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La Metamorfosi del mondo di Ulrich Beck, Sintesi del corso di Sociologia Dell'ambiente

Gli estratti del libro, solo i concetti principali, suddivisi correttamente in capitoli e paragrafi

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 07/07/2022

MettaSutta
MettaSutta 🇮🇹

4.5

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Scarica La Metamorfosi del mondo di Ulrich Beck e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia Dell'ambiente solo su Docsity! LA METAMORFOSI DEL MONDO Di Ulrich Beck Premessa Il «cambiamento» concentra l’attenzione su una caratteristica del futuro nella modernità – la trasformazione permanente –, mentre i concetti di base, e le certezze su cui poggiano, rimangono costanti. La metamorfosi, invece, destabilizza proprio queste certezze della società moderna. 1. Perché metamorfosi e non trasformazione del mondo La teoria della metamorfosi va oltre la teoria della società mondiale del rischio: non riguarda gli effetti collaterali negativi dei beni, ma gli effetti collaterali positivi dei mali. Questi ultimi generano orizzonti normativi di beni comuni e ci spingono al di là del quadro nazionale verso una visione cosmopolita. È semplicemente un tentativo di offrire una risposta plausibile alla domanda impellente «In che mondo viviamo davvero?». La mia risposta è: viviamo nella metamorfosi del mondo. Ma è una risposta che chiede al lettore la disponibilità ad accettare il rischio di una metamorfosi della sua visione del mondo. Basta una riflessione anche frettolosa per rendersi conto che «il mondo» e «la nostra vita» non sono più entità reciprocamente estranee, che tra loro si è formato un legame di «coabitazione» Metamorfosi del mondo significa qualcosa di più e di diverso rispetto a una semplice evoluzione dalla chiusura all’apertura. Significa cambiamento epocale di visioni del mondo, un nuovo disegno della visione del mondo nazionale. È provocato invece dagli effetti collaterali di una modernizzazione che si è imposta con successo, cose come la digitalizzazione o le capacità di previsione della catastrofe climatica che incombe sull’umanità. l «nazionalismo metodologico» dice che il Sole gira attorno alla Terra, ovvero il mondo gira attorno alla nazione. Il «cosmopolitismo metodologico», al contrario, insegna che è la Terra a girare attorno al Sole, ovvero che sono le nazioni a girare attorno al «mondo a rischio». In un’ottica nazionale la nazione è l’asse, la stella fissa attorno a cui gira il mondo. Questa visione nazione-centrica del mondo appare storicamente falsa da un punto di vista cosmopolita. Metamorfosi del mondo significa che la «metafisica» del mondo sta cambiando1.. Le nazioni devono trovare il loro posto nel mondo digitale, devono (re)inventare sé stesse girando attorno alle nuove stelle fisse: il «mondo» e l’«umanità». Quello che ieri si combatteva su scala regionale, oggi si combatte su scala globale. Stiamo vivendo uno scontro tra immagini del mondo rivali che, come un tempo quello tra cristiani e barbari pagani, porta con sé conflitti feroci e brutali, conquiste sanguinose, guerre sporche, terrore e controterrore. Cosa vuol dire esattamente che il Weltbild ancora presente è «appassito»? Molte di queste immagini del mondo – forse tutte – continuano a esistere simultaneamente, una accanto all’altra. Ma allora il fatto che siano «appassite» significa due cose: primo, che esse hanno smesso di essere certe, hanno perso la loro supremazia; secondo, che nessuno sfugge alla dimensione del globale Per comprenderlo dobbiamo distinguere tra Glaubenssätze, «dottrine», e Handlungsräume, «spazi d’azione», che sono i parametri entro cui si compie l’attività sociale che coinvolge le immagini del mondo. Le dottrine potranno anche essere particolaristiche, orientate alle minoranze, anticosmopolite, antieuropee, religiosamente fondamentaliste, etniche, razziste; ma gli spazi d’azione sono inevitabilmente costituiti in termini cosmopolitici. All’inizio del ventunesimo secolo gli spazi d’azione sono ormai cosmopolitizzati: e ciò significa che il contesto in cui operiamo non è più soltanto nazionale e integrato, ma globale e disintegrato, e comprende le differenze tra le varie regole nazionali sul terreno delle leggi, della politica, della cittadinanza, dei servizi e via dicendo. nessuno, a prescindere da cosa pensi e creda, può sfuggire a quel paradosso della metamorfosi che è il mondo cosmopolitizzato: per difendere il proprio fondamentalismo nazionale e religioso le persone devono agire – e cioè pensare e pianificare – in modo cosmopolita. E in tal modo finiscono per favorire proprio ciò che intendevano evitare: la metamorfosi del mondo. 2.1. Gli spazi d’azione cosmopolitizzati Per cogliere le caratteristiche sistematiche del concetto di «spazi d’azione cosmopolitizzati» esaminiamone alcuni aspetti costitutivi. Nel far questo, dobbiamo tenere sempre a mente che la nozione di «spazi d’azione cosmopolitizzati» è interconnessa alla nozione di «metamorfosi del mondo». 1. È utile distinguere tra azione, in cui confluiscono riflessione, status e percezione degli attori, e spazi d’azione cosmopolitizzati, che esistono a prescindere dal fatto di essere percepiti e usati dagli attori Per utilizzare questi spazi non serve avere un corrispondente passaporto, parlare la lingua di un determinato luogo o possedere una particolare identità. Sono le differenze a fare la differenza! Le differenze tra tradizioni culturali, tra popolazioni ricche e povere, tra sistemi giuridici o le differenze geografiche costituiscono la nuova struttura cosmopolitizzata delle opportunità. Bisogna anche distinguere tra azioni e pratiche. Ciò non significa che, in determinate condizioni, gli spazi d’azione cosmopolitizzati non possano trasformarsi in routine come «campi di pratiche» (Bourdieu 1977, 1984), che non si arrivi cioè a ridisegnare confini e a creare e implementare nuovi sistemi regolatori. Ma il punto è che gli spazi d’azione cosmopolitizzati sono opportunità 2. Giocare a essere Dio La metamorfosi del mondo – questa la mia tesi – comprende la metamorfosi dell’immagine del mondo, che a sua volta ha due dimensioni: la metamorfosi dell’inquadramento generale (framing) e la metamorfosi della pratica e dell’agire. 2.1 La metamorfosi dell’essere genitori La metamorfosi dell’essere genitori Per tutta la storia umana, fino a oggi, due cose sono sempre state viste come certezze incrollabili. Primo, che fosse impossibile controllare la riproduzione umana (a parte pratiche contraccettive altamente inaffidabili o la possibilità di aborto). Secondo, che la cura e la responsabilità per i figli fossero una legge morale (anche se spesso violata). La metamorfosi del mondo in rapporto alla maternità e alla paternità inizia, invece, nel momento in cui il concepimento può essere plasmato dalla tecnologia medica. La genesi della vita umana è esposta all’intervento e alla volontà creativa dell’uomo, ma il risultato è che diventa un campo da gioco per una varietà di attori e di interessi disseminati per il mondo 2.2. Essere Dio senza voler essere Dio Essere Dio senza voler essere Dio Che significa qui metamorfosi? Una chiave è fornita dall’argomento degli effetti collaterali. La finalità originaria era di curare i problemi di fecondità delle donne, anzi per la precisione delle mogli (sì, perché inizialmente nessuno si preoccupava delle single che volevano avere figli). Per esercitare quest’opera di riparazione, ispirata all’immagine convenzionale di famiglia, occorreva comprendere più a fondo i processi funzionali legati alla fertilità e all’infertilità. Questa comprensione sempre più accurata ha generato a sua volta, come effetto collaterale, la possibilità di interventi sempre più ampi sullo sviluppo della vita umana Eppure, per quanto convenzionale fosse il punto di partenza, la discrepanza tra pensiero e azione appare subito evidente. Sebbene le finalità dei pionieri rimanessero ancorate al quadro di riferimento della vecchia visione del mondo e della concezione tradizionale di famiglia, di fatto essi spalancarono le porte a possibilità sempre più ampie Il secondo passo è implicito in questo orizzonte tecnico. Si spezza l’unità di concepimento, gravidanza e nascita, fino allora definita dalla natura come destino impersonato dalla madre: questi sottoprocessi si separano, nello spazio e nel tempo e a livello sociale. Ciò genera nuove opzioni, forme e relazioni riguardo alla nascita della vita umana, anche se il linguaggio non ha ancora parole e concetti adatti a esprimerle Queste formule linguistiche sono tutte inadeguate, fuorvianti, controverse, provocatorie, per alcuni addirittura offensive. Riflettono una violazione di tabù incoraggiata dalla fabbricabilità della vita umana attraverso la tecnologia medica. tangibili e comprensibili la nuova realtà dei rapporti genitori-figli appoggiandosi a concetti familiari amputa e normalizza il processo di metamorfosi che si è messo in moto. Un’altra ondata di effetti collaterali (metamorfosi) nasce dalla convergenza tra queste innovazioni tecniche e una rapida trasformazione degli stili di vita e delle forme di famiglia nelle società occidentali. Il risultato è che nell’arco di pochi anni la clientela potenziale della medicina riproduttiva si è ampliata a dismisura. Ora che il diritto fondamentale all’uguaglianza si estende a questi gruppi, e che al tempo stesso il ventaglio di opzioni offerte dalla tecnologia medica per esaudire il desiderio di avere figli si amplia rapidamente, non ci sono più motivi di principio per negare a chi ha stili di vita di questo tipo l’accesso a queste opzioni: e il risultato è che le dighe si stanno rompendo. ci sono due grandi ostacoli secondari che restringono fortemente l’uso di queste possibilità, pur tecnicamente fattibili. Primo, le corrispondenti forme di trattamento sono tecnicamente complesse, e dunque estremamente costose. Secondo, le opzioni di tecnologia medica e le possibilità di avvalersene sono viste e valutate in modi molto diversi e persino conflittuali nel contesto di varie visioni religiose e culturali del mondo e dell’uomo… 2.3. Turismo procreativo Turismo procreativo Il mondo cosmopolitizzato offre speciali possibilità di superare il problema dei costi. Una volta che la tecnologia medica ha scorporato, reificato e specializzato il concepimento, la gravidanza e la nascita, si apre la possibilità di distribuire e riorganizzare queste attività in base ai criteri di razionalità economica e alle regole del mercato globale. Concepimento, gravidanza e nascita diventano così un campo d’attività del «capitalismo di esternalizzazione (outsourcing)» basato sui principi di minimizzazione dei costi e massimizzazione dei profitti, e vengono ripartiti in diversi continenti secondo le regole della disuguaglianza globale e della divisione internazionale del lavoro… L’essenza del capitalismo sta nel suo dinamismo e, in questo caso specifico, nella sua capacità di superare gli ostacoli che si frappongono alla metamorfosi della maternità «naturale» in produzione industriale di maternità prenatale, aprendola così agli scambi sul mercato globale. Questo tipo di «cosmopolitizzazione prenatale» inizia con l’«accumulazione prenatale», in cui medici e cliniche della fertilità espropriano padri e madri «naturali» («donatori di sperma» e «madri surrogate») delle risorse biologiche necessarie al concepimento. La disuguaglianza globale tra ricchi e poveri minimizza i costi e massimizza gli utili, travolgendo sia la sacralità della maternità che le restrizioni nazionali al commercio globale di quelle risorse biologiche. Il «capitalismo prenatale» converte il centro di gravità della vita sociale, la maternità, da unione sacra tradizionale, biologica, in «cosmopolitizzazione invisibile» che crea e integra nei destini dei figli forme territoriali e sociali di paternità e maternità biologica «a distanza». Il risultato è che il figlio in fase prenatale diventa oggetto di attenzione, dibattito e conflitto globale, legale, politico, etico e religioso. …involontariamente, senza uno scopo, inavvertitamente, al di là della politica e della democrazia, le basi antropologiche della nascita della vita vengono riconfigurate passando «dalla porta di servizio» degli effetti collaterali del successo della medicina riproduttiva. 