situazione di arretratezza di quelle zone, ma il quadro non era tanto differente per il Nord. Nonostante l’unificazione, quindi, c’erano due Italie, non solo in senso geografico, ma anche in senso sociale: una frattura netta divideva i ceti superiori dotati di istruzione e le masse popolari. Da qui si originò il fenomeno di emigrazione all’estero, che interessò tutta la penisola. Le ideologie: nonostante i ritardi e i limiti, l’Italia degli anni Settanta e Ottanta vedeva comunque gli inizi di uno sviluppo capitalistico moderno, che tendeva all’industrializzazione. Questi fenomeni erano vissuti dai contemporanei in modo dirompente, dato che assistevano per la prima volta a ciò. Per questo, le idee correnti tra scrittori e uomini di cultura di questi anni, hanno sempre come punto di riferimento la nuova realtà economica e sociale che si va affermando. Si possono individuare tre atteggiamenti degli scrittori di fronte alla modernizzazione economica e sociale: 1. Un atteggiamento apologetico, che inneggia ad essa come realizzazione del progresso; 2. Un atteggiamento di rifiuto romantico, in nome dei valori del passato; 3. Un atteggiamento che non esalta né condanna, ma tende ad un lucido rapporto conoscitivo con quel processo; il primo atteggiamento è proprio quello della cultura egemone di questo periodo, diffondendosi nell’opinione comune, tra le classi dirigenti, i ceti medi e ceti popolari: il Positivismo. La cultura positivistica, che si era affermata prima nell’ambito europeo, soprattutto nelle zone più avanzate economicamente, nella seconda metà dell’Ottocento, si sviluppa anche il Italia. Essa ha le sue basi nel balzo in avanti del capitalismo industriale. L’espansione della produzione lo sfruttamento delle risorse naturali hanno bisogno anche dello studio scientifico della realtà e delle sue applicazioni tecnologiche. Quindi, presupposto essenziale della cultura positivistica, sono le importanti scoperte scientifiche che si verificano in questo periodo, nel campo della termodinamica, della chimica, fisica, ecc.. che sembrano dare vita a nuove conquiste. 2 prima categoria di scrittori appartiene Verga; alla seconda appartiene D’Annunzio, nonostante il disgusto per il mercato, abilissimo nel curare l’immagine e promuovere pubblicamente la vendita della sua merce letteraria. L’affacciarsi di questo conflitto tra intellettuali e società, porta alla fine dell’impegno politico risorgimentale; in prevalenza gli intellettuali si chiudono nel puro esercizio letterario, fine a sé stesso. Anche i veristi, rifiutano l’insubordinazione della letteratura a fini sociali, propria del naturalismo zoliano. Tranne in rari casi, in Italia, l’intellettuale non è ancora in grado di vivere dei proventi delle sue opere. Al contrario, in Francia, Zola riusciva a vivere grazie alla vendita della sua produzione romanzesca. Ma, in Italia, la situazione è arretrata rispetto a quella della Francia: l’intellettuale deve ancora sostenersi con altre attività per vivere. La figura dell’intellettuale, non è più quella dell’umanista; si affacciano nuove figure, create dallo sviluppo delle società moderne: il giurista, l’economista, il patologo, il fisico, il chimico.. nasce cioè l’intellettuale specialista, soprattutto in campo scientifico. Anche questo contribuisce alla crisi del ceto dei letterati umanisti tradizionali; il loro sapere non è più considerato come il sapere per eccellenza, ma un tipo di sapere. Sparisce la figura dell’intellettuale eclettico, che si occupa di diverse discipline. Molto spesso, però, l’intellettuale umanistico non si rassegna alla declassazione del suo ruolo e reagisce rivendicando la funzione di guida morale, intellettuale o civile della nazione. La lingua: all’atto dell’Unità erano ancora pochissimi coloro che erano in grado di usare a lingua nazionale. Nel 1861, l’analfabetismo raggiungeva il 78% a livello nazionale, toccando punte massime nelle Isole e minime nel Piemonte; del restante 22% molti erano appena in grado di scrivere la propria firma e di decifrare un poco i caratteri di stampa. Non contando Toscana e Roma, contando il resto della popolazione italiana, solo lo 0.8% della popolazione sapeva parlare e scrivere con la sicurezza . Questo significa che la lingua dominante , al momento dell’unificazione nazionale, era il dialetto locale. Il problema dell’unificazione linguistica, si poneva come uno dei più urgenti, pioichè, l’unificazione richiedeva continui scambi tra diverse regioni e quindi si necessitava di un codice compreso da tutti. Il problema non era solo come diffondere un modello nazionale, ma anche quale utilizzare. L’italiano, usato solo come lingua letteraria, era morto, non offriva tutti i termini necessari per una comunicazione completa. Manzoni propose come modello il fiorentino contemporaneo colto, questo modello fu in parte accolto e utilizzato anche nelle scuole per combattere il dialetto, utilizzando vocabolari e modi di dire fiorentini anche da parte di chi fiorentino non era. Ma questa soluzione si rivelò astratta e impraticabile nei fatti. Era una contraddizione voler imporre l’uso di una lingua viva attraverso lo studio di norme attraverso un vocabolario; una lingua davvero viva non può essere imposta dall’alto, ma può nascere solo dall’uso concreto dei parlanti; queste erano le motivazioni opposte al modello manzoniano, il particolare da Graziadio Isaia Ascoli. La scuola si offriva come lo strumento più adatto alla diffusione della lingua comune. ma nonostante la legge Casati (1859) e la Legge Coppino (1877), che avevano fissato il principio di obbligo dell’istruzione elementare, parecchi non lo rispettavano , inoltre le scuole non erano ben tenute e fornite di personale ben qualificato; anche perché, soprattutto a Sud, non si comprendeva quale fosse il valore dell’istruzione. La diffusione dell’italiano, quindi fu un processo graduale, lento e difficile. A diffondere la lingua nazionale, furono altri fattori: la coscrizione obbligatoria, che metteva giovani a contatto tra loro di diversa provenienza; l’ampliarsi degli scambi del mercato; l’estendersi della burocrazia; l’emigrazione all’estero . Con l’industrializzazione, masse di persone si spostarono da Nord a Sud, ed era impossibile comprendersi con dialetti diametralmente opposti. Questo portò alla consapevolezza che ci fosse il bisogno di una lingua comune per comprendersi. Continuava a vivere una situazione di bilinguismo; cioè, l’italiano era usato in determinate situazioni, ma il dialetto continuava ad essere utilizzato nella comunicazione quotidiana, proprio perché l’italiano era percepito come artificioso. La lingua letteraria, tende ad avvicinarsi a quella parlata e a subire un processo di semplificazione. Si diffonde un modello di prosa più agile e rapido. La sintassi è semplificata, i periodi si fanno più brevi, prevale la coordinazione. La poesia, utilizza un linguaggio prosastico, che non disegna termini umile e quotidiani; ma parecchie produzioni di questo tempo, mirano al recupero di un’autenticità classica. si trovano così, soprattutto il D’Annunzio e Carducci, termini aulici, latinismi, giri di frasi ampi e complessi. 5 GIOSUE’ CARDUCCI Nacque nel 1835 a Valdicastello, in Versilia, da famiglia medio borghese (il padre era medico condotto). Trascorse l’infanzia in Maremma, libera e a contatto con la natura aspra e selvaggia; e questa fu elemento di nostalgia per lo scrittore. Studiò alla Scuola Normale Superiore di Pisa, laureandosi in lettere nel 1856 e iniziò ad insegnare nelle scuole secondarie. Nel 1860, fu chiamato alla cattedra di Letteratura italiana a Bologna, che tenne per un 40 anni, lasciandola nel 1904. Condusse una vita da professore e studioso, partecipò alla vita culturale del tempo, collaborando con i periodici più famosi. Sostenne infinite polemiche letterarie e politiche, dato il suo carattere iroso e battagliero. Ottenne il Nobel per la poesia nel 1906 e morì nel 1907. L’evoluzione ideologica e letteraria : cresciuto in una famiglia con ideali patriottici e ammiratori della Rivoluzione francese, Carducci fu inizialmente di idee democratiche e repubblicane. Come molti democratici, però subì una cocente delusione alla conclusione del processo unitario, con il trionfo del compromesso democratico e delle forze moderate della Destra storica. Si oppose nei confronti del nuovo governo, che gli costarono anche una sospensione dall’insegnamento. La sua polemica si scagliò contro l’Italia ‘vile’ del suo tempo, che non rispondeva gli ideali risorgimentali; si scagliò contro la corruzione dilagante che trasformava Roma in una sorta di sfibrata Bisanzio; contro la rinuncia a conquistare Roma, ancora nelle mani del papa; contro la mediocrità della classe politica dominante, e contro la mancanza di tensione eroica della società italiana. Fu anche massone e violentemente anticlericale, si scagliò contro al Chiesa e il papa, quali baluardi della reazione tirannica, dell’oppressione e dell’oscurantismo. Polemizzò contro la religione cristiana stessa, in nome della vita ‘pagana’ e classica, libera da ogni limite che mortificasse il godimento della vita e presentò la religione come un residuo dell’oscurantismo medievale, ormai sconfitto dalla forza delle Ragione, della scienza e del Progresso. In questa esaltazione finale, fu vicino ai Positivisti, ideologia dominante dei borghesi negli anni ’70-’80. Nella maturità, però, dopo la presa di Roma nel 1870, venne gradualmente moderando le sue posizioni. Si andò avvicinando alla monarchia; nel 1890 fu nominato senatore del Regno e nel ’91 accettò di inaugurare un circolo monarchico, indignando i repubblicani. Il suo acceso patriottismo si trasformò in nazionalismo e fu sostenitore della politica di Crispi e delle sue imprese coloniali. Anche il suo anticlericalismo si moderò, e assunse atteggiamenti conciliali verso il papa, riconoscendo i valori del cristianesimo. Il battagliero polemista democratico si trasformò nel poeta ufficiale dell’Italia umbertina, il ‘vate’ dei suoi valori e miti. Negli anni giovanili assunse posizioni antiromantiche, proclamandosi “scudiero dei classici”, formando un gruppo “Amici pedanti” con il fine di combattere le manifestazioni del Romanticismo e a sostenere il gusto classico. Bersaglio della sua polemica era soprattutto il Romanticismo sentimentale, quello di Prati e Aleardi; ma si scagliava anche contro il Romanticismo cristiano di Manzoni e della sua scuola, troppo debole e rassegnato, poco virile e combattivo, come esigeva la tradizione classica, collegandolo all’Antica Roma. Per questo, Carducci mirò alla restaurazione di un discorso poetico “alto”, che recuperasse la dignità aulica dei classici. Questa polemica antiromantica e questo recupero classicistico, rivelano in Carducci una notevole angustia di confini intellettuali; a leggere le sue pagine, sembra risentire gli argomenti dei classicisti nelle polemiche del 1816. Il motivo di tutta questa polemica, era originato dal fatto che il Romanticismo che Carducci giovane conosceva era solo quello italiano, molto diverso da quello straniero. In anni successivi, però, ampliò la sua conoscenza della letteratura romantica europea . Ma, nonostante ciò i poeti che predilesse furono quelli di spirito democratico e di forte impegno civile, come Victor Hugo o Heine. Più avanti, con l’affievolirsi dell’impeto polemico, allo sdegno presente, si sostituisce il ripiegamento intimo, l’angoscia per l’incombere della morte, la memoria struggente degli anni dell’infanzia e della giovinezza. Compaiono anche tendenze