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la messa alla prova nel settore minorile, Appunti di Sociologia della Devianza e della Criminalità

descrizione della messa alla prova nel settore minorile

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 30/05/2020

ericacavicc98
ericacavicc98 🇮🇹

4.4

(18)

41 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica la messa alla prova nel settore minorile e più Appunti in PDF di Sociologia della Devianza e della Criminalità solo su Docsity! LA MESSA ALLA PROVA MINORILE : 1. La normativa italiana In Italia, il sistema di giustizia penale minorile è stato riformato venticinque anni fa, con il D.p.r. 448 del 1988 contenente il codice di procedura penale minorile che ha innovato la procedura con un approccio che tiene conto della personalità e delle esigenze educative del minorenne (art.1 D.p.r. 448/1988), e ha introdotto nuovi istituti. In questa sede l’attenzione verrà concentrata sull’istituto della m.a.p. applicato ai minori autori di reato che, nel nostro ordinamento giuridico, riguarda i minori aventi un’età compresa tra i quattordici e i diciotto anni al momento della commissione del fatto che costituisce reato. In pratica si tratta di minori che in età adolescenziale vengono a contatto, in molti casi per la prima ed unica volta, con l’autorità giudiziaria penale minorile. Se però il minore non ha compiuto quattordici anni al momento del reato, l’autorità giudiziaria minorile non potrà giudicarlo sotto il profilo penale, perché considerato soggetto non imputabile. L’autorità giudiziaria minorile potrà invece intervenire con altri strumenti, attraverso l’apertura di un procedimento civile o amministrativo per avviare un eventuale intervento di assistenza, sostegno, monitoraggio e protezione con il coinvolgimento dei servizi psico-sociali del territorio e delle risorse a loro disposizione. Tali strumenti possono essere attivati anche qualora si tratta di un minore ultraquattordicenne che, in sede penale, ha ottenuto l’irrilevanza del fatto o il perdono giudiziale oppure ha svolto positivamente un percorso di m.a.p., senza aver raggiunto quel sufficiente grado di autonomia e di distacco dal contesto deviante, per cui si reputa necessario la prosecuzione della sua presa in carico in altro ambito. In tal caso l’apertura di un procedimento civile o amministrativo avviene su iniziativa del pubblico ministero, anche sollecitato dal giudice, dai servizi psico-sociali, dai genitori del minore o dal minore stesso. Rispetto all’intervento in ambito amministrativo, quando esso riguarda un minore a rischio di devianza (art. 25 R.d.l. 1404/1934), l’attenzione è posta in via principale sul suo coinvolgimento attivo in un progetto educativo che deve possibilmente condividere per potersi fare parte attiva di tale progetto. Quando il minore compie un fatto previsto dalla legge come reato, significa che ha oltrepassato un limite imposto dalla legge e che la situazione di disagio in cui si è venuto a trovare è tale per cui considera più conveniente compiere un reato ponendosi così fuori da una situazione di consenso della società o ponendosi dentro una situazione di consenso del proprio gruppo di appartenenza, in pratica è così spinto dalla paura dell’altro o dall’esigenza di dimostrare all’altro di non avere paura, che deve necessariamente agire in modo “antisociale”. Quindi compiere un reato viene letto dagli operatori della giustizia minorile come una vera e propria richiesta di aiuto da parte del minore. In pratica, il minore autore di reato pur essendo un soggetto che ha messo in atto un comportamento antisociale, dovrebbe essere considerato come un soggetto vulnerabile, il cui comportamento è spesso il risultato di una storia personale complessa caratterizzata da trascuratezza affettiva, abbandono, vuoto di relazioni significative, violenza subita o assistita, precoce responsabilizzazione o eccessiva protezione. 2. L’istituto della m.a.p. Esiste fra gli istituti che la riforma del D.p.r. 448/1988 ha introdotto, un istituto in cui il minore acquista un ruolo maggiormente attivo durante il processo penale, ossia l’istituto della sospensione del processo per m.a.p. Occorre fare qualche cenno alle peculiarità di questo istituto, che possiede notevoli differenze rispetto alla “probabion” applicata nei Paesi anglosassoni o in altri Paesi europei. Innanzi tutto si tratta di un istituto cui si accede in fase processuale e non in fase di esecuzione della condanna (in Italia denominato “affidamento in prova”). Inoltre l’applicabilità della m.a.p. è svincolata dalla tipologia del reato commesso e pertanto la stessa può essere disposta anche nell’ambito di procedimenti penali per reati gravi come l’omicidio o la violenza sessuale. Ciò su cui incide la gravità dell’imputazione, è la durata della m.a.p., che non è