2.4. Mater incerta La metamorfosi, intesa in questo modo come rivoluzione globale di effetti collaterali che si compie nell’ombra dell’afasia, dà il via a una reazione a catena di fallimenti che travolgono istituzioni ancora nel pieno del fulgore e dell’efficienza (capitolo 7). La politica – ammesso che provi a riprendere il controllo – fallisce, già per il solo fatto che – per sua stessa definizione – può agire solo entro i limiti del territorio e degli antagonismi nazionali; ma la rivoluzione degli effetti collaterali globali della medicina riproduttiva si sottrae ai tentativi regolatori dello Stato- nazione. Per lo stesso motivo fallisce la legge, e con essa le varie concezioni del diritto. Fallisce infine anche la nostra concezione della morale e dell’etica Ciò riflette a sua volta il fatto che tra cambiamento e metamorfosi ci sono veri e propri mondi di differenza. Il cambiamento avviene nell’ambito dell’ordine esistente e delle certezze antropologiche su cui esso poggia, incorporate e predeterminate storicamente e istituzionalmente nelle forme politiche e giuridiche degli Stati nazionali e nella nozione di valori universali (a tutela della dignità umana). La metamorfosi, invece, distrugge tutto ciò e al tempo stesso crea una enorme pressione sulle istituzioni esistenti affinché operino con alternative pratiche nuove e finora inimmaginabili… Il risultato è una «riforma» dell’ordine moderno basato sullo Stato-nazione. …una metapolitica, una politica della politica, una politica che rimodelli la concezione dello Stato-nazione e le corrispondenti norme e istituzioni: non in qualsiasi possibile direzione e controdirezione, ma con lo scopo di un rinnovamento e un allargament… …a rimanere indietro non sono solo avvocati e funzionari pubblici: tutti noi, nel linguaggio e nel pensiero, arranchiamo dietro alla metamorfosi del mondo che si realizza nell’improvvisa possibilità di manipolare l’inizio della vita umana. Siamo tutti prigionieri di un linguaggio che, mentre preserva le antiche certezze della maternità, è cieco e ci acceca di fronte alla nuova varietà di opzioni e forme dell’essere genitori. 2.5. Che ne sarà del principio della responsabilità genitoriale L’esempio della medicina riproduttiva mostra come oggi qualunque persona – anche se vive in una remota città della provincia turca o in un piccolo villaggio svevo da cui non è mai uscito – operi entro un campo d’azione cosmopolitizzato, e possa realizzare meglio le proprie finalità e aspirazioni fondamentali di vita se supera i vincoli culturali e finanziari del proprio contesto nazionale… …sta prendendo forma una nuova immagine dell’umanità e del mondo, che è il prodotto e l’effetto collaterale dei rapidi sviluppi della tecnologia medica. Ciò avviene quasi impercettibilmente, a piccoli passi: non è un’evoluzione finalizzata, né una rivoluzione definita ideologicamente e sistematicamente pianificata. In questo dibattito, i protagonisti sostengono che ciò che conta è il risultato: la nascita del figlio giustifica i mezzi. Le voci critiche sottolineano invece che la risposta alle domande fondamentali evocate dalla fabbricabilità della vita umana viene oggi dal potere muto del mercato capitalistico mondiale: quelle domande, quindi, vengono messe a tacere ancor prima che siano state formulate e discusse pubblicamente. …risultato è che si comincia a intravedere un paradosso della nuova immagine dell’umanità: proprio là dove il desiderio di avere figli si fa tanto pressante e assoluto, nelle procedure tecniche e nella prassi si insinua un’indifferenza, o meglio ancora una irresponsabilità organizzata che finisce per diventare perfettamente «naturale», sostituendosi al carattere incondizionato della responsabilità genitoriale. Ciò che intendo, voglio ripetermi, quando parlo di metamorfosi è esattamente questo: una cosa fino a ieri totalmente impensabile oggi è diventata possibile e reale e crea un quadro di riferimento cosmopolita. È l’ottica nazionale del discorso pubblico e accademico a renderci ciechi alle alternative d’azione in tema di cambiamento climatico che possiamo invece cogliere in una prospettiva cosmopolita. 3.3. La convergenza tra natura e società L’effetto collaterale non visto della sociazione [Vergesellaschaung] della natura è la sociazione del degrado e dei pericoli della natura, la loro trasformazione in contraddizioni e conflitti economici, sociali e politici: le alterazioni delle condizioni naturali della vita si trasformano in minacce globali di natura medica, sociale ed economica, con inedite sfide alle istituzioni sociali e politiche nella società globale altamente industrializzata. 3.4. Il rischio globale arriva come minaccia, ma porta speranza …nel caso del rischio globale vediamo conflitti transfrontalieri, ma anche cooperazione transfrontaliera per scongiurare la catastrofe: è la cosmopolitizzazione di cui parlo. Nell’orizzonte del rischio globale la vita e la sopravvivenza obbediscono, dunque, a una logica diametralmente opposta alla guerra: in questa situazione è più razionale andar oltre la contrapposizione noi-loro, riconoscendo l’altro come partner anziché vedervi un nemico da distruggere. La logica del rischio sposta l’attenzione verso l’esplosione della pluralità nel mondo, negata dall’ottica amico-nemico. (anche se nient’affatto certa) la nascita di una cultura civile della responsabilità che superi i vecchi antagonismi e crei nuove alleanze o nuove linee di conflitto. La cooperazione tra nemici non è sacrificio ma difesa del proprio interesse, necessità di sopravvivenza. È una sorta di cosmopolitismo egoista, o di egoismo cosmopolitico. È necessario perciò tenere distinte due forme di egoismo: quella del neoliberismo e l’egoismo dell’umanità. 3.5. Le metropoli come attori cosmopolitici Da una parte, questi ultimi iniziano a rendersi conto che non ci sono risposte nazionali a problemi globali, favorendo così la nascita di aggregazioni tra grandi città globali, e diventando così soggetti cosmopolitici. Per trovare risposte al cambiamento climatico non dobbiamo più guardare solo alle Nazioni unite, ma anche alle Città unite. il cambiamento climatico nelle città produce effetti visibili; questi effetti incentivano l’innovazione; la cooperazione e la competizione oltrepassano i confini; e la risposta politica al cambiamento climatico diventa risorsa locale di legittimazione politica e di potere Non mancano le contraddizioni. Se una volta l’urbanizzazione si definiva in termini di contrapposizione alla natura, oggi è esattamente il contrario: l’«urbanistica verde» è ovunque; la «sostenibilità» è diventata la norma; ormai è tutta questione di greening. Le città globali creano un nuovo mondo di inclusività, che ha un potenziale sempre maggiore di trasformazione del diritto. 3.6. Pascal, Dio e la scommessa sul clima Due sono gli scenari possibili. Primo: neghiamo il cambiamento climatico. In tal caso, ogni catastrofe finirà per sottolineare l’irresponsabilità dei negazionisti. Secondo: accettiamo l’esistenza del cambiamento climatico, ce ne assumiamo la responsabilità e affrontiamo l’enormità di un cambiamento morale e politico necessario. Come nella dimostrazione di Pascal, ci sono (anche per i negazionisti) valide ragioni di ordine pratico per accettare la realtà del cambiamento climatico: il cambiamento climatico potrebbe cambiare il mondo, renderlo migliore. Visto come rischio globale per la civiltà nel suo insieme, il cambiamento climatico può diventare l’antidoto alla guerra. Crea la necessità di superare il neoliberismo, di riconoscere e applicare nuove forme di responsabilità transnazionale; iscrive all’ordine del giorno della politica internazionale il problema della giustizia cosmopolitica 4. History is back! - 4.1. Il ritorno della storia Nella metamorfosi tematizzata nella società mondiale del rischio, gli effetti secondari dell’agire passato, ormai elevati a effetti principali, hanno interamente permeato la società. Le teorie sociali di un Foucault, di un Bourdieu o di un Luhmann, nonostante tutte le differenze fra loro, hanno in comune con le teorie fenomenologiche e della scelta razionale una cosa essenziale: concentrano l’attenzione sulla riproduzione dei sistemi sociali e politici, non sul loro trasformarsi in qualcosa d’ignoto e d’incontrollabile. Sono sociologie da-fine-della-storia. Oscurano la metamorfosi che rende il mondo una terra incognita. l’incontrollabilità teorica del futuro, la dialettica di significato e la follia della modernità (Bauman 1989), vengono banalizzate nella narrazione della razionalizzazione e differenziazione funzionale del mondo. In tal modo l’orizzonte della sociologia viene surrettiziamente ridefinito e ristretto al presente. La sociologia cade insomma nella trappola del «presentismo», della definizione e perpetuazione di un presente senza alternativa. Per cogliere le trasformazioni, dunque, c’è bisogno di una rottura di fondo con la metafisica dominante della riproduzione sociale, che descrive immancabilmente la circolarità con cui si ripropongono gli stessi schemi e dualismi tipici della modernità. Una simile rottura, che prende atto della rinascita della storicità, rappresenta una minaccia epistemologica e politica, in quanto sfida le discipline scientifiche consolidate e i loro monopoli sul potere di esperienza. Poiché il futuro viene concettualizzato come parte dell’esperienza passata, non c’è soluzione di continuità, ma solo estensioni lineari. È un modello atemporale proteso verso l’eternità: la società del presente domina e colonizza il futuro, raffigurandolo come controllabile. Per la sociologia rompere con la riproduzione dell’ordine sociale e teorizzare la metamorfosi (cosmopolitica) implica una serie di difficoltà epistemologiche e metodologiche. Insomma, la sociologia cosmopolitica è costretta a riorientarsi verso un futuro ignoto e inconoscibile, che si fa presente negli orizzonti temporali del rischio globale. Per teorizzare la metamorfosi occorre una metamorfosi del teorizzare La teorizzazione della metamorfosi, dunque, esige la metamorfosi della teoria. Nella sociologia prevale tradizionalmente l’idea che teoria sia sinonimo di teoria universalistica, e che pertanto occorra distinguere tra teoria e diagnosi dell’epoca presente. In tale distinzione è implicito un giudizio di valore: la diagnosi della contemporaneità sarebbe priva di teoria e, in quanto tale, dubbia… affermo che la posta in gioco è l’ambizione a una diagnosi storica teoricamente informata della metamorfosi del mondo. Di qui si sviluppa un concetto di processo a medio raggio che ci permette di rappresentare quel cambiamento epocale di orizzonte che le teorie universalistiche non riescono a riconoscere. Questa metamorfosi del modo di intendere la teoria ribalta la relazione gerarchica tra teoria universalistica e diagnosi teorico-storica del presente. L’universalismo della teoria sociale, che è tipico della sociologia moderna e impedisce di cogliere il ritorno della storia sociale, diventa un falso universalismo che – ecco una caratteristica chiave della mia diagnosi del presente – oscura l’esistenza di uno spazio e quadro d’azione cosmopolitizzato e la differenza di visione del mondo che oggi intercorre tra il pensare e l’agire. La sociologia è osservatore, ma simultaneamente «attore» sociale della cosmopolitizzazione del mondo che essa stessa diagnostica. In che modo, dunque, è possibile la «teoria»? Che significa «teoria»? dell’osservatore e quella dell’attore della cosmopolitizzazione. L’osservatore – la sociologia della metamorfosi – rende visibili fatti, altrimenti invisibili. In tal modo la sociologia partecipa a processi di costruzione sociale. Il ruolo della sociologia pubblica potrebbe essere (o diventare) quello di accompagnare, come processo di riflessione, il salto quantistico dalla prospettiva nazionale a quella cosmopolitica. La metamorfosi del mondo non può essere concettualizzata in base alla nozione universalistica di teoria, che esclude dall’analisi proprio quella che è la posta in gioco: il cambiamento dei presupposti universalistici Come dichiara Anders Blok, non facciamo teoria: facciamo concetti. La teorizzazione a medio raggio ha ambizioni sia empiriche che teoriche e le combina in un approccio cosmopolitico praticabile. la sfida non sta più nel cercare una teoria unificata o universale, ma nel forgiare un’architettura concettuale in grado di organizzare punti d’incontro sempre più numerosi tra prospettive diverse, cimentandosi con esperienze collettive e condivisibili d’incontro con «l’altro globale»… 4.2. Dal cambiamento alla metamorfosi della storia Dal cambiamento alla metamorfosi della storia civiltà e le religioni, sia a oriente che a occidente. Ma il colonialismo occidentale, sospinto dall’idea del cristianesimo universale, è andato molto vicino a realizzare l’obiettivo del dominio globale. …il colonialismo occidentale va letto come irretimento gerarchico tra centro e periferia. La stabilità del potere coloniale si fondava in parte anche su un’idea d’inferiorità e di primitivismo che attraverso la violenza s’imprimeva nei colonizzati fino a diventare parte della loro identità. La nascita degli Stati-nazione europei non sarebbe stata possibile