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La metrica italiana contemporanea-Paolo Giovannetti, Gianfranca Lavezzi, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto dettagliato di tutti i capitoli del manuale

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018
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Scarica La metrica italiana contemporanea-Paolo Giovannetti, Gianfranca Lavezzi e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! LA METRICA ITALIANA CONTEMPORANEA Premesse teoriche a. Esiste la metrica moderna? a.1.genesi e invenzione di una tradizione. Esiste davvero una metrica moderna distinta da quella tradizionale o classica? E quando comincia la modernità/ contemporaneità poetica italiana? Sulla scorta degli studi di Pier Vincenzo Mengaldo, è ormai opinione diffusissima che la modernità della poesia, in Italia, sia un affare novecentesco. A partire dai primi anni del XX secolo, una generazione di poeti, nati dopo il 1880, dà l’avvio a modi di concepire la parola in versi che si distinguono nettamente dal recente retaggio dannunziano e pascoliano. È insomma indubbia una cesura tra Otto e Novecento. D’altronde è certo che tanto l’opera di Pascoli e D’Annunzio, quanto l’antecedente leopardiano in molti loro aspetti condizionino profondamente l’opera della contemporaneità. Da qui la necessità di tener conto delle cosiddette “innovazioni leopardiane” e della rivoluzione conservatrice rappresentata dalla metrica barbara di Carducci. La modernità poetica degli italiani, pur essendo cronologicamente ben delimitata, presenta una genealogia tutt’altro che lineare. Quello della metrica appare come un sistema sostanzialmente acronico (presente atemporale). La metrica di una certa cultura letteraria, sarebbe indipendente dal divenire storica, e i rilievi diacronicamente pertinenti non sarebbero di natura sistemica, bensì di natura stilistica. Nel panorama italiano, la continuità tra sette e ottocento è visibile, e i poeti che diciamo “romantici” a partire dallo stesso Manzoni, si avvalgono di strutture metriche in qualche caso innovative, ma tutte perfettamente coerenti con quanto è accaduto nel corso del settecento. Una metrica, in un certo senso può essere paragonata ad una lingua, la cui stabilità nel tempo è garanzia dell’efficacia della comunicazione. L’indipendenza dai contenuti delle forme codificate consente ai poeti di definire gli stili in cui l’apporto personale o collettivo può essere distinto dalla fissità della lingua. Sono moltissime le nozioni metriche che non solo vengono discusse e interpretate in maniera non univoca, ma che addirittura alcuni metricisti rifiutano ritenendole inutili perché applicate a fenomeni di fatto inesistenti o comunque di natura strutturalmente non rilevante. Dal duecento in poi determinate competenze e determinate configurazioni testuali si sono riprodotte senza vere e proprie fratture, seguendo regole affatto stabili a cui i poeti si sono attenuti. L’intera tradizione italiana viene rimessa in discussione dalla metrica del Novecento che, nei fatti, si sbarazza dei principali capisaldi del passato. Sono due le istituzioni che distruggono la continuità col passato: la poesia in prosa e il verso libero. Da un lato la possibilità di tenere viva l’intenzione poetica o lirica in un contesto che sembrerebbe appartenere a generi diversi, dall’altro la possibilità di scrivere poesia facendo sì uso dei versi, ma tali da non dover rispettare le regole accumulatesi nel tempo. In modo paradossale, la piena consapevolezza dell’eredità metrica plurisecolare si è fatta lucida proprio quando essa è entrata in crisi; è la fine della tradizione che ci ha costretti a interrogaci sulla sua stessa essenza. Da un punto di vista storico, il verso libero inventa, a ritroso, il verso tradizionale; una cesura storica (a cavallo tra otto e novecento) ha indotto sempre più spesso i poeti e i critici a porsi una serie di interrogativi teorici e storici. Che cos’è un verso? Quali sono le sue condizioni minime di esistenza? Che rapporto lega il verso per l’occhio (stampato sulla pagina) a quello per l’orecchio (scandito dalla voce)? Che rapporto c’è tra verso (sistema metrico) e ritmo (esperienza soggettiva)? La contemporaneità preme per definire verso tutto ciò che, tipologicamente parlando, si presenta come un verso, vale a dire accapo prima che sia esaurita la giustezza delle righe. Molti si sono opposti in tal senso, non riconoscendo piena pertinenza metrica al verso libero, in quanto istituzione autonoma. Per quanto riguarda le esperienze