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La Mala Pasqua di Turiddu: Una Passione Imperfetta, Sintesi del corso di Lingue e letterature classiche

La Mala Pasqua di Turiddu è una novella di Giovanni Verga che racconta la tragica storia d'amore di Turiddu Macca, un ex soldato che ritorna a casa dal servizio militare per trovare Lola, sua fidanzata, sposata con Alfio. Turiddu, per dispetto, corteggia Santa, la sorella di Alfio, suscitando la gelosia di Lola e riprendendo la relazione amorosa. La novella è caratterizzata da una geografia profana e sacra, con personaggi come Turiddu, Lola, Alfio, Santa, e altri, e luoghi come Licodia, Sortino, il santuario della Madonna del Pericolo, e la Canziria. La tragedia di Turiddu è una Passione imperfetta, in cui la Resurrezione è sostituita da una morte che non lascia spazio alla speranza.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 08/06/2022

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Scarica La Mala Pasqua di Turiddu: Una Passione Imperfetta e più Sintesi del corso in PDF di Lingue e letterature classiche solo su Docsity! BIBLI TECA Pietro Gibellini (ed.) La Bibbia nella letteratura italiana I DALL’ILLUMINISMO AL DECADENTISMO O LA BIBBIA NELLA LETTERATURA ITALIANA Opera diretta da Pietro Gibellini I Dall’Illuminismo al Decadentismo a cura di Pietro Gibellini e Nicola Di Nino MORCELLIANA PIETRO GIBELLINI E NICOLA DI NINO Il Belli sacro in dialetto e in lingua . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 225 1. «La Bbibbia, ch’è una spesce d’un’istoria», 225 - 2. «Disce er Vangelio ch’è una bbell’istoria», 234 - 3. Il noviziato italiano, 238 - 4. La tensione spirituale della maturità, 247 ANNALISA NACINOVICH Il «Regno di Satana» di Terenzio Mamiani . . . . . . . . . . . . . . 255 1. Mito cristiano e religione civile: un capitolo tardo della polemica clas- sici-romantici, 255 - 2. Il «Del regno di Satana» di Terenzio Mamiani: un’applicazione drammatica del fantastico cristiano, 260 - 3. Una metafi- sica diabolica, 263 - 4. La “farfalla filosofa”: un finale in prospettiva, 267 MARINA VERSACE La Bibbia e la politica: i libri «Dell’Italia» di Niccolò Tommaseo 271 1. Il pensiero politico di Tommaseo nei libri «Dell’Italia», 271 - 2. I libri «Dell’Italia» e la Bibbia, 272 - 3. I diritti dei popoli e i delitti dei princi- pi, 274 - 4. La rivoluzione secondo il Vangelo, 281 - 5. La critica alla Chiesa reazionaria e l’attesa di un pontefice liberatore, 286 - 6. Un cri- stianesimo sociale, 291 - 7. L’Italia liberata da Cristo, 296 GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI Santi e miracoli in Manzoni e Verga . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 299 1. Le noci di fra Galdino, 299 - 2. La tempesta dei Malavoglia, 307 PIETRO GIBELLINI La mala Pasqua di compare Turiddu . . . . . . . . . . . . . . . . . . 313 1. Turiddu, ovvero piccolo Salvatore, 315 - 2. Lola-Dolores, Santa non santa, e..., 324 - 3. Pasqua di morte, 326 MASSIMO CASTOLDI Motivi scritturali nella poesia di Pascoli . . . . . . . . . . . . . . . . 329 1. L’epilogo dei «Poemi Conviviali», 329 - 2. Tra Leopardi e il Vangelo, 331 - 3. La figura di Cristo nella poesia pascoliana, 336 - 4. La polemica con la Chiesa romana, 341 - 5. Conclusione, 344 MIRKO MENNA Il Vangelo secondo Pascoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 347 1. Da «Piccolo Vangelo» a «Limpido Rivo», 347 - 2. XII Parabole tradot- te dagli evangeli di Luca e Matteo, 354 - 3. Note sulla traduzione, 359 Sommario 419 ANGELO LACCHINI La Madonna nella poesia dell’Ottocento . . . . . . . . . . . . . . . . 