evasive, l’abbandono alla fantasticheria, l’impulso a fuggire dallo squallore del presente. Di Carducci è stata fissata dalla tradizione critica, l’immagine del poeta integralmente sano, immune alla malattia romantica che corrodeva tanti altri scrittori della sua età. Di conseguenza, è stato contrapposto come “ultimo dei classici” alla tradizione tormentata del Novecento. Dalle indagini della critica successiva, però, emerge la figura di un intellettuale per niente estraneo alla ‘malattia interiore’ della sua epoca, che si aggrappa alla tradizione classica per esorcizzare le inquietudini e le angosce che 6 lo assolano, assumendo il mondo antico come quello di evasione da quello borghese squallido e mediocre, anzi emerge un poeta sostanzialmente tardoromantico. Ma, nonostante ciò, Carducci resta ben lontano da quella profondità. Infatti, le sue inquietudini hanno qualcosa di banale e provincialmente limitato, se confrontate con l’esplorazione del negativo dell’anima moderna condotto da Baudelaire. La sua poesia inziale, che risulto al pubblico violenta e repulsiva, con le sue posizioni battagliere e provocatorie, a poco a poco poté essere assimilata al gusto ”medio”. La poesia carducciana, nell’Italia di fine secolo, divenne il paradigma dell’idea stessa di “poesia” a cui si rifecero poi generazioni di italiani di media cultura. Carducci, ha il merito di riassumere quella che è la fisionomia un’epoca, ponendosi al centro della vita intellettuale per almeno 20 anni, tra il 1870-90. Le Rime nuove Nel 1887, Carducci raccolse sotto questo titolo un gruppo di poesie scritte dal 1861 fino al 1887. Si tratta di scritti contemporanei alle Odi Barbare e ai Giambi, ma Carducci amava raccogliere i suoi scritti in raccolte in base all’argomento e alle forme metrico-linguistiche, prescindendo dalla cronologia. Le Rime nuove, nascono da spunti intimi, privati, o dalla sollecitazione della letteratura e della storia. Sono accomunate anche dalle scelte metriche, che si rifanno alle forme della lirica italiana, usate nel Medioevo e caratterizzate dall’istituto della rima. Una buona parte di queste, è ispirata dalla letteratura: cioè nasce da impressioni di lettura e vuol rendere le emozioni originate dalla bellezza artistica. Ci sono poesie in cui vengono rievocati eventi storici o particolari atmosfere del passato. La rievocazione si anima sempre attraverso un confronto con il presente e la sua mediocrità, con la volontà di contrapporre ad esso altre età, capaci di tensioni ideali e di energia eroica. Le età verso cui si orienta la nostalgia eroica del poeta, è la Roma repubblicana, il medioevo comunale, la Rivoluzione francese, il Risorgimento italiano: questi quadri storici sono tutti celebrativi degli ideali politici e civili cari a Carducci. C’è anche un gruppo di poesie dove si verifica la volontà di fuga in un’Ellade mitizzata come mondo fi gioia vitale e pura bellezza, per dimenticare la realtà contaminata del presente; compare così quel classicismo esotizzante, presente anche nelle Odi Barbare. In questo caso la rievocazione storica ha valore di espressione della necessità di fuga del poeta. Affine a questo moto di fuga, è la rievocazione della propria infanzia e giovinezza., viste come momento libero, pieno, gioioso, di vita sana. Questa mitizzazione della giovinezza, si proietta costantemente nel paesaggio dell’amata Maremma, che diviene quasi proiezione lirica della soggettività del poeta. Le Odi Barbare Nel 1877 uscì il primo libro di Odi barbare, in cui Carducci abbandonava i metri tradizionali italiani, cercando di riprodurre quelli classici ( con il sistema accentuativo italiano, in modo quindi “barbaro”). Ad esso seguì un secondo libro nel 1882, e un terzo nel 1889. L’esperimento metrico suscitò scalpore e si attirò molte critiche, ma mano man mano che la novità fu assorbita, la metrica “barbara” entrò nel gusto corrente del pubblico (imitato dal giovane D’Annunzio). Queste poesie, appartengono allo stesso arco temporale delle Rime nuove, presentano anche gli stessi motivi, cioè rievocazioni storiche e patriottiche, spunti intimi e autobiografici . Quello che si accentuò, fu forse le tendenze evasive, a rifugiarsi nel passato come paradiso perduto di bellezza e forza., per dimenticare il presente. Rime e ritmi L’ultima raccolta, Rime e Ritmi (1889), contiene soprattutto grandi odi celebrative: Piemonte, Cadore, La Bicocca di San Giacomo, alla città di Ferrara. Sono poesie altamente intonate, di un’eloquenza sonora, e sono proprio quelle che consacrarono Carducci poeta ufficiale dell’Italia umbertina, poeta ‘vate’ dei destini della patria, molto apprezzate dalla tradizione scolastica, ma oggi illeggibili. In quest’ultima produzione, la critica ha individuato quasi una nuova poetica di Carducci, più rarefatta e sfumata, quasi smarrita. Una poesia che sembrerebbe vicina alle soluzioni della lirica decadente. Per tutta la vita Carducci, all’attività di poeta, affiancò quella di studioso della letteratura e di critico. Fu ostile alla critica di De Sanctis, che proveniva dal filone hegeliano. La sua metodologia apparteneva al clima positivista; apparteneva a quella corrente che fu detta ”critica storica”, che puntava rigorosamente alla ricostruzione dei fatti: le vicende biografiche, gli ambienti culturali, gli istituti letterali, le forme linguistiche e metriche. 7 In questo modo, il lettore ha l’impressione di trovarsi faccia a faccia col fatto nudo e schietto. Tutto ciò si espone in modo prorompente, anche perché Verga porta in scena ambienti popolari e rurali, con personaggi incolti e primitivi, come nelle novelle e nei Malavoglia. Un esempio si può cogliere nell’inizio di Rosso Malpelo, dove si fa coincidere il colore rosso dei capelli del ragazzo con caratteristiche morali (malizioso e cattivo), solo perché percepito come qualcosa di “diverso”. Chiaramente questo non è il punto di vista di Verga (scrittore colto), ma lui lo espone nel romanzo per dare l’impressione che a narrare sia uno qualunque dei vari minatori della cava dove lavora Malpelo. Inoltre, quest’anonimo narratore, tipico delle opere verghiane, non informa esaurientemente sulla storia dei personaggi, né offre dettagliate descrizioni dei luoghi dove si svolge l’azione. Parla al pubblico come se questo stesso fosse appartenente a quel determinato luogo e quindi conoscesse già quei luoghi e quei personaggi. In questo modo, partendo da informazioni parziali, il lettore arriverà a conoscere i personaggi man mano andando avanti nella lettura. E se la voce narrante giudica o emette qualche pensiero, non lo fa certo dal punto di vista dello scrittore colto, ma in base alla visione bassa e rozza della collettività popolare. Di conseguenza, anche il linguaggio non è quello che potrebbe essere dello scrittore (colto), ma un linguaggio spoglio e povero, punteggiato dai modi di dire, paragoni, proverbi e imprecazioni popolari. L’Ideologia verghiana Che cosa induce Verga a formulare il principio dell’impersonalità e ad applicarlo così rigorosamente? Diceva lo stesso Verga, che chi osservava questa lotta all’esistenza, non aveva il diritto di giudicarla, è già tante se riesce a tirarsene fuori e studiarla senza passione. Verga ritiene dunque che l’autore debba “eclissarsi”, dall’opera perché non ha diritto di giudicare la materia che rappresenta. Alla base della visione di Verga stanno posizioni pessimistiche: la società umana è per lui dominata dal meccanismo della lotta per la vita, un meccanismo crudele, per cui il più forte schiaccia il più debole. La generosità disinteressata, l’altruismo e la pietà sono solo valori ideali che non trovano spazio nella realtà effettiva. Gli uomini sono mossi da interessi economici, dalla ricerca dell’utile, dall’egoismo e dalla volontà di sopraffare gli altri. Queste leggi di natura, dominano ogni età e ogni luogo e non solo gli uomini, anche gli animali e i vegetali. Come legge di natura, essa è immutabile; quindi lui crede che non si possano dare alternative alla realtà esistente, né nel futuro (in un’organizzazione sociale diversa e più giusta), né nel passato (tornare su forme superate), tantomeno nel trascendente (la sua visione è rigorosamente materialistica e atea ed esclude ogni consolazione religiosa, quindi non crede nel riscatto in un’altra vita). Quindi, se per Verga la realtà, per negativa che sia, è data una volta per tutte senza possibilità di modificazione, si può capire perché egli ritenga illegittimo per lo scrittore che la rappresenta, proporre giudizi. Se è impossibile modificare l’esistente, ogni intervento giudicante appare inutile e privo di senso, e allo scrittore non resta che riprodurre la realtà così com’è, lasciare che parli da sé, senza farla passare per la lente “correttiva”. La letteratura non può cambiare la realtà, ma può solo studiare ciò che è dato una volta per tutte. Dunque, la scelta dell’impersonalità di Verga, non è casuale, ma scaturisce coerentemente dalla visione del mondo pessimistica ed è per lui modo adatto per esprimerla. E’ chiaro che, un simile pessimismo, che nega ogni possibilità di miglioramento, ha una connotazione fortemente conversatrice. A questo, infatti, si associa un rifiuto esplicito e polemico per le ideologie progressiste contemporanee, democratiche e socialiste, che giudica come fantasie infantili o interessanti inganni. Questo pessimismo, però, non implica un’accettazione acritica della realtà esistente. Anzi, proprio il pessimismo, pur impedendo di indicare alternative, consente a Verga di cogliere con lucidità ciò che c’è di negativo in quella realtà . Nelle pagine verghiane la disumanità della lotta per la vita, lo sfrenarsi di ambizioni e interessi, la brutalità dell’oppressione sugli indifesi, la sofferenza e la degradazione umana, sono messi in luce con precisione. Anche se non dà giudizi correttivi, Verga rappresenta con grande acutezza l’oggettività delle cose. Quindi, il pessimismo non è un limite nella narrazione di Verga, ma al contrario potenzia il suo valore conoscitivo. Inoltre, è proprio il pessimismo a proteggere Verga da quei falsi miti che trionfano nella letteratura contemporanea, come: il mito del progresso, il mito del popolo. Anche se le opere di Verga hanno come centro la vita del popolo, in esse non si riscontra quell’atteggiamento populistico , che consiste nella pietà sentimentale per le miserie degli “umili”, nella fiducia di un miglioramento delle condizioni dei diseredati, garantito dalla buona volontà dei ceti privilegiati. 