neometriche, queste, da una trentina di anni a questa parte, combattono quanto è da alcuni giudicato informe e improvvisato verso libero novecentesco, facendo uso di metri antichi e chiusi in accezione forte. In una società che, almeno fino all’inizio dell’Ottocento, ha visto la reversibilità quasi totale del verso scritto e del verso pronunciato, la metrica aveva applicazioni assai più ampie di quelle cui oggi è adibita, e nel mondo dell’oralità pura, si poteva dare verso in ambiti assolutamente non letterari (ad es. proverbio). Laddove oggi è indubbio che si ricorre alla metrica soprattutto nella poesia da leggere silenziosamente e nella musica per poesia (canzone che è sentita come una forma di poesia minore). Per quando riguarda la poesia in prosa, essa chiede al lettore di trovare la poesia in qualcosa che poesia non sembra, perciò induce una ricerca di metricità profonda. In Italia la questione del verso libero, è andata incontro a certe declinazioni che hanno reso più arduo descrivere la (vera o presunta che sia) alterità della metrica novecentesca. È probabile che in gioco ci siano due fattori: a) la convivenza di un sistema inequivocabilmente versoliberista e del sistema tradizionale lungo tutta la modernità, in mezzo ai quali si è allargata una sorta di zona grigia; b) il persistente impiego del concetto di innovazione per descrivere le caratteristiche dei cambiamenti metrici della modernità. Uno dei saggi, in assoluto più belli e riusciti intorno alla metrica italiana del Novecento è Innovazioni metriche italiane fra Otto e Novecento, di Gianfranco Contini, del 1969. Egli affronta le grandi trasformazioni novecentesche a partire da tre istituti in qualche modo estremi: le parole in libertà, la poesia in prosa e la restaurazione delle convenzioni antiche. I veri protagonisti del saggio sono Pascoli e D’Annunzio, le cui iniziative metriche hanno costituito un valore e fatto scuola, condizionando la prassi di altri poeti. La verità della nuova metrica risiede nel tessuto medio di comportamenti e convenzioni (accettate o rifiutate) che si viene definendo all’inizio del secolo e va poi incontro a una serie di variazioni e successive normalizzazioni. I più antichi versoliberisti sono apparsi ai loro primi lettori, non tanto come degli innovatori, ma come dei primitivi: poeti che restituivano la poesia italiana a un mondo arcaico. Non vi è versoliberista del primo ventennio del Novecento che non sia stato accusato di rozzezza e informalità, di aver scritto versi sgraziati e brutti perché non riconducibili alla elegantiae della metrica tradizionale. Tutto ciò avveniva perché quelle innovazioni erano davvero fuori del sistema, era una radicale alterità rispetto al passato. La condizione plurare della metrica italiana novecentesca si è collocata al centro di un vero e proprio conflitto di interpretazioni. Quanto al dominio specifico del verso libero, lo scritto più autorevole è Questioni metriche novecentesche di Pier Vincenzo Mengaldo, 1989. La sua proposta implica un superamento del sintagma verso libero a favore di quello più preciso di metrica libera (ci riferiamo non solo alla versificazione, ma a tutti i fattori metrici), definendone con precisione le condizioni che devono soddisfarsi simultaneamente perché si possa effettivamente parlare di metrica libera: a. la rima, eventualmente presente, non ha una funzione strutturante b. i versi, non isosillabici, tendono alla misure lunghe non canoniche c. manca l’isostrofismo, cioè la ripetizione simmetrica di strofe della medesima struttura rimica. Da tale definizione viene a crearsi uno spazio intermedio tra verso libero e verso liberato, poiché chiaramente molti dei versi ascritti tradizionalmente al verso libero (ad es. quelli dannunziani) non appartengono alla metrica liberata descritta da Mengaldo. Egli propone di chiamare tale spazio intermedio metrica liberata. Da un lato esiste un fenomeno storico che vede la nascita di un’istituzione detta verso libero, dall’altro sono possibili considerazioni soprastoriche capaci di rendere conto acronicamente appunto, dei fenomeni metrici non tradizionali. Dal punto di vista della prima possibilità interpretativa, è indubbio che la coscienza metrica dei lettori otto-novecenteschi percepiva come “liberi” versi che per Mengaldo andavano definiti “liberati”. Si è generalmente concordi nel reputare isosillabica (numero di sillabe costante presentato dagli elementi costitutivi di una serie metrica) fin dalle sue origini la tradizione metrica italiana. In un sistema strofico posso essere usati versi