369 1. Annunciazione, 370 - 2. Visita a S. Elisabetta, 371 - 3. Fra Sette e Ottocento, 375 - 4. Fra Otto e Novecento, 388 - 5. Protonovecento maria- no, 396 Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 399 Indice dei passi biblici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 415 420 Sommario PIETRO GIBELLINI LA MALA PASQUA DI COMPARE TURIDDU Difficile pensare a uno scrittore più sconsolato e lontano dalla fede di Giovanni Verga. Potrebbe sembrare forzato, perciò, scorgere nella celeberrima novella di Vita dei campi l’ipotesto pasquale: trama sacra di un ordito profano e anzi profanatore. Che c’entra il Vangelo con la breve e fulminante storia di passione finita nel sangue? Tutti ricordia- mo la vicenda di Cavalleria rusticana (qui consideriamo la novella inclusa nel 1880 in Vita dei campi, prescindendo dalla dilatazione e dalle varianti delle successive versioni teatrali, il dramma di Verga e l’opera lirica di Pietro Mascagni su libretto di Ottaviano Targioni Tozzetti e Guido Menasci). Turiddu torna al paese dal servizio milita- re, trova che la sua Lola si è fidanzata con compare Alfio che poi sposa; per dispetto l’ex bersagliere corteggia Santa, suscitando la gelo- sia di Lola con cui riprende la relazione amorosa approfittando del- l’assenza del marito; il quale, tornato e informato dalla vendicativa Santa, sfida a duello il rivale e lo uccide: vecchia storia di triangolo amoroso che passa dalla commedia alla tragedia. Già, ma quando muore compare Turiddu, se non la mattina di Pasqua? L’avvicinarsi di quel giorno fatidico Verga l’ha segnalato due volte nella pur brevissi- ma novella: è per l’approssimarsi della Pasqua che Lola va a confes- sarsi, ed è la vigilia di Pasqua che Turiddu consuma all’osteria la sua ultima cena («ultima salsiccia», aveva scritto Verga, prima di togliere quell’aggettivo che dal valore descrittivo diventava scopertamente pro- fetico). Se la sventurata barca dei Malavoglia si chiamava Provvidenza (nome antifrastico quanto il soprannome dato alla famiglia di Padron ‘Ntoni, che all’anagrafe suonava Toscano), a maggior ragione si potrà supporre che nel suo profondo la novella si configuri come un’anti- Pasqua. O come una Mala Pasqua, che è il titolo del melodramma che il torinese Stanislao Gastaldon ricavò dalla vicenda di Turiddu e che andò in scena nel 1890, giusto un mese prima della Cavalleria rusti- cana di Mascagni che, con il suo immediato e durevole successo avrebbe relegato nell’ombra l’altra opera. Celatamente ricalcata sulla vicenda evangelica, la tragica storia dell’amante accoltellato è, secon- La mala Pasqua di compare Turiddu 313 Del resto, chi coglie il fascino anticonformistico di quel colorito modo di atteggiarsi? «Le ragazze se lo rubavano cogli occhi, mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronza- vano attorno come le mosche», dunque i giovani non ancora sotto- messi alle ferree leggi del villaggio (viene in mente l’episodio del sini- te parvulos, e la sensibilità delle donne per Gesù che serpeggia nei Vangeli, come ebbe a sottolineare in un bel libro Ferruccio Parazzoli). Inoltre, in un precedente scritto, abbiamo mostrato che protagonista è il confuso portatore di una nuova legge, che definimmo “legge delle madri”, centrata sulla vita, che si oppone all’antica, quella dei padri, centrata sull’onore. Questo contrasto sembra emergere da due battute apparentemente idiomatiche, che pronunciano il corteggiatore Turiddu e la corteggiata Santa, a conclusione di un duetto: – Per te impazzisco, diceva Turiddu, e perdo il sonno e l’appetito – Chiacchiere. – Vorrei essere il figlio di Vittorio Emanuele per sposarti! – Chiacchiere. – Per la Madonna che ti mangerei come il pane! – Chiacchiere! – Ah! sull’onor mio! – Ah! mamma mia! La seconda delle due espressioni riappare per chiudere, con la novella, la vita di Turi: Turiddu annaspò un pezzo di qua e di là fra i fichidindia e poi cadde come un masso. Il sangue gli gorgogliava