senza lo sfruttamento di uomini e risorse fisiche nei territori colonizzati. Ciò non significa che il colonialismo sia stato una prima versione della cosmopolitizzazione. Sebbene l’irretimento sia in entrambi i casi asimmetrico, si può parlare di cosmopolitizzazione solo se i legami asimmetrici vengono visti in chiave di una previsione di uguaglianza. Spiegare la «metamorfosi del postcolonialismo» significa in realtà distinguere con cura tra colonizzazione e cosmopolitizzazione. La metamorfosi parte dalla distinzione tra dipendenza (teoria) e cosmopolitizzazione (teoria). A cambiare è la loro qualità sociale e politica: la cosmopolitizzazione crea orizzonti normativi di uguaglianza e giustizia, generando sulle strutture e istituzioni di disuguaglianza e potere globale una pressione al cambiamento inclusivo (capitolo 6). Questo primo processo di metamorfosi non si accompagna necessariamente a una riduzione delle asimmetrie (anzi, le disuguaglianze globali potrebbero persino aumentare), ma all’implementazione di norme globali di uguaglianza. Ciò accade attraverso il regime dei diritti umani e la sua istituzionalizzazione e difendibilità legale a livello globale: è questo a convertire le gerarchie globali esistenti (percepite dai colonizzatori come) «naturalmente date (‘beni’)» in «mali politici», che infrangono l’ordine normativo del mondo. Il secondo processo di metamorfosi fa riferimento ai rischi globali che intensificano e (tras)formano, sia pure in modo disomogeneo e sporadico, i rapporti sociali a livello mondiale, creando momenti di destino comune. …a dai rischi globali trasfigura l’imperialismo unidirezionale in diffusione globale di incertezze fabbricate, che diventa un problema comune che non può essere risolto a livello nazionale o richiamandosi al vecchio dualismo tra «coloniale» e «postcoloniale». …colonialismo vengono ricordate e ridefinite alla luce dei futuri a rischio. Ana María Vara (2015) nota che la metamorfosi del neocolonialismo in cosmopolitizzazione dipende fondamentalmente, e in un modo molto specifico, dalle strutture e risorse di potere. C’è anche bisogno di quella che si potrebbe chiamare la «emancipazione del potere». Si può affermare che il processo di metamorfosi dipende ulteriormente da fatti che rendono evidente l’inclusione degli esclusi (post)coloniali nella negoziazione sui problemi mondiali, in conseguenza dell’emancipazione del potere. Tutto ciò porta con sé nuovi scenari di minaccia e speranza. 4.3. Oltre la società del rischio L’ottimismo deterministico tecnologico A trasformare il mondo (come mostrerò più dettagliatamente avanti) non è solo la società mondiale del rischio. Esiste anche una diversa modalità di metamorfosi del mondo: il nuovo ottimismo deterministico tecnologico, dettato da una sana ignoranza dell’impossibile… …viaggio verso un mondo diverso. In tal modo si è aperto un baratro. La classica visione del mondo basata sulla fede moderna nel progresso orienta ancora l’agire – la credenza nella forza redentrice della tecnoscienza, nell’idea di un progresso senza limiti, nell’inesauribilità delle risorse naturali, nella crescita economica infinita e nel primato politico dello Stato-nazione. La teoria della società del rischio ha affrontato questa credenza evidenziandone la fragilità e inadeguatezza teorica alla luce degli scenari di disastri potenziali e incertezze che oggi si manifestano proprio in conseguenza dei trionfi del progresso. M… …superottimismo sul progresso che libererà il mondo da tutti i mali prodotti dalla modernità, prevenendo i tumori, allungando la vita, superando la povertà, fermando il cambiamento climatico, spazzando via l’analfabetismo e così via – o almeno è ciò che promettono i nuovi crociati della fede tecnologica nel progresso. «A Silicon Valley», dice il futurologo Paul Saffo della Stanford University, «sono convinti di non creare semplicemente prodotti, ma rivoluzioni»;… …cambiare il mondo con la tecnologia brilla una luce sconcertante. Costoro contravvengono al ragionamento di fondo della teoria della società mondiale del rischio, che si articola in tre passaggi. Il primo è il paradosso per cui ignorare gli effetti secondari distruttivi dei trionfi della modernizzazione (la fede nel progresso) non fa che accelerare, aggravare e generalizzare il processo di distruzione che è insito in essa. I pericoli sociali e politici vanno nettamente distinti da questa distruzione e minaccia fisica… …di grande importanza sociologica l’idea, sviluppata nel concetto di società mondiale del rischio, che gli effetti secondari ambientali del capitalismo industriale portino con sé un potere trasformativo della società: un potere di proporzioni quasi metafisiche. In altri termini, la società del rischio è il prodotto della metamorfosi che diventa forza produttiva e agente della metamorfosi del mondo. Il secondo passaggio chiave è che le conseguenze distruttive della produzione industriale non possono essere esternalizzate all’infinito… Un terzo aspetto saliente della metamorfosi riguarda l’influenza dei rischi globali sulla stessa coscienza o presa di coscienza (della metamorfosi). È una questione da una parte di «riflessività» (confronto con sé stessi), dall’altra di riflessione (sapere, discorsi global… Un mondo cosmopolitizzato contrassegnato da un forte livello di riflessività, in cui si dà per scontata la problematizzazione di qualsiasi rapporto sociale e si amplia progressivamente lo spazio per l’agire cosmopolitico, di fatto stimola in modo nuovo la critica politica e scientifica… La litania del fallimento crea forme di prassi e spazi d’azione cosmopolitizzati per la critica politica e l’attivismo politico. È il linguaggio delle tante rivolte culturali – la Primavera araba, al-Qaida, Occupy, persino il terrore militante dell’Is –, tutte accomunate da due cose: arrivano di sorpresa e aspirano a cambiare il mondo. La resistenza spesso feroce alla cosmopolitizzazione del mondo – attraverso i movimenti di rinazionalizzazione che sorgono in tutto il mondo e il rafforzamento dei partiti antieuropei in Francia, Gran Bretagna, Ungheria e nella stessa Germania – sottolinea la forza con cui il mondo si cosmopolitizza. Questa cosmopolitizzazione è egemonica su terreni cruciali. Si avvale di una serie di vettori, volontari e involontari, che avallano la legittimità del governo democratico, l’universo delle organizzazioni internazionali (il sistema Onu, l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fondo monetario internazionale ecc.) e i movimenti e le reti della società civile. Inoltre, vanno ricordati potenti vettori subpolitici come le comunità epistemiche di esperti, le imprese globali e i sistemi bancari. Tutti questi soggetti penetrano sempre più nella dimensione locale. …certezza costruita e costruibile (hergestellte Fraglosigkeit)» (Beck 1997, p. 63). Biologismo, nazionalismo etnico, neorazzismo, fondamentalismo religioso militante: in tutti questi casi siamo di fronte a un rifiuto ideologico dei problemi creati dal processo di modernizzazione. La contromodernità è in effetti un fenomeno squisitamente moderno: non è l’ombra della modernità, ma un fatto coevo alla stessa modernità industrial… Il cosmopolitismo del mondo, dunque, viene determinato in modo duplice: da una parte, affranca ogni cosa nella libertà di nuove opportunità e vincoli decisionali; dall’altra, le «asperità della libertà» e la forza egemonica con cui incede la cosmopolitizzazione diventano il punto di partenza di ideologie contromoderne… …la società del rischio segna una nuova fase della modernità, in cui quelli che un tempo erano i «beni», tanto ambiti e contesi, delle moderne società industriali – redditi, posti di lavoro e sicurezza sociale – vengono oggi controbilanciati da conflitti su quelli che Beck definisce «mali» – tra i quali si contano anche i mezzi necessari per ottenere molti dei beni di un tempo. Più precisamente, i «mali» comprendono i pericolosi e imprevedibili effetti secondari e cosiddette «esternalità» prodotti dall’energia nucleare e chimica, dalla genetica, dall’estrazione di combustibili fossili e dall’ossessione generale per la crescita economica prolungata… differenza tra rischio e catastrofe – e cioè la previsione della catastrofe per l’umanità (che in realtà non è la catastrofe!) – è una forza potentissima d’immaginazione, motivazione e mobilitazione. Dobbiamo poi distinguere tra «rischi globali» e «rischi normali»: Detto altrimenti, la nozione di società mondiale del rischio può essere ridefinita come la somma dei problemi per i quali non c’è risposta istituzionale. La società del rischio sta diventando l’agente della metamorfosi del mondo. Non è possibile comprendere o gestire il mondo, e il proprio posto nel mondo, senza analizzare la società del rischio. La sua dinamica di conflitto è un prodotto di minacce senza precedenti e di opportunità d’azione politica anch’esse senza precedenti. I processi in corso sono due. Il primo è il processo di modernizzazione, che ha a che fare con il progresso e ha come obiettivi l’innovazione e la produzione e distribuzione di beni. Il secondo è invece il processo di produzione e distribuzione di mali. Questi due processi si sviluppano e spingono in direzioni opposte, ma sono intrecciati. Questo legame reciproco non è prodotto dal fallimento del processo di modernizzazione, o dalle crisi, ma, al contrario, dal successo. 5.. La disuguaglianza ai tempi della metamorfosi Perché metamorfosi – e non trasformazione – della disuguaglianza sociale? Quelli che studiano la trasformazione (o il cambiamento) della disuguaglianza sociale generalmente partono da due presupposti. Primo, concepiscono le disuguaglianze sociali in termini di distribuzione dei beni (reddito, qualificazioni formative, assistenza sociale ecc.), senza tenere minimamente in considerazione la distribuzione dei mali (ossia le posizioni nella struttura della distribuzione dei vari tipi di rischi), e tanto meno la questione del rapporto tra la distribuzione (o la logica di distribuzione) di beni e Nella disuguaglianza sociale e nel cambiamento climatico confluiscono molte dimensioni diverse. Il cambiamento climatico come processo fisico va letto come forza capace di redistribuire disuguaglianze sociali estreme, in quanto altera i tempi e l’intensità delle nostre piogge e dei nostri venti, l’umidità dei nostri suoli e il livello dei mari che ci circondano. …cambiamento si verifica, e quali interventi mettere in atto per moderarne gli effetti. A introdurre – produrre e riprodurre – vecchie e nuove disuguaglianze sociali non è quindi solo il cambiamento climatico in quanto processo fisico, ma anche le reazioni politiche e i discorsi che ne derivano… Entra qui in campo uno specifico aspetto della metamorfosi: le condizioni ecologiche, la distribuzione delle proprietà e i sistemi di potere che in una fase di cambiamento climatico espongono particolarmente ai rischi determinate popolazioni, comunità e persino continenti. Il che porta con sé un dato politico di fondo: chi è più esposto al rischio nella fase delle risposte politiche? Ecco quindi due risorse che aiutano a capire come il clima modifichi le disuguaglianze: i danni materiali e le violazioni conseguenti alle modificazioni dei fenomeni meteorologici dovute al cambiamento climatico, e le disuguaglianze generate dagli interventi per fronteggiare il cambiamento climatico. È qui che al danno si aggiunge spesso l’ingiustizia: la «politica dell’invisibilità» impedisce di riconoscere quelle radicali disuguaglianze… 5.2. Stati di calamità permanente Un’importante differenza potrebbe emergere, ad esempio, disaggregando i dati sulle alluvioni per unità di ricerca: aree di alluvione fluviale o di alluvione marina. Apparirebbero chiaramente le implicazioni della «disuguaglianza antropocenica»: la prospettiva cambia al variare dell’unità geografica di ricerca. Se esaminiamo le alluvioni costiere le differenze di classe risultano evidenti, ma se guardiamo le alluvioni fluviali scompaiono quasi. Il profilo di [...] alluvione fluviale ci appare molto piatto, con piccole variazioni fra chi è più deprivato e chi lo è di meno. Ciò fa una notevole differenza politica: un’alluvione che colpisce solo o soprattutto i meno privilegiati può diventare un’alluvione apolitica, celata e dispersa all’ombra degli effetti collaterali. Ma un’alluvione fluviale che colpisce fasce privilegiate di popolazione è (in Inghilterra) un’alluvione altamente politica, in contee dove abitano tanti elettori tory. Il «muro di Berlino degli effetti collaterali» crolla, e questo per un governo tory in periodo di elezioni diventerà un problema molto serio. Ecco un esempio di come la classe di rischio produca un nuovo tipo di «intreccio» tra le alluvioni e lo Stato. 