superiore a tre anni, quando si procede per reati per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni, mentre negli altri casi non è superiore ad un anno. Infine non vi sono in astratto preclusioni soggettive, infatti neppure precedenti condanne, eventualmente irrevocabili, ne possono escludere la sua applicabilità. Con ampio potere discrezionale, il collegio giudicante può quindi applicare l’istituto della m.a.p. ogni qualvolta ritiene che tale istituto sia il più idoneo, tenendo ben presente due elementi: a. la necessità di una migliore conoscenza della personalità del minore; b. la possibilità che la prova sia uno strumento di aiuto per lo sviluppo positivo della personalità del minore imputato, e quindi per il suo reinserimento sociale. E’ attraverso la composizione del collegio giudicante1, che viene assicurato sia sotto il profilo diagnostico che prognostico, che la valutazione circa la decisione da adottare, in particolare l’applicabilità della m.a.p., sia il più possibile approfondita ed adeguata al caso concreto. La composizione collegiale consente infatti di sposare il carattere multidisciplinare e l’interazione di saperi delle materie trattate in fase decisionale, tenendo conto sia di aspetti prettamente giuridici come l’accertamento della verità rispetto al reato, che di aspetti sociali, psicologici, psichiatrici, criminologici e pedagogici. Questi ultimi al fine di poter tenere presente in qualunque decisione la personalità del minore nonché il contesto sociale e familiare di appartenenza. Al fine dell’applicazione dell’istituto della m.a.p., risulta elemento indispensabile la presenza di un progetto educativo elaborato dai Servizi psico-sociali minorili del Ministero della giustizia (U.s.s.m.) e/o dai Servizi psico-sociali del territorio a cui il minore viene affidato per lo svolgimento delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno. Una volta che tale progetto educativo è stato discusso e condiviso tra i servizi psico-sociali, il minore e la sua famiglia, il collegio giudicante cui viene proposto deve valutare che sia adeguato, ratificandolo in toto oppure apponendovi modifiche o integrandolo con ulteriori punti, denominati “prescrizioni”, e trasfondendolo nell’ordinanza che dispone la sospensione del processo con m.a.p. La parola “condiviso” è fondamentale, perché è un fattore ineludibile per le finalità dell’istituto e per il buon funzionamento della rete che si mette in moto con lo stesso, la condivisione del progetto educativo in tutte le sue componenti, da parte in primis del minore, ma anche del suo nucleo familiare. Infatti se con la m.a.p. il minore imputato ha l’opportunità di dimostrare la propria assunzione di responsabilità così da meritare che non venga più affermata la sua responsabilità penale, è evidente la necessità del suo consenso per le chance di esito positivo della m.a.p. Il progetto educativo che viene presentato al collegio giudicante dai Servizi psico-sociali, costituisce quindi l’elemento su cui verte la decisione collegiale e, allo stesso tempo, il vero e proprio progetto di vita che il minore imputato si impegna a perseguire. In base all’art.28 del D.p.r. 448/1998, il progetto educativo deve contenere, tra l’altro: - le modalità del coinvolgimento del minore, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita; - gli impegni specifici che il minorenne assume; - le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa. 1 Un giudice togato e due giudici onorari, di cui un uomo e una donna, nell’udienza preliminare, mentre due giudici togati e due giudici onorari, di cui un uomo e una donnell’udienza dibattimentale della personalità del giovane e quindi per il suo reinserimento sociale, attraverso il recupero delle sue capacità evolutive e una valutazione preventiva, condotta sulla base di una approfondita analisi della personalità del minore imputato, delle caratteristiche del suo contesto di vita familiare e sociale e anche delle modalità della condotta, sia riferita al reato che antecedente e successiva ad esso (in particolare per i minori sottoposti a misura cautelare), nonché del suo comportamento processuale, che consenta di formulare una previsione favorevole di adesione del probando al percorso rieducativo e di tenuta rispetto agli impegni richiesti (4). Tale valutazione preventiva è imprescindibile e cogente, per il collegio giudicante, poiché la finalità della messa alla prova non è assistenziale-pedagogica, ma penale-rieducativa, e il suo obiettivo è l’abbattimento, o la significativa riduzione, del rischio di recidiva. L’istituto della probation introduce un nuovo modo di interpretare e soprattutto trattare il crimine e il suo autore: nasce infatti dall’abbandono del tradizionale canone dell’afflittività della pena e, più mediatamente, anche di quello della retribuzione (5). Trova