spumeggiando nella gola, e non poté proffe- rire nemmeno: – Ah! mamma mia! La precedente stesura («Ah! la mia povera vecchia, esclamò corret- to in gemette»), indica che in effetti la mente e il cuore del morente erano corsi alla madre, anche se il grido si attenuò in gemito, e poi si tacitò in un vano conato. Del resto, se l’incipit della commedia si apre nel nome della Madonna del pericolo, il finale è presenta la mater dolo- rosa, la gnà Nunzia-Annunziata, che si leva all’alba per dare l’addio al suo Piccolo Salvatore. Proprio per non far piangere la madre Turiddu, coricatosi con l’intenzione di lasciarsi uccidere, decide di battersi: 316 Pietro Gibellini – Compare Alfio, – cominciò Turiddu dopo che ebbe fatto un pezzo di strada accanto al suo compagno, il quale stava zitto, e col berretto sugli occhi. – Come è vero Iddio so che ho torto e mi lascerei ammazzare. Ma prima di venir qui ho visto la mia vecchia che si era alzata per vedermi partire, col pretesto di governare il pollaio, quasi il cuore le parlasse, e quant’è vero Iddio vi ammazzerò come un cane per non far piangere la mia vecchierella. Ed è ancora la madre che il giovane evoca, quando ferisce il rivale: – Ah! compare Turiddu! avete proprio intenzione di ammazzarmi! – Sì, ve l’ho detto; ora che ho visto la mia vecchia nel pollaio mi pare di aver- la sempre dinanzi agli occhi. E compare Alfio, a quella madre, indirizza l’estrema ingiuria, assie- me alla coltellata mortale a Turi: – Alfio lo raggiunse con un’altra botta nello stomaco e una terza nella gola. – E tre! questa è per la casa che tu m’hai adornato. Ora tua madre lascierà stare le galline. All’antica legge dell’onore, Turiddu contrappone dunque, se non la legge di Dio, la legge delle madri. Ed è contro quella dea mater che si rivolge l’ultima parola di Alfio, quasi coltellata morale che si aggiun- ge a quella fisica: dopo aver ferito mortalmente il rivale, Alfio profana con un’ingiuriosa irrisione la sua implicita religio, la sua manifesta pietas. La prima impone di lavare l’onta con il sangue, la seconda non approda, no, alla morale evangelica del perdono, ma riconosce la vita come supremo valore. Idolo o totem della religiosità del villaggio in cui il bersagliere non riesce più a reinserirsi, sembra invece essere quel «santo diavolone» che si acquatta dietro una formula esclamativa. La pronuncia il giovane, quando, saputo che Alfio gli ha tolto Lola, vuole vendicarsi secondo il codice d’onore, prima di ripiegare su una rispo- sta debole, secondo il commento ironico dei vicini: Dapprima Turiddu come lo seppe, santo diavolone! voleva trargli fuori le budella dalla pancia, voleva trargli, a quel di Licodia! però non ne fece nulla, e si sfogò coll’andare a cantare tutte le canzoni di sdegno che sapeva sotto la finestra della bella. E quali sono le prime sillabe che Alfio pronuncia, dopo la spiata di Santa? La mala Pasqua di compare Turiddu 317 Compare Alfio era di quei carrettieri che portano il berretto sull’orecchio, e a sentir parlare in tal modo di sua moglie cambiò di colore come se l’avessero accoltellato. – Santo diavolone! – esclamò – se non avete visto bene, non vi lascierò gli occhi per piangere! a voi e a tutto il vostro parentado! Uomo “intero”, rimasto dentro le leggi dell’onore, Alfio formula la minaccia arcaica e mafiosa della vendetta trasversale, della ritorsione sui parenti. Non “intero” è invece Turiddu, combattuto fino all’ultimo fra il desiderio di rientrare nei ranghi, espiando la sua colpa e facen- dosi ammazzare, e l’adesione alla legge delle madri che gli suggerisce una via conciliativa e un’estrema difesa della vita. Sarà eccessivo cogliere nel suo cognome siciliano (Macca è diffuso soprattutto nel Ragusano e nel Siracusano), un’eco lontana del greco dorico macha, “battaglia”? Combattuto