di differente misura a patto che la ripetizione simmetrica, periodica, della strofa consenta di mettere in parallelo fra loro le misure anisosillabiche. Ad es. un isolato settenario in una strofa di endecasillabi deve trovare un corrispondente isosillabico nella medesima posizione delle strofe successive. Un discorso a parte va fatto per la metrica barbara, istituzionalmente senza rima, si compone di versi che spesso non sono isosillabici. In questo senso, molto spesso, è stato detto che le misure esametriche carducciane siano un’anticipazione del verso libero. L’osservazione è sensata se sta ad indicare un mutamento percettivo in progress, ovvero la trasformazione della vecchia sensibilità metrica isosillabica in qualcosa di differente. È invece poco attendibile se teorizza la vera filiazione del verso libero dalla metrica barbara. I presupposti dei due mondi sono diametralmente opposti, essendo la prima una metrica rigorosamente chiusa e dotata di regole rigide, statuto non chiarissimo: se da un lato rivela alcune caratteristiche di tipo accentuale, da un altro lato si avvale di un’eccitazione fortissima della grafica, quasi mettendo in dominante la forma visuale del testo. La metrica è pensata come un vero e proprio medium che conta per gli effetti che produce, per le forme che aiuta a generare. Rivaluta la sonorità del verso, inducendo al pubblico a percepirla. Tali testi esigono una presa di coscienza, un’azione cognitiva da parte dei destinatari che devono essere in grado di connettere una sestina lirica al flusso televisivo, un sonetto alle schermate di internet e così via. 2.PREMESSE STORICHE 1. La preistoria: la canzone libera leopardiana Nelle prime 10 canzoni comprese nei suoi canti, Leopardi mantiene due elementi della canzone tradizionale: l’uguaglianza del numero di versi nelle varie stanze e l’uguaglianza dello schema ritmico delle stanze. La canzone libera vera e propria è inaugurata da A Silvia (1828) nella quale della canzone tradizionale, si mantiene solo l’uso esclusivo di endecasillabi e settenari e la divisione in strofe, che però sono fra loro disomogenee sia per numero di versi, sia per formula sillabica, sia per schema ritmico. Gli antecedenti posso essere trovati nella canzone a selva di Guidi, poeta che nella sua forma tipica impiegava endecasillabi e settenari variamente alternati o liberamente rimati. Sono insomma tecnicamente il primo e inevitabile termine di paragone delle canzoni libere leopardiane. Una caratteristica delle canzoni libere poi, è il fatto che ognuna di esse presenta elementi propri di regolarità a compensare la libertà strutturale. Inoltre è stato notato come la suddivisione in strofe, variabile a ogni canzone, corrisponda alla suddivisione in sezioni tematiche e logiche, ad esempio sia La quiete dopo la tempesta che il Sabato del villaggio, sono composti da una prima parte evocativo-descrittiva, una seconda riflessivo-consuntiva e infine una sentenziosa. 2. una novità antica: la metrica barbara carducciana La novità metrica più rilevante dalla seconda metà dell’ottocento coincide con una ritorno all’antico, si potrebbe dire alla metrica classica che Carducci vuole immettere nella metrica italiana facendo rivivere in essa il ritmo e la musicalità della poesia antica in particolare di quella latina. Già in passato qualcuno aveva fatto un tentativo, bloccandosi di fronte ad un ostacolo insormontabile, ovvero la non riducibilità della metrica italiana alla regola quantitativa di opposizione di sillabe brevi e sillabe lunghe, fondamentale della metrica greca e latina, mentre la prosodia della lingua italiana si fonda sull’isosillabismo, sull’isocronismo degli accenti e sulla rima. Carducci è consapevole del carattere inevitabilmente approssimativo del suo calco metrico, e lo dichira fin dal titolo della sua raccolta Odi barbare. Barbare perhè, dichiara, così suonerebbero sia all’orecchio dei greci e dei romani, che agli orecchi degli italiani. Il metodo carducciano è quello di far coincidere a ciascun metro classico (esametro, pentametro ecc.) un verso già esistente nella tradizione italiana, giungendo alla novità di accostamento inedito di versi tradizionali, unito alla soppressione della rima. Il poeta classico cui Carducci guarda con maggiore attenzione è Orazio, importante soprattutto per la varietà strofica dei metri da lui dedotti dalla lirica eolica: carducci non rinuncia alla strofa, infatti, solo se saldamente costretta entro la gabbia strofica, egli ritiene che la poesia si possa definire lirica, ed è per l’appunto nell’ambito della poesia lirica che vuole rimanere. 