5.3. Il terroir dell’Europa meridionale Il primo caso mostra come la distribuzione dei rischi non segua la logica di classe, ma in realtà accada l’opposto; ed esemplifica anche la nozione di «classe antropocenica». Ecco una posizione, definita in termini di classe di rischio, in cui il rischio climatico riguarda i ricchi – anzi, in questo esempio, i molto ricchi: i proprietari dei vigneti da cui si ricavano i migliori vini del mondo. Il rischio climatico globale sta trasformando la gerarchia di classe, ribaltandola e al tempo stesso avviluppandola nel rapporto tra società e natura (vigneti). Ma il rischio climatico non va confuso con la catastrofe del mutamento climatico: sarebbe un grave errore sotto vari aspetti. Da una parte, i viticoltori (come tutti coloro che con il rischio climatico perdono) si trovano di fronte a catastrofi naturali di cui non è facile cogliere il carattere artificiale, creato dall’uomo. Come ho già detto, come regola generale, non è sempre facile distinguere chiaramente tra disastri naturali «naturali» e disastri naturali «creati dall’uomo»… Ma ecco un secondo aspetto importante: i viticoltori non sono alle prese con una effettiva crisi climatica, ma con la sua previsione, con la minaccia di un evento futuro che incombe sull’umanità – insomma, con il rischio climatico. Dunque, dal punto di vista di una classe agiata – i produttori di vini di livello mondiale – il «cambiamento climatico» non si presenta come puro e semplice cambiamento climatico, ma come una situazione che richiede una decisione. Chi nega l’esistenza del cambiamento climatico (magari pensando di proteggere la propria ricchezza e di preservare le tradizioni) rischia di accelerare la distruzione e di arrivare troppo tardi per approfittare delle necessarie alternative. Chi invece ammette che il rischio climatico esiste, in virtù di questo semplice atto svaluta i propri beni, su cui si staglia la minaccia di una rapida distruzione. Tutto ciò, per cominciare, ha conseguenze economiche tangibili (anche invisibili). …riconoscere l’esistenza del rischio climatico crea per la prima volta la possibilità di contromisure nell’ambito del proprio raggio d’azione. Ma tali contromisure si inquadrano nel contesto di una diversa visione del mondo, ossia nel quadro d’azione cosmopolitizzato di cui fanno parte sia il rapporto della società con la natura che i modelli sul clima globale e il fallimento della politica. In questa visione del mondo un ruolo importante assume il terroir: concetto ricco di sfaccettature, che solo molto superficialmente si può tradurre come «terra» o «suolo», e indica in realtà un insieme di oggetti naturali e processi culturali vecchi e nuovi… La posizione di classe naturale dei ricchi viticoltori sudeuropei si sta trasformando, nel contesto del rischio climatico, in un duplice, specifico campo d’azione cosmopolita. Da una parte, il rischio climatico porta con sé una cosmopolitizzazione passiva, forzata, dolorosa, che cambia alla radice le condizioni di lavoro e d’azione dei viticoltori. La mutazione del tempo atmosferico in agente del cambiamento climatico lo tramuta in nemico quotidiano che minaccia di inaridire le fonti della loro ricchezza e identità. Il «tempo», così inteso, non è a sé stante: alle sue spalle ci sono gli attori che producono e negano il cambiamento climatico. Essi rappresentano una minaccia esistenziale che non rientra nella vecchia logica amico-nemico ma trascende le divisioni nazionali, religiose ed etniche; ciononostante, appaiono come un complesso di potere che saccheggia le fondamenta stesse della nostra esistenza naturale, storica, morale ed economica6. Dall’altra parte, questa situazione genera anche nuove possibilità pratiche di reinventare il vino francese: Vitigni speciali, in linea con la filosofia di una visione del mondo biodinamica, possono aprire nuovi mercati internazionali. È il caso di Isabelle Frère, una viticoltrice «che voleva solo vivere in modo sostenibile, ma paradossalmente ha compiuto un piccolo miracolo di globalizzazione, e oggi vende i propri vini soprattutto in Giappone» (ibid.). Chi rimane ancorato alla visione nazionale è perdente, mentre chi fa il salto verso lo spazio d’azione cosmopolita può avere nuove opportunità per difendere le tradizioni e i mezzi di sussistenza locali. 5.4. La metamorfosi dei beni in rischi Il secondo esempio riguarda la metamorfosi dei beni in rischi. In questo caso parliamo di importanti zone marittime e industriali che, per il fatto di trovarsi a New York, si caratterizzano come aree litoranee ricche di imprese industriali e commerciali che dipendono fortemente dalla prossimità dell’acqua. Nel 1992 questi siti furono riconosciuti come aree privilegiate che andavano protette e incoraggiate a mantenere invariata la loro destinazione d’uso. Oggi queste posizioni, se osservate e mappate dal punto di vista degli esperti di giustizia climatica, non sono più privilegiate ma a rischio: ecco quindi dei produttori di beni che, in quest’orizzonte di previsioni catastrofiche, diventano, potenzialmente o effettivamente, vittime di mali, allorché gli esperti si rendono conto che ognuna di quelle posizioni privilegiate è situata in una zona esposta ad alluvioni e tempeste. … imprese con gli occhi delle disuguaglianze e ingiustizie del rischio climatico, cambiano, con le domande, anche le risposte, ed emergono altre realtà: qui la logica della produzione e distribuzione di mali prevale sulla produzione e distribuzione di beni. Sapere che queste alluvioni e tempeste diventeranno più frequenti e intense, sapere che ci sono popolazioni vulnerabili, e tuttavia non far nulla, rinunciare ad agire, significa abdicare alla legittimità della forma di governo democratica. Attivarsi politicamente diventa dunque una questione di potere e di legittimazione. …rischi climatici modificano la nozione di CLASSE di rischio in classe di RISCHIO. L’attenzione si concentra sul rischio assoluto per l’umanità (come nel caso di meltdown, della fusione cioè di un reattore nucleare, i cui effetti sono tali da minacciare ugualmente i ricchi e i poveri, il Nord e il Sud). Il passaggio dalla CLASSE di rischio alla classe di RISCHIO dipende in gran parte dal profilo delle parole «futuro» e «giustizia». C… Un esempio che aiuta a comprendere come la produzione e distribuzione dei rischi significhi metamorfosi delle disuguaglianze di classe è la crisi dell’euro, con le sue conseguenze. …delle classi medie e delle giovani generazioni è drasticamente peggiorata. In questa dinamica di produzione e distribuzione del rischio confluiscono la struttura della disuguaglianza a livello europeo, transnazionale e internazionale e la dinamica di disuguaglianza interna a una nazione. Ciò non si può più cogliere con la tradizionale categoria di «nazione»: serve il concetto di «paese a rischio». Analogamente, i tradizionali concetti di regione o di area non bastano più per comprendere le conseguenze del rischio climatico, che vanno affrontate con la nozione di «zone a rischio». 5,5. Sapere è (sempre di più) potere Da quanto fin qui detto, vengono fuori tre punti importanti. Primo, la prospettiva cosmopolita cambia il modo di vedere persone e collettività, che non sono più vulnerabili vittime potenziali, ma cittadini titolari di diritti da affermare, conquistare e proteggere. Se i disastri climatici diventano questione di giustizia, allora non vanno più visti in primo luogo come rischi da gestire, ma diventa necessario interrogarsi sulla giustizia dell’attuale distribuzione delle disuguaglianze e vulnerabilità. Secondo, il punto di vista cosmopolita solleva la questione del chi: l’unità di ricerca e di azione politica non è più prestabilita e «data» sulla base di zone di rischio (di alluvioni ecc.) definite in termini geografici nel quadro delle frontiere nazional-statali che ne sono il presupposto. Concentrandosi sulla produzione e distribuzione di mali, occorre tener conto anche del punto di caduta, che ovviamente non ha a che fare con il punto d’origine, e guardare ai modi in cui si trasmettono e si spostano, spesso invisibili e irrintracciabili nella vita quotidiana. Per vincere questa invisibilità sociale (costruita come effetto collaterale) l’unità di ricerca deve collegare ciò che dal punto di vista nazionale e geografico appare scollegato: precisamente questo è il fine della prospettiva cosmopolitica («cosmopolitismo metodologico»). Terzo, oltre al «chi», la prospettiva cosmopolitica può aiutare ad affrontare la questione del perché (perché esistono schemi di Confondere catastrofi illimitate e incidenti circoscritti aiuta a nascondere i rischi invisibili dietro quelli normali, le radiazioni nucleari dietro gli incidenti d’auto. Nascono così strategie di politica simbolica in cui disastri senza confini vengono rappresentati e «gestiti» alla stregua di piccoli incidenti. Da una parte si avviano indagini sul rischio, dall’altra quelle stesse indagini vengono organizzate in modo da rimanere alla larga dalle domande cruciali, limitandone l’ampiezza e circoscrivendone l’ambito in termini di spazio, di tempo e di gruppi sociali coinvolti. Esiste poi un’altra strategia di invisibilità molto efficace, con la quale l’attenzione (il quadro di riferimento) viene spostata dagli effetti per la salute ai costi economici e ai problemi economico-amministrativi: in altre parole, vengono sottolineati i vincoli economici. 6. 2. La fabbricazione del non-sapere La nostra conoscenza dei rischi globali è fortemente dipendente dalla scienza e dagli esperti: sono queste le principali istituzioni di potere in un mondo in cui tutti si trovano di fronte a rischi esistenziali invisibili e fuori controllo. La metamorfosi è strettamente connessa all’idea d’inconsapevolezza, in cui è insito un profondo e persistente paradosso. Da una parte, la metamorfosi pone l’accento sui limiti intrinseci del sapere, e soprattutto sul fatto che esiste un sapere che non possiamo o non ci preme particolarmente acquisire, e che la nanotecnologia, la bioingegneria e altri tipi di tecnologie emergenti portano con sé non solo i rischi conoscibili, ma anche rischi che non possiamo conoscere; di qui una serie di limiti di fondo alla capacità sociale di comprendere e controllare i rischi. …la coincidenza e coesistenza tra il non sapere e i rischi globali diventa il segno caratteristico dei momenti esistenziali di decisione non solo in campo politico o scientifico, ma anche nelle situazioni di vita quotidiana. Capire come sopravvivere e decidere in condizioni di non-sapere e d’inconsapevolezza non è un falso problema ma, all’inizio del ventunesimo secolo, è la problematica esistenziale a qualsiasi livello decisionale, dalle famiglie alle organizzazioni nazionali e internazionali. Chiedere ai comuni mortali di modificare in modo personalizzato il proprio stile di vita non risolve il problema di fondo: la strutturale insostenibilità di questa «posizione di rischio». L’altra parte è che individui e famiglie non possono fare a meno di sviluppare delle pratiche per affrontare quel pericolo invisibile, ma per attenuare il rischio di radiazioni e ridurre le proprie dosi dipendono da informazioni di esperti in conflitto. …è sbagliato attendersi che i gruppi esposti a rischi radioattivi abbiano la stessa prospettiva e mettano in pratica le stesse risposte. Ed è anche sbagliato ritenere che le loro idee siano irrazionali, intuitive, esperienziali e immutabili nel tempo. È vero anzi l’opposto: «Un individuo può avere varie prospettive»… E le posizioni di rischio in cui si trovano le persone sono anch’esse «posizioni antropoceniche». Le stesse radiazioni, e le risorse per farvi fronte, sono distribuite in modi diseguali e strutturalmente prestabiliti. Ma al tempo stesso, le dosi di radioattività vengono personalizzate. Supponiamo che mentre i prodotti venduti nei negozi di alimentari d… Questa metamorfosi della natura in minaccia di civiltà crea un fatto nuovo, che si può definire «appropriazione dell’ambiente» o «appropriazione del rischio», e rappresenta una svalutazione del capitale naturale senza precedenti, a parità di rapporti di produzione (proprietà) e a volte anche di caratteristiche dei prodotti. Per tornare dunque alla domanda su dove stia andando il potere, la prima parte della mia risposta è: la struttura di potere del rischio globale non è più esclusivamente o principalmente imperniata sullo Stato (come sostiene invece la prospettiva nazionale), ma sulle culture epistemiche degli espert… Solo le lenti della teoria della metamorfosi danno visibilità ai rapporti di definizione e alla loro problematizzazione storica. La legge, concepita, istituzionalizzata e rinchiusa nell’ambito nazionale, non può tener conto della sensibilità e vulnerabilità al rischio di altre popolazioni e nazionalità in altre parti del mondo. Nella definizione del rischio da parte delle comunità epistemiche globali di esperti possiamo distinguere due diversi modelli di potere: il modello dell’industria nucleare, in cui gli esperti sono sia creatori che controllori del rischio, e il modello del cambiamento climatico, in cui i climatologi sono esperti di effetti secondari. 