fra vecchio e nuovo, scisso da una spada (màchaira) che divide, ovvero, con ennesimo parallelismo e contrasto con Gesù, spada che divide? L’ipotesi ci attira più di un’altra possibi- le connessione, quella col maccu, il sicilianissimo pasticcio di legumi che potrebbe pur connotare la condizione del tragico e confuso “pasticcione” Di fatto, allontanandosi dal villaggio, Turiddu non ha perso solo Lola, che anzi riesce a recuperare in veste di amante, ma ha perduto un sistema di certezze e di valori. Egli è andato «lontano» anche sul piano della religio e dell’ethos, e “lontano” è una parola-chiave, fin dal primo colloquio con Lola: E la volontà di Dio fu che dovevo tornare da tanto lontano per trovare ste belle notizie, gnà Lola! (...) Passò quel tempo che Berta filava, e voi non ci pensa- te più al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi regalaste quel fazzoletto, prima d’andarmene, che Dio sa quante lagrime ci ho pianto dentro nell’andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del nostro paese. La perdita del nome, nel pensiero magico, equivale alla perdita della cosa, dunque delle “radici”, dell’identità etica ed etnica che Alfio e Santa mantengono invece perfettamente: non a caso, dunque, il nome del loro paese viene menzionato («si era fatta sposa con uno di Licodia», «Eh! vostra madre era di Licodia»). E “lontano” designa per il protagonista un Altrove definitivo, nel commiato dalla madre: 318 Pietro Gibellini – No, ora che s’avvicina la Pasqua, mio marito lo vorrebbe sapere il perché non sono andata a confessarmi. E il giorno che precede la Pasqua, il protagonista, circondato dagli amici, consuma la sua «ultima» (così in una precedente lezione) sal- siccia all’osteria, dove ha luogo l’inevitabile incontro con l’avversario: Turiddu, adesso che era tornato il gatto, non bazzicava più di giorno per la stradicciuola, e smaltiva l’uggia all’osteria, cogli amici. La vigilia di Pasqua avevano sul desco un piatto di salsiccia. Come entrò compare Alfio, soltanto dal modo in cui gli piantò gli occhi addosso, Turiddu comprese che era venu- to per quell’affare e posò la forchetta sul piatto. – Avete comandi da darmi, compare Alfio? – gli disse. – Nessuna preghiera, compare Turiddu, era un pezzo che non vi vedevo, e volevo parlarvi di quella cosa che sapete voi –. Turiddu da prima gli aveva presentato un bicchiere, ma compare Alfio lo scansò colla mano. Allora Turiddu si alzò e gli disse: – Son qui, compar Alfio –. Il carrettiere gli buttò le braccia al collo. Fallito il tentativo di conciliazione con lo sdegnoso rifiuto di Alfio di bere il vino offerto dal rivale, i due si scambiano il bacio della sfida, cui segue, l’indomani, il duello che conduce a morte il colpevole Turiddu. E un’allusione al testo sacro non manca neppure nella già ricorda- ta Cavalleria rusticana di Mascagni. Ricordate il saluto finale del gio- vane alla madre? Mamma quel vino è generoso, e certo oggi troppi bicchier ne ho tracannato... vado fuori all’aperto; ma prima voglio che mi benedite come quel giorno che partii soldato... e poi... mamma... sentite... s’io... non tornassi...voi dovrete fare da madre a Santa... Il bacio richiesto alla mamma nella novella, si trasforma qui in un’implorata benedizione, mentre al vago richiamo all’ultima cena (il vino generoso) si aggiunge un altrettanto sottile cenno alle parole del La mala Pasqua di compare Turiddu 321 Crocefisso, che affidava Giovanni alle cure della madre, come il pro- tagonista fa con Santa. Va poi osservato che Salvatore-Turiddu si distingue da tutti gli altri personaggi perché sulle sue labbra risuona il nome di Dio in senso pro- prio, al di là dell’uso fraseologico che ne fanno Lola e Santa. Quando il giovane chiede a Lola se è vero che sposerà Alfio, la