3. La prudente rivoluzione di d’Annunzio D’Annunzio si rifà molto a Carducci e cerca di uscire dalla rigidità del calco. Metrica barbara e metrica tradizionale si affiancano in Canto novo (1882), mentre Intermezzo (1884) si colloca interamente sul versante della metrica tradizionale. In questa raccolta si intravede già la predilezione per il recupero di metrici classici. L tradizione letteraria, costituisce per lui anche un repertorio di metri Si rifà anche molto spesso alla lirica francese e questo succede anche nell’insolita ripresa dell’outa (la più antica forma di poesia giapponese) a cui aggiunge le rime (Outa occidentale). Il filone barbaro viene ripreso poi nelle 25 Elegie romane. Abbiamo poi un intreccio di metro barbaro, metro trdizionale e verso libero in Odi navali (1892). In D’Annunzio è evidente lo stretto legame con la tradizione, testimoniato dalla scelta del sistema strofico e del verso sillabico-accentuativo e dall’uso della rima come correttivo dell’arbitrarietà delle misure; ma forte è anche la volontà sperimentale, affidata alla eterometria e alla conseguente non prevedibilità dell’alternanza delle misure. In conclusione si deve osservare che nel Novecento il magistero metrico di D’Annunzio agisce soprattutto per una serie di tecniche adottate in particolare nell’ambito della strofe lunga: l’uso di rime imperfette e assonanze; la frequenza di rime interne; la polimetria con predilezione per versi brevi o brevissimi; l’uso insistente degli sdruccioli e soprattutto l’enjambement; l’impiego dell’assonanza in sostituzione delle rime. 4. Il rigore rivoluzionario di Pascoli L’innovazione di Pascoli si fonda sull’esplorazione della tradizione fine nelle pieghe più remote. Quest’ultima non è rifiutata eppure al contempo variata e attaccata dall’interno da una serie di sottili espedienti tecnici. Se l’innovazione di Carducci si può riassumere in due punti (soppressione della rima e inediti accoppiamenti di versi) e quella di D’Annunzio punta soprattutto alla liberazione dalla gabbia strofica e al virtuosismo sintattico, retorico e fonico, le innovazioni di Pascoli sono molto meno vistose: in Pascoli non c’è un avvicinarsi graduale alla libertà metrica, ma da subito molteplici e vari interventi innovativi sulle forme metriche e sui versi, che rimangono però sempre all’interno della tradizione. Si individuano, a grandi linee, individuiamo 3 livelli di intervento: sul ritmo, con recupero di schemi desueti nella tradizione italiana; sul timbro, con infinite e sottilissime iuncturae foniche; sulla sintassi e sulla punteggiatura tendente alla dissoluzione la prima e insolitamente fitta la seconda. Per quanto riguarda la raccolta Myricae (prima edizione 1891, seconda 1892, terza 1894 e quarta 1897. Quinta 1900), dei 156 componimenti, 28 sono sonetti, metro prevalente delle poesie giovanili. La forma del sonetto non comparirà in nessun’altra raccolta di Pascoli, per cui M. sembra accoglierla per un estremo congedo prima di intraprendere la strada di uno sperimentalismo assai spinto. Tra gli schemi più interessanti utilizzati da P. troviamo la terzina: ad es. nel proemiale il giorno dei morti egli non adotta la terzina dantesca, ma recupera la formaa della terzina di Cecco d’Ascoli. Anche la terzina incatenata è presente nella raccolta ad es. in Alba festiva, ma contesta di settenari. Già da questi dati è evidente come Pascoli si muova da innovatore dall’interno della tradizione, e questo accada anche nell’ambito di ballate e madrigali. Molto importante è il lavoro di Pascoli sui singoli versi, e in particolare il novenario, rivalutato e impiegato spesso e in varie combinazioni strofiche, da solo o abbinato ad altri versi. Pascoli si dimostra consapevole della peculiarità più nuova della sua metrica, ovvero “il gusto di giuocare sulla compresenza di due diversi piani ritmici, uno vicino e scoperto e uno segreto e lontano”, gusto che, come egli stesso nota, è presente più o meno in tutti i poeti, ma che solo in lui assume un valore particolare in quanto legato al motivo centrale della sua poetica, al concetto della poesia come voce della realtà profonda e più vera, in contrasto o in colloquio con la voce della comune ed esteriore esperienza. La voce del fanciullino nasce anche da una riflessione profonda e rigorosa sulla metrica degli antichi: nel suo scritto di poetica sulla metrica neoclassica, Pascoli si dice convinto del fatto che i latini leggessero in due modi, ponendo o omettendo le arsi (lettura grammaticale e lettura ritmica); si deve dunque