10 Ma in verga, non è presente neppure il populismo di tipo romantico e reazionario, proteso nostalgicamente verso forme passate di vita. anche rinnegando il progresso futuro, Verga non si rifugia nel mito del passato (della campagna, della civiltà contadina arcaica, concepita come Eden di incorrotta autenticità). Il pessimismo induce Verga a vedere che anche il mondo primitivo della campagna è retto dalle leggi del mondo moderno, l’interesse economico, l’egoismo, la ricerca dell’utile, la forza e la sopraffazione. Il verismo di Verga e il naturalismo zoliano: a questo punto, risulta evidente la differenza tra il Verismo verghiano e il naturalismo di Zola. La differenza si misura innanzitutto a livello delle tecniche narrative. Nei romanzi di Zola, la “voce” che racconta riproduce il modo di vedere e di esprimersi dell’autore, ovvero del borghese colto, che guarda dall’esterno e dall’alto la materia, e questa voce narrante interviene spesso con giudizi su quello di cui si sta narrando. Tra il narratore e i personaggi vi è un distacco netto, e il narratore lo fa sentire esplicitamente. Questo in Verga non accade mai, semmai avrebbe raccontato il tutto utilizzando il punto di vista dei minatori. In altri casi, il giudizio di Zola è implicito, ed è rivelato da un particolare termine, che si riflette nella visione dell’autore. Una particolare eccezione è proposta dall’Assommoir (inizi 1877), dove Zola si propone di riprodurre il gergo particolare dei proletari parigini. In alcuni punti, infatti, la voce narrante si adegua alla mentalità e al linguaggio dei personaggi popolari; questi passi dovettero influenzare molto Verga, ma questa soluzione non è definitiva, ma episodica e limitata, al contrario di Verga in cui sarà duratura. Inoltre, il romanzo presenta una forte distinzione tra i personaggi e il narratore colto; il gergo è utilizzato solo dove sono i personaggi del popolo ad esprimersi, il narratore utilizza uno stile letterario e colto. L’esperimento poi viene abbandonato nella produzione successiva. Zola risulta estraneo all’originale tecnica verghiana della “regressione” del punto di vista narrativo nel mondo popolare rappresentato. Per Zola l’impersonalità significa assumere il distacco dello “scienziato”, che si allontana dall’oggetto per osservarlo dall’esterno e dall’alto; per Verga significa invece immergersi, “eclissarsi” nell’oggetto . Queste tecniche narrative così lontane, sono la conseguenza di due poetiche e di due ideologie diverse. Zola interviene a commentare e giudicare dall’alto del suo pensiero scientifico, perché crede che la letteratura possa intervenire per cambiare la realtà ed ha fiducia nella funzione progressiva della letteratura; dietro la “regressione” di Verga, invece c’è il pessimismo di chi ritiene che la realtà sia immutabile e che quindi la letteratura non possa agire in alcun modo su di essa, modificandola. Zola ha fiducia nella letteratura, affinché possa cambiare la realtà, perché è uno scrittore borghese democratico, che ha dinnanzi a sé una realtà dinamica, una società già sviluppata a livello industriale, dove i conflitti del mondo capitalistico hanno ormai raggiunto uno stadio avanzato. Di conseguenza, lo scrittore progressista, in un simile ambiente, si sente portavoce di esigenze ben vive intorno a lui e sa di rivolgersi ad un pubblico in grado di capirlo. Il rifiuto verghiano dell’impegno politico della scrittura, la scelta dell’impersonalità, come rappresentante della nuova arte realista, rimandano invece ad una situazione economica e sociale ben diversa da quella francese. Verga è il tipico “galantuomo” del Sud , proprietario terriero conservatore, che ha ereditato la visione fatalistica della realtà, estraneo alla visione dinamica del capitalismo moderno. Il fatalismo del galantuomo poteva poi trovare conferma nella realtà attuale dell’Italia , in cui gli inizi dello sviluppo capitalistico, nel Sud in particolare, non faceva altro che ribadirne l’esclusione e l’oppressione. Lo scrittore poteva facilmente dedurre che nulla cambia, dietro una facciata di trasformazioni, ricavandone la convinzione che nulla può cambiare, che la letteratura può solo portare a conoscere la realtà, non a mutarla. Questo non significa esaltare il progressismo di Zola e screditare il conservatorismo di Verga; i valori artistici non sono conseguenza immediata e meccanica dell’ideologica dell’autore. Vita dei campi La svolta maturata nell’arco di tre anni, tra romanzi come Eros e Tigre reale (1875) e Rosso Malpelo (1878) è strabiliante; purtroppo non si hanno documenti che possano attestare quali furono le produzioni intermedie in questo arco di tempo. Sicuramente, sull’adozione di nuovi moduli narrativi, influì Zola, i cui romanzi erano già diffusi nel Settanta. Ma di grande influenza, come detto prima, fu anche L’Assommoir, dove la voce narrante diventa rappresentante del “coro” dei personaggi popolari e riproduce la loro mentalità. Questo esempio dovette avere un ruolo decisivo in Verga, soprattutto nel suggerire la tecnica della “regressione”. La conferma della sua influenza, furono lunghe 11 discussioni che si ebbero sul romanzo di Zola tra Verga, Capuana e Sacchetti. Chiaramente, L’Assommoir è solo uno spunto iniziale per Verga, che poi egli sviluppo in direzione opposta rispetto a quella di Zola. Un’influenza determinante nei nuovi principi di Verga, ce l’ebbe anche Capuana, che contribuiva a diffondere la conoscenza di Zola, dando una sistemazione delle teorie veriste e lavorava per suo conto ad un’opera naturalista, Giacinta (1879) e dedicata a Zola. La nuova impostazione di Verga, inaugurata con Rosso Malpelo nel 1878, sarà continuata anche negli scritti successivi, raccolti nel 1880 nel volume Vita dei campi: Cavalleria rusticana, La Lupa, Jeli il pastore, Fantasticheria, L’amante di Gramigna. Guerra dei Santi, Pentolaccia. Anche in questi racconti, spiccano figure della vita contadina siciliana, e viene applicata la tecnica narrativa dell’impersonalità, che consiste nell’eclissi del narratore. In queste novelle, si può trovare ancora traccia di un atteggiamento romantico, di un idoleggiamento nostalgico di quell’ambiente arcaico come un paradiso perduto di innocenza e autenticità. In queste novelle, ricorre anche dietro la rappresentazione veristica del mondo popolare, un motivo romantico come il conflitto dell’individuo “diverso” e il contesto sociale che lo rifiuta e lo espelle (Rosso Malpelo, La Lupa, Cavalleria Rusticana, l’amante di Gramigna e Jeli il pastore). In verga, in questo periodo, è ancora in atto una contraddizione tra le tendenze romantiche della sua formazione e le nuove tendenze veristiche, pessimistiche e materialistiche. Contraddizione che troverà soluzione nei Malavoglia. Il ciclo dei Vinti: parallelamente alle novelle, Verga concepisce anche un disegno di un ciclo di romanzi, che riprende un modello già affermato dai Rougon-Macquart di Zola. A differenza di Zola, però, Verga non pone al centro del suo ciclo l’intento scientifico di seguire gli effetti dell’ereditarietà, ma solo la volontà di tracciare un quadro sociale passando in rassegna tutte le classi, dai ceti popolari alla borghesia di provincia alla aristocrazia. Criterio unificante è il principio della lotta alla sopravvivenza, che lo scrittore ricava da Darwin, sull’evoluzione delle specie animali e lo applica alla società umana. Tutta la società è dominata, ad ogni livello, è dominata dai conflitti di interesse, il più forte trionfa. Verga non si sofferma sui vincitori di questa guerra, ma sceglie come oggetto della sua narrazione i “vinti”. Al ciclo viene premessa una prefazione in cui vengono chiariti gli intenti generali dello scrittore: nel primo romanzo, I Malavoglia, il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso, sono gli interessi materiali per cui l’uomo lotta, dove nelle sfere basse è più facilmente osservabile in quanto il meccanismo sociale è meno complicato. Nei romanzi successivi, sarà analizzata questa “ricerca del meglio” nel suo progressivo innalzarsi attraverso le classi sociali, dall’avidità di ricchezza nella borghesia provinciale (Mastro) alla vanità aristocratica (La Duchessa si Leyra), all’ambizione politica ( L’Onorevole Scipioni) e artistica (L’uomo di lusso). Anche lo stile e il linguaggio devono modificarsi gradatamente in questa scala ascendente. I Malavoglia Il primo romanzo del Ciclo I Malavoglia (1881), narra della storia di una famiglia di pescatori siciliani. I Toscani, soprannominati i Malavoglia (nell’uso popolare, questi sono il contrario delle qualità di chi li porta), una famiglia di pescatori di Aci Trezza, che possiedono una casa e una barca, la Provvidenza, che consentono loro una vita relativamente felice. Nel 1863, però, Ntoni, figlio di Bastianazzo e nipote di padron Ntoni, deve partire per il servizio militare. La famiglia, privata delle sue braccia, si trova in difficoltà, dovendo pagare un lavorante. A ciò si aggiunge la cattiva annata di pesca, e il fatto che la figlia maggiore Mena, abbia bisogno della dote per sposarsi. Padron Ntoni, per superare le difficoltà, pensa di intraprendere un piccolo commercio: compra a credito dall’usuraio, zio Crocifisso, un carico di lupini, per rivenderli al porto vicino. Ma la barca naufraga nella tempesta, Bastianazzo muore e il carico va perduto. I Malavoglia, oltre al lutto subito si trovano difronte anche un debito da pagare. Comincia qui una serie di sventure. La casa viene pignorata, Luca, il secondo figlio muore nella Battaglia di Lissa; la madre, Maruzza, è uccisa dal colera, La Provvidenza anche se recuperata e messa a posto, naufraga di nuovo; la sventura disgrega il nucleo famigliare. Infatti, ‘Ntoni che ha conosciuto la vita delle grandi città, non riesce più adattarsi a quella delle piccole realtà e vive nell’osteria, prendendo una brutta strada, finendo coinvolto nel contrabbando e sorpreso, finisce con il dare una coltellata alla guardia doganale. Al processo, Ntoni ottiene una condanna mite per attenuanti d’onore, dato che lo scontro c’era stato per rivalità a causa di donne e da motivi d’onore: don Michele corteggia la sorella minore, Lia, ma quest’ultima, ormai disonorata fugge dal paese, rifugiandosi nella città e finendo nel malaffare della città. A causa del disonore 12 Questo non significa che Verga ripristina il narratore onnisciente del 1800, questo non dà informazioni sugli antefatti, o ritratti di storie dei personaggi, come fa il narratore dei Promessi Sposi; ne parla come se il lettore li conoscesse da sempre, proprio come aveva fatto nei Malavoglia. Infatti, il protagonista, per parlare della sua ascesa sociale, si abbandona a pensieri sul suo passato, arrivando alla situazione odierna, quindi la storia non è riportata dal narratore. Questo conferma la sua coerenza al principio dell’eclisse dell’autore. I Malavoglia è un romanzo corale, che vede in scena una folla fittissima di personaggi. Di questi, solo i componenti della famiglia sono visti dall’interno, in modo tale che se ne possano conoscere pensieri e sentimenti. Il Gesualdo, ha al centro la figura del protagonista, che si stacca dallo sfondo popolato da figure indistinte. E’ infatti la figura di un personaggio eccezionale e della sua ascesa, a questa centralità di adeguano procedimenti narrativi. Il punto di osservazione dei fatti, coincide con la sua visione (Mastro), cioè noi vediamo i fatti attraverso i suoi occhi. Lo strumento per eccellenza di questa focalizzazione interna è il discorso indiretto libero, mediante cui sono riportati i pensieri del protagonista. Scopare, nel Gesualdo, anche la bipolarità tra personaggi depositari dei valori e rappresentanti della legge della lotta per la vita, che caratterizzava i Malavoglia. Il conflitto tra i due poli si interiorizza, passa dentro un unico personaggio, Gesualdo. Anche se questo passa tutta la sua vita ad accumulare roba, non smette mai di sentire quella necessità di relazioni umane autentiche: ha il culto per la famiglia, rispetta il padre e fratelli, aa la moglie e la figlia; ma non arriva mai a praticare fino in fondo i valori, gli affetti generosi sono sempre soverchiati dall’attenzione gelosa all’interesse. La roba è il suo fine primario e questo lo porta ad essere disumanizzato, come quando sfrutta i suoi lavoratori senza pietà. In Verga non c’è più nessuna tentazione idealistica, non può più introdurre personaggi interamente positivi. La logica dell’economia, dell’interesse egoistico diviene modello unico di comportamento, spingendo fuori i valori disinteressati. Quei residui di idealismo romantico, ancora