donna rispon- de affermativamente con la formula «se c’è la volontà di Dio», un’e- spressione analoga a quella usata da Santa nella schermaglia verbale di corteggiamento con Turiddu: – Se fossi ricco, vorrei cercarmi una moglie come voi, gnà Santa. – Io non sposerò un re di corona come la gnà Lola, ma la mia dote ce l’ho anch’io, quando il Signore mi manderà qualcheduno. Quali sono invece le parole del giovane, quando Lola nomina Dio? – A me mi hanno detto delle altre cose ancora! – rispose lui. – Che è vero che vi maritate con compare Alfio il carrettiere? – Se c’è la volontà di Dio! - rispose Lola tirandosi sul mento le due cocche del fazzoletto. – La volontà di Dio la fate col tira e molla come vi torna conto! E la volontà di Dio fu che dovevo tornare da tanto lontano per trovare ste belle notizie, gnà Lola! Turi raccoglie un modo idiomatico e lo riconduce alla dimensione teologica e morale. E Dio gli è così familiare da diventare un tic lin- guistico. Nel prosieguo, quel nome torna infatti insistentemente sulle sue labbra: Passò quel tempo che Berta filava, e voi non ci pensate più al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi regalaste quel fazzoletto, prima d’an- darmene, che Dio sa quante lagrime ci ho pianto dentro nell’andar via lonta- no tanto che si perdeva persino il nome del nostro paese. Ora addio, gnà Lola [...] Lo stesso accade nelle parole che Turiddu rivolge ad Alfio, prima del duello: Come è vero Iddio so che ho torto e mi lascerei ammazzare. Ma prima di venir qui ho visto la mia vecchia che si era alzata per vedermi partire, col pretesto 322 Pietro Gibellini di governare il pollaio, quasi il cuore le parlasse, e quant’è vero Iddio vi ammazzerò come un cane per non far piangere la mia vecchierella. Persino Santa, dialogando con il protagonista, pronuncia quel nome, ma da miscredente: – Avete paura che vi mangi? – Paura non ho né di voi, né del vostro Dio. Poche battute prima, alludendo a Lola, Turi aveva usato un’altra espressione: – Voi ne valete cento delle Lole, e conosco uno che non guarderebbe la gnà Lola, né il suo santo, quando ci siete voi. Uomo a suo modo religioso, Turiddu ha il senso del rito. Lo si evin- ce suo bisogno di sciogliere formalmente il pur informale fidanza- mento con Lola, ora promessa ad Alfio: una formula in siciliano, che qui svolge la funzione di una lingua sacra, una specie di latino liturgi- co: «Ora addio, gnà Lola, facenu cuntu ca chioppi e scanpau, e la nostra amicizia finìu». Che è anche un modo proverbiale (“facciamo conto che piovve e smise, e la nostra amicizia finì”), e come ci ricor- da Belli, di cui Verga fu precoce lettore, «Li proverbi e ’r Vangelo sò pparenti». Sembrano inezie, e sono invece spie verbali di due universi in con- flitto: quello pagano, sostanzialmente politeistico (con gli dèi ribattez- zati «santi» e regalmente governati da «santo diavolone») e quello di Turiddu, che contempla l’esistenza di un Dieu caché che si manifesta nella legge delle madri, fondata sul valore supremo della vita, sulla pietas. Se non del Verbo, egli è un adepto della verbalità: dall’iniziale proposito di vendetta forte e fattuale («voleva trargli fuori le budella dalla pancia», egli passa a una risposta debole e “letteraria” («si sfogò coll’andare a cantare tutte le canzoni di sdegno che sapeva sotto la finestra della bella»), che suscita il commento ironico dei vicini nel quale affiora la figura salmistico-leopardiana del passero solitario («Che non ha nulla da fare Turiddu della gnà Nunzia, - dicevano i vici- ni - che passa le notti a cantare come una passera solitaria?»). Infine, prima di duellare, egli parla al taciturno Alfio esponendo la ragione della sua scelta: si batterà per non far piangere la sua «vecchierella», La mala Pasqua di compare Turiddu 