Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

La lotta per le investiture, Appunti di Storia Medievale

Riassunto del libro di Nicolangelo D'Acunto

Tipologia: Appunti

2023/2024

Caricato il 27/01/2024

lorenzo-l67
lorenzo-l67 🇮🇹

2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica La lotta per le investiture e più Appunti in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! La lotta per le investiture IMPERO E CHIESA L’impero formatosi per opera di Pipino e Carlo Magno, alla morte di quest’ultimo e dei suoi eredi, inizia a frammentarsi in una miriade di piccole formazioni territoriali, ognuna governata da un signore locale che difende la propria indipendenza dai vicini e dallo stesso imperatore. In questa realtà le nuove dinastie imperiali, gli Ottoni come i Salici dopo di loro, che riescono a ridare una certa stabilità al regno, si trovano nel bisogno di recuperare elementi che riportino sotto un unico scettro questa costellazione di piccoli regni divisi. L’autorevolezza data un tempo dal titolo imperiale, eredità dell’impero romano, è oramai completamente dissolta e non sembra possibile rievocarla per ottenere obbedienza. L’opportunità per ottenere il risultato viene data dalla Chiesa. La religione cristiana è infatti l’unico elemento comune a tutti i territori dell’Impero, l’unico universalmente riconosciuto, e l’apparato ecclesiastico è la sua incarnazione ed emanazione. La Chiesa è però anch’essa vittima della stessa confusione e frammentazione che affligge l’Impero. Divisa in tante diocesi indipendenti, le parrocchie, i monasteri, le abbazie, gli stessi vescovi spesso devono la propria fortuna a poteri locali. Non esiste una scuola di formazione comune del clero, non c’è neanche un’autorità superiore universalmente riconosciuta; il Papa stesso potremmo definirlo un primus inter pares fra i vescovi. È certamente una figura di prestigio ma non molto più che il vescovo di Roma. Una chiesa caotica, invece di essere elemento di stabilità, è un elemento di disturbo. Nasce così una forte esigenza di riforma che nel secolo XI prende il via con la dinastia salica, in particolare dall’Imperatore Enrico III e dalla cerchia di ecclesiastici che lo circonda. Gli strumenti e le basi per intraprendere questa riforma hanno un paio di secoli di storia. Vengono dall’intuizione di Carlo Magno di creare un regno con una fisionomia unitaria. Carlo da impulso alla nascita di una “scuola di formazione” in cui sarebbero state insegnate la lingua e la grammatica latina utili allo studio delle Scritture con lo scopo di uniformare la pratica liturgica di tutto l’Impero, restituendo ordine a questa istituzione. Viene stabilito nel 779 il pagamento della decima alla chiesa locale, per il sostentamento dei chierici e l’aiuto ai bisognosi, le decime saranno gestite dai vescovi dando loro un potere ancora maggiore. Viene riconosciuta ai vescovi autorità su chiese rurali e private e riorganizzata la distribuzione delle sedi episcopali. Considerato il potere concesso ai vescovi Carlo se ne assume ovviamente la nomina. Saranno vescovi nominati dalla sua Hofkapelle, ovvero fra i suoi cappellani, i chierici che lo circondano, anzi da cui si fa circondare. Vescovi formati alla medesima scuola imperiale. In più sostiene la convocazione regolare di sinodi diocesani che uniformino il lavoro di clero locale e gerarchie ecclesiastiche e promuove concili per conferire un indirizzo unitario alla Chiesa Franca o Reichskirche. La Chiesa ed il suo benessere sono insomma affare imperiale. Gli imperatori si trovano a dover risolvere un altro tipo di problema più pratico, ovvero la gestione delle immense terre afferenti all’Impero. L’Imperatore si trova nell’impossibilità di far fronte alla considerevole macchina amministrativa necessaria a gestire tutto il suo regno. Per necessità affida allora parte delle terre a dei vassalli, o a conti e marchesi. Queste terre però è poi difficile che ritornino nel suo patrimonio ma anche solo alla sua fedeltà. Vengono infatti, col tempo, rivendicate come possedimenti allodiali dalle famiglie a cui sono state date in beneficio ed i legami di lealtà stretti con i primi vassalli si indeboliscono con il passaggio delle terre ai loro eredi. Per governare in questa situazione, la dinastia Ottoniana fa largo ricorso alla concessione di diplomi che riconoscono alle varie realtà locali, soprattutto nelle proprietà della Chiesa, il diritto di dominio del clero su terre che nella pratica già erano fuori dal controllo imperiale o quantomeno terre di difficile rivendicazione; in cambio viene richiesta una dichiarazione di fedeltà all’Imperatore. Ottone sente la Chiesa come un suo possesso, con il privilegium il Papa deve giurargli fedeltà. Sfrutta quindi l’istituzione ecclesiastica per mantenere le mani e l’influenza su vaste terre e utilizza la nomina dei vescovi a conti per metterli a capo di questi feudi. La fedeltà delle terre date a questi vescovi andrà ovviamente al lui dalla cui nomina dipendono; ulteriore vantaggio sarà che quelle terre potranno essere rivendicate alla morte dell’ecclesiastico e tornare all’Impero assieme all’ufficio; nominando poi un nuovo vescovo come conte l’imperatore continuerà a conservarne la fedeltà. C’è inoltre un problema di dispersione del patrimonio ecclesiastico e più in generale di patrimonializzazione della res Ecclesia. La res Ecclesia consiste in sterminate terre, terre che l’imperatore cerca di