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La letteratura italiana del dopoguerra e il neorealismo, Appunti di Letteratura Italiana

L'influenza della letteratura americana sulla letteratura italiana del dopoguerra e il movimento neorealista. Si parla di autori come Pavese, Vittorini, Calvino, Levi, Moravia e dei loro romanzi. Si descrive il neorealismo come un nuovo modo di fare prosa, con uno stile meno aulico e più comprensibile, che tratta temi storici e ha i caratteri formali sopra elencati. Si parla anche del contesto storico in cui si sviluppa il neorealismo.

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 06/02/2024

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Scarica La letteratura italiana del dopoguerra e il neorealismo e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! LA NARRATIVA DEL DOPOGUERRA Il regime fascista era autarchico, il che ridusse i contatti con le culture straniere. Tra gli anni 1914 e il 1926 però si ha un grande sviluppo della letteratura americana: vedi William Faulkner, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Sherwood Anderson, John Dos Passos, Henry Miller. Questa diventa una via di fuga per gli intellettuali italiani che tentano di portarla in Italia, vedi Cesare Pavese e Elio Vittorini. L’America era vista come il paese della democrazia e della libertà e in tempi del regime fascista era una ‘boccata d’aria’. La letteratura italiana del dopoguerra quindi è fortemente influenzata dalla letteratura americana. Si sparge quindi questo clima di rinnovata fiducia nel futuro che porta alla produzione di tanti testi: Uomini e no (Elio Vittorini, 1945), Racconto d'inverno (Oreste del Buono), Cristo s’è fermato ad Eboli (Carlo Levi), Il cielo è rosso (Giuseppe Berto, 1946), Pane duro (Silvio Micheli), Il sentiero dei nidi di ragno (Italo Calvino, 1947), Cronache di poveri amanti (Vasco Pratolini), La parte dicile (Oreste del Buono), Il compagno (Cesare Pavese), La romana (Alberto Moravia), Se questo è un uomo (Primo Levi), Le donne di Messina (Elio Vittorini, 1949), L’Agnese va a morire (Renata Viganò, 1949), Le terre del Sacramento (Jovine, 1950). “Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere ‘la speranza del mondo’, accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi libri l’America, un’America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo e insieme giovane, innocente” - Cesare Pavese, Ieri e oggi, L’Unità, 3 agosto 1947 Il neorealismo Neorealismo è un neologismo creato dall’unione di neo + realismo, per contrastare il verismo ottocentesco di Verga. Il realismo è quanto un testo riesce a dare l’eetto di essere in una data situazione, quindi si ha una riduzione dell’eetto del narratore e un aumento dell’eetto degli eetti e delle descrizioni. Il realismo è un’etichetta critica data dall’esterno, non è una corrente o un movimento, mentre il neorealismo è un termine diuso dagli anni Trenta per indicare questo nuovo modo di fare prosa riprendendo la corrente tedesca (Neue Sachlichkeit), su iniziativa di Umberto Barbaro e Arnaldo Bocelli. Nel 1943, Mario Serandrei utilizza questo termine per indicare l’arte cinematografica, poi il termine si è diuso anche in ambito letterario. Nel 1950-51 Carlo Bo svolge l’inchiesta sul neorealismo per la radio intervistando vari autori neorealisti, ottenendo come risposte che non si riconoscevano in questa corrente. Calvino lo chiamava ‘neoespressionismo’ perché sentiva la necessità di raccontare ed esprimere ciò che era successo. Spesso questi romanzi sono scritti dalla parte di chi il fascismo l’ha avversato, quindi si ha sentimento di fiducia nella Resistenza e nella creazione della Repubblica per la ricostruzione del paese. Si ha un rinnovamento di tipo stilistico: linguaggio meno aulico, tono più basso, alcune espressioni dialettali, uso del presente perché la letteratura deve essere comprensibile e leggibile a tutti. Infatti si voleva riprodurre l’eetto parlato quindi l’uso smodato del dialogo (ex. “Pierino era il suo genere spaventare la gente”, Pavese, 1941), abuso del che multifunzionale (ex. “salii adagio le scale per non arrivare che lui ci pensasse ancora”, Pavese, 1947), preferenza accordata alla paratassi e alla sintassi nominale, uso di tempi verbali come il presente e il passato prossimo e in parte anche ai costrutti iterativi, ridotta psicologia e ridotto lirismo, tecniche cinematografiche (ex. zoom in apertura del Sentiero dei nidi di ragno di Calvino: “Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere dritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri [...] fin giù al selciato…”). Gli estremi temporali del neorealismo si hanno tra il 1943 e il 1955. Certo è un fatto almeno che una prolungata vicenda collettiva scandita dal conflitto mondiale, dalla guerra partigiana, dall’opportunità di poter ricostruire, su nuove basi, un paese mutato nelle sue istituzioni abbia fatto da collante subito dopo il 1945, fissando qui una possibile data d’inizio della stagione neorealista, alla nostra produzione narrativa: tutta o quasi incentrata sul racconto della Resistenza (Uomini e no di Vittorini, 1945; Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, 1947; La casa in collina di Pavese, 1947), sulla denuncia delle condizioni lavorative e le lotte operaie (Tre operai di Carlo