presente nei Malvoglia o in Vita dei campi, qui sono totalmente scomparsi; il suo pessimismo è divenuto assoluto, al punto di non consentirgli alcuna alternativa ideale ad una realtà dura. Il frutto della scelta di Gesualdo in favore della logica della roba è una totale sconfitta. Gesualdo è molto deluso nelle sue aspirazioni e relazioni umane autentiche. La moglie non lo ama e nemmeno la figlia, i fratelli mirano solo a depredarlo delle sue ricchezze, il padre invidia la sua fortuna, quindi, quasi tutti lo odiano. Dalla sua lotta epica per la roba, dalla sua energia eroica, Gesualdo ha ricavato solo odio, amarezza e dolore tanto che questo frutto amaro si somatizza in cancro allo stomaco, che lo corrode e lo porta alla morte. Ed è proprio perché conserva in sé un’esigenza di fatti autentici, che può rendersi conto del fallimento del suo disegno ( diverso da Mazzarò, che nella sua totale immersione nella Roba, non era stato in grado di rendersi conto della sua sconfitta di fronte alla morte). Gesualdo non celebra affatto l’accanimento del suo eroe nell’accumulare ricchezze, ma lo presenta sotto una luce decisamente negativa. Ma anche qui, Verga non ha un atteggiamento moralistico e univoco, ma si colloca in maniera problematica di fronte alla materia. Egli riconosce quanto vi è di eroico nello sforzo di Gesualdo, dimostra quanto possa tenerci a raggiungere il suo obiettivo, dimostrando un’energia infaticabile, una capacità di sacrificio enorme. Però, Verga rappresenta soprattutto il rovescio negativo di tutto ciò: l’alienazione della roba, la durezza sovraumana, le sofferenze provocate da una fatica insensata che ha come unico sbocco la morte. Gesualdo è un vincitore materialmente, ma un Vinto sul piano umano. Verga, rappresenta nel Gesualdo proprio un eroe tipico di quel progresso, un self-made man, che si costruisce da sé il proprio destino, un eroe della dinamicità e dell’intraprendenza. Ma in questo processo volto al progresso, Verga ha un giudizio di esso negativo. Lui riconosce nel suo pessimismo che il processo che lo porta alla modernità sia inevitabile, e non indica vie alternative ad esso, rifugiandosi nel passato o nel futuro; semplicemente analizza ciò che è dato, con occhio fermo e lucido. DECADENTISMO Il 26 maggio 1883 su periodico parigino “il gatto nero” Paul Verlaine pubblicava un sonetto dal titolo Languore, in cui affermava di identificarsi con l’atmosfera di stanchezza e di estenuazione spirituale dell’impero romano alla fine della decadenza. Il sonetto interpretava uno stato d’animo diffuso nella cultura del tempo, il senso di disfacimento e di fine di tutta una civiltà. L’idea di un compiacimento autodistruttivo, di un prossimo crollo, di un imminente cataclisma epocale, portava ad un’affinità con il periodo del tardo impero romano. 15 Queste idee erano tipiche dei circoli d’avanguardia, che si contrapponevano alla mentalità borghese, ispirandosi al modello del “maledetto” di Baudelaire. La critica ufficiale, per designare atteggiamenti simili, utilizzo il termine “decadentismo”, in accezione negativa e dispregiativa. Ma quei gruppi ne ribaltarono il senso, e ne indicarono un privilegio spirituale. Il termine decadentismo, quindi, in origine indicava un preciso movimento letterario, sorto dall’ambiente parigino degli anni Ottanta; ma poiché il quel movimento erano in germe tendenze che poi sarebbero state riprese o autonomamente sviluppate in altri contesti più vasti; la storiografia letteraria italiana ha assunto il termine a designare un’intera corrente culturale, di dimensioni europee, che si colloca negli ultimi due decenni dell’Ottocento. Per il Decadentismo, si ripropone lo stesso problema che si era avuto con il romanticismo: può assumere un significato specifico, come uno generale. Nel primo caso, nell’utilizzo specifico, il termine va a designare un movimento un movimento precisamente collocato nel tempo e nello spazio con un programma definito; ma può anche assumere un significato più ampio e indicare un’intera corrente culturale, o addirittura un intero periodo. La visione del mondo decadente: la base della visione del mondo decadente è un irrazionalismo misticheggiante, che esaspera posizioni già presenti nella cultura romantica. Viene radicalmente rifiutata la visione positivistica, che costituisce il sostrato dell’opinione “borghese”, ovvero la convinzione che la realtà sia un complesso di fenomeni materiali, regolati da leggi ferree, meccaniche e deterministiche, che la scienza, una volta individuate le leggi, possa garantire una conoscenza oggettiva del reale. Il decadente ritiene che la regione e la scienza non possano dare vera conoscenza del reale, perché l’essenza di esso è al di là delle cose. L’anima decadente perciò è sempre protesa verso il mistero che è dietro la realtà visibile, verso l’inconoscibile, in cerca di uno stato di grazia in cui assoluto e ineffabile possano rivelarsi; secondo questa visione, gli oggetti non hanno una loro individualità, ma sono tutti collegati tra loro da arcane analogie e corrispondenze, che sfuggono alla ragione, e possono essere colte solo tramite un abbandono di empatia irrazionale. Ogni realtà visibile, quindi, è nient’altro che un simbolo di qualcos’altro di più profondo che sta al di là di essa e si collega con infinite altre realtà in una rete segreta, che sono la percezione dell’iniziato può individuare. La rete di corrispondenze, coinvolge anche l’uomo: la visione decadente propone un rapporto tra io e mondo, tra soggetto e oggetto, che si confondono in un’unità. Una corrente profonda li unisce, al di sotto degli strati superficiali della realtà. L’unione avviene sul piano dell’inconscio; in questa dimensione l’individualità scompare e si fonde con un Tutto inconsapevole. La scoperta dell’inconscio, è il dato fondamentale della cultura decadente, il suo nucleo più autentico e l’anima decadente si avventura in questa zona tenebrosa, irresistibile. Freud, a fine secolo, comincerà a dare una sistemazione scientifica a questa scoperta, ma seguendo ancora un impianto razionalistico: il suo fine è portare alla conoscenza l’inconscio, sottoporlo al dominio dell’io; ma i decadenti distruggono ogni legame razionale con il reale, convinti che solo un abbandono totale possa garantire un risultato infallibile, la scoperta di una realtà più vera. Il decadente sceglie di attingere al mistero attraverso diversi mezzi. Innanzitutto vengono utilizzati come strumenti privilegiati del conoscere tutti gli stati abnormi e irrazionali dell’esistere: la malattia, la follia, la nevrosi, l’incubo e l’allucinazione . Questi stati di alterazione aprono al nostro sguardo interiore prospettive ignote, permettono di vedere il mistero che è al di là delle cose. Gli stati di alterazione, possono essere anche provocarti artificialmente, attraverso l’utilizzo di: alcool, droghe, l’hashish, l’oppio e la morfina. La “cultura della droga” contemporanea, ha le sue origini in area decadente-romantico, in cui si ritiene che l’uso di sostanze stupefacenti e psicotrope potenzi all’infinito le facoltà umane , sottraendole allo squallido meccanismo delle abitudini quotidiane e ai vincoli della ragione, accrescendo così le facoltà conoscitive e fantastiche. Vi sono poi, per i decadenti tre forme di estati che consentono quest’esperienza dell’ignoto. Se io e mondo non sono due realtà ben distinte, l’io individuale può annullarsi nella vita del Tutto, confondersi nella vibrazione della materia, ovvero, farsi nuvola, filo d’erba o corso d’acqua; è quell’atteggiamento che è stato definito come panismo (dal greco, pan, tutto) e che ritornerà in D’Annunzio. Un altro tipo di stato di grazia, è costituito dalle epifanie, come le definisce James Joyce; un particolare qualunque della realtà, che appare insignificante alla visione comune, si carica all’improvviso di una misteriosa intensità di significato, che affascina come un messaggio proveniente da un’altra dimensione , come rivelazione momentanea di un assoluto. 16 La poetica del Decadentismo: L’estetismo Tra i momenti privilegiati della conoscenza per i decadenti, vi è soprattutto l’arte. Il poeta, pittore, musicista, non sono solo abiti artefici, capaciti di usare la parola o la pittura, ma dei sacerdoti di un vero e proprio culto, dei “veggenti” capaci di spingere lo sguardo oltre, dove l’uomo comune non vede e rivelare così l’assoluto. Per questo motivo, l’arte appare come il valore più alto; questo culto religioso dell’arte ha dato origine al fenomeno dell’estetismo. L’esteta è colui che assume come principio regolatore della sua vita non i principi morali di bene e male, o di giusto e sbagliato, ma solo il bello, ed è esclusivamente in base ad esso che agisce e giudica la realtà. Arte e vita per lui si confondono, nel senso che la seconda è assorbita totalmente nella prima; tutta la realtà è filtrata attraverso l’arte, ogni cosa che vede, come un bel paesaggio e un bel viso, lo associa ad un viso, ad un paesaggio immortalato dal verso di un poeta. Ogni aspetto che incontra, egli lo trasfigura sovrapponendo su di esso la memoria di un capolavoro artistico. L’esteta, va continuamente alla ricerca si sensazioni rare e squisite, circondandosi di oggetti preziosi, quadri, stoffe e gioielli; prova orrore per la banalità e la volgarità della gente comune, che resta sorda al Bello, vera e propria religione. Ne risulta che, il poeta si rifiuta di farsi banditore di idealità morali e civili; l’arte rifugge dalla rappresentazione della realtà storica e sociale e si chiude in una squisita celebrazione di sé stessa, diviene cioè arte pura, poesia pura. Se la poesia è rivelatrice del mistero dell’assoluto, il linguaggio non può più essere strumento di una comunicazione logica, razionale, ma si propone di agire in una zona più profonda e oscura, assumendo un valore evocativo e suggestivo. Si realizza una vera e propria rivoluzione del linguaggio poetico; se per tutta la tradizione precedente resisteva il nucleo di un determinato significati della parola, ora questo significato si fa labile, evanescente o scopare del tutto. Alle immagini nitide e distinte, si sostituisce l’impreciso, il vago, l’indefinito, che solo è capace di evocare sensi ulteriori e misteriosi. La parola smarrisce la sua funzione di strumento comunicativo immediato e recupera quella ancestrale di formula magica, capace di rivelare l’ignoto. In questo modo, la poesia diviene incomprensibile. Anche se il poeta vuole comunicare, lo fa in forme allusive, enigmatiche, rivolte a pochi iniziati, poiché solo loro sono in grado di accedere al mistero e di comprendere il suo linguaggio, il poeta non parla ad altri che a sé stesso. Questo dimostra il carattere aristocratico dell’arte decadente, che rifiuta di rivolgersi ad un pubblico borghese, ritenuto mediocre e volgare. La scelta è dettata anche dalla nascita della cultura di massa, che offre al pubblico prodotti fatti in ‘serie’, meccanicamente ripetitivi. Per questo, l’artista, sente il bisogno di difendersi, di differenziarsi e si rifugia nel linguaggio cifrato ed ermetico per salvare l’arte vera. Si delinea così una frattura tra artista e pubblico, tra intellettuale e società, frattura che esaspera quella già in atto nell’età romantica. Le tecniche espressive: vari sono i mezzi tecnici attraverso i quali lo scrittore decadente ottiene questi effetti di segreta suggestione. Innanzi tutto è la musicalità: la parola vale non tanto come significante logico, ma come pura fonicità, che si carica di valori evocativi e suscita echi profondi. Nella