323 genitore (ed è davvero strano che i critici non se ne siano accorti). Perciò, nel prosieguo del fraseggio, il termine «chiacchiere» diventa un leit motiv: – Per te impazzisco, diceva Turiddu, e perdo il sonno e l’appetito. – Chiacchiere. – Vorrei essere il figlio di Vittorio Emanuele per sposarti! – Chiacchiere. – Per la Madonna che ti mangerei come il pane! – Chiacchiere! Cifrata e rituale è anche la delazione di Santa, che adotta un’e- spressione legata all’uso contadino di abbellire la casa appendendovi delle corna («vostra moglie vi adorna la casa»). La donna tradita si trova dunque a svolgere, nella nostra lettura cristologica, il ruolo di Giuda, anche se tocca ad Alfio dare a Turiddu il bacio della sfida. Ma non erano traditori anche gli adulteri Turiddu e Lola? Così, nel vange- lo deformato di Cavalleria, la maschera di Giuda si adatta al volto di almeno tre personaggi. 3. Pasqua di morte Di tre o di quattro personaggi? A molti è parso che la mossa con la quale Alfio acceca l’avversario gettandogli una manciata di polvere, sia proditoria, e infranga il codice cavalleresco, ancorché rusticano, richia- mato nel titolo della novella. In realtà, una precedente lezione potrebbe far pensare che le regole del duello contemplassero quel gesto: Ah, urlò Turiddu, che conosceva la mossa cercando di salvarsi con un salto disperato all’indietro. Noi siamo inclini a credere che non si trattasse di un colpo proibi- to perché Alfio, nella sua barbarica durezza, è uomo tutto d’un pezzo, monoliticamente fedele alla legge dell’onore. Abbiamo già rilevato alcuni tratti della sua piena appartenenza al mondo arcaico del villag- gio, quello da cui Turi è irreparabilmente uscito. Egli «ha il sangue ris- soso», ma quando ode la delazione e impallidisce «come se l’avessero accoltellato» non perde la calma e chiede conferma dell’accusa, lan- ciando l’avvertimento di una possibile vendetta trasversale. Egli 326 Pietro Gibellini rispetta tempi, riti e regole: all’osteria scansa con la mano il bicchiere di vino, il calice della communio che il giovane gli porge, e spiega con lo sguardo, prima che con le parole allusive ma inequivocabili, la ragione della sua venuta: Come entrò compare Alfio, soltanto dal modo in cui gli piantò gli occhi addosso, Turiddu comprese che era venuto per quell’affare e posò la forchet- ta sul piatto. – Avete comandi da darmi, compare Alfio? – gli disse. – Nessuna preghiera, compare Turiddu, era un pezzo che non vi vedevo, e volevo parlarvi di quella cosa che sapete voi. Anche con Lola non ha fretta di regolare i conti: – Oh? Gesummaria! dove andate con quella furia?- piagnucolava Lola sgo- menta, mentre suo marito stava per uscire. – Vado qui vicino, – rispose compar Alfio – ma per te sarebbe meglio che io non tornassi più. «Vicino», l’abbiamo notato, è l’orizzonte di Alfio, contrapposto a quello «lontano» di Turiddu. Perciò non dev’essere casuale la menzio- ne del suo villaggio d’origine (Licodia, ripetuto due volte) e persino di quello dei suoi muli (Sortino, ripetuto due volte). Alle regole del borgo egli si conforma nel vestiario (porta il berretto sull’orecchio), ma soprattutto nell’abito mentale, quello di chi ignora la religione del cuore, del pianto e delle madri. È in nome di quest’abito ch’egli, come abbiamo detto, vibra, con l’ultima coltellata alla gola del rivale, anche l’insulto sarcastico dea-madre che Turiddu ha osato contrapporre a «santo diavolone». L’uomo arcaico nel suo stato più integro si chiama Alfio, come il santo del III sec. martirizzato a Lentini e venerato nell’isola: dunque ci troveremmo di fronte a un uso antifrastico dell’onomastica cristiana, come per la sua compaesana Santa. Ma Alfio appare piuttosto portato- re di un nome attinto al mito classico di ambientazione