Bernari e Metello di Vasco Pratolini), sulla rappresentazione delle città assediate e bombardate (Il cielo è rosso di Giuseppe Berto, 1947; Fausto e Anna di Cassola, 1952) sulla prigionia concentrazionaria (Se questo è un uomo di Primo Levi, 1947) e poi sul ritorno alla vita normale (La parte dicile di del Buono, 1947; oppure La paga del sabato di Fenoglio, composto già nel 1949). Ed era inevitabile che al fondo della trasposizione letteraria di questa vicenda agisse – insieme a una istanza documentaria, propaggine di una breve tradizione orale che passa poi per la stampa clandestina – un combustibile etico e ideologico ammantato di antifascismo (in questi stessi anni i nostri romanzieri tornano anche sulle azioni di sabotaggio al regime: La romana, Cronache di poveri amanti, Il compagno ecc.) e, almeno in un primo tempo precedente la subitanea disillusione, di “spinte progettuali” fiorite tra le macerie (all’insegna della solidarietà e della creazione di una nuova coscienza popolare), talora anche di intenti vagamente celebrativi e pedagogici (se non addirittura ricattatori). Quindi il romanzo realista di base tratta temi storici e hanno i caratteri formali sopra elencati. In campo cinematografico, le pellicole neorealiste sono impregnate di compassione per le vittime della storia, dagli accenti crudi e drammatici (senza approfondire qui specifiche tecniche che hanno a che fare con lo sguardo, la cornice, la “resa della realtà”) e di ambientazione popolare. I maestri del cinema realista sono Luchino Visconti con La terra trema (1948), Vittorio De Sica con Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) e Miracolo a Milano (1951), Giuseppe De Santis con Caccia tragica (1947), Roberto Rossellini con Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Germania anno zero (1948). Carlo Emilia Gadda è contro questa letteratura perché si era stancato di sentir parlare di guerra. A una corrente un po’ più paternalistica e larmoyante, generalmente più incline al dramma e meno aderente a parabole individuali – introducendo ulteriori tipologie interne, pur sempre adandoci a distinzioni schematiche – apparterrebbe invece il romanzo L’Agnese va a morire, troppo spesso considerato emblema del Neorealismo più deteriore, patetico e manicheo, ma che invero rappresenta un appassionato compendio del racconto resistenziale: delazioni e diserzioni, agguati e suicidi, staette e bombardamenti, rappresaglie, fughe, deportazioni e scontri a fuoco, una stagione dopo l’altra, un accadimento dopo l’altro freneticamente, con il lettore che trattiene il respiro in attesa della pace (oltre che di un tragico epilogo già annunciato nel titolo). Ed è proprio questa successione ininterrotta di azioni, che intanto cementa la comitiva partigiana e assicura un nuovo, pur temporaneo nido familiare al personaggio principale, a creare l’apparente paradosso, costantemente ravvisato nei romanzi di area neorealista, di una narrazione-tutta-fatti e nondimeno pilotata da un’istanza onnisciente e onnipresente – confinata dunque entro la barriera naturalista, adatta meno a restituire la complessità prospettica della realtà che a limitare gli spazi d’azione ermeneutica del lettore. La fase della ricostruzione del paese iniziata nell’immediato dopoguerra si chiude a metà degli anni Cinquanta. Nel mondo intellettuale si assiste alla crisi dell’engagement tipico del dopoguerra così come alla fine della stagione del Neorealismo con le polemiche nate attorno alla pubblicazione di Metello (1955) di Vasco Pratolini. Drammatica sarà la delusione per chi dopo aver confidato nella fatidica data del 1945 come l"anno zero" di una inevitabile palingenesi civile e morale del paese, sotto il segno di «un ricominciamento totale», sarebbe stato poi costretto a fare i conti con l'Italia di sempre, smaniosa di tornare a ogni costo dentro l'idillio artificiale di una normalità protetta dall'oblio delle proprie responsabilità collettive durante la dittatura e gli anni dell'alleanza con Hitler. Si pensi alla voce corale, ma di una coralità meschina, antiepica, somma di egoismi e ipocrisie, smaniosa di dimenticare tutto per "tornare a ballare", e quindi terrorizzata dal ritorno del rimosso. In questo contesto, cui è da aggiungere la considerevole dicoltà di fare epica a partire da una "guerra civile”, il tentativo di molti partigiani di trasformare la lotta di liberazione nell'epopea collettiva e condivisa di un popolo che riconquista la propria dignità dopo vent'anni di fascismo risulta estremamente accidentato, se non compromesso alle radici. Non a caso, anche in letteratura, ogni tentativo di rappresentare la guerra partigiana in termini prevalentemente epici e corali si espone al rischio di scivolare dentro dinamiche artificiali e forzate. L'unica opera italiana pienamente corale, che tiene, fra i suoi vari temi, al proprio centro l'esperienza della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, è di taglio dichiaratamente anti letterario, ed è legata all'indagine sul campo, etico-antropologica, che Nuto Revelli presenta nel Mondo dei vinti (1977), ossia duecentosettanta racconti orali dei contadini delle valli cuneesi che fissano nello spazio collettivo della memoria il dramma della distruzione del mondo e di un popolo.
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