fondamento nell’articolo 18 delle Regole Minime sull’Amministrazione della Giustizia Minorile, dette Regole di Pechino, approvate dall’Assemblea Generale della Nazioni Unite il 29 novembre 1985 e nell’articolo 40 comma 4 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, approvata dall’Assemblea Generale il 20 novembre 1989, nonché nella legge di riforma del procedimento penale minorile sopra citata (6). La presente griglia è finalizzata a fornire uno strumento pratico e operativo ai servizi psico-sociali, indicando punto per punto quelli che sono per il tribunale per i minorenni gli aspetti più rilevanti da focalizzare prima, durante e al termine di un percorso di messa alla prova. Si tratta quindi di uno strumento volto a rafforzare la collaborazione già consolidata tra il tribunale per i minorenni e i servizi psico-sociali dell’USSM e del territorio. 2. CONSIDERAZIONI GENERALI TEORICO-CLINICHE (7) 2.1. Periodo antecedente l’ordinanza di messa alla prova Il giudizio sul minore e la valutazione del suo percorso riabilitativo nella messa alla prova implica la conoscenza approfondita della personalità in formazione, quindi dei gradienti di stallo o arresto evolutivo, e dei suoi possibili livelli psicopatologici, ma anche delle potenzialità di recupero maturativo, che possono evolvere all’interno di progetti di supporto alla crescita, capaci di valorizzare la plasticità trasformativa tipica della fase di sviluppo. La “griglia” è una guida utile per l’esplicazione delle attività sottese agli «accertamenti sulla personalità dei minorenni» (8) ed allo «svolgimento delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno», previste dal processo penale minorile (9) perché consente di precisare gli elementi conoscitivi e valutativi che la magistratura ritiene preliminari e necessari al giudizio sul minore imputato, all’applicazione dell’istituto della messa alla prova, e alla congruità dei progetti riabilitativi del suo percorso maturativo, che consentano la valutazione della personalità all’esito della prova. Al fine di ovviare al rischio di una lettura riduttivamente schematica rispetto alla complessità della realtà psichica indagata ed alla sua variegata possibilità espositiva, si ritiene utile offrire una riflessione concettuale e argomentativa sottesa al medesimo strumento per consentirne una traduzione operativa efficace, nel rispetto degli specifici approcci teorico-metodologici dei servizi psico- socio-educativi a cui è rivolta. Gli aspetti approfonditi non intendono esaurire la complessità espositiva della griglia, bensì sono volti ad integrare con un’argomentazione maggiormente esplicativa alcuni aspetti che si ritengono centrali, ma che la schematizzazione rende in forma concisa o implicita. L’obbiettivo che accomuna tutti i vertici osservativi istituzionali e professionali nel procedimento penale minorile è l’attuazione della valenza educativa nell’applicazione della norma. Il criterio definito “educativo”, previsto dal legislatore è teso al ripristino delle potenzialità evolutive nella personalità in formazione e rappresenta con ciò il nucleo fondante la tutela del minore che delinque e il suo diritto alle condizioni che ne assicurino la crescita (10). Ciò è possibile attraverso un supporto al processo maturativo dell’adolescente antisociale che i servizi psico-socio-educativi possono rendere operativo nella messa alla prova, con un approccio mirato ed individualizzato alle specifiche esigenze riabilitative del singolo adolescente. Per essere efficace ogni intervento dei servizi richiede la consapevolezza delle specifiche dinamiche sottese al setting in ambito istituzionale e coatto, cioè su prescrizione della magistratura penale minorile. Il mandato assume il significato di un’investitura simbolica da parte di un codice paterno autorevole e non collusivo con la distruttività agita dall’adolescente, ma prescrittiva della crescita e dello sviluppo. Diversamente dalla casistica su presentazione spontanea, (nella quale vi è consapevolezza del disagio psichico e capacità di tradurlo nella richiesta verbale di sostegno alla crescita), l’adolescente preso in carico su mandato della magistratura penale utilizza l’azione criminosa per indurre l’ambiente a prendere posizione ed a rispondere, estroflettendo nell’azione invasiva sia la sofferenza mentale di una crescita carente o mancata, che l’incapacità di elaborarla. Proiettato, quindi non consapevolmente riconosciuto, è anche l’appello alla presa in carico come richiesta di aiuto, incistato nella brutalità operatorio-concreta dell’azione criminosa (11). È importante che l’operatore possa elaborare il controtransfert negativo fisiologicamente indotto dalla costrittività del mandato giuridico per poter liberare la propria disponibilità al trattamento nei confronti della richiesta di aiuto, quale