dare il giusto risalto alla lettura ritmica dettata dalla struttura metrica dei versi; ne consegue una costante ricerca sulle possibilità offerte dalla lingua italiana di far sentire forti come le sillabe normalmente toniche anche le sillabe che normalemente non lo sono, una ricerca attentissima agli schemi accentuativi. Un’altra grande innovazione pascoliana è quella della rima ipermetra, che fa rimare una parola sdrucciola con una piana: l’identità fonica della sdrucciola si estende dalla vocale tonica alla prima vocale atona, e l’ultima sillaba della parola sdrucciola s i fonde in una sola sillaba metrica con la prima sillaba del verso seguente. Nei poemi conviviali (1895), è notevole, da un punto di vista metrico, la sperimentazione deli endecasillabi sciolti. In particolare Pascoli vuole recuperare dal mito anche la costruzione formale, e di conseguenza i suoi versi poggiano su di una trama molto elaborata. Negli endecasillabi in questione, P. introduce una fitta trama di richiami fonici, spesso concentrati a fine verso, e predilige in modo netto il modo ritmico che prevede accenti sulla 4 e 8 sillaba. Ciò determina un andamento monotono dei versi, una sillabazione ridondante su sé stessa, di ossessività ripetitiva. Se la vera innovazione pascoliana è dunque all’interno del verso, affidata alla destrutturazione sintattica, a un sapiente uso della punteggiatura e alle variazioni ritmiche, non bisogna dimenticare il lavoro sul timbro. La ripercussione timbrica è ricercata da P. in modo capillare e raffinato creando ad es vere e proprie metafore sonore. Per quanto riguarda il settore delle traduzioni, nelle quali è sostanzialmente confinata la sperimentazione pascoliana sulla metrica barbara, è opportuno ripercorrere le tappe di incontro del giovane Pascoli con la nuova metrica delle barbare, avvenuto negli anni di maggiore attualità e rilevanza della stessa e caratterizzato da accentuata impostazione sperimentale e autonomia rispetto a Carducci. un ritorno di interesse diretto alla questione si avrà nel 1900, quando l’antologia scolastica Sul limitare accoglierà molti saggi di versioni dai classici condotte da Pascoli secondo un metodo ritmico-prosodico . Un’ultima osservazione sulla novità, rispetto alla prosodia ottocentesca, della ricerca di naturalezza insita nella prosodia pascoliana che comporta varie conseguenze sul linguaggio poetico novecentesco: in P. l’uso della dieresi è molto parco, viene eliminata la rima tronca in consonante, cioè un artificio ritmico che allontana la lingua poetica dalla lingua parlata; vengono eliminate le forme arcaiche con epitesi (caritate, puote ecc.) che si erano conservate da Petrarca fino all’Ottocento per una ragione metrica (per evitare la dialefe con la parola seguente che inizia per vocale. 3. LE FORME METRICHE CHIUSE All’altezza del 1903, data in cui si può convenzionalmente fissare l’inizio del Novecento poetico, il panorama metrico è composito ma la direzione dominante è quella della liberalizzazione. Tuttavia le forme tradizionali riescono comunque ad attraversare il Novecento poetico. Questo, in linea di massima, distrugge le regolarità strofiche, non ne crea nuove. Agli inizi della moderna liberazione metrica, l’isostrofismo tende a resistere alla distruzione dei versi tradizionali, ma ne viene intaccata la solidarietà tra forme strofiche e determinati tipi di verso, ad es: tra Otto e Novecento il sonetto rompe il suo legame monogamico con l’endecasillabo con la conseguenza di incremento di sonetti minori o minimi. D’Annunzio: predilezione di quest’ultimo per il recupero di metri della tradizione, anche arcaici e desueti ad es. nell’Isotteo (1890) troviamo in sequenza tre Madrigali,due sonetti e una ballata. In Alcyone (1903) l’itinerario tematico e temporale legato a un preciso itinerario stilistico che comporta il ricorso a vari metri tradizionali, minoritari nella seconda sezione che è deputata alla libertà metrica della strofa lunga. Gozzano scrive sonetti solo all’inizio come per un apprendistato, ma nei Colloqui troviamo anche altre forme tradizionali come componimenti in terzine, distici di versi doppi, quartine, una canzone. Il lessico di Gozzano vuole essere per lo più umile e quotidiano. Il titolo Canzoniere di Saba pare suggerire uno stretto legame con il Canzoniere di Petrarca. Forma metrica tradizionale e peculiare di Saba è la “poesia di tre strofe”. Per analogia di struttura richiama alla memoria la canzone libera leopardiana, ma nuovo è l’impiego di anche versi alternativi all’endecasillabo e al settenario, così come è