6.3. Il dilemma dello scienziato nucleare Nel modello dell’industria nucleare, gli esperti cui spetta la definizione dei rischi creano il rischio nucleare e al tempo stesso lo valutano. …l dominio politico, con l’invenzione e la realizzazione della democrazia sono nate le norme della separazione dei poteri. Una delle caratteristiche principali del complesso di potere del nucleare è che non esiste alcuna separazione di poteri di definizione. … dei rischi nucleari, tutte queste domande in ultima analisi non sono nemmeno tali, in quanto gli esperti che producono e diagnosticano il rischio hanno un monopolio globale di definizione – sia nei confronti degli Stati che dei sistemi giuridici nazionali. Il potere di definizione dell’industria nucleare occidentale è organizzato su scala globale… Il «paese a rischio» particolarmente minacciato dalle conseguenze della catastrofe nucleare è organizzato come luogo e attore che cerca di spezzare il potere monopolistico degli esperti nucleari internazionali e delle loro organizzazioni. Nei comitati e convegni di esperti internazionali e nazionali la politica dell’invisibilità viene messa per la prima volta in discussione evidenziando fatti in precedenza taciuti: per esempio, il gran numero di medici che se ne sono andati da zone che pure …invisibili. L’antagonismo e il disaccordo tra i potenti esperti internazionali di rischio nucleare e gli esperti locali che sperimentano e analizzano sul terreno la complessità dei rischi si colgono bene nell’approccio seguito nello studio (ancora sostanzialmente di là da venire) degli effetti a lungo termine di piccole dosi di radioattività. …periodo di dosi di radiazioni classificate come tollerabili a breve termine. L’esistenza di zone con diversi gradi di bassa contaminazione offriva un’opportunità ideale per questo tipo di indagine. Ma i tentativi di finanziare progetti di ricerca al riguardo sono stati affondati dalle resistenze della Iaea… Queste resistenze non sono necessariamente la semplice difesa di un monopolio di potere: in realtà, è proprio partendo dalla convinzione della razionalità della propria posizione che si esclude a priori dalla discussione la questione del potere, puntellando e proteggendo la propria posizione di potere. 6.4. Il paradosso del climatologo …comunità epistemica internazionale e della sua organizzazione. La necessità di un contropotere di esperti indipendenti discende proprio dalla «naturale» invisibilità di quel rischio, che impone di analizzare costantemente e criticamente le condizioni empiriche e gli standard di tutela. In altri termini, anche coloro che sono più colpiti dal rischio dipendono da mezzi scientifici e amministrativi di visibilità, senza i quali vivono come i fellahin dell’antico Egitto. La cosa più importante è che tutto questo implica una «democratizzazione del rischio», che democratizza l’accesso al – e il possesso del – rapporto di potere di definizione. S… …le società del rischio altamente sviluppate, per poter funzionare efficacemente, devono essere democratizzate. Occorre una riforma dei rapporti di definizione. Poiché non riconosciamo o neghiamo i rischi globali della modernità estrema (in una ostinata inconsapevolezza), ciò rende il mondo un luogo particolarmente pericoloso e, forse, fragile. …ome abbiamo visto, i soggetti più vulnerabili in termini socioeconomici sono quelli che fanno maggiormente le spese della costruzione sociale dell’ignoranza. Per dirla in termini teorici, i rapporti di definizione sono subordinati ai rapporti di produzione. Ma questa subordinazione non è una necessità. Come dimostrano alcune società, è possibile portare avanti riforme dei rapporti di definizione a parità di rapporti di produzione. Nel caso dei climatologi 1) la struttura di potere del rischio è organizzata in modo tale da non porre il monitoraggio e l’espressione del rischio pubblico del riscaldamento globale in conflitto con i loro interessi; 2) al contrario, il loro potere di definizione e il loro status sociale crescono grazie alla politica di visibilità pubblica del rischio climatico per l’umanità (impercettibile); 3) una componente importante della loro professionalità consiste proprio nel creare e difendere tale visibilità pubblica, aprendo e difendendo spazi soprattutto a chi è maggiormente investito dal riscaldamento globale… …esiste una divisione dei poteri tra chi produce i rischi e chi li valuta; e infine, ma non meno importante, (6) la valutazione degli «effetti secondari» che minacciano la sopravvivenza dell’umanità scaturisce dalle scienze naturali e dai mezzi scientifici, dal potere di definizione e dall’autorità propri di queste discipline. Gli scienziati del clima amplificano o creano una preoccupazione globale. La distinzione e disuguaglianza globale tra chi produce e chi subisce i rischi acquisisce così visibilità, in contrapposizione con una politica e un diritto istituzionalizzati e organizzati su base nazionale. I climatologi attuano dunque una duplice politica della visibilità. Il fine è rendere visibile una minaccia invisibile all’umanità. In tal modo essi creano uno sguardo cosmopolita che rende visibile la struttura sociale del potere e della disuguaglianza. A differenza del rischio nucleare, nella scienza del clima non esiste collegamento tra lo Stato e il potere di definizione degli esperti. Alla valutazione del rischio climatico globale non corrisponde alcun soggetto politico. E un’efficace politica del clima, per essere declinata e realizzata nei diversi contesti politici nazionali, deve superare ogni sorta di ostacoli. Ciò si deve al fatto che la legittimità delle istituzioni nazionali in frutto del «lavoro sui significati» in chiave trasformativa compiuto da attivisti che rendono testimonianza alla sofferenza di altri lontani Il lavoro culturale non si esaurisce nella mera rappresentazione degli eventi, ma include il contesto simbolico nel quale e sullo sfondo del quale viene percepito l’evento, i modi d’immaginare la catastrofe «Le attività artistiche stanno partecipando attivamente a questa ‘rischiosa’ cosmopolitizzazione, dando voce e ‘visibilità’ estetica alle tematiche e preoccupazioni climatiche, e praticando così... un’estetica della cosmopolitizzazione!» (Thorsen 2014). Al fine di produrre potere civico questi vettori culturali e operatori dei significati devono costruire localmente eventi extranazionali in modi tali da rivelare, nonostante le differenze linguistiche e storiche, un alto livello di intertestualità che generi momenti di comprensione comune. la globalizzazione degli orizzonti normativi della giustizia climatica può essere osservata e studiata sia in modalità orizzontale che verticale. La modalità orizzontale, naturalmente, è questione di fare rete a livello internazionale e di globalizzazione dal basso. anche processi di globalizzazione verticale, che non sono sganciati dalla circolazione orizzontale di idee e significati attraverso le frontiere. In tal modo la «logica» del rischio globale si fa reale, dal momento che include le responsabilità transnazionali per danni verificatisi in luoghi remoti, I rischi globali (per esempio quelli legati al clima globale) non sono il risultato di una qualche specifica catastrofe che colpisca qualcun altro in un qualche spazio e tempo specifico, ma vanno rappresentati («costruiti socialmente») come previsioni di catastrofi del genere umano per-noi. Perciò la questione diventa: in che modo la prospettiva cosmopolitica «si fa reale» – realtà al di là delle frontiere – «per-noi» ? Ciò presuppone ad esempio – volendo fare qualche congettura – la rappresentazione di una somma di tragedie percepite come nazionali ma interconnesse. Le implicazioni del turismo di massa nelle catastrofi climatiche che a loro volta lo minacciano è uno dei modi in cui la distanza geografica e sociale della catastrofe «per- altri» si trasfigura, attraverso la prossimità sociale di una catastrofe «distante da noi», in catastrofe «per-noi… 7.3. Una bussola per il ventunesimo secolo Gli choc antropologici avvengono quando molte popolazioni ritengono di aver dovuto subire eventi orribili che lasciano segni indelebili nella loro coscienza, si imprimono per sempre nella loro memoria e sono destinati a cambiare profondamente e irrevocabilmente il loro futuro. Da ciò può nascere una catarsi sociale che coinvolge riflesso, riflessività e riflessione. Lo choc antropologico genera una sorta di memoria compulsiva collettiva che ci ricorda come le decisioni e gli errori del passato siano contenuti in ciò cui ci troviamo esposti;… Nel discorso e nella riflessione pubblica il rischio climatico globale, ma anche il rischio finanziario globale e via dicendo, si rivelano come incarnazioni degli errori dell’industrializzazione e finanziarizzazione che avanzano. Come cerco di mostrare con il caso di studio sul cambiamento climatico, la metamorfosi procede in modo latente, dietro i muri mentali di effetti secondari indesiderati e costruiti come «naturali» ed «evidenti di per sé» dalle leggi (nazionali e internazionali) e dal sapere scientifico. l’altra parte è che lo choc antropologico della catastrofe crea un «momento cosmopolita». Questo passaggio catartico sgretola i muri mentali degli effetti secondari costruiti istituzionalmente, e ci mette in grado di studiare empiricamente, come fatto sociale, in che modo orizzonti cosmopoliti emergono e diventano globali. La mia tesi è che il cambiamento climatico produce empiricamente un fondamentale senso di violazione esistenziale ed etica del sacro che crea il potenziale per qualsiasi tipo di aspettativa ed evoluzione normativa – norme, leggi, tecnologie, cambiamenti urbani, negoziati internazionali e così via. È questo il potere della metamorfosi verso un orizzonte cosmopolitico di aspettative normative. Il discorso sulla giustizia climatica ha evidenziato un certo numero di ostacoli, alcuni dei quali portano con sé difficoltà teoriche. Un esempio è che le problematiche di giustizia climatica coinvolgono spesso, e particolarmente, le generazioni future. Si pone così il problema di come applicare delle norme di giustizia a destinatari che non esistono ancora e che perciò non possono intervenire in prima persona su decisioni che influenzeranno drammaticamente le loro condizioni di vita. Spesso chi è ingiustamente investito dal rischio del cambiamento climatico non ha un interlocutore specifico cui rivolgere le proprie rimostranze, e ciò finisce per agevolare l’applicazione del sistema giuridico nazionale esistente, che esclude gli esclusi. Il problema della giustizia climatica rivela i legami tra le basi coloniali del diritto internazionale e le basi filosofiche dell’immaginario giuridico occidentale. Quel che è in gioco qui empiricamente, e quindi normativamente, è una modalità di violazione che compromette lo stesso ordine vivente. porre il problema dell’ingiustizia climatica indicando individui, comunità e nazioni che si sono trovati dalla parte sbagliata della storia coloniale e che dopo tanto soffrire soffrono ancora è di per sé segno che la cosmopolitizzazione sancita dal rischio climatico globale crea un orizzonte normativo e una riflessività su questo fatto. Ancor più, ricrea (come fatto) l’aspettativa (e a volte anche la convinzione) che la riforma delle istituzioni (diritto, politica, economia, pratiche tecnologiche, consumo e stili di vita) sia ormai urgente, moralmente imperativa e politicamente fattibile – anche se non si realizza nelle conferenze internazionali e nella politica. rischio climatico globale segnala nuovi modi di essere, vedere, ascoltare e agire nel mondo, fortemente ambivalenti, aperti, imprevedibili nei loro esiti. Perciò metamorfosi significa anche riproblematizzazione del passato sulla base di un futuro immaginato come a rischio. Le norme e gli imperativi che guidavano le decisioni passate vengono rivisti a partire dall’immagine di un futuro che ci minaccia. Da ciò derivano idee alternative sul capitalismo, sul diritto, sul consumismo, sulla scienza (per esempio l’Ipcc) ecc. La metamorfosi include anche un approccio autocritico al dogmatismo nella creazione quotidiana di norme. 