visione decadente, la musica è la suprema fra le arti, perché è la più indefinita, svincolata da ogni significato logico e referenziale, capace di agire sulle parti più oscure della psiche, creando una comunione mistica con l’assoluto. Nell’anima decadente, la musica provoca vere e proprie estasi, in cui sembra rivelarsi l’ineffabile. La trasformazione della parola poetica in musica, è esplicitamente teorizzata proprio in apertura dell’Arte poetica di Verlaine (1882), che si può considerare il manifesto tecnico della nuova letteratura decadente. In secondo luogo, cadono nella poesia decadente i nessi sintattici tradizionali: la sintassi si fa vaga e imprecisa, altamente ambigua. Anche le parole assumono sfumature o significati diversi da quelli comuni. Il linguaggio analogico e la sinestesia Lo strumento linguistico più usato è quello metaforico, analogico. La metafora era una figura retorica ben conosciuta e ampiamente conosciuta sin dalla poesia antica, codificata nei trattati di retorica. Ma, nella poesia decadente, essa non ha più nulla del tradizionale tropo, inteso come ornamento dell’espressione, ed appare ben diversa dalla metafora barocca, che era un gioco ingegnoso, lucidamente regolato dall’intelligenza: la metafora 17 segnalava per il suo slancio entusiastico, per l’espansione dell’io; mentre il Decadentismo è contrassegnato da un senso di stanchezza, estenuazione, languore e smarrimento, da un presentimento di fine e di sfacelo che inibisce ogni slancio entusiastico e induce quindi a ripiegarsi nella propria “malattia” (già nel Romanticismo, però, erano presenti atteggiamenti vittimistici, stati di cupa malinconia, che inducevano a vagheggiare la morte). La letteratura romantica mirava ad ambizioni costruttive, mirava a vaste costruzioni concettuali ed artistiche; il languore decadente, però, impedisce a queste ambizioni smisurate di realizzarsi. Non si punta più alla totalità, ma al frammento, il mondo non ha più centro, proprio come l’arte; il singolo ha valore tanto quanto la totalità . Per questo, la letteratura decadente tende ad opere brevi, dense, ama il frammento slegato da un tutto organico. Ne deriva che, se lo slancio verso l’ideale consentiva agli scrittori romantici forme di impegno, trattazione di grandi problemi, l’artista decadente rifiuta ogni tipo di impegno e afferma il principio della poesia pura, non contaminata da intenti morali, politici e sociali. Questa chiusura, porta il decadente ad esaltare l’artificio, la complicazione, ciò che è prodotto di un lavoro difficile; mentre il Romanticismo esaltava la forza creatrice immediata del genio., ponendo come valore supremo la natura, tutto ciò che spontaneo e immediato. A ciò, fa eccezione la fase superomistica di D’Annunzio, che presenta ancora una forte tensione verso l’ideale. Ma sappiamo che il suo slancio energetico è nient’altro che il tentativo di mascherare la debolezza dell’anima dannunziana e l’attrazione morbosa del disfacimento e morte. La continuità tra Romanticismo e Decadentismo consiste essenzialmente nell’omogeneità delle condizioni materiali di vita nell’arco del secolo: dal punto di vista economico, tra primo e secondo ottocento non c’è frattura, ma sviluppo organico. La crisi della coscienza, il rifiuto della realtà, le tematiche negative, sono tutti fattori che accomunano Romanticismo e Decadentismo, si possono collegare alle reazioni di poeti e artisti di fronte ai tratti più inquietanti del moderno assetto capitalistico: lo sconvolgimento delle forme di vita tradizionali prodotto dalla Rivoluzione industriale, le crisi cicliche di sovrapproduzione che seminano rovina e miseria, la “reificazione”, cioè la riduzione dei rapporti umani a rapporti tra le merci. Gli aspetti più specifici del Decadentismo, invece, possono essere messi in relazione con gli sviluppi che caratterizzavano l’Europa di fine secolo. Innanzitutto, la grande industria, con grande impiego di macchine, con produzione di massa, la razionalizzazione del sistema produttivo. Il meccanismo produttivo si fa sempre più impersonale, l’individuo non ha più potenza dinnanzi ai giganteschi apparati impersonali dell’economia. Questa organizzazione, dà vita alla società di massa, dove gli individui perdono la loro fisionomia personale, si riducono a rotelle di un ingranaggio sempre più perfezionato, che ne influenza abitudini, idee e scelte. La crisi dell’individuo, che caratterizza la cultura decadente, il senso di una malattia che corrode l’Io e lo spinge a rifiutare il mondo esterno chiudendosi in sé stesso o fuggendo altrove, oppure abbandonarsi agli impulsi nichilistici dell’autoannientamento, hanno le loro radici in questi processi. Si fa strada anche un senso di smarrimento e di impotenza dell’individuo di fronte ad una realtà complessa ed enigmatica, che incombe su di lui, minacciando di schiacciarlo. Il motivo è particolarmente sentito dagli intellettuali perché le trasformazioni sociali li investono violentemente. Nell’apparato industriale e finanziario, l’intellettuale umanista tradizionale non trova più posto, è pinto ai margini e si sente inutile e frustato. I nuovi processi lo declassano anche materialmente, dandogli funzioni dequalificanti e ripetitive. A questo punto, l’intellettuale si sente ridotto al minimo, trascurabile ingranaggio di una società di massa, proprio per questo motivo reagisce disperatamente, accentuando la sua diversità e la sua eccezionalità attraverso il superomismo, l’estetismo, il maledettismo, che possono essere letti come un tentativo di esorcizzare e mascherare una condizione avvilente di declassazione e massificazione. Il fenomeno si era presentato sin dagli inizi dell’età del moderno capitalismo industriale, gli scrittori più sensibili del Romanticismo subito lo avevano subito colto, riflettendolo attraverso eroi intellettuali deboli, smarriti e schiacciati dalla realtà, oppure, per reazione, ribelli, esso a fine secolo si fa grande, assumendo proporzioni macroscopiche. Ormai, inserito in quel meccanismo, scrivere per lo scrittore significa solo produrre per il mercato, in questo modo il libro si riduce sempre più a merce. L’artista, allora, cerca di reagire rifiutando si rivolgersi al pubblico comune, individuando una cerchia ristretta di iniziati a cui indirizzare le proprie opere e accentuando le caratteristiche ermetiche. Un terzo meccanismo minaccia di schiacciare lo scrittore: è il conflitto tra capitale e lavoro, da un lato il proletariato, sotto la spinta delle teorie marxiste, che si pone sempre più in antagonismo con il capitalismo, dandosi una salda organizzazione; dall’altro la borghesia egemone, che dinnanzi a questa minaccia si chiude in 20 difesa dei propri interessi, abbandonando i principi liberali e democratici, razionalistici e progressisti, propri della sua fase inziale. Dinnanzi a questo scontro, l’intellettuale si sente sempre più smarrito, è estraneo sia agli interessi borghesi, che sente avversi alla propria concezione di vita (fa eccezione il superuomo dannunziano, che si fa portatore del grande capitale contemporaneo), sia a quelli del proletariato. La declassazione lo spinge sempre più vicino alla condizione proletaria, ma egli ne ha orrore, e tende a difendersene accentuando il suo aristocratico disprezzo per le classi basse, rivendicando la sua superiorità spirituale. Tutto questo induce l’artista fuggire dalla realtà (già presente nel Romanticismo), chiudendosi sempre più in sé stesso, cercando un ricompenso alla sua impotenza e alla sua emarginazione nell’irrazionale e in un vago misticismo; si può capire come la ‘malattia’ decadente sia sintomo di una crisi epocale. E’ necessario, inoltre, esaminare i rapporti tra Naturalismo-Positivismo e Decadentismo, anche se c’è una forte antitesi tra le due correnti, non bisogna cadere nell’errore di credere che il Decadentismo venga dopo il Naturalismo, come effetto del suo esaurimento. Come si è visto, molti aspetti del Decadentismo non sono per niente nuovi, ma sono solo l’accentuazione di motivi già presenti nel Romanticismo del primo Ottocento. In secondo luogo, Decadentismo e Naturalismo sono fenomeni culturali paralleli e compresenti lungo gli anni Settenta-Ottanta, solo a metà degli anni Novanta inizia ad esaurirsi il Naturalismo, lo stesso discorso si può fare per la letteratura italiana: negli anni Ottanta-Novanta, mentre scrivono D’Annunzio, Pascoli, Fogazzaro, i nostri più tipici autori decadenti; sono ancora in piena attività i veristi, Verga, Capuana, De Roberto. Non si può dire dunque che il Decadentismo sia frutto di una situazione storica diversa e successiva rispetto al Naturalismo-Verismo; le due correnti si possono considerarsi due momenti successivi nello sviluppo della storia letteraria, prodotti in contesti diversi, in modo tale che l’una nasca dalle ceneri dell’altra, ma appaiono tendenze parallele, in un certo modo complementari. Le opposte fisionomie delle due correnti si possono solo spiegare con il fatto che esse sono espressioni di gruppi intellettuali diversi, che si collocano nel medesimo contesto storico. Gli scrittori naturalistici sono integrati nell’ordine borghese, ne accettano l’orizzonte culturale, costituito dalla fiducia nel progresso e dal materialismo; al massimo possono criticare gli aspetti più aberranti del sistema, ma non si oppongono ad esso. Con il passare del tempo, tali posizioni diventano sempre più insostenibili man mano che si accentuano le trasformazioni della struttura socio-economica, la fiducia progressiva nella scienza si esaurisce nello scrittore e ciò dà ragione dell’esaurirsi del Naturalismo e dell’affermarsi del Decadentismo. Gli scrittori decadenti sono quelli che più sentono le contraddizioni del sistema e i meccanismi di esclusione e di emarginazione, per questo motivo rifiutano l’ordine esistente con i loro atteggiamenti “maledetti”, uscendo totalmente dall’orizzonte borghese, con le loro scelte antiscientiste, irrazionaliste. L’atteggiamento antiborghese degli intellettuali, però, si va affievolendo man mano che la borghesia egemone si allontana dalle sue posizioni positiviste e progressive, orientandosi ai miti dell’irrazionalismo, assumendo posizioni reazionarie. Decadentismo e Naturalismo, poi, non sono solo per buona parte compresenti cronologicamente, ma sono anche due soluzioni letterarie che nel fluire storico spesso appaiono mescolate tra loro: aspetti decadenti sono ravvisabili in scrittori naturalisti e viceversa. Per esempio, in Zola, si può riconoscere un vitalismo panico, il compiacimento per atmosfere malate e una tendenza a costruire complesse simbologie. Viceversa, Huysmans , autore di quel codice del Decadentismo che è Controcorrente, esordisce come seguace di Zola. Agli esordi, D’Annunzio, sotto la suggestione delle novelle verghiane, in Terra vergine( 1882) si ha una mescolanza tra il verismo e un compiacimento del tutto decadente e irrazionalistico. Nella concretezza del processo storico, non esistono il Decadentismo, come non esistono in Naturalismo e l’Illuminismo, ma esistono solo scrittori che scrivono opere, affrontano certi temi con affinità anche con altri autori di altre epoche. Siamo noi che diamo categorie come Naturalismo o Decadentismo per organizzare i fenomeni, classificandoli. Alcuni hanno collegato il Decadentismo a tutto il Novecento, altri invece lo ricollegano agli ultimi anni dell’Ottocento e inizi Novecento; quest’ultimo è l’orientamento che oggi prevale. E’ vero che molti fenomeni successivi hanno le loro radici nel Decadentismo, ad esempio il Futurismo, il Surrealismo, il Dadaismo, e il Crepuscolarismo; ma questi anche se nati nella crisi degli ultimi decenni del Ottocento, si collocano ormai in contesti culturali diversi, fanno riferimento a visioni diversi della realtà ed approdano a diverse soluzioni formali. 