riportare sotto il suo dominio o quantomeno sotto il suo controllo. A causa dell’assenza di un potere centrale, la chiesa è gestita spesso da potentati locali. È diffusa la pratica di privatizzazione di chiese e monasteri ovvero la pratica da parte di forze locali di investire nella costruzione di chiese o monasteri privati ai quali vengono assegnate delle terre. Queste cessioni sono sempre un buon investimento in quanto possedimenti dotati di immunità. Immunità significa che sono terre al di fuori di qualsiasi controllo (sia fiscale, sia giudiziario) che non sia ovviamente quello della famiglia fondatrice. Questa le gestisce mettendone a capo i membri stessi della famiglia o persone di comprovata fedeltà, infine, considerandola un possesso, all’occorrenza la mette in vendita per intero o in parte. Più in generale le stesse cariche ecclesiastiche vengono commercializzate concretizzando la vendita in vere e proprie alienazioni del patrimonio ecclesiastico; un esempio su tutti, che forse per l’imperatore segnò il punto di non ritorno, è la vendita nel 1045 della carica papale da Benedetto IX al suo successore Gregorio VI. Il teologo Gerberto di Aurillac (poi eletto Papa nel 999 col nome di Silvestro II), ai tempi di Ottone III, ne fa anche una questione morale per cui i laici non dovrebbero appropriarsi dei beni della res Ecclesia. I beni della Chiesa sono infatti tradizionalmente pubblici, così erano sin dalle prime comunità cristiane, agli occhi del popolo questa commercializzazione era insopportabile. Sono le basi su cui negli anni successivi fonderà la riforma guidata da Impero e Papato nel suo scontro prima contro la simonia ed il nicolaismo e poi per le investiture. Il processo rivoluzionario che porterà alla lotta per le investiture comincia da un’esigenza di impero e papato di mettere ordine nella chiesa riformandola, un’esigenza del popolo di riportare la chiesa ad una favoleggiata chiesa delle origini, basata sul modello monacale e liberarla dall’influenza dei signori locali e di quegli abati e vescovi che come tali si comportavano; infine diverrà lo strumento di un ristretto gruppo di chierici che cercheranno di compiere una rivoluzione, quella di liberare la chiesa da qualsiasi ingerenza dei laici e che li porterà ad affermarne il primato su ogni altra istituzione esistente. SIMONIA E NICOLAISMO Simoniaci erano i sacerdoti che avevano acquistato il sacerdozio con il denaro, esattamente come voleva fare Simon Mago che, nel racconto evangelico, spera di pagare gli apostoli per ricevere da loro il dono di far discendere lo Spirito Santo sui fedeli. Il Nicolaismo è l’accusa rivolta al clero che vive al di fuori del celibato. Tesi sostenute a Nicea da Nicola che ne giustificava la pratica. Il modello a cui dicono di rifarsi i riformatori è quello di una favoleggiata Chiesa delle origini; in realtà l’ispirazione è quella del modello monastico, di un sacerdozio completamente distaccato dalla mondanità ovvero dalle cose del mondo. Le spinte verso una Chiesa riformata vengono da diverse direzioni: dall’Impero, dal Papato, dal monachesimo e dalla popolazione ognuno con le sue ragioni. Sono però senza dubbio l’Imperatore e la cerchia di ecclesiastici che alla corte imperiale si sono formati, ad esserne i maggiori protagonisti; a partire da Enrico III, dal papa da lui sostenuto Leone IX e dalla cerchia di ecclesiastici di cui si circonderà (Umberto di Silva Candida, Ildebrando di Soana, Pier Damiani, Federico di Lorena). L’Imperatore ha necessità di avere una Chiesa forte e ordinata ai suoi ordini, per governare un’Impero che solo dalla fede cristiana è unito. Il gruppo di ecclesiastici della sua cerchia condividono queste esigenze alle quali si aggiunge quella di non dilapidare il patrimonio ecclesiastico di cui sempre più le grandi famiglie si stavano appropriando con il fenomeno della privatizzazione della res Ecclesia. Con Leone IX, salito al soglio pontificio per volontà dell’imperatore Corrado II nel 1049, il papato acquisisce una coscienza di maggior sensibilità verso le periferie della Chiesa, copiando i tratti imperiali di un’amministrazione itinerante, nel tentativo di allargare la propria capacità d’azione fino ai confini del mondo Non dissimili sono le predicazioni di Umberto di Silva Candida per il quale la totalità del connubio sacerdote- Chiesa rende fornicatio qualsiasi altra unione. Più pratica invece la posizione di Gregorio VII per il quale “se qualche membro degli ordini che servono all’altare ha una moglie o una concubina, non potrà svolgere il suo ministero né potrà godere di un qualsivoglia beneficio ecclesiastico a meno che, lasciata la donna, non faccia una congrua penitenza”, ancora “il nicolaita unisce atrocissimo misfatto e il turpissimo delitto al sacrilegio, infatti costruisce la dote alle figlie avute dall’illecito matrimonio usando le proprietà e i redditi della Chiesa”. Ecco dunque quale è il difetto intollerabile per Gregorio VII, la dispersione dei beni ecclesiastici. Non mancarono ovviamente libelli di difesa a giustificazione delle pratiche nicolaitiche e del matrimonio dei chierici, fondate sulla sacralità e indissolubilità del matrimonio, ma questa eresia come quella simoniaca si rivelarono alla fine una scusa per attaccare i propri nemici. Bisogna infatti ricordare che furono i riformatori a voler stravolgere una realtà e delle pratiche largamente accettate e diffuse, a voler accendere la miccia per