8. La politica della visibilità Il rapporto tra «comunicazione» e «mondo» è centrale per la teoria sociale della modernità. La comunicazione ha un ruolo fondamentale, sia pure in modo essenzialmente diverso, anche nella mia teoria della metamorfosi: di fatto, la comunicazione è concepita e concettualizzata attraverso la prospettiva, appunto, della metamorfosi. …ia della società moderna, ciò significa che la comunicazione ha molto a che fare con la metamorfosi della società e della politica moderna. Non c’è metamorfosi senza comunicazione: la comunicazione della metamorfosi è elemento costitutivo della metamorfosi. Finora ho esaminato questo cambiamento epocale di orizzonti attraverso la metamorfosi delle disuguaglianze sociali: dal rischio alla classe di rischio, al paese a rischio e alla zona a rischio. Ho poi analizzato la metamorfosi del potere: i rapporti di potere di definizione in contrapposizione ai rapporti di potere di produzione. Infine, ho analizzato la sociologia della metamorfosi sull’esempio del rapporto tra catastrofe e catastrofe emancipativa… ella costituzione comunicativa del mondo, ma proporrò invece il concetto a medio raggio di «mali pubblici» come strumento di teorizzazione cosmopolitica. Ciò avverrà in due passaggi: per prima cosa introdurrò il concetto di «paesaggi della comunicazione» e ne indagherò la metamorfosi; quindi indagherò il concetto di «mali pubblici». 8.1. Nuovi paesaggi della comunicazione In tempi di comunicazione digitale la società mondiale del rischio produce una importante dinamica strutturale attraverso cui i rischi globali creano nuove forme di «comunità». I rischi globali (cambiamento climatico e crisi finanziaria) hanno il potere di cambiare la società e la politica, ma solo per mezzo della comunicazione pubblica. Di per sé i rischi globali sono invisibili: soltanto attraverso immagini mediate ottengono il potere di perforare questa invisibilità… Quella che osserviamo qui è una interazione: i rischi globali creano pubblici globalizzati, e i pubblici globalizzati rendono visibili e politici i rischi globali. I rischi globali si stanno trasformando in campi di battaglia della globalizzazione visiva. Non sono gli eventi catastrofici ma le loro immagini globalizzate a innescare lo choc antropologico che, filtrato, incanalato, drammatizzato o banalizzato nella varietà di vecchi e nuovi media, può produrre una catarsi sociale e creare il quadro di riferimento normativo per un’etica del «mai più». A far questo, ribadisco, sono non le immagini in sé, ma solo in quanto mediatizzate e commentate globalmente, e visualizzabili milioni di volte. personalizzati, ma anche strumentalizzati, mutilati, semplificati e falsificati. Non la catastrofe di per sé, ma la comunicazione simbolica globalizzata sulla catastrofe a liberare l’emozione, e forse anche l’identificazione con la sofferenza altrui, innescando uno choc antropologico capace di cambiare di colpo il paesaggio politico. L’invenzione della stampa, come hanno pionieristicamente mostrato prima il filosofo Hegel e poi il sociologo della storia Benedict Anderson (2006), ha dato anzi un contributo essenziale alla produzione e riproduzione della coscienza nazionale e, con essa, della nazione in quanto «comunità immaginata». Nel frattempo i vecchi mass …assistiamo a un trasferimento ad attori subpolitici di funzioni regolatorie pubbliche, come quando imprese del calibro di Facebook e Twitter decidono e tentano di mettere al bando la circolazione pubblica di video terroristici. Abbiamo così due movimenti di segno opposto: da una parte c’è una domanda di regolamentazione pubblica, statale, del web; dall’altra, il web ha la capacità potenziale di sottrarsi ai vincoli dello Stato. La comunicazione digitale non sostituisce i vecchi modelli di Öffentlichkeit: piuttosto, si nota un evidente intreccio tra vecchio e nuovo. Solo allora gli attori comprendono che la loro classe, e la loro cerchia di amici, sono ormai tecnologicamente cosmopolitizzati. A ciò si collega una nuova inimmaginabilità dei dati e dei numeri. Mentre le società esistenti sono nazionali, la comunicazione digitale sembra produrre una società mondiale. Ma non è così: essa produce «un numero infinito di ‘società mondiali’». …funzionano secondo la logica classica della Öffentlichkeit e della «società». La metamorfosi digitale fa vacillare o travolge le preesistenti nozioni di società e di pubblicità, e al tempo stesso ne genera di nuove: gli altri globali sono qui, in mezzo a noi Il punto è che ciò non è il prodotto della forza dell’era digitale, ma la sua precondizione. Il mondo si individualizza e si frammenta. Allo stesso tempo, nella comunicazione digitale individualizzazione e cosmopolitizzazione sono momenti contrapposti. La comunicazione digitale da un lato, scardinando il sistema delle identità collettive date, costringe gli individui a contare solo su sé stessi. Dall’altra parte, impone loro di utilizzare le risorse presenti negli spazi d’azione cosmopolitici. Per cogliere la metamorfosi della comunicazione digitale assume importanza centrale il concetto di meme. 7. I dati prodotti nella comunicazione digitale non sono semplici dati, ma dati riflessivi. Per capire che cosa ciò significhi dobbiamo distinguere tra prospettiva dei partecipanti e prospettiva di osservazione. Il rapporto tra queste due prospettive è definito dal fatto che gli attori della comunicazione non si rendono conto di essere osservabili e osservati. Ciò significa che siamo di fronte a una situazione comunicativa che dall’interno appare agli stessi attori come chiusa, mentre dall’esterno appare aperta a osservazioni di qualsiasi tipo. Ciò crea una situazione di «bolla di filtraggio» (Pariser 2011), che vede l’individuo prigioniero di un mondo digitale a misura delle sue preferenze e abitudini. 8.4. Dati cosmopolitici Quanto sopra ha delle conseguenze per il significato del termine «dati». Finora le scienze sociali hanno prodotto dati che riconoscono i principi di rappresentatività e di aggregazione come fondamento della loro oggettività scientifica. Lo studio della metamorfosi digitale del mondo non può essere asservito a questi principi. La comunicazione digitale va interpretata come produzione continua di dati non rappresentativi e non aggregativi da parte degli attori stessi, e non dei sociologi. Questo fatto implica un cambiamento epistemologico. I dati prodotti con la comunicazione digitale sono costitutivi della realtà della cosmopolitizzazione: non si limitano a rappresentare la cosmopolitizzazione, ma la producono. Sono socialmente e politicamente significativi. …in questa prospettiva il divenire di un mondo cosmopolitizzato non è un processo nascosto che può essere reso visibile solo in modi complessi, ma è di per sé visibile in quanto processo. Il processo e l’osservazione del processo sono intrinsecamente legati. Dobbiamo insomma distinguere tra la nozione di «dati rappresentativi, aggregati» e la nozione di «dati cosmopolitici»: quest’ultima indica dati che producono la cosmopolitizzazione del mondo (ma il termine potrebbe avere anche altri significati). I «dati cosmopolitici» non sono cosmopolitici di per sé, ma appaiono chiaramente tali in una prospettiva cosmopolitica. Naturalmente, la comunicazione digitale può anche essere esaminata in una prospettiva tradizionale, ma è solo attraverso la prospettiva cosmopolitica che la metamorfosi digitale diviene evidente. La nuova situazione di produzione continua di dati apre nuove prospettive, ma crea anche il problema per cui la valutazione metodologica si trasferisce dal modo in cui i dati vengono prodotti al modo in cui vengono utilizzati e interpretati. Allo stesso tempo, questa produzione di dati permette l’accesso a nuovi oggetti di analisi, come i flussi comunicativi, gli schemi d’interazione e la mobilità su scala mondiale. Dischiude la possibilità di studiare modelli di relazione cosmopolitici e di osservare lo sviluppo di una «solidarietà cosmopolita», attraverso ad esempio esperienze locali di catastrofi climatiche o la percezione di rischi climatici 9. Rischio digitale: il fallimento delle istituzioni La metamorfosi a fronte del rischio globale crea un abisso tra le aspettative e la percezione dei problemi, da una parte, e le istituzioni esistenti, dall’altra. Una caratteristica chiave della metamorfosi, dunque, è che le istituzioni funzionano e al tempo stesso falliscono. A illustrazione di questo aspetto offro due argomenti empirici: il primo riguarda il «rischio digitale della libertà», con particolare riferimento al programma di sorveglianza Prism; il secondo la metamorfosi digitale della società, dell’intersoggettività e della soggettività. 9.1. La libertà in pericolo tutto ha avuto inizio con le rivelazioni di Edward Snowden, che hanno evidenziato la discrasia che nelle società contemporanee (occidentali) esiste, in fatto di libertà e dati, tra la realtà percepita e quella effettiva. A ben vedere, la vera catastrofe sarebbe un controllo egemonico invisibile su scala globale: più infatti il controllo globale dell’informazione è completo e totale, più esso si sottrae alla consapevolezza delle persone e diventa invisibile. il rischio digitale non si riassume, non ha origine e non ha riferimento in una catastrofe fisica e reale nello spazio e nel tempo. Esso interferisce sorprendentemente con qualcosa che finora abbiamo sempre dato per scontato: la nostra possibilità di controllare le informazioni personali che ci riguardano. E tuttavia, il semplice fatto che la questione divenga visibile innesca la resistenza. …posteriori, le istituzioni che finora hanno sospinto la modernizzazione. Nel caso del rischio digitale della libertà, a essere chiamato in causa è il fallimento dello Stato- nazione nell’esercizio del controllo democratico o del calcolo delle probabilità (a fini di tutela assicurativa ecc.). Inoltre, tutti questi rischi globali vengono percepiti in modo differente in varie parti del mondo… E siamo anche di fronte a una inflazione di catastrofi, in cui ogni catastrofe minaccia di prendere il sopravvento sull’altra: il rischio finanziario «supera» il rischio climatico, e il terrorismo «supera» la violazione della libertà digitale. Il rischio digitale per la libertà minaccia «solamente» alcune delle principali conquiste della civiltà moderna: la libertà e autonomia personale, la privacy e le istituzioni fondamentali della democrazia e del diritto, tutte cose che hanno come base lo Stato- nazione. Vista così, la vera catastrofe si ha quando la catastrofe scompare e diventa invisibile: è allora che il controllo si avvicina alla perfezione. In questo senso, il rischio della libertà si distingue dagli altri rischi globali finora conosciuti per una consapevolezza molto più fragile. Il processo di catarsi sociale in corso e la reazione mondiale hanno condotto alla nascita di un orizzonte normativo incentrato sui diritti umani in relazione alla sorveglianza di massa: il diritto individuale di proteggere la propria vita privata sui diritti civili e politici dell’Onu del 1966 (articolo 17, comma 1). Questi diritti implicano che i dati personali appartengono al cittadino, non allo Stato o a imprese private. È questo il principio oggi sotto attacco. Ma il riconoscimento di tale fatto è piuttosto fragile. In fin dei conti, quale attore dotato di potere ha realmente interesse a far sì che le persone continuino a essere consapevoli Il primo attore cui viene da pensare è lo Stato democratico. Ma, ahimè, è come chiedere al lupo di fare la guardia all’ovile: è lo stesso Stato, in collaborazione con gli imprenditori digitali, ad affermare la propria egemonia sui dati al fine di ottimizzare il proprio interesse strategico alla sicurezza nazionale e internazionale. In questo campo l’intreccio tra le risorse di controllo private e pubbliche è tale che stiamo andando non già, come molti pensavano, verso uno «Stato mondiale», ma verso un potere centrale digitale anonimo che controlla la sfera privata dietro una facciata democratica. Si dice spesso che sta nascendo un nuovo impero digitale. Ma riesce a esercitare un controllo estensivo e intensivo talmente ampio e profondo da riuscire a svelare qualsiasi preferenza e debolezza individuale: diventiamo tutti trasparenti come il vetro. A ciò si aggiunge un’ambivalenza di fondo: abbiamo strumenti di controllo potentissimi, ma questo tipo di controllo digitale è anche altamente vulnerabile. Nessuna potenza militare minaccia quest’impero del controllo, e nemmeno una insurrezione, una rivoluzione o una guerra: a farlo traballare – rivolgendo il sistema informativo contro sé stesso – è stato un solo individuo, un trentenne coraggioso, esperto di servizi segreti. Il fatto che questo tipo di controllo appaia irrealizzabile e che È importante sottolineare che in questa metamorfosi della politica di potere non cambiano solo le percezioni: la confusione di categorie, copioni, drammi, giocatori, ruoli, dottrine e spazi d’azione è reale. Questo conflitto sulla «negoziazione della metamorfosi» può essere osservato da varie prospettive: per esempio da quelle del capitale globalizzante o degli attori facenti parte dei movimenti della società civile. Qui vorrei osservare questo cambiamento della prospettiva della politica nazionale, in riferimento a due casi esemplari: la metamorfosi dell’Unione europea e il coinvolgimento della Cina nella dinamica del rischio climatico globale per l’umanità. 