SOS (12) che l’adolescente contemporaneamente agisce e paradossalmente nega nella “concretizzazione” delinquenziale, attraverso un linguaggio privato, orfano della dimensione simbolica (13). L’adolescente deviante è incapace, almeno nella fase iniziale della presa in carico, di riconoscere il proprio bisogno psichico che viceversa induce nell’operatore affinché l’assuma per lui. L’operatore infatti, raggiunto dal mandato della magistratura ha molto ‘bisogno dell’adolescente’ per assolvere il proprio compito, che contemporaneamente si configura come operatorio nella qualità concreta del setting (convocazioni, frequenza, orari, sede, dei colloqui, proposte progettuali supportive ecc.), ma soprattutto mentale, nella tradotta funzione elaborativa (del significato dell’agire la propria esperienza emotiva) e quindi progressivamente restitutiva di nuove capacità pensanti (14). Lo sviluppo del pensiero è legato alla modulazione della sofferenza psichica implicita in ogni crescita e in ogni sviluppo (15), la possibilità di sentirla condivisa, raccolta e capita dall’operatore, nella variegata eziologia traumatica dei singoli “miti familiari” (16), che generalmente sottendono la storia dei nuclei di appartenenza, consente e facilita la trasformazione di una relazione nata in un contesto di controllo in una relazione di aiuto allo sviluppo. Conseguentemente il setting è da intendersi inclusivo dell’assetto mentale dell’operatore, della sua consapevolezza del transfert e del controtransfert (17) nella dimensione clinica e contemporaneamente istituzionale, con il significato simbolico e con la valenza etica che esso include, nella tensione al recupero di risorse psichiche preziose per la comunità. Già i primi colloqui possono in tal senso essere decisivi per l’aggancio relazionale dell’adolescente deviante il cui bisogno è di ricreare con l’operatore le condizioni di affidabilità attendibilità e contenimento mentale (18) come riedizione riparativa delle condizioni di uno sviluppo psichico primario evidentemente carente, considerato il difetto di simbolizzazione esplicitato nella condotta delinquenziale. Tali considerazioni sono di primaria importanza già nella fase diagnostico- valutativa (19), che a sua volta non può prescindere dalle dinamiche transferali-controtransferali ubiquitarie in ogni relazione interumana (20). La sola preoccupazione diagnostico-valutativa, descrittiva della dimensione intrapsichica e relazionale dell’adolescente, non può peraltro considerarsi illusoriamente asettica, e “neutrale” in quanto l’osservatore modifica ed è modificato dall’oggetto osservato (21). Nel contesto diagnostico con l’adolescente antisociale è necessaria la sospensione di un giudizio critico e distanziante, e la consapevolezza del proprio apporto personale alla qualità dell’interazione, che strategicamente deve essere utilizzata sin dai primi colloqui per cooptare adesione al percorso di crescita. La fase diagnostica può essere percepita come difesa distanziante quando l’operatore (22) si focalizza eminentemente su una dimensione nosografica e descrittiva della realtà intrapsichica e relazionale ritenendola esaustiva; il rischio difen-sivo dell’operatore in tal caso si traduce nella trasmissione al giudice di elementi diagnostici circostanziati, ma illusoriamente “asettici” e difficilmente utilizzabili per valutare la “raggiungibilità” trasformativa dell’adolescente all’interno di una relazione, quale risultato di un’esperienza emotiva nuova, vitale e correttiva per la crescita. Diversamente il minore si trova stigmatizzato nelle già evidenti difficoltà maturative e confermato nelle ulteriori carenze motivazionali al percorso riabilitativo. La diagnosi è già il risultato di un’interazione psicodinamica profonda, di un incontro che ingaggia nella complessità del mondo psichico dell’adolescente (23) che delinque, come in altre parole sostiene Novelletto quando ritiene che «per saper fare la diagnosi bisogna prima saper fare la terapia» (24). Si sottolinea con ciò la necessità del superamento della dicotomia osservazione-trattamento (25) in modo che la fase diagnostica possa costituire una fase facilitatoria e propedeutica alla presa in carico psicoterapeutica o psicologica, nei minori per i quali si intende proporre una messa alla prova. Appare inoltre auspicabile ovviare alla discontinuità relazionale tra fase diagnostica e fase trattamentale, perché enfatizza e rievoca l’angoscia di separazione, già fisiologica in questa fase dello sviluppo, ma facilmente percepita come perdita dissuasiva, non mentalizzabile nell’adolescente antisociale. La difficoltà di simbolizzazione, la tendenza all’acting-out come modalità comunicativa sostitutiva del pensiero, l’implicita carenza motivazionale al percorso riabilitativo, tipiche di questa casistica, declinata più sul diniego, che