nuovo l’uso sistematico di una forma tripartita che compare nei Canti solo in maniera episodica. Le due tipologie più frequenti di questa forma sono la simmetria perfetta fra le tre strofe e l’equivalenza tra prima e terza strofa, che sono meno estese della strofa centrale. Dopo la frantumazione in versicoli della sua prima raccolta, Ungaretti riscopre i metri della tradizione italiana, sia in sede teorica che sul piano concreto del fare poesia. Si passa dalla metrica innovativa di Allegria a quella tradizionale del Sentimento del tempo. Alla forma del sonetto egli resterà sempre estraneo, producendo al più un “cripto- sonetto” che alla forma allude per la presenza di due quartine e due terzine, ma con ordine sconvolto. In Caproni il sonetto acquista un valore civile; egli compatta i quattordici versi, a base endecasillabica, annullando la tradizionale distinzione fra le quattro parti del sonetto. 2. Le forme metriche 2.1 Il sonetto tutte le funzioni della rima, pur mettendole in discussione. Molto importante è la valorizzazione della rima-zero, molto smorzata o addirittura assente che però svolge paradossalmente il ruolo strutturante. Il concetto ha un valore storico se si pensa alla nozione di verso sciolto, del blank verse, esemplato sul modello dell’esametro latini: in questi casi la rima c’è e segnala la presenza di una strategia metrica e archeologica, recuperata appunto dal passato. Si diffonde il principio per cui il tasso di lirismo, di altezza della pronuncia poetica sia inversamente proporzionale alla presenza della rima, e che insomma, i lirici puri tendano appunto ad un uso negativo della rima. È probabile che la consuetudine, centrale in tutto il Novecento, sia di origine simbolista e collegata al rifiuto di una rima troppo sonante e scontata, alla quale si sostituiscono: una rima viva auditiva smorzata, fatta di assonanze, quasi rime e rime imperfette, e il dislocamento di tali sonorità in posizioni che non necessariamente coincidono cola fine del verso, che danno dunque origine alle rime interne. Questo sperimentalismo ha un’influenza diretta su molti poeti del Novecento, in particolare sul massimo manipolatore della rima che è Eugenio Montale. Possono essere ricondotti alla questione alcuni fenomeni quali: l’uso di parole straniere in rima, la rima in tmesi, la contraffazione con accentazione artificiosa di rimanti linguisticamente atoni. Inoltre la metrica finisce per imitare l’oralità della lingua; una parte cospicua degli usi ritmici nel contesto del verso libero è evocatrice di effetti di voce. 3. Gli accapo interni al verso, i bianchi orizzontali La letteratura del 900 inserisce degli artifici grafici e tipografici che rendono la letteratura contemporanea assai differente da quella classica: parliamo del verso cosiddetto a gradino e il bianco orizzontale. Il bianco si fa elemento strutturale, ma in senso fisico, come di una solida cornice che determina lo spazio esatto dell’opera d’arte. Questo accade grazie alla macchina da scrivere, che a causa della sua rigidità e precisione degli spazi, può indicare per il poeta, esattamente, il respiro, le pause, le sospensioni perfino delle sillabe. Per quanto riguarda il verso a gradino, si tratta di un artificio avanguardistico che ha origine teatrale e rompe il verso dislocandolo su più livelli differenti, riconducibili però al medesimo verso, ed esso può assumere diverse funzioni. In Sbarbaro ad esempio, lo spezzone isolato può fungere da vera e propria strofa. La sua sede naturale però, secondo Zucco, è quella nei pressi della conclusione della lirica, dove la pausa indotta dal gradino prepara lo scatto emotivo della chiusa. Nel corso del Novecento si notano alcune trasformazioni, e il gradino arriva a negare la natura orizzontale del verso per imporre una verticalizzazione del discorso. in Pagliarini, ad es. il gradino si accompagna a versi spostati verso destra, il cui esito potrebbe essere quello di montare episodi antitetici, con cambio di punti di vista e talvolta anche di voce. Il cosiddetto bianco orizzontale , infine, rappresenta una vera e propria lacuna, un vuoto che si apre all’interno del testo che ha origine dal Manifesto tecnico della letteratura futurista 1912, in cui Marinetti aveva dichiarato che uno spazio vuoto, più o meno lungo, avrebbe indicato al lettore, i riposi o i sonni più o meno lunghi dell’intuizione. 