qualcosa che non era fino a quel momento mai stato considerato un problema se non di opportunità. Ancora una volta la riforma sentì il bisogno di imporre una figura di chierico così elevata da non ingenerare più alcun dubbio sulla sua differenza con il laico né avere più alcuna commistione con questi. LO SCISMA DEL 1054 In questi anni si inserisce anche un tentativo di avvicinamento fra la Chiesa cattolica e quella ortodossa. Il tentativo fallì nel peggiore dei modi, con la bolla di scomunica al patriarca di Costantinopoli Giovanni Cerulario, depositata sull’altare di Santa Sofia da Umberto di Silva Candida, inviato del Papa. Il pretesto fu la questione del credo e precisamente la processione dello Spirito Santo che per la chiesa orientale procede dal Padre e per quella occidentale dal Padre e dal Figlio. Questa che può sembrare solo una questione di puntiglio, in realtà è essenziale nella costruzione ecclesiologica dei riformatori. La valorizzazione del Figlio è anche valorizzazione della Chiesa che Lui ha fondato. Se lo Spirito Santo da lui procede, procederà anche dalla Chiesa che per suo tramite è stata creata. Se quindi la Chiesa è la fonte dello Spirito in terra, solo da questa potrà venire sia la salvezza sia la nomina dei presbiteri. Questa polemica è però completamente superflua in quanto una riconciliazione sarebbe stata comunque impossibile per ragioni politiche. La Chiesa cattolica riformata fondava la sua forza su quella del Papa, il Papa doveva essere il dominus del mondo cristiano. Questo era completamente al di fuori della pratica della Chiesa tardoantica e altomedievale che prevedeva una Chiesa policentrica e non accentrata, nonché era al di fuori della pratica ortodossa che vedeva nel basileus il capo della Chiesa mentre il patriarca di Costantinopoli aveva solo poteri spirituali e non politici. Un ulteriore tentativo di riconciliazione fu fatto nel 1058 da Papa Stefano IX ma fu abortito sul nascere in quanto Desiderio, suo misso per Costantinopoli, dovette rinunciare al viaggio per la sua nomina abbaziale a Montecassino. IL CONCILIO DEL 1059 Con la morte di Stefano IX ed Enrico III finisce quel periodo di riforma in cui Impero e Papato hanno proceduto di pari passo spalleggiandosi l’un l’altro. Partito con Corrado II e Leone IX e proceduto sotto, Vittore II e Stefano IX con Enrico III. Dopo Stefano IX e con la successione al trono imperiale di un bambino, l’aristocrazia romana riprese l’iniziativa. Guidata dai conti di Tuscolo ci fu l’elezione a pontefice di Benedetto X; di contro, i cardinali fedeli a Ildebrando di Soana, che avevano promesso di lasciare a lui la scelta del nome del futuro pontefice, fuggirono da Roma ed elessero al soglio petrino il vescovo di Firenze Gerardo col nome di Niccolò II. Il suo insediamento fu possibile solo grazie alle armi di Goffredo il Barbuto Duca di Lorena e reggente di Toscana già fratello di Stefano IX (al secolo Federico di Lorena). Fu il primo vero successo della cerchia degli ecclesiastici riformatori oramai saldamente insediati nei gangli del potere romano; seppur con l’indispensabile beneplacito di Goffredo fu la prima elezione al di fuori della diretta influenza imperiale. Ci vorranno 9 anni prima che Enrico IV sia dichiarato maggiorenne, anni essenziali per fare un passo deciso in avanti in una riforma che oramai aveva preso altri connotati rispetto alle premesse iniziali e che virava verso un obiettivo più alto, la separazione del potere temporale da quello secolare. Togliere la Chiesa dall’influenza dei laici. L’obiettivo ultimo, che nel ’59 ancora non poteva essere visto né intuito, sarebbe stato il più ardito possibile, l’imposizione della preminenza del papato su ogni altro potere terreno. Il modello Imperiale è quello di una Chiesa episcopale e pluricentrica sotto l’influenza dell’Imperatore che si riserva la nomina dei presuli; il modello che invece hanno in mente i riformatori è quello di una Chiesa centralizzata, libera da ogni influenza laica, sottostante al Papa. Il sinodo del ‘59 prevedrà che l’elezione del pontefice avvenga solo per accordo dei cardinali episcopi ovvero i vescovi più importanti del territorio della Chiesa (da chat GPT: nel corso del XI secolo, i cardinali vescovi erano generalmente associati alle sette diocesi suburbicarie intorno a Roma. Queste diocesi suburbicarie erano Albano, Ostia, Porto e Santa Rufina, Palestrina, Tusculum (Frascati), Sabina e Velletri), altra cosa rispetto ai cardinali presbiteri, i titolari delle maggiori chiese romane (Ugo Candido di San Clemente sarà fra questi), ed i cardinali diaconi, funzionari al servizio del vaticano. I riformatori vogliono in tal modo assicurarsi di avere mani libere rispetto alla aristocrazia romana, ma allo stesso tempo danno una forte spinta a quella che era stata l’influenza imperiale nella nomina papale. Il documento del 1059 non prevede alcun coinvolgimento dell’Imperatore e sarà emendato in questo senso, più di 20 anni dopo, da Guiberto di Ravenna, divenuto antipapa col nome di Clemente III durante il pontificato di Gregorio VII. ALESSANDRO II E CADALO, LO SCISMA NELLA CHIESA ROMANA Con la morte di Niccolò II nel 1061 verranno subito messe alla prova le riforme nell’elezione papale approvate nel ‘59. Saranno gli stessi riformatori i primi a disattenderle non coinvolgendo l’Imperatore in alcun modo e nominando Alessandro II al soglio pontificio. Nell’arco di un mese morirà anche Umberto di