21 E’ opportuno quindi restringere l’uso della categoria a determinati fenomeni che si presentano a fine Ottocento: senso di esaurimento della civiltà, vagheggiamento della morte, senso del mistero, estetismo, superomismo. In Italia, gli scrittori più rappresentativi del Decadentismo , sono Pascoli e D’Annunzio, Fogazzaro oggi considerato tra gli autori minori; Svevo e Pirandello hanno per certi aspetti le radici in quel clima, ma poi se ne distaccano per una più lucida consapevolezza critica, con una visione del mondo più moderna . Il termine decadentismo ebbe all’inizio una connotazione negativa, come quello di Croce, che dava un giudizio negativo sulla “malattia” decadente. Oggi è chiaro che, il Decadentismo, non ha implicato per nulla una decadenza della cultura, anzi si è dimostrato come un terreno fertile, da cui sono scaturite opere innovative e di grande profondità. La “malattia” decadente, come anche quella romantica, permette all’intellettuale di andare nel profondo della sua epoca, esaminandone la crisi. GABRIELE D’ANNUNZIO La vita di D’Annunzio può essere considerata una delle sue opere più interessanti, proprio perché i principi dell’estetismo affermavano che bisognava fare della propria vita un’opera d’arte e D’Annunzio fu costantemente teso al raggiungimento di questo obiettivo. Nacque ne 1863 a Pescara, da un’agiata famiglia borghese, studiò nel collegio Cicognini di Prato. Fu molto precoce, e per questo esordì nel 1879 con un libretto in versi, Primo vere, che suscitò una certa risonanza, attirando l’attenzione. A 18 anni, si trasferì a Roma, ottenuta la licenza liceale, e lo fece per frequentare l’università. Ma in realtà abbandonò presto gli studi per vivere tra salotti mondani e redazioni di giornali. Acquistò subito notorietà, producendo versi e opere narrative, ma anche articoli giornalistici, che spesso suscitavano scandalo per i suoi contenuti erotici, attraverso una vita altrettanto scandalosa. In questi anni, D’Annunzio si crea la sua maschera da esteta, dell’individuo superiore che rifiuta la mediocrità borghese, rifugiandosi in un mondo di pura arte. Questa fase estetizzante attraversò una crisi alla svolta degli anni Novanta, riflettendosi anche nella produzione letteraria. Così lo scrittore si impegnò per trovare nuove soluzioni, e le trovò nel superuomo, un nuovo mito, ispirandosi alle teorie d Nietzsche. Nella realtà, D’Annunzio mirava a creare l’immagine di una vita eccezionale, sottratta alle norme del vivere comune. a creare intorno a lui un alone di mistero, contribuivano anche i suoi amori, in particolare quello duraturo con la grande attrice Eleonora Duse. Nonostante questo rifiuto per la vita comune la ricerca per una vita d’eccezione, lo scrittore era legato al sistema economico del suo tempo: con le sue esibizioni e i suoi scandali, voleva mettere in primo piano nell’attenzione pubblica, in modo tale da vendere meglio la sua immagine e i suoi prodotti letterari. Nonostante fosse pagato molto bene, questi soldi non gli bastavano mai per la sua vita lussuosa; quindi, il culto della bellezza ed il “vivere inimitabile”, risultavano essere finalizzati al loro contrario, a ciò che lo scrittore disprezzava, ovvero denaro e esigenze del mercato: proprio lo scrittore più ostile al mondo borghese, era in realtà più legato alle sue leggi , proprio l’autore che disprezzava la massa, era costretto a sollecitarla. Oltre a questa tendenza da superuomo, D’Annunzio vagheggiava anche ogni attivismo politico. La politica e il teatro: Per questo motivo, nel 1897, tentò l’avventura parlamentare, come deputato dell’estrema destra, dato che mostrava disprezzo per gli ideali democratici ed egualitari. Il suo sogno era la restaurazione della grandezza di Roma e una missione imperiale dell’Italia, del dominio di una nuova aristocrazia, che ripristinasse il valore della bellezza, contaminato dal dominio borghese. Questo non gli impedì di passare alla sinistra, nel 1900; questa disponibilità ambigua è propria delle posizioni irrazionalistiche, estetizzanti e vitalistiche. Cercando uno strumento con cui agire direttamente sulle masse per imporre il suo verbo di “vate”, D’annunzio a partire dal 1989, si rivolse anche al teatro, che poteva raggiungere sicuramente un pubblico molto più ampio, con la rappresentazione della Città morta. Nonostante la sua figura stesse raggiungendo un grande successo, le sue idee e i suoi modi di fare erano adattati da molte persone; D’Annunzio fu costretto a fuggire il Francia a causa dell’accanimento dei suoi creditori, nel 1910. Scrisse anche opere teatrali in francese, senza interrompere però i rapporti con la sua patria. Guerra e avventura fiumana: con lo scoppio del primo conflitto mondiale, D’Annunzio tornò in Italia, seguendo una linea interventista e galvanizzando le masse verso questa direzione, affinché l’Italia entrasse nel conflitto mondiale. Si arruolò come volontario, quando aveva già 52 anni, attirando su di se l’attenzione con alcune avventure eccezionali, come “la 22 • Il fuoco • Forse sì forse che no Le opere drammatiche L’ideologia superomistica ha un peso determinante nell’approdo di D’Annunzio al teatro, a partire dal 1896, con la composizione della Città morta. Il teatro, rivolgendosi alle moltitudini, può essere un più potente strumento di diffusione del verbo superomistico e può dare un contributo a rinsaldare la coscienza della stirpe latina. Al teatro, si avvicinò anche per la suggestione della grande Eleonora Duse, con cui intrattenne una lunga relazione, a partire dal 1894. E’ ovvio che la drammaturgia dannunziana rifiuti le forme del teatro del tempo, il teatro borghese e realistico, che metteva in scena gli eventi della quotidianità. D’Annunzio ambisce ad un teatro “di poesia”, riportando in vita l’antico spirito tragico, che rappresenti personaggi d’eccezione, passioni, conflitti psicologici fuori dal comune. Molte di queste opere, attingono agli argomenti della storia ( Francesca da Rimini, Parisina, la Nave) o dal mito classico (Fedra), con un compiacimento archeologico nel ricostruire le forme del passato. Non mancano drammi ambientati nel presente (La città morta, La gloria, La Gioconda). Nella città morta i personaggi vivono nel presente attraverso la scoperta archeologica delle tombe degli Atridi, le cui colpe rivivono dentro l’eroe, tormentato da un amore incestuoso. In queste “tragedie”, ricorre costantemente la tematica superomistica, ma anche qui, questa tensione superomistica si scontra con forze di segno contrario, che corrodono lo slancio energetico dell’eroe, vanificando tutti i suoi sforzi. L’eroe, come sempre, trova nella donna la Nemica che ostacola la sua missione, oppure urta contro una realtà borghese meschina, che frusta la sua ansia di azione eroica. A parte dai drammi storici e quelli moderni, si colloca La figlia di Iorio (1904), definito tragedia pastorale. Lo scrittore ambienta la vicenda in un Abruzzo primitivo, magico, superstizioso, mitico e fuori dal tempo e si compiace di insistere su riti, credenze, oggetti tipici della civiltà arcaica, con un linguaggio che riproduce le formule del linguaggio popolare. Qui risulta non il gusto documentaristico, ma quello per il decadente, per il barbarico ed il primitivo, fascino esercitato dal popolo contadino, emblema dell’irrazionale. Le Laudi L’approdo all’ideologia superomistica coincide con la progettazione di vaste e ambiziose costruzioni letterarie, commisurate al compito di diffondere il verbo del “vate”. Come si è visto, D’Annunzio disegna cicli di romanzi che spesso però non porta a termine, con intenti simili affronta anche la produzione drammatica; infatti nel campo della lirica vuole affidare la summa della sua visione a sette libri di Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: un progetto di celebrazione totale. Nel 1903, erano terminati e pubblicati i primi 3 libri: Maia, Elettra e Alcyone ( i termini derivano da nomi delle Pleadi). Un quarto libro, Merope, viene messo insieme nel 1912. Postumo fu aggiunto un quinto libro, Asterope, che comprende le poesie ispirate alla Prima guerra mondiale. Gli ultimi due libri, anche se annunciati, non furono mai scritti. Maia Il primo libro, non è una raccolta di liriche, ma un lungo poema unitario di oltre ottomila versi. L’opera presenta una novità formale: D’Annunzio non segue più schemi della metrica tradizionale, né quelli della metrica barbara, ma adotta il verso libero: si susseguono senza ordine preciso i tipi di versi più vari, dal novenario al quinario, con rime ricorrenti senza schema fisso. Il fluire libero, irruente e concitato del verso, risponde al carattere intrinseco del poema, che si presenta come pervaso di slancio dionisiaco e vitalistico . L’intento del poeta è quello del poema totale, che dia voce alla sua ambizione panica a raccogliere tutte le infinite e diverse forme della vota e del mondo. Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio realmente compiuto da D’Annunzio in Grecia nel 1895. L’io protagonista si presenta come un eroe ulisside, proteso verso tutte le più multiformi esperienze, pronto a spezzare ogni limite e divieto, pur di raggiungere le sue mete. Il viaggio nell’Ellade e l’immersione in un passato mitico, alla ricerca del vivere sublime, all’insegna della forza e della bellezza. Il mito classico vale a trasfigurare questo presente, riscattandolo dal suo squallore, il passato modella in sé un futuro da ricostruire. Per questo, la civiltà industriale si trasforma in nuova forza e bellezza ed i mostri del presente diventano entità mitiche. 