verso il riconoscimento della propria realtà psichica, richiedono ancor più un “setting elastico” (26) che consenta di accogliere l’adolescente nei suoi limiti evolutivi e nella sua modalità espressiva, piuttosto che per quello che dovrebbe essere. L’adolescente può aver bisogno, ad esempio, di essere a lungo “cercato” con ripetute convocazioni mettendo per primo “alla prova”la disponibilità dell’operatore e la sua motivazione ad accoglierlo, oppure può mettere alla prova lo stesso setting con la discontinuità della presenza, o con la riproposizione di vari agiti all’interno dei colloqui che richiedono una decodifica puntuale di ogni comunicazione preverbale, gestuale o motoria,affinché acquisisca,attraverso l’apparato per pensare i pensieri (27) dell’operatore, lo spessore della capacità simbolica come nuovo linguaggio costruttivo e condiviso. La stessa carenza motivazionale alla proposta di trattamento, può essere rivisitata dall’operatore con un apporto personale emozionalmente correttivo fondato sulla capacità di vedere oltre il blocco della crescita, quale limite ineluttabile, ma viceversa come occasione di un incontro che riconosca e liberi le potenzialità della crescita. 2.2. Gli obbiettivi della messa alla prova correlati al fatto-reato L’obbiettivo centrale della messa alla prova per l’adolescente antisociale è la progressiva acquisizione di un apparato per pensare i pensieri che consenta di elaborare le esperienze emotive per tradurle in significato come cibo per la mente (28), piuttosto che relegarle in un accumulo di disagio destinato ad essere estroflesso ed evacuato con l’agito delinquenziale. Lo sviluppo della capacità pensante è la condizione necessaria e preliminare al superamento delle difficoltà maturative manifestate nella tendenza all’agire. In altre parole è l’acquisizione di una compiuta capacità simbolica che consente di trasferire dal registro operatorio-concreto brutale ed invasivo dell’azione criminosa, al registro linguistico e condiviso, la negoziazione del soddisfacimento degli stati del Sé, dove l’Altro può essere considerato nella sua separatezza e nella sua integrità. È possibile con ciò il raggiungimento di una dimensione etica, dove la preservazione e il benessere dell’Altro possono essere percepiti anche come benessere per il sé, e dove è possibile la fuoriuscita dalla dimensione depauperativa del “mors tua vita mea” per orientarsi in quella reciprocamente valorizzante del “vita tua vita mea”, foriera di una crescita autentica e reciproca (29). Diviene possibile anche la disamina critica del comportamento antisociale, come modalità disfunzionale alla crescita, e la progressiva capacità di costruirne altre, più sofisticate e simboliche, come precondizione necessaria al compito evolutivo fasespecifico e centrale della nuova strutturazione identitaria e dei suoi correlati impliciti quali: la seconda individuazione, il consolidamento dell’identità dell’io tramite la sintesi tra passato, presente e previsto futuro, la rivisitazione degli esiti traumatici delle precedenti fasi dello sviluppo, la strutturazione dell’identità sessuale (30). La complessità dei cambiamenti psichici nella personalità in formazione richiede la predisposizione di un setting nel quale l’adolescente antisociale possa fare esperienza di un rapporto interumano sensibile, recettivo e mentalmente contenitivo, capace di restituire progressivamente disintossicate e rese pensabili le esperienze emotive traumatiche (31) ed irrisolte che hanno originato il blocco maturativo. È la tipologia di tali vissuti emotivi intrafamiliari e transgenerazionali (32) che necessitano di essere correlati con la tipologia dell’agito delinquenziale, con la quale trovano riscontro. In essi è racchiuso il significato comunicativo profondo, incistato nella concretezza dell’azione criminosa, che richiede di essere decodificato e progressivamente restituito come nuova possibilità rielaborativa, dicibile in forma simbolica, pertanto riparativa prima del Sé e poi simbolicamente delle relazioni nel mondo esterno. È conseguentemente necessaria la rivisitazione della qualità delle dinamiche intrapsichiche ed intrafamiliari dell’adolescente antisociale affinché pos-sano essere liberate da collusioni nelle consegne transgenerazionali che inconsapevolmente lo vincolano, per accedere a un’identità realmente autonoma e separata. 2.3. La famiglia come dimensione intergenerazionale e transgenerazionale nella fase antecedente la messa alla prova Il procedimento penale minorile (33) indica l’importanza del ruolo dell’ambiente relazionale come alveo nel quale si originano i limiti (34), ma anche le risorse dello sviluppo evolutivo del minore antisociale. La permeabilità tra mondo esterno e mondo interno e la suscettibilità trasformativa del
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