Silva Candida, il più fervente sostenitore delle idee riformiste. È Ildebrando di Soana, ancora una volta, ad avere la maggiore voce in capitolo nell’elezione del pontefice per la quale sceglierà il vescovo di Lucca, che certamente, provenendo dalle terre di sua reggenza, non doveva dispiacere a chi fino a quel momento in Italia aveva sostenuto la riforma con le proprie armi, ovvero Goffredo il Barbuto. Ancora una volta non sarà coinvolto direttamente l’Imperatore nella nomina del nuovo Papa e l’occasione sarà sfruttata da chi più di tutti l’elezione del nuovo Papa avversava, ovvero l’aristocrazia romana. Vengono inviate da Roma delegazioni all’Imperatrice reggente affinché intervenisse per sanare questa “ingiustizia” e offerto all’Imperatore bambino il titolo di patricius romanus, grazie al quale per tradizione avrebbe potuto perorare candidature per la nomina del Papa. Della delegazione farà parte anche un patrizio romano che conosciamo col nome di Cencio del prefetto Stefano e che sarà protagonista di molti degli eventi romani degli anni successivi. Alessandro ha una base di consenso debole e Goffredo, che in quel momento si era riappacificato col suo Imperatore, resta a guardare. Serviranno altre armi allora per imporre ai romani il nuovo pontefice, saranno quelle Normanne ad insediarlo. Il non rispetto delle regole che i riformatori stessi si erano dati solo due anni prima, fu la breccia che sfruttarono in primis i nobili romani e marginalmente l’Imperatrice reggente Agnese per prendere l’iniziativa. Venne convocato un nuovo concilio, a Basilea, da cui uscì un nuovo pontefice, il vescovo di Parma Cadalo, col nome di Onorio II. Questa volta furono le armi imperiali o meglio delle famiglie vicine all’Imperatore (nel cui schieramento figurano nobili romani tra i quali Cencio del prefetto Stefano) a insediarlo a Roma una volta sconfitti a Campus Neronis i fautori di Alessandro. A mettere ordine in questa situazione sarà ancora una volta Goffredo, spinto dalla moglie Beatrice di Canossa e che arrivato in armi a Roma convinse i due rivali a ritirarsi entrambi. Fu il rapimento dell’imperatore bambino da parte di vescovi vicini ad Alessandro II e l’esclusione della madre reggente (ritiratasi nel monastero di Fruttuaria) a far di nuovo pendere l’ago della bilancia dalla parte del presule di Lucca che con le armi normanne e lorensi di Goffredo fu insediato ancora una volta a Roma. Con il suo pontificato ripresero le riforme avviate da Niccolò II contro simonia e nicolaismo, fu proibito agli ecclesiastici di accumulare benefici e di accettare nomine da parte dei laici senza l’approvazione del vescovo locale e del metropolita. Si consumò in questi anni qualsiasi velleità di accordo fra papato e imperatore nella gestione del mondo cristiano e si aprì il vero e proprio scontro. Scontro che fu tanto duro che convinse anche un moderato come Pier Damiani a ricorrere ad ogni mezzo disponibile, anche al di là delle proprie convinzioni passate, per prevalere. Ne sono un esempio gli inviti a Cencio di Giovanni Tignoso ed a Goffredo il Barbuto a servire il Signore non con la preghiera ma con il proprio ufficio laico, ovvero con la forza. PATARIA A MILANO Il movimento patarino a Milano è un movimento di popolo, antinicolaita in un primo momento ed anche antisimoniaco in seguito. Fu fortemente influenzato dagli ideali riformatori radicali di Umberto di Silva Candida che vedevano nel clero uxorato e concubinario un ostacolo ed un nemico sulla via della salvezza. Il nicolaita e poi il simoniaco sono impuri e pertanto non possono amministrare i sacramenti. Mettono in tal modo in pericolo la salvezza dei fedeli e per questo andavano rimossi, con la forza se necessario. La scintilla dello scontro fu l’elezione del nuovo presule di Milano dopo la morte di Ariberto. Enrico III ben conosce i problemi che Milano ed il suo vescovo defunto avevano causato al padre Corrado II, ritiratosi senza successo dalla città lombarda dopo averla a lungo assediata, sa di aver bisogno in città di qualcuno che tolga potere alla vecchia gerarchia. Il nuovo vescovo potrà avere l’autorità per farlo. Non accetta allora di nominare suo successore nessuno dei quattro uomini proposti dai capitanei e dal clero della città ed al loro posto nomina Guido da Velate. Guido non viene rifiutato dalla città in cui il ceto medio lo vede con favore, sono invece i capitanei e l’alto clero che organizzano contro di lui una protesta eclatante. Lo abbandonano sull’altare durante una cerimonia solenne e lanciano su di lui l’accusa di simonia. Leone IX vicino ad Enrico III assolve il vescovo in un sinodo nel 1050 ed anche il clero si va a ricompattare attorno al suo arcivescovo. Negli anni a seguire cresce la diffusione di quelli che saranno chiamati patarini. La pataria comincia la sua diffusione a partire dalle prediche di un diacono di Vercelli di nome Arialdo che vedeva nel clero uxorato e concubinario il maggiore dei problemi della Chiesa del tempo. Quello di Arialdo era stato uno dei quattro nomi fatti ad Enrico III per la successione di Ariberto insieme a Landolfo suo braccio destro e Anselmo da Baggio (futuro Papa Alessandro II). L’occasione dello scontro fu dato ancora una volta da una cerimonia ed ancora una volta si rivolse, stavolta con violenza, contro i chierici accusati di essere impuri in quanto nicolaiti. Arialdo e Landolfo allontanarono il clero ordinario e costrinsero sacerdoti diocesani