10.1. La metamorfosi della politica europea L’Europa non è una condizione fissa, e nemmeno un’unità territoriale, uno Stato o una nazione. Di fatto, «l’Europa» non esiste: esiste l’europeizzazione come metamorfosi, processo, trasformazione continua. Una delle questioni che danno filo da torcere alla teoria politica riguarda i modi in cui gli Stati-nazione possono cooperare restando nel quadro della sovranità statale, cercando risposte a sfide globali senza perdere la propria identità. La metamorfosi degli Stati-nazione verso forme europee di governo e di cooperazione è un grande esperimento storico in tal senso. Il primo passo di questa metamorfosi è stato la «politica degli effetti collaterali». Sebbene il processo di europeizzazione fosse intenzionale (puntando alla «creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa», come recita il Trattato Ue), non lo erano le conseguenze istituzionali e materiali di tale processo. Il fatto sorprendente è che tale processo non ha seguito un piano strategico. È vero semmai il contrario: l’obiettivo è stato lasciato volutamente aperto. L’europeizzazione avviene in base a una particolare modalità d’improvvisazione istituzionalizzata. In una prima fase la metamorfosi dalla politica degli Stati- nazione alla politica dell’Ue è avvenuta attraverso una cooperazione transnazionale tra élites mosse da criteri di razionalità sostanzialmente indipendenti dai pubblici, dagli interessi e dalle convinzioni politiche nazionali. Questa idea di «governance tecnocratica» è inversamente proporzionale alla dimensione politica. L’«invenzione» dell’Europa non è stata il risultato di un dibattito pubblico e dell’applicazione di procedure democratiche, ma di decisioni e prassi giudiziarie. Ecco quindi un successivo stadio di metamorfosi: una sorta di «scalata cosmopolitica», un processo trainato dalla «conversione del diritto», avvenuto in collaborazione e conflitto con le varie corti supreme nazionali e (quel che più conta) adottato dai governi e parlamenti nazionali come base della propria ulteriore attività L’Europa è il risultato di una prassi politica senza teoria politica. In questa prospettiva la metamorfosi europea della politica coincide con una politica di istituzionalizzazione dell’orizzonte cosmopolita in collaborazione con l’orizzonte nazionale, che avviene attraverso l’applicazione pratica di un diritto europeo cogente. Da una parte c’è la vecchia politica nazionale del diritto, che funzionava applicando il diritto costituzionale; dall’altra parte abbiamo la nuova politica del diritto a livello europeo, che funziona cambiando la politica del diritto. Le due politiche sono ormai reciprocamente intrecciate al punto da essere diventate inestricabili: è un gioco che non si può più giocare da soli. potere dalle corti costituzionali nazionali alla Corte europea del potere. Sul piano pratico le corti nazionali finiscono per trovarsi in una contraddizione di fondo: da una parte devono giudicare in base al diritto costituzionale nazionale; dall’altra, sono costrette ad anticipare la metamorfosi del sistema giuridico da nazionale in europeo, finendo così per esautorare sé stesse. La metamorfosi europea non significa scomparsa degli Stati-nazione, ma è pur sempre una «svolta copernicana»: non è più l’Europa a girare attorno allo Stato-nazione come il Sole apparentemente gira attorno alla Terra; in realtà saranno gli Stati-nazione a girare attorno all’Europa come la Terra attorno al Sole. Ciò significa che lo Stato- nazione – l’idea stessa di Stato-nazione – è in via di metamorfosi. 10.2. La Cina e la metamorfosi pianificata Un esempio del potere della metamorfosi e della metamorfosi del potere è la metamorfosi dell’opposizione. Con questo termine indico gli scontri di potere tra forme diverse d’ignoranza e rifiuto dei mali e la rappresentazione dei mali nel contesto di una ridefinizione del nazionalismo in chiave cosmopolita. L’esempio mostra come un tema globale – il rischio del mutamento climatico – venga tradotto in tema «cosmopolita nazionalizzato», producendo una svolta cosmopolitica nella politica e nell’identità nazionale cinese. La divulgazione della società mondiale del rischio – questa la mia tesi – si converte in una reimmaginazione del nazionale, nel contesto della messa in scena e della percezione dei rischi climatici per l’umanità, ma anche dei rischi finanziari globali – che minacciano tutti i subsistemi delle società – o delle problematiche di diritti umani, che costringono le nazioni a rinegoziare la propria identità in relazione ad altre nazioni. Due sono le ragioni che rendono particolarmente interessante il caso cinese. La prima è che la Cina è il più importante paese in via di sviluppo, e ciò mostra come l’orizzonte normativo della politica climatica si sia ormai esteso a tutto il pianeta. In secondo luogo, l’autorità statale ha un ruolo molto potente in Cina, e in particolare nel «Quotidiano del popolo», che è una piattaforma e voce pubblica del Partito comunista. Nella metamorfosi dell’opposizione nella politica nazionale cinese si possono distinguere due fasi, che emergono con chiarezza nella copertura giornalistica del «Quotidiano del popolo». Fase 1: il rischio del mutamento climatico e il contesto prima e durante la Rivoluzione culturale In una prima fase la copertura del tema del mutamento climatico nel «Quotidiano del popolo» ha attraversato tre momenti: la non percezione del problema; poi il rifiuto; e infine, per diversi anni, un deliberato silenzio. L’articolo sembra adottare un discorso di «silenzio sdrammatizzante» (Beck 2009, p. 193), che punta a tacitare o marginalizzare qualsiasi richiamo al rischio, al fine di non turbare il regolare funzionamento del sistema sociale e politico. Ma la pubblicazione di questo pezzo aveva altri significati. Contano soprattutto le peculiarità del discorso sul mutamento climatico in Cina: qui la continua protesta e l’attivismo dal basso non hanno quel ruolo di primo piano svolto invece in alcuni paesi europei, dove il discorso del «silenzio sdrammatizzante» si sviluppò dopo la rappresentazione del mutamento climatico da parte dei gruppi verdi e di alcuni studiosi. Quell’articolo, pur negando che il mutamento climatico fosse un rischio globale, ruppe il silenzio tipico degli anni in cui il problema non era ancora percepito, e spiegò a milioni di cinesi che l’inconsueto andamento atmosferico entrato a far parte della loro vita quotidiana aveva una spiegazione alternativa: quella spiegazione era il mutamento climatico globale. All’articolo del 1973 seguì una fase in cui il problema veniva ignorato deliberamente, anziché involontariamente: si passava a una strategia sistematica di «silenzio sdrammatizzante». Fase 2: dopo la Rivoluzione culturale Nella seconda fase emerge chiaramente la metamorfosi della politica e dell’identità nazionale cinese. …ora venivano evidenziati anche altri aspetti: per esempio il fatto che il problema fosse riconducibile a interessi umani, nonché la ricerca delle responsabilità (Xinhua News Agency 1980). La seconda novità è che, a differenza dell’articolo del 1973, uno dei pezzi successivi alla Rivoluzione culturale riconosceva almeno in parte gli effetti negativi del mutamento climatico sulle persone,… Anziché dichiarare che «gli uomini devono sottomettere la natura», l’autore confidava nella capacità della scienza di «comprendere i mutamenti del clima». Infine, nei tre pezzi usciti in questa fase mancava qualsiasi riferimento ideologico al socialismo o al presidente Mao. Tutti gli articoli parlavano di mutamento climatico con un linguaggio prevalentemente tecnico. La ridefinizione della responsabilità nazionale è evidente nell’uso del termine «noi» da parte del rappresentante cinese Luo Xu, che sottolineava come il clima fosse per il mondo un problema cruciale: «se noi non facciamo qualcosa, le conseguenze saranno gravi». Questo noi inclusivo si riferiva alla Cina e agli altri paesi, che condividevano la responsabilità globale per la soluzione del problema. Tuttavia, in seguito il «noi inclusivo» è stato nuovamente abbandonato e sostituito dalla distinzione tra mondo sviluppato e mondo in via di sviluppo, tra Nord capitalista e Cina. il «Quotidiano del popolo» ha usato il tema della responsabilità per sottolineare che erano stati i paesi sviluppati a causare il problema, e dunque se ne dovevano far carico in misura maggiore, mentre i paesi in via di sviluppo, compresa la Cina, non andavano messi troppo sotto pressione Assistiamo, dunque, a una metamorfosi dell’opposizione che si realizza attraverso la convergenza di quattro elementi. Il primo è la rappresentazione di una sensibilità cosmopolita, che porta a prendere sul serio la natura globale del mutamento climatico. Il secondo, collegato al primo, è la ridefinizione dell’identità nazionale in chiave di apertura e di responsabilità. Il terzo: la Cina si posiziona come paese del Terzo mondo in contrasto con il Nord dominante. Infine, quarto, si assiste allo sforzo personale dell’allora segretario del Partito comunista per presentarsi come leader responsabile e di larghe vedute. Ciò che rende particolarmente interessante il caso cinese è che qui la metamorfosi non nasce dalla protesta e dall’attivismo di base, ma viene pianificata, avviata e portata avanti dai detentori del potere, che la strumentalizzano poi per favorire un cambiamento di leadership nel Partito comunista. La nozione di comunità di rischio presuppone il concetto di preoccupazione o «cura». Alla luce della previsione della catastrofe, la preoccupazione per sé diventa preoccupazione per tutti gli altri. la preoccupazione per il proprio nemico è parte integrante della preoccupazione per sé; ma anche che dalla preoccupazione per tutto e tutti nascono nuove inimicizie e nuovi conflitti esistenziali, diretti contro coloro che contravvengono a questa preoccupazione. una integrazione positiva, fondata su valori e norme comuni: quella definizione indica invece che una comunità può svilupparsi anche attraverso conflitti su valori negativi (crisi, rischi, minacce di annientamento): la tesi del catastrofismo emancipativo. Data la natura manifesta dei problemi nel milieu delle città mondiali, non potrebbe partire proprio da qui, dalla dimensione urbana, un discorso di conflitto, rivolto a un pubblico globale, da cui scaturisca la richiesta di azione collettiva, a rete? Perciò, non diamo per scontato che la natura globale dei rischi di apocalisse basti a creare un’iniziativa politica collettiva. Lo spazio esperienziale quotidiano dell’interdipendenza cosmopolitica non sorge come innamoramento di tutti per tutti, ma in realtà è espressione (e risultato) dell’indignazione universale per una condizione quotidiana di rischio globale ormai irreversibilmente evidente… diventare la base di un’azione politica democratica. Da una parte, nella vita quotidiana delle città la definizione accettata delle minacce diventa non solo brutalmente visibile, ma anche gestibile nell’ambito dei diversi orizzonti di azione individuale. Dall’altra parte, ciò porta anche a norme e accordi globali, grazie al ruolo politico globale assunto dalle città mondiali. – offrono l’opportunità di passare dalla definizione condivisa delle minacce agli impegni pratici vincolanti, di solito tanto difficili da prendere. Nel milieu delle grandi città il potenziale cosmopolita, democratico e comunitario dell’indignazione prodotta dal cambiamento climatico diventa enorme ed evidente. Come abbiamo appena visto, il concetto di «comunità di rischio cosmopolite» include 1) le «comunità di rischio globale», 2) le «comunità cosmopolite di rischio globale» e, infine, 3) le connessioni tra le prime e le seconde. In questo senso, le città mondiali sono il simbolo dell’interazione tra crollo e risveglio. Ma questo non è sufficiente se non vi si aggiungono ulteriori condizioni chiave: la sovranità e il potere di organizzazione politica e giuridica sia a livello locale che globale. da alcuni studi emerge che aumentano sia i collegamenti tra le città mondiali che la loro partecipazione (anzi, il loro ruolo promotore) nei processi di produzione di norme globali. Inizia così a intravedersi una embrionale struttura politica di Città unite. Ad acquisire un ruolo sempre più influente nella competizione per il potere nelle città mondiali è, in ultima analisi, l’intellighenzia professionale che lavora e vive in reti transnazionali e abbina la competenza e lo spirito di sperimentazione (ambientale) al successo economico. Per usare il linguaggio della teoria dei movimenti sociali, è nelle città mondiali che vediamo emergere i vari «contesti di riforma» del capitalismo (Chiapello 2013). Il dispiegarsi del processo di metamorfosi delle comunità di città mondiali può essere ulteriomente indagato attraverso tre case studies: la metamorfosi del traffico, l’esproprio attraverso il rischio e la metamorfosi del conflitto. 