siciliana, quel- lo del nume fluviale Alfeo, inseguitore della ninfa Aretusa. Questo maschio barbarico è figlio di Teti, dunque fratellastro di Achille, un modello eccellente per il fiero cavaliere rusticano. Gabriele d’Annunzio, che a Vita dei campi aveva guardato, ecco- me!, nel comporre le giovanili novelle di Terra vergine, avrebbe più tardi intitolato Il vangelo secondo l’Avversario la sua reinvenzione cri- La mala Pasqua di compare Turiddu 327 tica del testo sacro, riscrivendo alcune parabole per rovesciarne la morale: tanto più discretamente, nel suo cristallino capolavoro, Verga aveva riscritto il suo vangelo secondo «santo diavolone», aveva narra- to la mala Pasqua di compare Turiddu, sostituendo al moto ascensio- nale del Salvatore risorto, la caduta nella polvere tra i fichidindia del suo povero e sgozzato “Piccolo Salvatore”1. 1 La base di partenza di queste pagine è costituita da due nostri scritti precedenti: Tre coltel- late per compare Turiddu. Lettura antropologica di «Cavalleria rusticana», in «Strumenti criti- ci», 72 (1993), pp. 205-223 e I nomi di «Cavalleria rusticana», in «Il nome nel testo. Rivista internazionale di onomastica letteraria», IV, 2002, pp. 83-95 (scritti cui rinviamo anche per una bibliografia delle analisi critiche operate sulla novella: ma ricordiamo qui, almeno, che Giorgio Bàrberi Squarotti segnalava una possibile analogia fra il bacio della sfida e il bacio di Giuda: cfr. L’inutile rivolta di compare Turiddu, in Giovanni Verga. Le finzioni dietro il verismo, Flaccovio, Palermo, 1982, p. 87). Il testo della novella è citato dall’edizione critica di Vita dei campi, a cura di C. Riccardi (Firenze, Le Monnier, 1987), che assume come testo-base l’editio princeps del volume, 1880 (emendiamo però in volevo la lezione voleva come prima pres. sing., un hapax attribuibile a un refuso sfuggito all’autore). La novella era stata anticipata sul «Fanfulla della Domenica» del 14 marzo 1880. Fra le correzioni e varianti dell’autografo inoltrato alla rivista, oltre a quelle sopra segnalate, ne troviamo altre che illuminano particolari del nostro discorso. Per esempio, riguardo al nome di Dio e alla sua pregnanza nell’eloquio di Turiddu, si noti che Verga espunse il nome di Dio dalla minaccia di Alfio, quando ancora si chiamava compar Lorenzo, alla moglie: «ma è meglio che tu preghi Dio che io non torni corretto in ma per te sareb- be meglio che io non tornassi più». Capitale è anche l’aggiunta della terza coltellata e del relati- vo commento. Gli abbozzi rappresentati da tre gruppi di carte riportati alle pp. LXXIV-LXXVII del- l’edizione critica, prefigurano, anche se in modi ancor lontani dalla perfezione della novella, il ritorno di Turiddu (qui ’Ntoni o Luca, con oscillazione irrisolta), l’incontro con Lola (Pudda- Zuppidda) e la schermaglia amorosa con Santa (Grazia). Ai fini del nostro discorso, conviene osservare come l’estraneità del reduce ’Ntoni vi fosse chiaramente esplicitata: «Si possono salu- tare finalmente le bellezze di comare Pudda?», aveva chiesto ’Ntoni. E la giovane: «Le bellezze sono le vostre, che siete un forestiere e non guardate più né amici né nemici». Meno organico, comunque, appare il sistema “teologico” che in Cavalleria si rivela invece di stupefacente coerenza: l’esclamazione «Santo diavolone!» suonava altrimenti: «Ma Luca, sacramento!, vole- va vedere come andavano le cose»; e ancora: «Sulle prime ’Ntoni, pel nome di Dio! voleva trar- gli fuori le budella». Pure la connotazione onomastica appare meno coerente, anche se il nome di Luca, richiamando l’evangelista, può apparir una prefigurazione di Salvatore-Turiddu, e il nome Grazia palesa già la funzione antifrastica poi svolta dal nome Santa. 328 Pietro Gibellini
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