a sottoscrivere un editto che li impegnasse alla castità. La lotta fra patarini e vescovo continuò con episodi di violenza da ambo le parti per anni. La pataria non è una rivolta anticlericale sebbene si rivolga contro il clero, tutt’altro: i patarini sentono forte la necessità di avere un clero solido e affidabile, perché lo riconoscono indispensabile per il proprio percorso di salvezza. Il movimento patarino introduce inoltre due elementi nuovi nel dibattito: dà voce alle masse del popolo e riconosce il diritto dei laici a giudicare il clero. Quest’ultimo elemento sarà inaccettabile per il clero riformatore, nonostante se ne servirà senza grossi scrupoli in caso di bisogno. Il Papa cerca di intervenire nella disputa milanese cercando di far raggiungere un compromesso alle due parti. Per questo vengono inviati in città, in due successive delegazioni, i suoi “uomini migliori”: Ildebrando di Soana, Anselmo da Baggio e Pier Damiani. Questi riescono a far prestare giuramento al vescovo Guido di abbandonare le pratiche illecite e di dedicarsi alla lotta contro i simoniaci. I legati papali hanno in mente sì di proseguire nella loro opera riformatrice, ma hanno necessità che questo sia fatto non con strappi, dal basso, ma sotto l’egida della Chiesa di Roma. Si trovano però anche a dover riconoscere l’utilità che hanno i movimenti patarini nel mettere in discussione l’operato del vescovo ribaltando quella che da sempre è stata una sua caratteristica ovvero l’immunità. Simbolo di questo atteggiamento del papato che si trova a cavalcare la rivolta patarina è la consegna nel 1065 del vexillum Sancti Petri nelle mani di Erlembaldo, fratello di Landolfo e guida dei patarini dopo la morte di Arialdo. Il gesto avrà un doppio valore, sia come riconoscimento della giustezza delle richieste dei patarini sia come riconoscimento che si può servire Dio tanto nel sacerdozio e nella vita monastica, quanto in quella laicale, gettando le basi di una militia non più solo spirituale ma assolutamente mondana. È Anselmo da Baggio, divenuto Papa Alessandro II, che da una svolta decisa all’atteggiamento della Chiesa schierandosi apertamente con i patarini e contro il vescovo che aveva disatteso ogni promessa fatta. L’atteggiamento di entrambe le parti si farà molto più ostile. Alla scomunica di Guido, questi risponderà facendo ricorso al sentimento patriottico della Chiesa Ambrosiana che Roma voleva sottomettere. Il successo Si vengono a scontrare frontalmente due visioni della Chiesa distinte, una vescovile pluricentrica che era largamente diffusa e accettata, contro quella di Gregorio di una chiesa centrata sulla figura papale, che nel Papa vedeva l’autorità ultima e inderogabile. Questa visione rivoluzionaria della Chiesa è chiaramente esplicitata nel Dictatus Papae, uno scritto ritrovato nel Registro di Gregorio VII e che probabilmente precede il sinodo del ’75 dove troveranno conseguenza le tesi che nel Dictatus venivano appuntate. Il Dictatus da assoluta autorità al Papa sui vescovi e su ogni membro del clero, del quale rivendica la nomina, la deposizione, la gestione dei beni ed il controllo attraverso i suoi legati. Il Papa viene stabilito come fonte e giudice del diritto canonico, ingiudicabile perché infallibile. Per rafforzare questa posizione è affermato che il Papa è di diritto Santo per mezzo dei meriti di San Pietro. L’autorità del Papa verrà estesa anche al secolo ovvero sull’Imperatore a cui solo può assegnare il titolo o se necessario rimuoverlo. Il pontefice può inoltre decidere chi sia da considerarsi in seno alla Chiesa cattolica e chi no il che gli dà il potere di liberare ogni uomo dall’obbedienza al suo signore. Le reazione degli avversari di Gregorio non si farà attendere. Durante la celebrazione del Natale in Santa Maria Maggiore, Cencio del prefetto Stefano lo rapirà; il tentativo fallirà per un insurrezione popolare che libererà il pontefice dalla torre in cui era stato trattenuto. L’Imperatore dal canto suo convoca un concilio a Worms nell’anno successivo alla presenza dei vescovi tedeschi e nord italiani. Nel concilio riesce ad ottenerne l’obbedienza e la dichiarazione di nullità della nomina di Ildebrando usurpatore della carica perché eletto con una procedura illecita. La segnalazione ha tanto più valore in quanto a Worms è il cardinale di San Clemente Ugo Candido che nei resoconti sull’elezione di Ildebrando ne risulta come il principale fautore che arringò la folla affinché il nuovo Papa venisse acclamato. Enrico nell’occasione di presenta come difensore delle consuetudini e dei diritti dei vescovi con un’espressione che chiaramente ne denota la volontà di ergersi a loro protettore e quindi protettore della Chiesa “qui velut dolcissima membra nobis uniti sunt” così come era stata fino a quel giorno. Inoltre fa valere il titolo di patritius romanus di cui era stato investito ancora bambino, probabilmente dallo stesso Cencio, nell’occasione dello scisma di Cadalo sotto Alessandro II, per disconoscere ogni autorità a Ildebrando e intimargli di abbandonare il soglio pontificio. Niente che non si fosse già visto in passato; il vero passo rivoluzionario è compiuto da Gregorio nel sinodo quaresimale dello stesso anno che risponderà alle decisioni di Worms con la scomunica dei vescovi che vi avevano partecipato, nonché la scomunica di Enrico IV e lo scioglimento dall’obbligo di ubbidienza dei suoi sudditi e la revoca del titolo imperiale. Questo, combinato