2. Il verso libero breve 2.1 Il verso dannunziano-logaedico e il verso leopardiano Un dato evidente riguardante la metrica libera novecentesca è la sua capacità di far lievitare i versi tradizionali cosiddetti brevi, sia parisillabi che imparisillabi. Ci si riferisce allo spettro che va dal quinario all’endecasillabo e che tuttavia, valorizza con particolare cura, da un lato ottonari, novenari e decasillabi, dall’altro il “nesso leopardiano” settenario-endecasillabo. Si tratta della prima forma istituzionalizzata di verso libero, all’interno del quale si distinguono due tensioni principali: la prima è di natura dattilica, o dattilico-logaedica, legata a numerose sperimentazioni otto-novecentesche tra cui quelle pascoliane e dannunziane. La seconda tensione potremmo definirla giambica, in cui il fenomeno principale è la compresenza dell’endecasillabo e del settenario 3. Esperienze di confine: l’endecasillabo fra “restaurazione” e sopravvivenze della metrica libera 3.0 Il problema della restaurazione metrica Uno dei principali problemi della metrica novecentesca riguarda quel processo di restaurazione che, a partire dagli Ossi di seppia di Montale e, in genere, dall’Ungaretti degli anni 20, sembra rimettere in auge forme di metrica isosillabica. Si parla così di ritorno all’ordine. Bozzola, uno dei più autorevoli studiosi della metrica montaliana ha suggerito di cogliere in ciò non una restaurazione, quanto una ristrutturazione. E’ importarte notare una costante che ha agito nella metrica italiana nel medio periodo, cioè le unità versali che si sono resa via via compatibili all’endecasillabo entro un sistema polimetrico non versoliberista. Partire dalla metrica di Saba, Ungaretti e Montale, avviene la progressiva acclimatazione di misure che nella polimetria tradizionale non erano accettate; quasi tutte hanno il ritmo in senso lato giambico. Vi è la ricomparsa di un endecasillabo anomalo, ovvero l’endecasillabo di 5^, che era utilizzato nella poesia italiana delle origini e dagli stessi Dante e Petrarca, ma di fattto era scomparso nella nostra tradizione fino alle soglie del Novecento, quando viene “ri- legalizzato”. Un’ultima osservazione riguarda la possibilità di scoprire endecasillabi regolari nel corpo di testi viceversa versoliberisti. Si tratta di endecasillabi in senso generico intraversali, entro i quali si possono distinguere fenomeni trans-versali e sub-versali. I primi riguardano versi collocati a cavallo di altri versi, i secondi versi interni a unità lunghe. 4.versi lunghi sillabici: doppi, composti, nuovi Nel novecento italiano hanno uno spicco notevole i versi eccedenti la misura dell’endecasillabo, che nascono, per lo più, dalla sommatoria di unità più brevi: possono essere doppi (due misure della medesima lunghezza), oppure compositi (due o anche più unità di differente estensione). D’altronde sono possibili misure come il dodecasillabo e soprattutto il tredecasillabo. Un ruolo di un certo peso in questa direzione è stato svolto dalla metrica barbara e in particolare dall’esametro, verso composto che presenta una morfologia estremamente varia e che realizza una specie particolare di anisosillabismo. La sua forma, in un contesto di polimetria, potrebbe essere confusa con la struttura del verso alessandrino, un doppio settenario che è la misura classica della metrica francese, che tra Ottocento e Novecento influisce sui poeti italiani. Si parla infatti del problema di falso esametro novecentesco. 4.1 Esametri: dall’archeologia al falso Tra Ottocento e Novecento sono vari i tentativi di adattare la metrica classica alle forme metriche, che hanno portato alla nascita di un ambito molto confuso e suscettibile di fraintendimenti. Si pensi che sono almeno 6 i modi di realizzare la metrica barbara, e solo Pascoli pratica tre sistemi differenti. 4.2 versi liberi compositi In area pre-futurista e futurista si assiste al rimescolamento versoliberista di molti fattori accennati. La metrica libera di Lucini, ad es., presenta sensibili elementi di discontinuità diacronica, soprattutto in relazione alla rima e all’uso di enjambement, tuttavia denuncia una coerenza mensurale stupefacente, egli apprezza molto il settenario e l’endecasillabo; in particolare il doppio alessandrino, nonché il verso lungo, probabilmente il falso esametro. A partire da Montale e lungo poi l’esperienza ermetica sino agli anni cinquanta, il verso lungo sillabico tende a presentare le seguenti caratteristiche invarianti: • Modifica anisosillabicamente versi asinarteti • Documenta l’endecasillabo, perfetto o variato • Propone versi ambigui, assenti dalla tradizione italiana, in particolare i tredecasillabi che costituiscono la convergenza dell’endecasillabo e dell’alessandrino • Sono legittimate letture multiple della stessa linea versale, le cui componenti non sono sempre oggettivamente riconoscibili 4.3 il tredecasillabo Prima del Novecento questo verso non aveva alcuna attestazione. Comincia ad essere praticato con sistematicità da Corrado Govoni già nel 1903, di fatto come vero e proprio sostituto dell’endecasillabo, insomma alla stregua di un verso regolare. Nel corso del Novecento, questo usato in modo isosillabico è caratteristico in particolare nella poesia di Edoardo Cacciatore. Esistono altre invenzioni attestate di versi lunghi sillabici non canonici, utilizzati in contesti soprattutto anisosillabici. 