25 Il poeta arriva ad inneggiare gli aspetti tipici della modernità, come le macchine, le capitali, la finanza internazionale, poiché queste contengono la forza vitale e le energie che possono essere indirizzate a fini eroici e imperiali. Questa è l’ultima tappa di quella ricerca di un ruolo dell’intellettuale all’interno della civiltà borghese moderna, che era iniziata con la crisi dell’esteta e la scoperta del mito superomistico. Dopo la fuga estetizzante nella bellezza del passato, D’Annunzio aveva affidato all’intellettuale-superuomo il compito di intervenire attivamente nella realtà, facendo rivivere la bellezza e l’eroismo del passato in un nuovo Rinascimento e cancellando così un presente infame. La contrapposizione alla realtà moderna era ancora radicale. Con Maia, si ha una svolta di 180°: nel mondo moderno D’Annunzio scopre una segreta bellezza, un nuovo sublime, forza travolgente ma grandiosa del capitalismo. Il poeta non si oppone più alla realtà borghese moderna, ma si propone cantore dei suoi fasti, guida le sue imprese da “vate”, trasfigurandola in un’aura di mito. Ma come dietro al vitalismo si nasconde l’attrazione morbosa per la morte e il disfacimento, così dietro a questa celebrazione dell’epica eroica della modernità, è facile intravedere la paura e l’orrore del letterato umanista dinnanzi alla realtà industriale, che tende ad emarginarlo del tutto. L’originalità di D’Annunzio consiste nel fatto che egli non si chiude a contemplare vittimisticamente la propria impotenza, ma reagisce costruendosi sterminati sogni di onnipotenza. Invece di fuggire dinnanzi a ciò che lo aggredisce, la grande industria, la maschera e la società di massa, canta e celebra per non rassegnarsi alla scomparsa, proprio quella realtà che minaccia di spazzarlo via. Questo è un modo dell’intellettuale arcaico di fare i conti con la modernità, per lottare contro i processi che tendono ad annientare la sua figura storica. Il prezzo pagato da D’Annunzio è alto: egli assume la figura pubblica del propagatore dei miti più oscurantisti e reazionari (il dominio della pura stirpe latina sul mondo, il disprezzo dei deboli e trionfo della forza) Elettra Nel secondo libro, Elettra, l’impianto mitico, le ambizioni filosofiche e profetiche lasciano il posto all’oratoria della propaganda politica diretta. La struttura ideologica ricalca quella di Maia. Anche qui, c’è un polo positivo rappresentato da un passato e da un futuro di gloria e di bellezza, che si contrappone ad un polo negativo, cioè un presente da riscattare. Medioevo e Rinascimento italiani sono l’equivalente funzionale dell’Ellade classica in Maia. Costante è anche la celebrazione della romanità in chiave eroica, che si fonde con quella del Risorgimento. Cantando questo passato glorioso, D’Annunzio si propone esplicitamente come “vate” di futuri destini imperiali, coloniali e guerreschi dell’Italia. Alcyone Il terzo libro delle Laudi, appare molto lontano dagli altri due. Al discorso politico, celebrativo e polemico, si sostituisce il tema lirico della fusione panica con la natura; e al motivo dell’azione energetica si sostituisce un atteggiamento di evasione e contemplazione. Il libro è come il diario ideale di una vacanza estiva: le liriche si ordinano in un disegno organico, che segue la parabola della stagione, dal periodo piovoso della primavera al lento declino di settembre. La stagione estiva è vista come la più propizia ad eccitare il godimento sensuale, e a consentire la pienezza vitalistica: l’io poetico si fonde con il fluire della vita del Tutto, si identifica con le varie presenze naturali, animali, vegetali, minerali. Alcyone, sul piano formale è alla ricerca di quella musicalità, e tende a dissolvere la parola in sostanza fonica e melodica. Per questo motiivo, quest’opera, è stata celebrata, poiché è stata vista come poesia “pura”, sgombra dal peso dell’ideologia superomistica e delle sue finalità pratiche., rispondente al nucleo più genuino dell’ispirazione del poeta, il rapporto sensuale con la natura. In realtà, l’esperienza panica cantata dal poeta, si inserisce perfettamente nelle Laudi ed è nient’altro che una manifestazione del superomismo: solo al superuomo è concesso il rapporto di contatto diretto con la natura, attingendo ad una vita superiore, al di là di ogni limite umano . Solo la parola del superuomo può esprimere l’armonia segreta della natura., raggiungere e rivelare l’essenza misteriosa delle cose. Né manca in Alcyone la ripresa di alcuni motivi ideologici sfruttati negli altri due libri: l’esaltazione di una violenta vitalità dionisiaca, la prefigurazione di un futuro di rimane romanità imperiale o la febbre di vivere tutte le esperienze, al di là di ogni limite. Alcyone si pone come capostipite, accanto alla poesia pascoliana, della poesia italiana del Novecento. 26 GIOVANNI PASCOLI Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855, da una famiglia della piccola borghesia rurale di condizione abbastanza agiata. Il padre, Ruggero, era fattore della tenuta La Torre, dei principi Torlonia; la sua era una famiglia molto numerosa, Giovanni era il quarto di dieci figli, ma la vita serena di questo nucleo famigliare venne sconvolta da una tragedia, che segnò profondamente la vita di Giovanni: il 10 agosto 1867, mentre tornava a casa dal mercato di Cesena, Ruggero Pascoli fu ucciso a fucilate, probabilmente da un rivale che mirava a prendere il suo posto di amministratore. Ma non furono mai individuati sicari e mandanti, e questo fece crescere nel giovane Giovanni un grande senso di ingiustizia. La morte del padre, creò problemi economici alla famiglia, che dovette trasferirsi a San Mauro e poi a Rimini, dove Giacomo 8figlio maggiore) aveva trovato lavoro. Al primo lutto, ne seguiranno altri negli anni seguenti: nel 1868 morirono la madre e la sorella maggiore, nel ’71 il figlio Luigi e nel ’76 Giacomo. Giovanni, sin dal 1862, era entrato nel collegio degli Scolopi ad Urbino, con i fratelli Giacomo e Luigi, dove ricevette un’educazione classica, base essenziale della sua cultura. Nel 1871, dovette lasciare il collegio per motivi economici, ma grazie alla generosità di un suo professore potette continuare gli studi a Firenze; qui, grazie all’esito brillante di un esame, ottenne una borsa di studio nel 1873 presso l’Università di Bologna, frequentando la facoltà di Lettere. Durante il periodo universitario, Pascoli subì l’influenza socialista, e partecipò a manifestazioni contro il governo e fu arrestato nel 1879, dovendo trascorrere alcuni mesi in carcere, alla fine venne assolto. L’esperienza fu talmente drammatica, che Pascoli continuò a seguire il socialismo, ma con distacco dalla politica militante; si può parlare di un socialismo umanitario, che propugnava bontà e fraternità tra gli uomini. Ripresi gli studi, si laureò nel 1882, con una tesi sull’antico lirico greco Alceo. Iniziò subito dopo la carriera di insegnante liceale, prima a Matera, poi dal 1884 a Massa. Qui chiamò a vivere le due sorelle Ida e Mariù, ricostruendo quel “nido familiare” che tutti avevano distrutto. Poi passò ad insegnare a Livorno, dal 1887, fino al 1895 (sempre con le due sorelle). La chiusura gelosa del nido e l’attaccamento alle sorelle, rivelano la fragilità della struttura psicologica del poeta, che fissato da traumi infantili, cerca dentro le pareti del nido la protezione da un mondo esterno, quello degli adulti, che gli appare minaccioso ed insidioso . A questo, si aggiungono i ricordi dei suoi morti, che vagheggiano sempre in questo “nido”, inibendo ogni rapporto tra il poeta e il mondo esterno, ogni relazione, che viene sentita come tradimento nei confronti dei legami oscuri del nido. Questo, impedisce anche ogni tipo di rapporto con l’altro: non ci sono relazioni amorose nella vita del poeta, conducendo una vita forzatamente casta. In lui è presente il sogno di un vero nido, in esercitare la funzione di padre, ma il legame ‘ossessivo’ con il nido glielo impedisce; la vita amorosa ha, ai suoi occhi, un fascino torbido, qualcosa di proibito, ma contemplare solo da lontano, con palpiti e tremori. Le esigenze affettive del poeta, a livello conscio, sono soddisfatte dal rapporto sublimato con le sorelle, che hanno una funzione materna, mentre lui esercita sulle sorelle una funzione “paterna”. Per questo motivo, il matrimonio di Ida nel 1895, fu percepito come un tradimento e anche quando si profilò la possibilità del matrimonio di Pascoli con la cugina, Giovanni dovette rifiutare per gelosia di Mariù. Queste sono le premesse per comprendere la poetica di Pascoli, le basi da cui muove il carattere turbato, tormentato e morboso della poesia di Pascoli , carattere che si cela dietro l’apparenza dell’innocenza e del candore fanciulleschi. Nel 1895, dopo il matrimonio di Ida, Pascoli prese in affitto una casa a Castelvecchio di Barga. Qui, con Mariù, trascorreva lunghi periodi, lontano dalla vita cittadina, che destava in lui orrore, mentre la campagna costituiva ai suoi occhi un Eden di serenità e pace, di sentimenti semplici e puri. La sua vita era appartata, senza scosse particolari, nella cerchia chiusa del suo insegnamento da professore; una vita esteriormente serena, ma profondamente turbata nell’intimo da oscure angosce e paure causate dall’addensarsi di incombenti cataclismi storici (che infatti porteranno al Primo conflitto mondiale nel 1914, due anni dopo la sua morte). Nel 1895, Pascoli aveva ottenuto la cattedra di Grammatica greca e latina all’Università di Bologna, poi di letteratura latina a Messina, dove insegnò fino al 1903. Passò poi a Pisa, ed infine subentrò al suo maestro Carducci nella cattedra di Letteratura italiana a Bologna. 27 Il poeta non rifiutò gli ideali socialisti ma rifiutando la dottrina marxista, li trasformò in una fede umanitaria, nutrita di elementi che provenivano dal cristianesimo primitivo, dal francescanesimo. Per lui, il Socialismo, era un appello alla bontà, alla bontà, alla fraternità, alla solidarietà tra gli uomini, voleva dire difesa dei poveri e alleviare le pene degli infelici. Alla base c’era un radicale pessimismo, la convinzione che la vita umana non è che dolore e sofferenza , che sulla terra domina solo il male: per questo motivo, gli uomini devono smetterla di farsi del male tra loro, ma al contrario, amarsi e soccorrersi a vicenda di fronte alle dure dell’esistenza . Dal cristianesimo primitivo, Pascoli traeva la concezione del valore morale della sofferenza, che purifica ed eleva, le lacrime possono essere qualcosa di positivo, nel senso che chi soffre è reso dalla sofferenza moralmente superiore. Il dolore, quindi, deve insegnare il perdono, non rancori e odi. Questi rapporti, secondo Pascoli, dovevano esistere nei rapporti tra le classi. Ogni classe, contadini, operai e borghesi, doveva conservare la sua distinta fisionomia, ma doveva collaborare con tutte le altre con amore fraterno e spirito di solidarietà; era necessario evitare la bramosia di ascesa sociale, che provocava scontri, frustrazione e infelicità. Il segreto dell’armonia consiste nell’accontentarsi di ciò che si ha, che viva felice di ciò che ha. La proprietà è per poeta un valore sacro e intangibile, la base per la dignità umana; il poco è preferito al tanto, il piccolo al grande.: la felicità è possibile solo nella dimensione del piccolo podere. Pascoli mitizza così il mondo dei piccoli proprietari agricoli, come un mondo sereno e saggio, baluardo che difende valori fondamentali come, la famiglia, la solidarietà e la laboriosità . Questo era un mondo che stava scomparendo nel periodo di Pascoli, schiacciato dai processi di concentrazione capitalistica. Al posto dei piccoli proprietari, subentrano grandi entità impersonali, come banche e società anonime. Il fondamento dell’ideologia di Pascoli è la celebrazione del nucleo familiare, che si raccoglie entro la piccola proprietà. Ma questo senso geloso della proprietà, del “nido” chiuso, si allarga ad inglobare l’intera nazione; si collocano in questa zona intima le radici del nazionalismo pascoliano. Egli sente molto il tema dell’emigrazione, molto forte in quel periodo: l’italiano è strappato dal nido, dove ci sono radici profonde del suo essere. L’Italia è vista come una patria povera, incapace di sfamare i suoi figli e deve esportare mano d’opera nei paesi stranieri, dove saranno schiavizzati, trattati anche con brutale violenza. A questo punto, Pascoli ritiene che siano legittime quelle guerre condotte dalle nazioni proletarie per le conquiste coloniali, non sono guerre di offesa ma di difesa. Nel 1911, Pascoli ritiene che la guerra in Libia sia un momento di riscatto della nazione italiana, dando una coscienza nazionale alle sue plebi e attribuendo dignità civile attraverso il possesso della terra. I temi della poesia pascoliana Si è sottolineato come la poesia pascoliana riveli una sensibilità decadente. Ma non è facile stabilire quanto Pascoli conosca direttamente la letteratura decadente simbolista europea di fine Ottocento. Tuttavia, Pascoli nella fisionomia di intellettuale oltre che nella sua vita quotidiana è l’esatto contrario del poeta “maledetto”, che rifiuta la normalità borghese e ostenta atteggiamenti di rottura nei confronti dei suoi valori. Nel suo vissuto, Pascoli incarna l’immagine del piccolo borghese appagato dalla mediocrità della sua vita , chiuso nella sfera protettiva degli affetti domestici, degli studi, del suo mestiere di insegnante, nelle mura della sua casetta. Dal punto di vista letterario, l’immagine del poeta corrisponde a quella dell’uomo: Pascoli si presenta come il celebratore della realtà piccolo-borghese e dei suoi valori. Una parte molto ampia della produzione letteraria di Pascoli, ha come fine quello di proporre una determinata visione della vita, in nome di intenti pedagogici, moralistici e sociali. E’ una celebrazione de piccolo proprietario rurale, che grazie al suo piccolo campo riesce a sopravvivere e che deve accontentarsi di quello che ha, senza aspirare a volere di più. A questo filone “ideologico” appartiene anche la predicazione sociale e umanitaria, il sogno di un’umanità affratellata, che trova consolazione per il male di vivere nella solidarietà. Questa predicazione si avvale anche di miti, impegnati nel loro ruolo suggestivo, che trovano eco in un pubblico di lettori appartenenti allo stesso ambito sociale: il fanciullino, che è in fondo ad ognuno di noi, che rappresenta la nostra parte buona e ingenua e che può garantire la fraternità tra gli uomini, al di là dei conflitti di interessi; il nido familiare, caldo e protettivo, i cui componenti si possono stringere e trovare conforto. 