alle sempre più chiare tendenze autoritarie del governo di Enrico IV iniziarono a sgretolarne la base di consenso, già precaria nell’aristocrazia tedesca dopo la rappresaglia sui Sassoni. Il lavoro del clero riformatore inizia a raccogliere i frutti della regolarizzazione delle procedure di nomina dei presuli e della lotta alla simonia, che tradotta nella pratica era lotta all’ingerenza di logiche esterne alla Chiesa locale. In questo momento di debolezza sia imperiale sia papale, i vescovi cercano di stabilizzare il loro insediamento ed il loro ruolo. Fiorisce una consistente produzione di agiografie, omelie, liturgie, inventio di reliquie che esalti la santità del fondatore della sede e ne rafforzi la consapevolezza, la coesione ed infine l’emancipazione dagli altri poteri. Il vescovo è forte per i meriti del Santo di cui è il legittimo successore, legittimo perché eletto “senza macchie”. L’erosione del consenso di Enrico IV culminò con la convocazione di un assemblea a Tribur per la sua deposizione e la nomina di un nuovo imperatore. L’assemblea non diede frutti e fu riconvoca per il gennaio seguente ad Augusta per dare modo al Papa di parteciparvi. Enrico si mosse allora rapidamente promise ai nobili di riappacificarsi con il ponefice e partì alla volta dell’Italia per raggiungere il papa in viaggio verso Augusta. L’incontro avvenne nel castello di Canossa ed ebbe quali intermediari Matilde, Ugo di Cluny e la marchesa Adelaide di Susa che si fecero garanti per l’imperatore. Lì in abiti da penitente, dopo tre giorni supplice in ginocchio al gelo invernale, ricevette il perdono. Gregorio ci racconta come si trovò costretto ad accettare e riammettere Enrico in seno alla Chiesa. E l’evento fu ben studiato per poterlo raccontare come il perdono concesso al peccatore, più che l’umiliazione difronte al rivale, ma anche come la riappacificazione fra i due poteri universali con i gesti del bacio, del pianto (dono fatto da Dio al penitente ed all’offeso), della messa e del banchetto. Tanto bastò all’Imperatore per reinsediarsi sul trono come legittimo re. Quanto l’episodio di Canossa sia da considerarsi una sconfitta per entrambi i protagonisti appare chiaro dall’immutato atteggiamento dell’aristocrazia tedesca che proseguì imperterrita nel suo piano di rimozione di Enrico. Questo fa capire chiaramente quanto deboli erano le minacce di scomunica, efficaci solo come pretesto per innescare una reazione già progettata da tempo, ma che sole non avrebbero portato a nulla. Inoltre mostra quanto deboli fossero le basi del potere di Enrico in Germania. L’assemblea dei principi tedeschi riunitasi a Forcheim elesse come nuovo re di Germania Rodolfo di Svevia. Gregorio VII non appoggiò né lui, né Enrico. Sperava infatti di poter essere lui l’ago della bilancia anzi il risolutore della questione affermando una volta per tutte la sua autorità su tutto l’Impero. Ma il suo intervento non fu richiesto e la scorta sollecitata per arrivare in sicurezza in Germania e sciogliere la questione non fu mai inviata. Questo è un chiaro segno di quali fossero le reali capacità di influenza del Papa nel mondo tedesco. CENCIO DI GIOVANNI TIGNOSO Cencio è uno dei più fedeli uomini di Gregorio VII e viene posto nella carica di prefetto cittadino dallo stesso pontefice il che gli garantì un forte controllo sulla città e sul popolo, come si vide nel momento della sua elezione al soglio pontificio. Suo rivale è un altro Cencio, figlio di un ex prefetto, Stefano. È uno zio di questo Cencio di Stefano che nel 1077 assassina Cencio di Giovanni. La punizione per questo delitto è terribile, viene bruciato e mani e testa esposti nell’atrio della basilica di San Pietro. L’assassinio del prefetto è un duro colpo alla stabilità della posizione di Gregorio in Roma. Quello che avviene è l’elevazione del suo assassinio a martirio. Anche grazie ad una serie di miracoli avvenuti presso la sua tomba. È il secondo caso di martire presso la cui tomba avvengono miracoli, dopo quello di Erlembaldo, capo della pataria milanese morto solo un paio di anni prima ed anch’esso vicino a Gregorio VII. Entrambe sono figure molto vicine al monachesimo ed alla riforma e con uno stile di vita che da vicino ricorda appunto quello monacale. Per entrambi si sarebbe potuta aprire la strada della via monastica ed entrambi furono invitati a proseguire invece nel loro ufficio laico, ufficio armato in fin dei conti. Pier Damiani ha molto chiaro che non deve esistere commistione fra laici e chierici, emerge chiaramente nel consiglio che dà a Cencio di farsi monaco qualora ne sentisse la vocazione, ma anche nel fastidio che ha nel saperlo laico e predicatore. È vero che lo consiglia di restare laico e di servire Dio come prefetto, ma non per questo eleva l’uso delle armi alla sacralità. Il miles Christi era stato fino a quel momento non un militare che impugna il ferro contro un nemico, ma un soldato spirituale, uno che combatte satana con la preghiera. Cencio è anche l’ultimo di una serie di laici che in modo significativo hanno interferito nella scelta della direzione che doveva prendere la Chiesa, basti pensare appunto all’elezione di Gregorio VII. Questo era assolutamente contrario agli ideali riformatori che nel 59 avevano trovato esplicitazione nelle nuove norme redatte per l’elezione papale. Gregorio VII ha invece un’idea più pratica della faccenda, come per la pataria milanese non si fa remore ad