11.3. La metamorfosi del traffico Cose che fino a poco tempo fa sembravano superate – per esempio la bicicletta – sono tornate e sono state rivalutate, mentre una cosa che veniva di solito associata al progresso e prestigio – l’automobile – è oggi screditata come fonte di rischi e di mali. Ciò che accomuna tutti questi casi è che la pianificazione urbana e le prassi e politiche di trasporto stanno cambiando, in tutto il mondo, non attraverso l’esercizio su scala globale di un qualche potere giuridico formale, ma per la forza di persuasione del «buon esempio» (o della best practice). L’altro aspetto da notare è che tutti questi casi portano con sé contestazioni e conflitti sul campo. Ciò cui assistiamo sul terreno della politica climatica urbana è un processo transnazionale di generazione di norme che modifica radicalmente ciò che in campo urbanistico si considera innovativo, visionario e legittimo. 11.4. L’esproprio tramite il rischio Come ho già scritto, il rischio non è la catastrofe ma la previsione della catastrofe. Perciò, uno dei momenti chiave della metamorfosi è che la mera previsione della catastrofe è un fattore di svalutazione del capitale. a «sottostimare» la consistenza delle subpopolazioni particolarmente vulnerabili (in base al reddito, alla razza ecc.), introducendo così delle criticità di giustizia ambientale nei preparativi e nel soccorso in caso di catastrofe (Maantay e Maroko 2009). Spinto alle sue logiche conclusioni, il tipo di «esproprio ecologico» compiuto dalla maggior violenza e frequenza delle alluvioni contraddice e viola gli interessi dello stesso istituto della proprietà persino nelle sacche più ricche del moderno capitalismo urbano la distribuzione dei rischi di alluvione urbana esaspera ulteriormente le già macroscopiche disuguaglianze sociomateriali globali (Beck 2010, 2014): mentre sono in corso tentativi progettuali su larga scala per rendere Lower Manhattan «a prova di clima» 11. 5. La metamorfosi del conflitto Su questo aspetto i punti fondamentali sono due. Da una parte, i rischi globali superano le differenze amico-nemico. Dall’altra parte, nascono nuove polarizzazioni, che non abbiamo ancora né sufficiente sensibilità per cogliere, né un lessico adeguato per descrivere. Le alleanze intercittadine emergenti in fatto di clima sono parte di relazioni globali ricche di faglie e di disuguaglianze, che danno luogo a nuove forme non solo di cooperazione, ma anche di competizione, conflitto ed esclusione. …r cominciare, le alleanze metropolitane più potenti, come il C40, tendono a sovrarappresentare le ricche metropoli del Nord globale, a scapito non solo, ovviamente, del Sud globale, ma anche delle città di dimensione minore e «normale», ovunque si trovino. Le città sono ovunque al centro di queste nuove alleanze e fratture politiche, di questo paesaggio politico del ventunesimo secolo ridefinito dalle previsioni di rischi globali. Una dimensione di questi nuovi cleavages ha a che fare con la ricerca di una «ecourbanistica strategica» (Hodson e Marvin 2010) da parte delle amministrazioni locali in tutto il mondo, in particolare nei contesti urbani più ricchi. Ciò implica tra l’altro investimenti mirati per lo sviluppo di «ecocittà»: un insieme di pratiche emerse a partire dal 2000, che si diffondono globalmente nel contesto dei trasferimenti interurbani di conoscenze, delle preoccupazioni per il clima e di politiche Ufficialmente lo sviluppo delle ecocittà viene quasi sempre promosso come nuova via per attrarre investimenti, conquistare nuovi mercati e accreditare l’immagine della città come spazio «globale» e «avanzato». Si tratta, ribadisco, di una metamorfosi ambivalente e dall’esito aperto, in cui s’intrecciano e s’influenzano a vicenda nuove forme di cooperazione e competizione, dando vita a nuovi paesaggi economici e politici. In alcune regioni del Sud globale disuguaglianza e competizione globale, e dalla misura in cui esse possano essere attenuate con nuove forme di solidarietà urbana transnazionale, si può dire che i rischi indotti dal clima arrivino già corredati delle proprie prerogative «strategiche». 11.6. La nuova Realpolitik cosmopolitico-urbana Per riassumere il ragionamento sviluppato fin qui, oggi la politica delle città, trainata da preoccupazioni per i rischi climatici globali, va incontro a una metamorfosi di fondo e si traduce in nuove alleanze urbane per la produzione di norme transnazionali, in nuovi investimenti strategici per la creazione di ecocittà e in nuove coalizioni riformistiche per orientare in senso «verde» i meccanismi del capitalismo urbanizzato globale. Le città mondiali – questa la mia tesi – sono i principali luoghi dove gli urti dei rischi globali diventano parte dell’esperienza quotidiana e della politica. alla nozione di comunità di rischio cosmopolita corrisponde l’idea di una nuova Realpolitik cosmopolitico- urbana, un nuovo modello di alleanza e conflitto che influisce sulle politiche urbane in tutto il mondo (sia pure in modi molto diversi a seconda dei l… i nuovi orizzonti normativi di responsabilità urbana nella transizione alle basse emissioni di anidride carbonica convivono, e si influenzano reciprocamente e interagiscono con nuove visioni di egoismo municipale in un mondo in cui le risorse scarseggiano. Gli scontri, le mobilitazioni e le sperimentazioni che ne derivano, assumono nelle città mondiali una concretezza e rilevanza ben diverse che nello spazio politico «astratto» degli Stati-nazione. Al fine di realizzare questo potenziale e avvicinarsi alla visione delle Città unite, tuttavia, gli attori politici non devono temere ma accogliere tutte le nuove ambiguità e conflitti del greening urbano. Abbiamo più che mai bisogno di una migliore comprensione su come navigare e analizzare questi nuovi paesaggi politici. Ma è proprio questa la metamorfosi – e anche le scienze sociali ne fanno parte. Ci occorrono nuovi modi di vedere il mondo, di essere nel mondo e d’immaginare e fare politica. Pinder si oppone così, in campo artistico, all’idea di evoluzione e progresso secondo cui ogni epoca subentra alla precedente; la sua posizione ricorda quello che in seguito è stato chiamato eclettismo postmoderno, incentrato sulle idee di decostruzione e liquidazione. Quando usiamo il concetto di «non contemporaneità del contemporaneo» per guardare all’emergere delle generazioni globali, ci sembra di ritrovare in questo una certa dose di eclettismo postmoderno, di dissoluzione e illusione – ma solo se restiamo fermi ai vecchi schemi di riferimento. …la comprensione delle generazioni del rischio globale non può essere dedotta dalla cronologia biologica delle generazioni, e nemmeno da un’idea di unità delle generazioni globali basata, ad esempio, sulla comune esperienza della globalità. Parlare di generazioni del rischio globale certamente non significa che nel mondo sia in atto una convergenza di situazioni sociali. Tutt’altro: la varietà e disparità di condizioni e opportunità di vita è fin troppo evidente, ed è proprio questo a generare particolari tensioni e forze esplosive. Gli orizzonti normativi delle generazioni del rischio globale sono globalizzati, ma anche segnati da linee divisorie e conflitti molto netti. E soprattutto, c’è tutto il divario economico che separa gli abitanti del cosiddetto Occidente dal «resto del mondo»: una disparità di risorse materiali, posizioni e opportunità d’accesso che appare evidente anche nella corsa alle icone del consumo globale. del rischio incrociando la distribuzione dei beni e dei mali con gli orizzonti di diversità culturale, dobbiamo introdurre un nuovo concetto di ricerca cosmopolitica transnazionale: il concetto di costellazioni generazionali (Beck e Beck- Gernsheim 2009). Nel concetto diagnostico di «costellazioni generazionali» si sovrappongono e interpenetrano la dimensione quantitativa, demografica della polarizzazione per età, e le disuguaglianze materiali in termini di istruzione e posizione sul mercato del lavoro, posizioni di rischio e diversità etnico-culturali. Una dimensione importante delle costellazioni generazionali è che oggi esistono orizzonti normativi di uguaglianza che premono sulle attuali strutture e istituzioni della disuguaglianza globale. In tal modo, la legittimazione nazional-statale della disuguaglianza transnazionale o globale inizia a sgretolarsi. Stato-nazione, non basta a innescare conflitti politici, finché non esiste un’aspettativa globale di uguaglianza. Le disuguaglianze sociali non generano conflitto se i ricchi diventano più ricchi e i poveri diventano più poveri, ma solo se si diffondono delle norme e aspettative sociali consolidate in fatto di uguaglianza, e soprattutto di diritti umani. Il dualismo tra diritti umani e diritti nazionali dei cittadini è ormai relativizzato, e i diritti umani sono garantiti a tanti livelli normativi: per esempio nella Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu, nei trattati dell’Ue e in molte costituzioni Queste norme istituzionalizzate rendono sempre più arduo fare distinzione tra cittadini e non cittadini, connazionali e stranieri, negando ad alcuni i diritti accordati ad altri. La disuguaglianza tra chi ha e chi non ha, tra le popolazioni ricche e il resto del mondo, non viene più accettata come fato ma messa in discussione, sia pure unilateralmente: gli altri, gli esclusi, gli abitanti di paesi e continenti lontani iniziano a ri… la «globalità» delle varie parti e costellazioni delle generazioni del rischio globale è molto differenziata: sicuramente, a sollevarsi contro le disuguaglianze e rivendicare l’uguaglianza al di là dei confini nazionali non sono i settori occidentali di quelle generazioni, ma semmai gli altri. «Voglio entrare!» una «multiattività» precaria, in precedenza tipica soprattutto del lavoro femminile, si diffonde rapidamente come variante evolutiva di società invecchiate sul piano occupazionale, che non riescono più a offrire impieghi attraenti, altamente qualificati, ben pagati e a tempo pieno. Nell’esperienza di questa generazione confluiscono dolorosamente due cose che un tempo si escludevano a vicenda: istruzione eccellente, ma pessime prospettive sul mercato del lavoro. Due conclusioni si possono trarre da queste e simili risultanze. La prima è che quell’insicurezza crescente che è ormai l’esperienza di fondo della giovane generazione non è più un fenomeno locale, regionale o nazionale, ma diventa una esperienza chiave Da una parte abbiamo una «generazione meno», costretta ad accettare quello che rispetto ai decenni precedenti è un arretramento materiale; dall’altra parte ecco invece una «generazione più», che spinta dalle immagini di opulenza del Primo mondo vuole condividere quella ricchezza Un gruppo sta sulla difensiva, e con leggi e sbarramenti di confini cerca di tenersi stretto quel che resta dell’opulenza; gli altri si mettono in viaggio, vanno alla carica di quegli stessi confini, spinti dalla speranza di una vita migliore. Il risultato è una interazione estremamente conflittuale: una parte delle generazioni del rischio globale contro l’altra. 12.3. La sfida della disuguaglianza appare chiaro che la problematica della metamorfosi della disuguaglianza è il tema chiave del futuro. Ciò è dovuto innanzi tutto alla istituzionalizzazione delle norme di uguaglianza: la disuguaglianza globale non può più essere ignorata poiché la prospettiva nazionale, che impediva il confronto tra spazi nazionali di disuguaglianza, non funziona più; in tal modo le disuguaglianze esistenti perdono qualsiasi legittimazione e diventano (più o meno apertamente) motivo di scandalo politico. Secondo, la disuguaglianza aumenta anche all’interno del contesto nazionale. Terzo, le risorse pubbliche che servivano a compensare le disuguaglianze crescenti sono state eliminate. Quarto, la distribuzione dei mali crea classi di rischio, paesi a rischio e vari tipi e gradi di disuguaglianza. Insomma, il Neanderthal e l’Homo cosmopoliticus vivono in un mondo in cui la disuguaglianza è ormai socialmente e politicamente esplosiva. Il problema della disuguaglianza emerge oggi in un contesto di catastrofi cosiddette naturali, ma in realtà create dall’uomo, che si stagliano su un orizzonte in cui a tutti è stata promessa l’uguaglianza.
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