5.il versetto: quando il discorso genera il verso. Nel 10464, Attilio Bertolucci, a proposito di Walt Whitman, ha affermato chee al suo respiro ritmico ci si va accostando anche nella poesia italiana della generazione di mezzo, stanca d’aver troppo obbedito al metronomo dell’endecasillabo. Ci sarebbe secondo Bertolucci, una tensione metrica evolutiva, che avrebbe nelle poesie di Foglie d’erba (leaves of Grass 1855) un saldissimo riferimento. Le caratteristiche ti tale opera sono tuttavia piuttosto contraddittorie. La sua propostaa metrica si presenta da un lato conservatrice, perché utilizza in maniera ingenua strutture, retoriche e oratorie ereditate), ma dall’altro lato anche come radicalmente innovatrice. È caratterizzata, infatti da una forte tendenza inclusiva, capace di assorbire la prosa del mondo- quella giornalistica innanzi tutto- definendo una sorta di forma totale. È probabile infatti che il verso whitmaniano costituisca un momento di svolta epocale nell’ambito della metrica contemporanea, a livello epocale. Tuttavia, anche per queste contraddizioni, in Italia, tali versi, che sono modellati dalla sintassi, sono per lo più giudicati rozzi, privi di una vera dignità metrica. Nel Novecento, una forma di stabilizzazione di questo verso, si ha forse nell’immediato secondo dopoguerra, quando si diffonde la poesia neorealista. La presenza in essa di una metrica approssimativa è individuata in maniera negativa da Walter Siti, parlandone come di un verso lungo che rinuncia ad ogni rigore e pare allungarsi soltanto con l’intento di contenere lo sviluppo di costruzioni sintattiche piuttosto pesanti; un verso lungo totalmente subordinato alla sintassi. 6. il verso anti-sintattico Secondo la definizione di De Rosa e Sangirardi, il verso sintattico, come il verso lineare secondo la definizione di Brioschi e Di Girolamo, hanno il difetto di presentarsi come residuali. Servono cioè circoscrivere un ambito di esperienze che non è stato coperto da altre tradizioni e convenzioni metriche. In particolare questo verso, tendenzialmente lungo, si contrappone al verso-frase, poiché in esso è possibile un vero enjambement, una spezzatura del discorso. si tratta di una definizione molto ampia in quanto riguarda tutte quelle forme metriche che non sono in grado di motivare la loro versatura, il proprio andare accapo. Il verso whitmaniano, che certo non respinge con pregiudizio l’enjambement, valorizza i confini sintattici e testali, mettendo in dominante le grandi partizioni logiche. Il verso che ad esso si oppone sceglie una diversa strategia: rifiuta di adeguarsi alle trame della parola organizzata in frase. Dall’inizio del Novecento ad oggi, anche questa, si potrebbe dire, non- forma ha sviluppato alcune sue tradizioni e se ne può seguire l’evoluzione. È stato definito antisintattico che, a differenza da ciò che suggerisce il senso comune, non è un verso popolare né semplice. È da specificare la rarità di questo verso prima che fra gli anni 50 e 60, le poetiche della neoavanguardia tentino di impossessarsene, grazie alla sua natura radicalmente visiva. Inoltre una successiva liberazione del metro conduce non ad un verso atonale, ma alla poesia in prosa, ed è per questo che non si impone il verso libero che è apparentemente più facile, cioè più arbitrario. 7. il verso accentuale è caratteristico delle lingue a isocronia ritmica, vale a dire lingue in cui nel parlato naturale è costante la distanza temporale fra accenti, mentre può variare il numero delle sillabe. In italiano, viceversa si realizza un’isocronia di tipo sillabico: tutte le sillabe tendono a mantenere la medesima lunghezza, e gli accenti del parlato spontaneo non definiscono gruppi ritmici stabili. Il novecento poetico italiano, è periodicamente tentato dalla prospettiva di realizzare qualcosa di simile al verso accentuale, ma ci si chiede come sia possibile forzare le norme
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