usare i laici, anzi richiede laici, “qualche principe che teme ed ama Dio”, che prestino servizio imponendo alla cristianità l’ordine che la Chiesa voleva dargli. Si pone per la Chiesa una questione che fortemente interesserà il mondo cattolico nel prossimo futuro ovvero la possibilità di guadagnare meriti agli occhi di Dio tramite l’uso della forza e lo spargimento di sangue. In fin dei conti è possibile per un laico sacralizzare la propria vita proprio come succede ad un chierico? Ovviamente le risposte sono due; quella positiva che si andrà affermando poi con l’indizione delle crociate e quella negativa che prevedeva un netto distacco fra meriti e compiti del laico e del chierico, guidata dal pensiero monastico del tempo. Quello che un tempo veniva accettato come servizio al re, un re che era il difensore della Chiesa, e che con Gregorio diventa servizio a Pietro ed al Papa che ne è successore, diventerò infine servizio al Re Celeste, scavalcando ogni mediazione. Il cristiano ha come scopo la santità, questa viene raggiunta attraverso il martirio e se i combattenti sono martiri (come chiariscono i miracoli sulle tombe di Cencio ed Erlembaldo), allora il cristiano ha la sua strada tracciata. 1080 SINODO QUARESIMALE Il consueto sinodo quaresimale del 1080 è il momento più rivoluzionario della lotta per le investiture. Il Papa ribadisce una norma essenziale al suo piano: che tutte le cariche e le nomine avute da chi è scomunicato, siano prive di valore; lo ribadisce perché nello stesso moneto lancerà la scomunica sui suoi avversari: i vescovi Tedaldo di Milano e Guiberto di Ravenna, nonché l’Imperatore Enrico IV. L’importanza di questo documento di scomunica ci viene confermata dalla sua presenza nel Registro, cosa non avvenuta per quanto riguarda il sinodo del 76 che pure aveva portato alla scomunica di Enrico. Questo perché il documento è il manifesto della visione di Gregorio, la sua interpretazione della storia della Chiesa e del suo pontificato. In quanto manifesto richiede che sia divulgato il più possibile e che faccia conoscere alla cristianità quale è la verità sui fatti accaduti in quegli anni. Gregorio inizia la stesura raccontando di sé e della sua elezione. Il tutto ci viene riferito non come conseguenza delle sue decisioni e motivazioni, Gregorio fa un passo indietro, si mostra come un semplice spettatore, l’oggetto di una scelta che viene da Pietro e Paolo che invoca a testimoni perché “con gemiti e pianto” si è trovato ad accettare il pontificato e soprattutto perché “non io ho scelto voi, ma voi avete scelto me e avete messo su di me il pesantissimo carico della vostra Chiesa”. Da questo momento Gregorio sparisce dalla scena, quel che è stato fatto a lui è stato fatto a Pietro e Paolo, quel che è stato scelto, è stato scelto da Pietro e Paolo, chi ha disubbidito a lui ha disubbidito a Pietro e Paolo. La parola e le volontà del Papa non sono più da considerarsi parole e volontà di un uomo, sono il volere dei Santi, chi agisce contro di lui si macchia di sacrilegio, persino il disubbidire è un peccato di idolatria. Tutti i principi e i potenti della terra devono sottomettersi a questa verità e temere la parola del Papa come la parola dello Spirito Santo che da Pietro e Paolo per investitura di Gesù Cristo promana. Il passo successivo sarà poi decisivo: nello contro fra Enrico e Rodolfo appoggerà il secondo ed a chiunque imbraccerà le armi contro Enrico promette l’assoluzione dei peccati, ovvero il paradiso. Esattamente quanto sarà riproposto con le crociate. LETTERE A ERMANNO DI METZ La visione che ha Gregorio della Chiesa e del ruolo che ricopre nel mondo è ben chiarita nelle due lettere a Ermanno di Metz che seguono le due scomuniche comminate ad Enrico. Negli scritti Gregorio si spende ad affermare quanto il papa sia da considerarsi superiore all’imperatore con ragioni tutte debolissime ma nei toni quasi urlate: Il Papa è sacerdote, come sacerdote si fece il Cristo Il Papa per tramite di Pietro ha il potere di sciogliere e legare Gli Imperatori Santi hanno fatto meno miracoli dei Santi chierici Il Papa può amministrare i sacramenti e: “Quale re o imperatore può in virtù del suo ufficio strappare un cristiano dal potere del diavolo mediante il santo battesimo e annoverarlo tra i figli di Dio e rafforzarlo con il sacro crisma? E, cosa che rappresenta il massimo della religione cristiana, chi di loro può con la propria bocca produrre il corpo ed il sangue del Signore, oppure a chi di loro è stata data l’autorità di sciogliere e legare in cielo e sulla terra?” Il Papa è superiore lo afferma anche Gelasio nella lettera ad Anastasio Imperatore Sono ragioni deboli, non sufficienti per arrivare ad un provvedimento, la scomunica di un Imperatore, fino a quel momento inaudito. Il Papa ha bisogno di qualcosa di più, ha bisogno di togliere sacralità all’imperatore, renderlo uomo come gli altri. Attacca frontalmente quindi tutta la storia degli ultimi due secoli che va da Carlo Magno, ad Ottone, fino agli imperatori salici che avevano voluto unire saldamente il proprio ruolo alla volontà divina. La sacralità dell’Imperatore è attaccata frontalmente. Essere Imperatori, dice Gregorio non è che il frutto di ruberie, violenze, avidità e brama di potere, l’Imperatore altri non è che un peccatore, un uomo che per cupidigia di è voluto elevare sopra gli altri. Ancor più, il titolo imperiale è il frutto del peccato ed il solo modo di salvarsi