30 Con il “nido” si collega il motivo ossessivamente ricorrente del ritorno dei morti, che spesso accompagna i versi pascoliani. La vicenda personale di Pascoli, della morte del padre, è trasformata dal poeta in una vicenda esemplare, da cui si può ricavare l’idea del male che c’è tra gli uomini, la necessità del perdono e della concordia. Proprio perché Pascoli crede nel valore pedagogico della poesia, può allargare la sua predicazione a temi più vasti, che investono l’intera umanità. Per questo può assumere anche la funzione di poeta “vate”, che canta le glorie della patria e indica gli obiettivi del suo riscatto ed esalta il compito di assicurare la coesione nazionale proprio dell’esercito. Mentre D’Annunzio offriva alle masse un piccolo borghesi un sogno evasivo di gloria, di lusso e lussuria, Pascoli radicava nel pubblico, certo più ristretto, le convinzioni profonde che esso già possedeva, ribadiva la fede in alcuni valori elementari, come la famiglia, la proprietà, la devozione e la fedeltà ai morti, l’accontentarsi del poco, la pietà per i sofferenti. La prova di questa sintonia tra pubblico e poeta è la sua fortuna scolastica: il linguaggio semplice, la tenuità apparente dei temi, l’insistenza su figure infantili, l’intento edificante; furono tutti elementi che portarono a prediligere questo modello nella scuola elementare: schiere di bambini impararono i suoi versi a memoria. Questa immagine di Pascoli fu accolta anche dalla critica, che parlò a lungo del poeta delle piccole cose e degli affetti familiari, del fanciullino cantore della bontà, dei valori domestici e civili; in realtà questa visione ne rimuoveva tutti gli aspetti più inquietanti. Oggi non si legge più in questa chiave Pascoli, anzi si prova anche un certo fastidio nel dipinto dato in questo senso. Le trasformazioni del clima culturale, con l’aiuto della critica, hanno portato alla luce un Pascoli del tutto diverso, inquieto, tormentato, visionario e morboso, che si inserisce nel Decadentismo europeo . E’ il Pascoli che è in continua analisi del mistero, che è al di là delle cose più usuali, è che sa rendere questa seconda presenza come qualcosa inquietante, e lo fa caricando le “piccole cose” di sensi allusivi e simbolici; così facendo, proietta nella poesia le sue ossessioni più profonde, portando alla luce i “mostri”, le zone oscure e torbide della psiche, forze profonde che possono stravolgere gli impulsi razionali. Al di là del poeta pedagogo, cantore della normalità piccolo borghese, si delinea un grande poeta dell’irrazionale, capace di raggiungere profondità inaudite. In questo, Pascoli è molto più radicale di D’Annunzio, perché le sue intuizioni spesso sono soffocate dal peso degli intenti ideologici, da una sovrabbondanza di scrittura che si riduce a maniera e artificio o al bisogno di compiacere i gusti del mercato. Perciò il poeta fanciullo può essere riconosciuto come il nostro scrittore più autenticamente decadente, riconoscendo un valore culturale del tutto positivo, trovando una tendenza che dà voce agli smarrimenti e alle angosce di un terribile periodo. I due Pascoli che abbiamo individuato, hanno una radice comune, hanno una radice comune, ovvero, sono connessi da legami profondi e necessari: la celebrazione del “nido”, delle piccole cose, della mediocrità appagata del piccolo borghese, della fraternità umana, è proposta proprio per erigere un baluardo rassicurante dinnanzi alle forze minacciose, che Pascoli avverte con angoscia e paura. Il poeta ha ben chiaro i processi contemporanei della concentrazione monopolistica, i conflitti tra le potenze che minacciano una prossima apocalisse bellica (infatti nel 1914, due anni dopo la sua morte, inizierà il Primo conflitto mondiale), i pericoli dell’instaurarsi di regimi totalitari e ne prova orrore. Sono queste le paure che lacerano la coscienza della modernità e fanno affiorare i “mostri” nascosti nel profondo. Chiudersi dentro il “nido” o il cantuccio del mondo agreste, il ripetersi sempre uguale del ciclo naturale e dei lavori campestri, assumono il valore di esorcismo, al fine di neutralizzare ciò che il poeta avverte muoversi nel fondo della sua anima. Ma, Pascoli sa anche scandagliare quel fondo buio, lasciarlo affiorare su pagina, guardare in faccia “i mostri”: è questa la sua grandezza. Le soluzioni formali Il modo nuovo di percepire il reale si traduce , nella poesia pascoliana, in soluzioni formali innovative, che aprono la strada alla poesia novecentesca. L’aspetto che forse colpisce di più, è quello sintattico. La sintassi di Pascoli è ben diversa da quella della tradizione poetica italiana, modellata sui classici e fondata u complesse gerarchie di proposizioni principali (classica sintassi carducciana e poi anche dannunziana): nei suoi componimenti poetici, la coordinazione prevale alla subordinazione, in modo tale che la struttura sintattica si frantuma in brevi frasi allineate, senza rapporti gerarchici tra loro, spesso collegate non da congiunzioni ma per asindeto. Spesso le frasi sono ellittiche, 31 mancano del soggetto, o del verbo, assumono lo stile nominale (cioè semplice successione di sostantivi e aggettivi). L’architettura della frase classica voleva che i dati del reale fossero chiusi in una rigorosa rete di rapporti logici, in cui ogni elemento fosse posto in relazione gerarchica con gli altri. La frantumazione pascoliana, rivela il rifiuto di sistemazione logica dell’esperienza, il prevalere dell’immediato, dell’intuizione, dei rapporti allusivi, suggestivi, che indicano i legami d corrispondenza segreta tra le cose. Questa sintassi traduce perfettamente il punto di vista pascoliano, una visione che mira a rendere il mistero, l’alone che circonda le cose, a scendere nel profondo della loro essenza; in questo modo svaluta e scompone i rapporti gerarchici abituali, grande e piccolo, importante e meno importante. La conseguenza p che, gli oggetti quotidiani e comuni, visti attraverso quell’ottica, presentano una fisionomia stranita, appaiono immersi in un sogno. Questo smarrimento dei moduli d’ordine, questo relativismo e apertura di prospettive, sono alcune delle caratteristiche tipiche della letteratura del Novecento. A livello del lessico, ci sono fenomeni analoghi. Pascoli non usa un alessico “normale”, fissato in un codice, come era proprio di tutta la tradizione monolinguistica della poesia italiana a partire da Petrarca; Pascoli mescola tra loro codici linguistici diversi, allinea fianco a fianco termini tratti da settori disparati . Non nascono tuttavia scontri di livelli, conflitti di registri, come se le cose convivono senza gerarchie, così avviene nelle parole che le designano. E’ un principio formulato nel Fanciullino: il poeta, così come vuole abolire la lotta tra le classi, così vuole abolire la “lotta” fra le classe di oggetti e di parole. Troviamo quindi nei suoi testi termini preziosi e aulici, della lingua dotta o ricavati da testi antichi, termini gergali e dialettali, riferitasi alla realtà campestre; una minuziosa e preziosa terminologia botanica ed ornitologica; termini dismessi e quotidiani del parlato colloquiale; parole provenienti da lingue straniere, come avviene in Italy ( espressioni inglesi, o inglesi italianizzate). Questa pluralità di codici linguistici, costituisce una vistosa infrazione della norma dominante nella poesia italiana . Quando si usa un determinato linguaggio, questo significa che del mondo si ha un’idea sicura e precisa, che si crede in un mondo certo, ben determinato, dove i rapporti tra l’io e il mondo sono ben determinati. Questo significa che il rapporto tra io e mondo in Pascoli è un rapporto critico, non più quello tradizionale. Grande rilievo hanno, nella poesia pascoliana, gli aspetti fonici, cioè i suoni che compongono le parole. Quelle che più colpiscono, sono le forme definite ‘pregrammaticali’ o ‘cislinguistiche’, quelle espressioni che si situano al di sotto del livello strutturato e non rimandano ad un significato concettuale. Sono in prevalenza espressioni onomatopeiche di uccelli (chiù, trr trr trr, chio chio, finch), o suoni di campane. Queste onomatopee non mirano ad una riproduzione puramente neutra del dato oggettivo: indicano un’esigenza di aderire immediatamente all’oggetto, di penetrare nella sua essenza segreta, evitando mediazioni logiche del pensiero e della parola codificata. Costantemente i suoni usati da Pascoli, al di là delle onomatopee, possiedono un valore fonosimbolico, cioè tendono ad assumere un significato di per sé stessi, senza rimandare al significato della parola . Tra questi suoni si crea una trama sotterranea di echi e rimandi e questa trama finisce con il costituire la vera architettura interna del testo, a supplire l’assenza di strutture logico-sintattiche; anche allitterazioni e assonanze concorrono allo steso fine. La metrica pascoliana è apparentemente tradizionale, nel senso che impiega i versi più consueti della poesia italiana, endecasillabi, decasillabi, novenari e settenari.. e gli schemi di rime e strofe più usuali, rime baciate, alternate, incatenate, terzine, quartine, strofe safiche. Ma in realtà, tutti questi elementi sono piegati dal poeta in direzioni personalissime. Con un sapiente gioco di accenti, Pascoli sperimenta cadenze ritmiche inedite, con una variazione numerosa di modulazioni. Anche il verso, come la struttura sintattica, è frantumato al suo interno, interrotto da numerose pause, segnate da interpunzione, incisi, parentesi, puntini di sospensione. C’è un frequente utilizzo di enjambements, che spezzano sintagmi uniti, come soggetto-verbo, aggettivo-sostantivo. Pascoli non fa esplodere l’universo linguistico tradizionale , come accadrà nelle avanguardie (Futurismo e Surrealismo), ma, piega determinati codici in direzioni inedite. A livello di figure retoriche, Pascoli usa il linguaggio analogico. Il meccanismo è quello della metafora , sostituzione del termine proprio con quello figurato, che ha con il primo un rapporto di somiglianza. Ma l’analogia pascoliana non si accontenta di una somiglianza facilmente riconoscibile, accosta tra loro due realtà 32
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