che i potenti hanno, è quello di umiliarsi davanti i sacerdoti, accettarli come maestri e padri e sperare nella misericordia divina. Non c’è spazio per le interpretazioni. IL SINODO DI BRESSANONE all’esterno ed assolvere al ruolo universale del papato che con Urbano II e l’indizione della prima crociata era stato inaugurato. Lo stesso Imperatore Enrico V si dimostrerà ansioso di chiudere la disputa con il papato e seppure saranno nominati altri antipapi, nessuno di questi sarà sostenuto dall’Imperatore come lo fu Clemente III. Le lotte antisimoniache si sono completamente sgonfiate, per il Papa non era più importante sapere se un vescovo avesse o meno pagato per l’investitura, ma sapere se l’avesse accettata da un laico, l’ingerenza dei laici è la simonia. In più i vescovi si troveranno a fare i conti con le nuove realtà cittadine che ne limiteranno pesantemente le capacità di intervento, il potere si stava trasferendo nelle mani dei capitoli cattedrali, istituzione ecclesiastica nella quale si raccoglievano i vertici cittadini. Questo depotenziamento della figura del vescovo rese sempre più possibile un accordo fra papato e impero; non serviva più scontrarsi per ottenere un potere che stava andando dissolvendosi. IL PRAVILEGIUM DI SUTRI Prima di parlare di quanto stabilito nel 1111 a Sutri bisogna specificare che nell’intronizzazione di un vescovo vengono scanditi 3 passaggi: l’elezione (ovvero la scelta del nome), l’investitura (ovvero l’investitura dei poteri e dei beni annessi alla carica all’eletto), la consacrazione (ovvero il rito sacro in cui il vescovo diviene tale). Nel 1111 sembra che a Sutri legati papali e imperiali abbiano raggiunto un accordo; in virtù di questo Enrico V scende a Roma per essere incoronato Imperatore. il 12 febbraio a S. Pietro l’accordo venne pubblicamente letto e portato a conoscenza di tutti. Gli accordi prevedevano il ritorno di tutti i regalia dei vescovi (benefici che il re concedeva attraverso l’investitura) nelle mani dell’Imperatore; l’Imperatore dal canto suo rinunciava alla nomina dei presuli ed a tutte quelle pertinenze della chiesa che non fossero di sua pertinenza. Ma i vescovi detenevano quei diritti in primo luogo in quanto vescovi, e da sempre perché sempre erano stati i veri signori delle città sin dall’età dell’affermazione del cristianesimo; il gesto dell’investitura stabiliva un rapporto di fedeltà personale tra vescovo e re, il re riconosceva che il vescovo esercitava quelle prerogative e il vescovo le poneva a disposizione di colui che riconosceva come suo re. Gli accordi saltano per una ribellione dei riformatori che accusano Pasquale di essersi piegato alla volontà imperiale. Il Papa è costretto a lasciare Roma e trova riparo nelle terre dell’abbazia di Farfa. La trattativa deve ripartire. Questo il testo dell’accordo finale: [stabiliamo] che tu ai vescovi e agli abati, liberamente eletti senza violenza e simonia, conferisca l’investitura della verga e dell’anello. Dopo l’investitura, poi, ricevano la consacrazione canonica dal vescovo sotto la cui giurisdizione ricadono. Se qualcuno fosse stato eletto dal clero e dal popolo all’infuori del tuo assenso, se non verrà investito da te non sia consacrato da nessuno (tranne tuttavia coloro che per consuetudine sono nella disposizione degli arcivescovi o del pontefice romano). Gli arcivescovi e i vescovi abbiano senza possibilità di dubbio la libertà di consacrare canonicamente i vescovi e gli abati da te investiti. I vostri predecessori infatti hanno tanto accresciuto le chiese del loro regno con i loro benefici i regali che il regno va munito massimamente con i presidii di vescovi e abati, e che i contrasti popolari, che nelle elezioni spesso avvengono, sia opportuno vengano repressi dalla maestà regale». Non c’era molto di nuovo, ma in questa versione erano i re erano a tutelare le chiese ed i loro beni, in ogni caso non c’era alcuna minaccia allo status quo. Tutto si sarebbe mosso in un quadro di consenso. Il re avrebbe addirittura ottenuto di poter investire con la verga e con l’anello (generalmente inteso come il simbolo del matrimonio mistico fra il vescovo e la sua Chiesa, gli veniva riconosciuto in qualche modo un ruolo sacrale). La Chiesa romana otteneva, a sua volta, oltre alla possibilità di un diritto di veto in certi casi, una cosa molto importante: il riconoscimento della sua sovranità su quanto il Patrimonio di San Pietro rivendicava almeno a partire da Ottone I, se non da Carlo Magno. Insomma, sembrava ripristinato il pieno consenso fra Regnum e Sacerdotium. L’intesa costò ancora una volta numerose critiche al Papa fino anche all’accusa di eresia. Nonostante si fosse giustificato dicendo di trovarsi, durante la discussione, in situazione di cattività, Pasquale difese fermamente l’accordo anche schermandosi con gli strumenti messi a punto da Gregorio e Urbano dell’infallibilità del pontefice (il pontefice non poteva essere eretico in quanto lui stesso era la misura dell’ortodossia) e delle possibilità di deroga alle regole in caso di necessitas. Inaspettatamente gli strumenti pensati da Gregorio VII per affermare il suo primato, non furono utilizzati contro l’Imperatore, ma proprio contro i vescovi di stretta fedeltà gregoriana; furono le dispute con questi ultimi il vero banco di prova che li forgiò. La volontà di concludere lì lo scontro con l’Impero era evidente.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved