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La nascita dell'autobiografia e riassunto dell'autobiografia di Vittorio Alfieri, Appunti di Letteratura

Nascita del genere dell'autobiografia e riassunto dettagliato, capitolo per capitolo, dell'autobiografia scritta da Vittorio Alfieri.

Tipologia: Appunti

2016/2017

Caricato il 08/11/2017

Gabriele.Moreschi
Gabriele.Moreschi 🇮🇹

4.7

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Scarica La nascita dell'autobiografia e riassunto dell'autobiografia di Vittorio Alfieri e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! L’AUTOBIOGRAFIA Primi esempi di autobiografie Usiamo questo aggettivo “moderna” perché ci riferiamo alla autobiografia che viene prodotta a partire dal diciottesimo secolo. Nonostante questo, prima del 1700 esisteva già l’autobiografia, come per esempio “Le confessioni di S.Agostino” o “La vita nuova” di Dante. Ci sono tanti esempi di scrittura autobiografia anche nell’ambito della autobiografia mistica. Nella nostra tradizione il più famoso e significativo esempio di autobiografia è la vita di Cellini, che però fu pubblicata solo nel 1700. Ci sono poi altri esempi di autobiografie: “Gabriello Chiabrera” (poeta del ‘600), “Pietro Verri” (uno degli autori più importanti dell’illuminismo). Lo scrivere di sé è qualcosa che pre-esiste a quella che viene chiamata la autobiografia moderna. L’autobiografia, l’autore che si mette a raccontare la sua vita in modo retrospettivo, è imparentata con altre forme di scrittura dell’io, tra cui il diario, in cui l’autore parla di se, anche se non in modo retrospettivo della vita trascorsa, ma annota ciò che gli accade quotidianamente. Un’altra forma di scrittura che possiamo rapportare allo scrivere di sé è lo scambio delle lettere, una forma di scrittura privata come il diario, una forma di comunicazione familiare e colloquiale, che si rivolge ad amici e parenti, e funziona come un luogo nel quale si sfoga il proprio io, la propria forma personale. Tutte queste sono forme di scrittura dell’io fatte da chi vive quell’esperienza. Ci sono tante scritture che si imparentano con queste scritture, che sono però scritture che ci parlano della vita di altri: le biografie. Ci sono forme ancora di questo tipo che riguardano gli elogi dei personaggi illustri, sia l’elogio fatto in vita che dopo la morte, e costituiscono una notevole quantità di scritture che sono conservate, e spesso sono collegate all’idea di trasmette informazioni sulla propria patria e nazione. Siamo nell’ambito di una grande famiglia di scritture. Un’altra che merita di essere ricordata in collegamento all’autobiografia sono i libri di famiglia, di origini medievali: sono libri che era uso comporre da parte soprattuto di mercanti, nel quale il capofamiglia trasmetteva in generazione in generazione note che servivano a consolidare la memoria di una famiglia da una generazione all’altra. Oppure potevano esserci questioni che riguardano gli affari della bottega, e quindi trasmettere consigli su come mantenere lo stato economico della famiglia, su come perpetuare la tradizione del mercato. Questi libri spesso sono delle vere e proprie celebrazioni dell’istituto famigliare: chi scrive questi libri di familia descrive la genealogia e mandano consigli per i figli e la la loro futura vita, con uno scopo educativo. Tutto questo per dire che la scrittura autobiografia fa parte di una famiglia molto vasta di scritture memoriale, dove si vuole fissare la memoria del passato, che può avere come suo orizzonte la città, la famiglia o il singolo individuo. La nascita della autobiografia moderna si collega con la apparizione del monumento dell’autobiografia che sono “Le confessioni di Rousseau”, che instaurano il genere dell’autobiografia e furono molto lette e diffuse in tutta Europa, e hanno la caratteristica di svelare sinceramente la personalità dell’autore che scrive. Rousseau assume anche nelle confessioni degli atteggiamenti vendicatori dei confronti di coloro che lui ritiene averlo denigrato, si prende le sue vendette nei confronti dei suoi nemici. In ogni caso dichiara di volere parlare con assoluta libera e sincerità di se stesso. In questo secolo dell’autobiografia moderna è anche il secolo della nascita del romanzo moderno. Non a caso Rousseau è autore non soltanto delle Confessioni ma anche delle “Nouvelle Héloïse". Il genere dell’autobiografia e del romanzo intimista si imparentano, un romanzo dove si da spazio ai sentimenti, alle vicende amorose, a quello che intacca la sfera personale e intima. La nascita del romanzo moderno si collega con l’affermazione della borghesia, dei valori dell’individuo, e c’è la ascesa in campo dell’individuo con i suoi diritti e personalità e spessore umano, morale ed emotivo. La centralità dell’individuo del romanzo corrisponde alla centralità dell’individuo (se stesso) che c’è nella autobiografia moderna. Le passioni intime che Rousseau rappresenta nei suoi romanzi le rappresenta riferite a se stesso nella sua autobiografia. I due fenomeni del romanzo e dell’autobiografia moderna sono collegati. Se ci spostiamo sul fronte della letteratura italiana dobbiamo tenere presente che qui abbiamo una scarsa fortuna del romanzo moderno, così !1 come lo intendiamo guardando i grandi modelli europei, come Rousseau, Richardson, Defoe. Nel 700/800 in Italia non abbiamo romanzi di questo genere. Se vogliamo il primo romanzo moderno importante sono “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, nell 800, che da spazio alle esplicitazioni dell’interiore del personaggio, e si basa su un modello tedesco. Si tratta in ogni caso di una povera tradizione italiana, noi abbiamo pochi romanzi importanti e poca tradizione (bisogna aspettare i promessi sposi, comunque incentrato sul modello inglese). L’Italia era stata forte nella tradizione del poema cavalleresco con Ariosto e Tasso, una tradizione che lavorava con i versi. Con la prosa siamo stati poveri. Dal punto di vista qualitativo tra 700 e 800 è una tradizione povera, ma la nostra tradizione letteraria è una tradizione improntata sulla poesia. Il modello di lirica di Petrarca è stato importante per l’Italia e molto trasportato all’estero. La tradizione prosastica è stata però povera. L’autobiografia erudita (Porcia, Muratori e i volumi) Questa scarsa fortuna del romanzo è quella che fa nascere l’autobiografia in Italia nel 700 su basi diverse da quella europa: su basi erudite e non su quelle basi collegabili con la tradizione romanzesca. Riprendiamo il discorso del rapporto tra la nascita dell’autobiografia moderna e il romanzo moderno: entrambi mettono in luce e traducono in forma di scrittura l’interiorità dell’individuo. Da questo punto di vista conta molto il romanzo europeo, e il caso di Rousseau è emblematico. In Italia la tradizione del romanzo è fragile. Questo fa si che noi andiamo a ricercare le origini dell’autobiografia in Italia nell’erudizione. A segnarne la nascita è il 1728: una data significativa per la storia dell’autobiografia in Italia perché è la data nella quale vien data alle stampe la vita di Cellini (del 500, ma giunge a stampa solo in quell’anno). Ottenne molto successo e richiamò l’attenzione del pubblico su questo genere di scrittura. Quest’autobiografia è quella di un uomo che si presenta come eccezionale, con una vita con eventi eccezionali e miracolosi, che contrassegnano la sua genialità di artista. E in effetti le vite degli artisti, pittori e scultori sono sempre state oggetto di attenzione biografica. Un altro elemento influente succede nel 1728: un letterato friulano che si chiama Giovanartico di Porcia, in strettissima relazione con un altro letterato importante come Ludovico Antonio Muratori, si occupa di storia, di poesia e di letteratura. È un grande erudito, faceva il bibliotecario a Milano e Modena, è un grande sapiente di questa età che si interessò di poesia e che portò avanti, per quello che riguarda la letteratura, una battaglia nel nome del buon gusto. Il buon gusto diventa la sua parola d’ordine: è l’idea che nella poesia italiana si debba abbandonare il modo di fare poesia che era stato proprio dell’età barocca. In quell’età, nel 1600, si era affermata (Giambattista Marino) questa poetica barocca che si fondava sul concetto di suscitare nel lettore la meraviglia, utilizzando un incredibile fioritura di metafore, con un compiacimento nel complicare le figure poetiche. Questa idea di colpire meravigliando i lettori aveva una impostazione che ci fa assistere per esempio alla produzione di un grandissimo capolavoro come l’Adone di Marino, che è un poema che rompe completamente con le regole del Classicismo precedente (Ariosto → poema cavalleresco, Tasso → Gerusalemme Liberata). Il buon gusto è il ritorno all’ordine, alla razionalità cartesiana, ad un linguaggio poetico chiaro e distino, ad una lingua poetica limpida, apparentemente semplice, che ci porta fuori da tutta la grande vegetazione intricata dell’universo delle metafore barocche. Muratori aveva nelle sue idee (per esempio riscopre Petrarca, di cui rilancia il classicismo) anche quella di una repubblica delle lettere, dei letterati italiani: i letterati italiani costruiscono non uno stato costituito, ma una repubblica ideale, istaurando rapporti tra di loro, instaurando dialoghi per esempio con il sistema epistolare, parlando tra di loro e costituendo una specie di repubblica che raccolga tutti gli intellettuali. Muratori sviluppa questa idea in contrapposizione e in polemica con il tentativo egemonico che pesa sulla cultura e sulla letteratura europea da parte della Francia di Luigi XVI, che aveva voluto affermare il proprio primato francese sulla cultura Italiana e dell’accademia di Francia, e anche in risposta a questo disegno egemonico che era venuto avanti nel 600 che Muratori concepisce questa ideale repubblica che da ai letterati italiani una coscienza di se e delle proprie capacità, che non hanno niente da invidiare a quelle dei francesi. Muratori è l’uomo importante che sta dietro il progetto di Giovanartico di Porcia (glielo suggerisce), molto importante per la storia dell’autobiografia italiana. Giovanaritico pubblica nel 1728 nel primo tomo di una raccolta di opuscoli scientifici e filologici, che veniva stampata a Venezia da Angelo Calogerà, che è un tipografo e stampatore che ha un’importanza rilevante a !2 Diceva inoltre che non aderiva al progetto di Porcia perché lui non si sentiva di essere ancora esente da errori. Lui diceva che gli altri non avrebbero dovuto perdere tempo studiando quello che lui aveva studiato. C’è un’altra considerazione a proposito di questo progetto: lo stesso Muratori aveva composto una lettera indirizzata a Giovanartico di Porcia che era una sorta di sua autobiografia. Il titolo “lettera all’illustrissimo Porcia intorno al metodo seguito nei suoi studi”. Questa lettera non viene pubblicata, e quindi è lo stesso Muratori che si auto-censura. Da dimostrazione anche in altre sue opere importanti, come nel “Il trattato della perfetta poesia italiana” e “Le riflessioni sul buon gusto”, dove fa riferimento all’idea dell’autobiografia che poi si tradurrà nel progetto di Porcia. La lettera di Muratori rimane inedita fino a moltissimi anni dopo. Questo per dire che Muratori stesso, che suggeriva il bisogno di queste autobiografie, rimane nella prigione della ritrosia. In questa lettera c’è un’altra affermazione importante, che ritroveremo nell’autobiografia moderna e in quella di Alfieri (nell’introduzione): il richiamo al concetto di amor proprio, che guida lo scrittore nel redigere la propria autobiografia. Non aderisce alla pubblicazione di una propria autobiografia perché sa che questo sarebbe una manifestazione di amor proprio, che è visto sotto una luce negativa, cosa che non sarà più verso la fine del secolo quando ci sarà la autobiografia di Alfieri. Tutto l’autoritratto che Muratori da di sé in questa lettera tende a mettere insieme l’aspetto morale e quello intellettuale, a tenerli legati tra di loro, con anche delle forme di autocontrollo e autocensura. Lui in questa lettera racconta anche di come da giovane (ammette un suo errore morale) era molto dedicato alla lettura dei romanzi, e allora volendosi come scusare di questo peccato giovanile, dice che li ha letti e che ne ha tratto beneficio, perché sono serviti ad invogliarlo nella lettura e ad insegnargli a scrivere, sono stati una sorta di palestra. Anche in questa lettera autobiografica si affaccia un elemento che sarà fondante della autobiografia moderna: la vocazione. Lui dice che ha voluto fortemente fare studi di storico, andando contro in questa maniera agli studi che la sua famiglia voleva che lui facesse, quelli giuridici. Lui ha voluto seguire il suo genio dominatore, la sua vocazione naturale, quella della storia. Un’altro concetto in questa lettera: lui segue soltanto il giusto e il vero nel fare la sua professione, senza che nessuno potesse mai comprare il suo ingegno, senza farsi mai corrompere dal potere. L’autobiografia che viene offerta come prototipo nel progetto di Porcia è quella di Vico. L’autobiografia di Vico ha come caratteristica di essere stata scritta da lui con una forte intenzione autocelebrativa e polemica, perché Vico la scrive all’indomani dell’insuccesso delle sue opere (“Il diritto universale” e la prima stesura della “La scienza nuova”). Siamo di fronte ad un tipo di scrittura e stile che è veramente agli antipodi di quello di Muratori. Ha un periodare molto turgido, un discorso costruito con un’architettura complessa, involuta, diversissima dalla chiarità di Muratori (che rispecchiava l’ordine cartesiano che predicava agli altri nella sua battaglia per il buon gusto). Nella autobiografia, Vico evoca il momento nel quale ha voluto corrispondere all’invito di Porcia: ha chiaro l’intento pedagogico di Porcia rivolto alle generazioni future, ma ha più volte rifiutato di scrivere un’autobiografia, e quando si decise di scriverla, la scrisse da filosofo, mettendoci tutte le riflessioni che Porcia richiedeva (difficoltà negli studi) ma soprattuto dice, dando una collocazione teleologica al suo laboro, che la sua vita era fatta e si era sviluppata per arrivare come obbiettivo alla stesura de “La scienza nuova”. In questo modo lui concepisce la sua autobiografia come una grande apologia della sua attività di filosofo. Non a caso decide di scrivere l’autobiografia quando vede il fallimento della “Scienza nuova”, quando tutto il suo lavoro di filosofo sembra vanificato. E per dar forza alla filosofia che lui ha espresso nella “Scienza nuova” dice nella sua autobiografia che tutto il suo lavoro di filosofo era necessariamente indirizzato a produrre la filosofia che ha espresso nella “Scienza nuova”. !5 Quando si parla di autobiografia, ci si riferisce solitamente a quella di Alfieri, e le si mette vicino per contrasto quella di Carlo Goldoni. Queste sono le due grandi autobiografie ottocentesche, alle quali dovremmo aggiungere quella di Giacomo Casanova, che ha tematiche spinte. Queste tre autobiografie, le più grandi settecentesche, Casanova e Goldoni sono scritte in francese, perché nonostante fossero italiani: ƒ - Casanova è un cosmopolita, un esponente dell’espressione del modo di vita cosmopolita settecentesca, lui gira tutta l’Europa e quindi utilizza la lingua che utilizzava di più nella vita, cioè il francese, che era la lingua di comunicazione di tutta l’Europa (l’equivalente oggi dell’inglese). ƒ - Goldoni scrive le sue memorie (“I Memoires”) in francese perché le scrive nel periodo nel quale era in Francia. Carlo Goldoni Nel 1760 lui lascia l’Italia e Venezia per andare a fare l’autore di teatro a Parigi, dove pensa di incontrare una grande fortuna, di potere trasferire la sua riforma che l’aveva portato a superare e cambiare il modo in cui si faceva teatro comico (dalla commedia dell’arte a quella di carattere). In realtà si trova male, perché per i francesi e gli europei il teatro era la commedia dell’arte, la tradizione dell’arte aveva trionfato ovunque. Gli stranieri del teatro italiano apprezzavano la commedia e i comici dell’arte. Tutto ciò che Goldoni aveva combattuto per combattere si trova a vedere che era ciò che era apprezzato in Francia, e quindi doveva ricominciare da capo la sua battaglia, di rifare ciò che aveva fatto in Italia, ottenendo però uno scarso risultato. Risiede però in Francia, dove morirà, dove si mette a scrivere questi Memoires, che siccome erano per il pubblico francese vengono scritte in francese. Lui voleva farsi capire dall’ambiente di corte francese, cercando di spiegare tutto quanto il suo mestiere, cercando di spiegare come ha proceduto nella sua riforma, cercando di dare di se un’immagine onorevole. Come concepisce la sua autobiografia? L’autobiografia è l’effusione del se, quindi teoricamente dovrebbe essere improntata alla veridicità e alla sincerità. Ovviamente non è così, perché lo scrittore che scrive di sé non può dare un’immagine oggettiva di se; da un ritratto che è un’interpretazione di se stesso, della propria esperienza di vita. C’è un filtro. A cosa è interessato Goldoni nel rappresentarsi? È interessato a far coincidere completamente la propria vita con il suo mestiere di autorcomico (= autore di commedie). Le commedie vanno a finire bene, il suo intento è anche di far ridere. Lui si rappresenta come nato così, nato con dentro di se questa vocazione per il teatro comico. Utilizza, come normalmente nel lessico settecento, l’espressione “genio”, che ha un significato diverso da quello odierno, che significava “vocazione”. Lui si rappresenta nato con questo genio comico, che lo portava irrevocabilmente a fare le commedie. E infatti si rappresenta nella sua autobiografia fin da bambino spinto da questa vocazione: ci racconta della sua infanzia, di quando rappresentò una commedia per i burattini in un salotto. Le illustrazioni che accompagnano una delle edizione della sua autobiografia lo rappresentano in questo aneddoto, in una vignetta che rappresenta un momento significativo. Nei titoli dei capitoli della sua autobiografia ricorrono i titoli delle sue commedie: la storia della sua vita è la storia del suo teatro. Non diceva praticamente nulla di se stesso. Questo ci dice anche che tipo di personaggio è dal punto di vista della connotazione sociale. Goldoni è di famiglia borghese, suo padre era medico, inizialmente doveva diventare medico, poi fece l’avvocato (nelle intestazioni delle sue commedie Goldoni ci tiene sempre a mettere l’appellativo “Avv.”); ma la sua vera vocazione era diventare autore. Uno dei momenti salienti della autobiografia è quando è a Pisa in veste di avvocato dove gli capita di riscontrare un famoso attore che faceva molto bene la parte di Arlecchino. Lo incontra e torna in lui questo amore per il teatro, si rende conto che sta facendo il mestiere sbagliato, e quindi a Pisa si rimette a scrivere teatro. Questo è come ci presenta lui le cose nella autobiografia: il fato gli ha riportato davanti il mondo del teatro, il suo vero mestiere. L’autorcomico è un mestiere vero a proprio: è uno stipendiato dell’impresario teatrale che lavora a diretto contatto con il materiale umano di cui dispone, pattuisce un certo numero di commedie da scrivere nella stagione teatrale, e viene pagato per quello. !6 Un anno Goldoni fece un contratto molto remunerativo in cui scrive 16 commedie nuove. Lui non scrive mai una commedia a tavolino e poi va cercare gli attori a cui farla recitare, ma cuce la commedia direttamente sugli attori che a disposizione. Questa vocazione autobiografica la sviluppa molto presto, prima di scrivere la sua autobiografia. La praticò già nelle prefazioni che scriveva per una delle edizioni settecentesche delle sue commedia. Già lì c’è in italiano la genesi di come lui si muoveva nella vita avendo come campo d’azione il teatro. Un altro elemento molto importante che emerge dai Memoires è la stretta correlazione che lui pone tra la sua esperienza di vita e il suo teatro. Lui dice molto esplicitamente quando ci rappresenta i suoi incontri come fossero una commedia: fa muovere i personaggi con una vivacità e attitudine del teatro; spesso ci dice come una scena o situazione che lui aveva vissuto era “da mettersi in commedia”, e spesso lo faceva veramente. Tutte le commedie che scrive sono il frutto di una osservazione puntale e precisa e intelligente di quello che vede intorno a se, di quello che osserva del comportamento degli uomini. Scrisse “Gli innamorati” in cui è messa in scena una gelosia morbosa di due personaggi, che può sembrare esagerata, ma mostra come la gelosia può condurre a comportamenti pazzoidi; lui ci racconta nell’autobiografia di avere assistito a situazioni di quel genere, facendo anche riferimento ad alcune precise. In un episodio, disse che questo sentimento di gelosia era talmente pazzesco che superava addirittura ciò che lui aveva messo in commedia. Come già detto, niente delle sue commedia non derivava dall’osservazione della vita degli uomini. Ciò che è paradossale è che se da un lato nelle commedie lui rappresenta la psicologia delle persone in una maniera straordinaria, andando a fondo, svelandole nei loro atteggiamenti e atteggiamenti, ma questo processo non lo mette in atto per se nei Memoires, a differenza di quello che vedremo con Alfieri (dove c’è lo svelamento della psicologia individuale, leva il velo sullo stato d’animo melanconico e dell’interiorità del suo cuore umano). Goldoni tende a non rappresentarsi in questo modo, tende a mostrarsi tutto volto all’esterno, risolto nell’esterno, al contrario delle sue commedie, dove dimostra di capire davvero il cuore umano. Di Goldoni si è resa un’immagine di sé risolta e rasserenata, come uomo privo di contraddizioni e volte superficiale. La parola che nella critica ha rappresentato il suo modo di essere è stata “bonomia”, un uomo sereno che sorride sempre, molto ottimista, contento. In realtà non era così, ma non ce l’ha detto nel Memoires. Lo scopriamo qualche volta quando viene letto tra le righe indirettamente che aveva dei momenti di ipocondria, di malinconia, che stava male. Ciò che avvicina la autobiografia di Goldoni ad Alfieri è la questione della vocazione. Goldoni si rappresenta come colui dominato dal genio comico fin dalla nascita. (vedi sotto) Un altro elemento che contraddistingue la personalità di Goldoni come rappresentata nei Memoires è il fatto che a Goldoni interessa il paesaggio umano e non interessa il paesaggio naturale, il paesaggio abitato e non il paesaggio privo della presenza umana. Nei Memoires lui gira tutta l’Italia ma non ci parla mai dei paesaggi, mentre invece Alfieri lo fa. Tra le pagine più famose dell’autobiografia di Alfieri ci sono le sue descrizioni dei deserti dell’Aragona, delle terre ghiacciate del nord europa, di paesaggi privi di presenza umana, di natura paura, che lui ama e che invece non interessano a Goldoni. Goldoni ci parla di paesaggi umani, a lui interessa dire che gli piace una città perché c’è tanta vita, tanti uomini, tante attività, strade e piazze frequentate, gli piace il paesaggio urbano. Cenni su Vittorio Alfieri Alfieri, che a cominciare dalla connotazione sociale è un personaggio totalmente diverso da Goldoni, è un aristocratico, di una famiglia aristocratica piemontese importante e parla una lingua che non è l’italiano. In Piemonte si parla o il dialetto piemontese o il francese. Una delle prime cose che scrive erano in francese. Fa parte della sua autoeducazione la conquista della lingua italiana. Della autobiografia di Alfieri si sa l’aneddoto di quando si fa legare alla sedia dal servo per studiare. Questo aneddoto rende molto bene la sua personalità, perché in quell’immagine c’è tutto ciò che lui ci racconta, e cioè la volontà di non essere quello che la società avrebbe voluto che lui fosse ma di riuscire a diventare un uomo di lettere. La società avrebbe voluto che lui seguisse il corso normale di un aristocratico: fare studi tradizionali, entrare nell’esercito, nella accademia, diventare e gestire i beni di famiglia, fare quello che era destinato a fare. Ma lui rifiuta di fare questa vita, rinuncia ai suoi feudi in favore della sorella, si lascia una !7 Irato sempre (perché perpetua in lui l’ira contro il suo secolo e il tiranno, contro coloro che non mettono come insegna della propria vita l’inserimento della libertà) però maligno mai (non ha sentimento poco puri nei confronti degli altri). Il giudizio della mente e dell’intelligenza, e dall’altra parte le sue aspettative e sentimenti per trasformare questo mondo reale, i sentimenti del cuore che si scontrano con i giudizi della mente. Per lo più mesto e malinconico, e qualche volta molto felice. È felice per esempio quando può trovare corrispondenza al suo modo di essere in alcuni amici, oppure è felice nel senso che il suo animo si placa quando è a contatto con certi spettacoli della natura. Il suo però è in generale un carattere malinconico che vede dei momenti però di contentezza. In certi momenti si stima molto coraggioso, in altri si sente molto codardo. La risposta è affidata alla posteriorità: sapere veramente come si è stati (grandi o non all’altezza dei compiti che l’uomo ha davanti a se), per sapere questo il bilancio va fatto dopo la morte. Dicendo così, lui non vuole mettersi in bocca un giudizio assolutorio, non vuole dire di se stesso che è stato grande con certezza. Questo sonetto farà da modello al sonetti autoritratto di Foscolo e a quello del giovane Manzoni. Alfieri come eroe per le generazioni future Ciò ci dice che Alfieri è un punto di riferimento, un modello per questi altri poeti. Questo essere punti di riferimento e modello vuole dire che Alfieri è (e sarà a cominciare da dopo la sua morte) una specie di mito per le generazioni che verranno, in particolare quelle immediatamente seguenti, per quei poeti giovani all’inizio dell’ottocento che vivono in un’epoca difficile per i letterati: l’età napoleonica, in cui l’Italia è sotto la sfera di influenza di Napoleone, il quale era stato acclamato dai letterati e intellettuali italiani (Foscolo aveva scritto “l’oda a Bonaparte Liberatore”), che avevano attribuito a Napoleone, figlio degli ideali della rivoluzione francese, una funzione di liberatore dall’oppressione straniera. In realtà il regime che viene instaurato in Italia con il Regno d’Italia si rivela una grande delusione per i patrioti italiani. Questo è il quadro della poesia in età napoleonica. In questo stato di cose, nella quale i letterati italiani si sentono frustrati dai limiti di quella libertà francese nella quale avevano sperato, si costruiscono dei miti letterari e civili. I miti sono quelli di Parini (poeta civile) e Alfieri (poeta della libertà). Guardano a questi grandi poeti del settecento come punti di riferimento per una loro concezione che si fonda sulla nazionalità e italianità, sono i primi sintomi del processo risorgimentale. In particolare per Alfieri si instaura un fenomeno dell’alfierismo, come categoria ideale, che vuol dire essere fieri e partigiani della libertà, è la resistenza contro la tirannia. Sia Manzoni che Foscolo guardano ad Alfieri in questo modo. E guardano a Parini come poeta che non si è piegato contro i potenti. C’è un eroicizzazione delle figure di Parini e Alfieri. Anche Leopardi è alfierista, fino alla “Ginestra”: la sua resistenza alla violenza della natura, che è connotata in senso alfieriano. Questo per dire che Alfieri è un autore che ha questa sorte di diventare un mito ottocentesco, questa idea del baluardo della libertà diventa prima un mito risorgimentale e poi un mito filosofico nella dimensione che gli da Leopardi, dove la resistenza degli uomini diventa contro la natura matrigna e non solo contro l’oppressore straniero. !10 VITA DI VITTORIO ALFIERI DA ASTI SCRITTA DA ESSO Alfieri ha quindi un’evidente vocazione e inclinazione per la scrittura autobiografica, che sfocia nell’autobiografia che scriverà. Alfieri inizia a scrivere l’autobiografia nella primavera del 1790, all’indomani dell’avere concluso l’edizione definitiva delle sue diciannove tragedie, l’edizione Didot. Pubblica le tragedie a Parigi tra il 1787 e il 1789. L’edizione Didot è amorevolmente seguita dall’autore, il quale da a questa edizione la funzione di monumento della sua opera di tragediografo: Alfieri si ritiene un autore tragico, e l’edizione delle sue tragedie costituisce il compimento della sua carriera. Quindi, una volta concluso questo compito, giunto al culmine della sua attività di tragediografo, si mette a scrivere la sua vita, che dovrà essere sostanzialmente il racconto di come si sia formato, si come abbia potuto perseguire i suoi obbiettivi, collegati alla sua vocazione di autore tragico. Ci racconta come arrivato ad assumere coscienza di se, a capire che il suo scopo nel mondo era quello di farsi poeta e in particolare tragico. Un elemento fondamentale della sua autobiografia è l’elemento della vocazione: come nell’autobiografia erudita già c’erano elementi che troviamo in Alfieri, e la vocazione è uno di questi. L’altro elemento è l’elemento della conversione, perché come Alfieri racconta, è in un momento ella sua vita dove prende coscienza della sua vocazione e per seguirla cambia il suo modo di vivere e di agire. La conversione avviene nel 1775, a 26 anni. Introduzione Molto interessante è l’introduzione, perché qui sono dichiarate le intenzioni che guidano Alfieri in questa impresa. Pianta effimera noi, cos'è il vivente? Cos'è l'estinto? - Un sogno d'ombra è l'uomo. pindaro, Pizia VII, v. 135 Plerique suam ipsi vitam narrare, fiduciam potius morum, quam arrogantiam, arbitrati sunt. Tacito, Vita di Agricola Lui ha messo innanzi a questo testo due citazioni, da Pindaro e Tacito. Leggendo scopriremo quanto è importante per Alfieri la cultura classica: per lui è stata una conquista, si è dato lo scopo di conoscere la cultura classica perché negli antichi e nei classici trova quegli elementi di valore universale che riguardano il modo di essere dell’uomo ai quali si può continuare a rifarsi. La prima citazione, da Pindaro, allude alla dimensione effimera della vita dell’uomo, vuole sottolineare come l’uomo, che pure si gloria tante volte di se stesso, non è altro che un sogno d’ombra, qualcosa che svanisce, che è fragile, che è destinato a non avere neppure materia. è come se ci fosse un richiamo d’umiltà: nel momento in cui si mette a costruire l’autorappresentazione di se stesso, premette però questa dichiarazione di umiltà. L’introduzione si apre poi con una citazione dalla biografia di Tacito: questa citazione vuole dire che se lui si è accinto a descrivere la propria vita, lo ha fatto non per vana gloria ma per fiducia nei propri costumi, cioè pone fiducia nella propria moralità. Esordisce poi mettendo in primo piano il concetto dell’amore proprio: un concetto molto importante nella riflessione illuministica. Questo amor proprio oggi siamo quasi portati a giudicarlo negativamente, ma qui non stiamo parlando di “vana gloria”, ma della consapevolezza di se. La riflessione filosofica settecentesca insiste molto su questo. (NB: Alfieri aveva letto Cellini, Goldoni e anche probabilmente Rousseau, le conosceva). L’amor di se è quella consapevolezza delle proprie doti, che porta l’uomo ad agire, non ha una concezione negativa. È una concezione di quale insistono molto gli illuministi; Verri sosteneva che l’amor di se non dovesse essere umiliato, schernito. !11 Verri in un articolo del “Caffè” parla a proposito della satira: questo articolo viene scritto nel 1764, pensando alla satira di Parini (che scrisse “Il Mattino”, la prima parte del “Giorno” pubblicato nel 1963, e la seconda parte sarà invece “Il Mezzogiorno”. ). Era uscito “Il Mattino”, satira della nobiltà, per criticare i loro costumi e riformarli. Questo scritto non era piaciuto a Verri, non perché non condividesse l’ideologia, ma perché riteneva che lo strumento fosse sbagliato, perché umiliava l’amor proprio. Secondo Verri, la satira nasce dall’amor proprio confrontato: io metto in ridicolo una persona, additandone i cattivi costumi eccetera, e colui che assiste alla descrizione di questi cattivi costumi ride perché confronta se stesso con l’oggetto della derisione. Quindi, il suo amor proprio ne viene esaltato. Ma da questo confronto tra chi è difettoso e chi si ritiene non esserlo, il difettoso viene soltanto umiliato, proprio nel suo amor proprio. Quindi, c’è un amor proprio che viene esaltato e uno che viene umiliato, e che non si può correggere. Mente invece, se si pone davanti a chi ha costumi sbagliati un esempio chiaro sia dei difetti che delle virtù, confrontandosi con questa messa in scena, il vizioso ha modo di correggersi. Secondo Verri questo effetto educativo della rappresentazione del vizio (e non umiliate e disgregativo) si ha nella commedia, così come aveva fatto Goldoni, e NON nella satira. Di fronte allo spettacolo messo in scena dalla commedia, dove virtù e vizio sono distinti, e dove la virtù vince sempre, l’intento educativo si ottiene senza umiliare l’amor proprio. Verri diceva che la satira produceva effetti disgreganti nella società, mentre la commedia aveva effetti veramente educativi. Questo per dire che l’idea di amor proprio di questo periodo è una virtù molto positiva, è la coscienza di se, che può essere migliorata ed educata. Ci rende uomini, ci spinge a migliorarci. Non si ottiene niente di buono se si cerca semplicemente di sminuire e umiliare l’amor proprio. Anche lo scrivere un’autobiografia è una manifestazione dell’amor proprio, che non va scambiata, come dice Tacito, per vana gloria. Nelle prime righe, lui è dice che convinto che l’amor proprio è una virtù positiva. Quando scrive la sua autobiografia monumentalizza, da un momento fisso che va ai posteri ciò che lui è stato. È una manifestazione di amor proprio giusta, per la quale non servono scuse e dichiarazioni di modesta. L’autobiografia è destinata a coloro che vengono dopo la sua morte, e lui a questi garantisce che ciò che scrive è vero, c’è veridicità. Spiega cos’è l’amore di se stessi: tutti abbiamo l’amor proprio, se non lo coltiviamo non combiniamo nulla nella vita. La natura lo da a tutti, e specialmente agli scrittori e poi ai poeti. Gli scrittori hanno più amor proprio perché hanno la possibilità di comunicare agli altri il proprio amor proprio, quindi di svolgere una funzione educativa. Tra le righe, tornano quelle tesi sviluppate dall’autobiografia erudita, dove si scriveva dei propri studi sempre con una funzione educativa. Tutte le azioni importanti che compiono gli uomini vengono compiute in virtù del loro amor proprio. L’amor proprio consente di dare un senso alla propria vita, a non sprecarla. Dall’amor proprio deriva ogni bella e nobile cosa che l’uomo può compiere, quando all’amore di se stesso congiunge la cognizione dei propri mezzi: l’amore di se stesso deve trovare degli strumenti operativi, e questi strumenti sono la cognizione dei propri mezzi, che nel caso di Alfieri sono la capacità di scrivere. Il vero e il bello sono la stessa cosa. Questo è un concetto che deriva da delle idee muratoriane, per il quale non esiste un bello disgiunto dal vero. La poesia ha una funzione sociale e civile. Dice che la sua autobiografia sarà la descrizione di come lui ha preso coscienza del proprio amor proprio, di come si è dato i mezzi per esercitarlo, e di come questo esercizio, le opere che ci ha dato, hanno funzione civile. Dice come ha concepito organizzato l’autobiografia: voleva comunicare ciò che lui era, dice di vedere intorno a se come siano molto apprezzate le vite degli autori, anche di quelli non bravi e di cui si considera superiore, che magari hanno scritto tanto e dei quali il pubblico richiede la biografia. Alfieri mette questa curiosità di avere le autobiografie di autori in corrispondenza con un mercato autoriale che sta sempre più diventando mercato, con canali venali e fondati sulla legge della compravendita, c’era un avanzare di un !12 quasi due anni preceduto il mio nascimento, avea piú che mai invogliato e insperanzito il mio buon genitore di aver prole maschia: onde fu oltre modo festeggiato il mio arrivo. [….] vita” La madre era già vedova, aveva già avuto figli. Si erano sposati, era nata Giulia, la sorella, e poi nasce lui. Il padre era felice del fatto che fosse nato un figlio maschio, e Alfieri dice come questa fosse una concomitanza di aspettative, c’era l’aspettativa del nobile che voleva perpetuare il nome della propria famiglia e trasmettere integramente il patrimonio, ma c’è anche poi la sottolineatura di come la felicità del padre non fosse solo dovuta a motivazioni di carattere dinastico e orgoglio nobiliare, ma anche proprio al fatto che il padre nutrì verso di lui un grande affetto, e che questo affetto si dimostrò anche se il padre morì prima che compì un anno. Tuttavia in quel primo anno di vita, dove il bambino era affidato alla balia, il padre tutti i giorni da Asti lo andava a trovare, facendo tutta la via a piedi, dimostrando un grande affetto nei confronti del figlio assolutamente non scontato nella società nobiliare di quel tempo. Nelle memorie di Pietro Verri possiamo scoprire che i suoi genitori non erano affettivi nei confronti dei figli, e di questo lui e i fratelli soffrirono molto; infatti, quando Verri ebbe una sua famiglia, rovesciò completamente questi rapporti parentali. “Rimase mia madre incinta di un altro figlio maschio, il quale morí poi nella sua prima età. Le restavano dunque un maschio e una femmina di mio padre, e due femmine ed un maschio del di lei primo marito, marchese di Cacherano.” la mortalità infantile era molto diffusa, questo era normale. “Ma essa, benchè vedova due volte, trovandosi pure assai giovine ancora, passò alle terze nozze col cavaliere Giacinto Alfieri di Magliano, cadetto di una casa dello stesso nome della mia, ma di altro ramo.” Vittorio trascorrerà i suoi primi anni con la presenza della madre e di un patrigno, e anche del patrigno non dice male, ebbe con lui un buon rapporto, era affettivo nei suoi confronti. “La mia ottima madre trovò una perfetta felicità con questo cavalier Giacinto,” abbiamo una coppia di nobili tra i quali abbiamo un grande affetto. Questo elemento non è scontato nell’ambiente nobiliare. I matrimoni si facevano su caratteri patrimoniali, non affettuosi o amorosi. Parini considera l’istituto matrimoniale nella nobiltà come qualcosa di inaffettivo, e quindi si dimostra come la storia di Alfieri sottolinei un’eccezione. “che era di età all'incirca alla sua, di bellissimo aspetto, di signorili ed illibati costumi: onde ella visse in una beatissima ed esemplare unione con lui;” abbiamo una grande armonia in questa famiglia nobiliare. “Onde da piú di 37 anni vivono questi due coniugi vivo esempio di ogni virtú domestica, amati, rispettati, e ammirati da tutti i loro concittadini; e massimamente mia madre, per la sua ardentissima eroica pietà con cui si è assolutamente consecrata al sollievo e servizio dei poveri.” l’altra qualità che rende apprezzabili questi esponenti della nobiltà è il fatto che facciano molta beneficienza. “Ella ha successivamente in questo decorso di tempo perduti e il primo maschio del primo marito e la seconda femmina; cosí pure i due soli maschi del terzo, onde nella sua ultima età io solo di maschi le rimango; e per le fatali mie circostanze non posso star presso di lei; cosa di cui mi rammarico spessissimo: ma assai piú mi dorrebbe, ed a nessun conto ne vorrei stare continuamente lontano, se non fossi ben certo ch'ella e nel suo forte e sublime carattere, e nella sua vera pietà ha ritrovato un amplissimo compenso a questa sua privazione dei figli.” Se non fossi convinto che ha saputo sopportare il lutto della morte di tanti figli e la lontananza di Vittorio (che era a Parigi) perché ha un buon carattere e perché ha dato uno scopo alla sua vita attraverso l’esercizio della beneficienza. Ha voluto restituirci questo ritratto positivo del padre e della madre, e sottolinea nel chiudere questo esordio che doveva esserci in quanto topico di queste autobiografie: “Mi si perdoni questa forse inutile digressione, in favor di una madre stimabilissima.” Si chiude il primo capitolo, tipico di ogni autobiografia. A questo preambolo obbligatorio da questa accezione affettiva: una famiglia nobile che rispetto a tanto del costume vigente e a tanto dei rapporti sociali viventi è una novità nella quale prevalgono gli aspetti positivi, che si tengono lontani dalla corte e costruiscono rapporti affettivi importanti. Comincia poi a raccontare di sé, partendo dal punto del quale si affacciano i primi ricordi. Se noi andiamo indietro nella nostra memoria, cercando di suscitare i ricordi più antichi, anche noi ci fermeremmo all’età che qui Alfieri ci segnala: attorno ai tre/quattro anni. Più indietro è praticamente impossibile risalire. Con una modernità straordinaria, Alfieri evoca i primi ricordi, in particolare il primo, e ci dice come questo ricordo è riemerso nella sua memoria, e il modo nel quale è riemerso è un modo che ci fa pensare a Proust, alle associazioni della memoria involontarie. !15 Lui dice che il suo primo ricordo è quello di uno zio paterno, che lo faceva salire sopra a un mobile e gli dava dei confetti. E dice che questo ricordo è ritornato fuori nella sua mente in una maniera “proustiana”: la visione di una forma di stivali gli ha fatto tornare alla mente la punta della scarpa dello stivale che indossava questo zio. “Ripigliando adunque a parlare della mia primissima età, dico che di quella stupida vegetazione infantile,” (stupida = inconsapevole, NON insulto) lui definisce vegetativa, perché il bambino non ha l’elemento razionale, è affidato a ciò che la natura ha progettato. “Io non mi ricordava quasi punto di lui, né altro me n'era rimasto fuorch'egli portava certi scarponi riquadrati in punta.” era l’unica cosa che si ricordava, che ora non erano più di moda, che aveva consigliato l’uso di scarpette affusolate a punta. “Molti anni dopo, la prima volta che mi vennero agli occhi certi stivali a tromba, che portano pure la scarpa quadrata a quel modo stesso dello zio morto già da gran tempo, né mai piú veduto da me da che io aveva uso di ragione, la subitanea vista di quella forma di scarpe del tutto oramai disusata, mi richiamava ad un tratto tutte quelle sensazioni primitive ch'io aveva provate già nel ricevere le carezze e i confetti dello zio, di cui i moti ed i modi, ed il sapore perfino dei confetti mi si riaffacciavano vivissimamente ed in un subito nella fantasia.” ci descrive il meccanismo del ricordo: avere visto quegli stivali gli ha richiamato questo episodio. Lui, essendo sul cassettone, aveva una visuale dall’altro e quindi questo spiega perché ricorda gli stivali. A questa reminiscenza visiva si associano anche altri sensi, come quello del gusto. “Mi sono lasciata uscir di penna questa puerilità, come non inutile affatto a chi specula sul meccanismo delle nostre idee, e sull'affinità dei pensieri colle sensazioni.” I ricordi sono sempre giustificati. Mentre Rousseau dal libro sfoga la sua nostalgia dell’infanzia, Alfieri nel rimandarci i ricordi che ha andando indietro nel tempo, controlla questo meccanismo di reminiscenza e lo giustifica sempre. Qui dice che può essere interessante per chi studia il rapporto tra le sensazioni e i pensieri, il meccanismo nel quale si formano le idee. La filosofia sensistica del tempo diceva che a partire dai sensi si sviluppano le idee, e lui appunto conferma quello che la filosofia diceva. Poi dice che ha rischiato di morire di una malattia che lo ha colpito nell’infanzia, a circa cinque anni (1754). “Nell'età di cinque anni circa, dal mal de' pondi fui ridotto in fine;” Il mal dei pondi è il mal d’intestino. “e mi pare di aver nella mente tuttavia un certo barlume de' miei patimenti;” sa di essere stato in fin di vita, e gli sembra di aver avuto un ricordo vaghissimo del dolore fisico che provava. “e che senza aver idea nessuna di quello che fosse la morte, pure la desiderava, come fine di dolore; perché quando era morto quel mio fratello minore avea sentito dire ch'egli era diventato un angioletto.” Ricorda di stare malissimo, e di avere pensato alla possibilità di liberarsi di quel male attraverso la morte, con una concezione della morte non razionale ma che era venuta dalla spiegazione del lutto del fratello, che gli avevano detto era diventato un angelo. Lui allude anche qui a quel tipo di giustificazioni che viene dato ai bambini, la morte, che è inspiegabile per loro. “Per quanti sforzi io abbia fatto spessissimo per raccogliere le idee primitive, o sia le sensazioni ricevute prima de' sei anni, non ho potuto mai raccapezzarne altre che queste due.” per quanti sforzi abbia fatto, gli unici ricordi che ha di quel periodo sono quei due. “La mia sorella Giulia, ed io, seguitando il destino della madre, eramo passati dalla casa paterna ad abitare con lei nella casa del patrigno, il quale pure ci fu piú che padre per quel tempo che ci stemmo.” altra immagine positiva del patrigno. La famiglia era composta anche dai primi figli della madre, uno va dai Gesuiti, l’altra in monastero. La sorella Giulia va ad Asti. Lui rimane quindi da solo. Fino al nono anno, la sua infanzia è all’insegna della solitudine. Lui non ha nessun bambino che gli faccia compagnia, aveva solo i genitori e il precettore. Le ore della giornata che trascorre insieme al precettore erano molte di più rispetto a quelle con i genitori. Quello che trapela da questo racconto della sua infanzia è il fatto che è solo. Dopo il lutto della morte del fratello, ha un’altra specie di lutto: la separazione dalla sorella Giulia. “E di quest'avvenimento domestico mi ricordo benissimo, come del primo punto in cui le facoltà mie sensitive diedero cenno di sé. Mi sono presentissimi i dolori e le lagrime ch'io versai in quella separazione di tetto solamente, che pure a principio non impediva ch'io la visitassi ogni giorno.” la prima volta che compaiono le lacrime. L’infanzia è un periodo estremamente importante nella formazione della “pianta uomo”, ma è anche un’età non inconsapevolmente felice, ma un’età attraversata da molto traumi e dolori. Ed è proprio all’insegna dei traumi e dolori che Alfieri ce la descrive. !16 “E speculando poi dopo su quegli effetti e sintomi del cuore provati allora, trovo essere stati per l'appunto quegli stessi che poi in appresso provai quando nel bollore degli anni giovenili mi trovai costretto a dividermi da una qualche amata mia donna;” C’è un grande legame tra il passato e il futuro. Riconosce nel dolore che prova con la separazione con la sorella il dolore che proverà poi quando queste separazioni avverranno con le donne che amava o altri motivi per cui si spezzano legami affettivi. Nella vita di Alfieri l’amore è molto importante: la conquista del vero amore è una tappa molto importante, una tappa coincidente con la conversione, perché la conversione alla poesia coincide all’abbandono delle dissipazioni amorose vissute fino a quel momento. “ed anche nel separarmi da un qualche vero amico, che tre o quattro successivamente ne ho pure avuti finora: fortuna che non sarà toccata a tanti altri, che gli avranno forse meritati piú di me. ” Questo discorso della separazione e di sentirsi abbandonato vale anche per gli amici. L’altro grande campo che lui pratica con molta profondità dei sentimenti è quello dell’amicizia (“pochi grandi amici della sua vita” il più grande di tutti è Gori Gandellini, con il quale lui immagina un dialogo dopo la sua morte). Già in questa fase precoce della sua vita ci sono i semi di certi caratteri di certi dolori che conoscerà ancor meglio in seguito. “Dalla reminiscenza di quel mio primo dolore del cuore, ne ho poi dedotta la prova che tutti gli amori dell'uomo, ancorchè diversi, hanno lo stesso motore.” Il cuore è ricorrente, come parlava dello studio del cuore umano nell’introduzione. C’è dentro di noi questa istanza a provare amore che poi si declina in amore per una donna, per un amico, per fratelli e sorelle, per i genitori. Dentro di noi c’è questa spinta ad amare. L’autobiografia è uno studio del cuore umano in generale, che si esercita a partire da se stessi, da quel cuore umano che si conosce meglio. “Rimasto dunque io solo di tutti i figli nella casa materna, fui dato in custodia ad un buon prete, chiamato Don Ivaldi,” Qui abbiamo la figura del precettore di casa. Nelle case dei nobili c’era questa figura stipendiata, che doveva fare scuola ai figli. In genere di questi preti precettori non si ha un buon ricordo nella memorialista settecentesca in generale, perché quasi tutti rilevavano la scarsa cultura e impreparazione di questi preti. E questo giudizio c’è anche tra le righe, senza infierire, della autobiografia di Alfieri. “il quale m'insegnò cominciando dal compitare e scrivere, fino alla classe quarta, in cui io spiegava non male, per quanto diceva il maestro alcune vite di Cornelio Nipote, e le solite favole di Fedro.” ci dice come funzionava questa educazione: si studiava il latino e i testi in latino. Qui cita i testi in latino più semplici, i primi messi in mano ai bambini. Era stato messo in grado di capire quello che leggeva e di saperlo riferire, e dice anche che il maestro era contento di lui. “Ma il buon prete era egli stesso ignorantuccio, a quel ch'io combinai poi dopo;” Alfieri usa molto questi vezzeggiativi, a volte inventati, usati però con una concezione affettiva. “e se dopo i nov'anni mi avessero lasciato alle sue mani, verisimilmente non avrei imparato piú nulla.” “I parenti erano anch'essi ignorantissimi,” questa nobiltà molto ricca e con privilegi era ignorante. “e spesso udiva loro ripetere, quella usuale massima dei nostri nobili di allora: che ad un signore non era necessario di diventare un dottore.” questo era lo slogan dell’educazione, che torna nelle satire che scriverà dedicate all’educazione. “Io nondimeno aveva per natura una certa inclinazione allo studio,” per sua natura lui andava contro questo luogo comune e tendenza. “e specialmente dopo che uscí di casa la sorella, quel ritrovarmi in solitudine col maestro mi dava ad un tempo malinconia e raccoglimento.” le ore trascorse con il maestro diventano compensative per la mancanza della sorella. Capitolo terzo. Il sottotitolo è “Primi sintomi di carattere appassionato.” (= pieno di passione, quando svilupperà il suo pensiero, Alfieri parlerà dell’impulso naturale, quel dono di natura che ha e lo spinge a fare il poeta. Siamo nell’ottica e campo semantico della vocazione). “Ma qui mi occorre di notare un'altra particolarità assai strana, quanto allo sviluppo delle mie facoltà amatorie.” (amatorie = affettive). Ha già insisto questa sua affettività. Ci racconta un suo modo di essere che ci fa capire quanto fosse fortissimo in lui questo bisogno di affettività, che doveva riversarsi. Ci racconta che lui era innamorato dei novizi che vedeva nella chiesa che frequentava, !17 Trova due ragioni: ⁃ “L’una si era, che io mi credeva gli occhi di tutti doversi necessariamente affissare su quella mia reticella, e ch'io doveva esser molto sconcio e difforme in codesto assetto, e che tutti mi terrebbero per un vero malfattore vedendomi punito cosí orribilmente.” L’idea che tutti lo notino, e che quindi tutti scoprissero che se lui era vestito così era perché aveva commesso qualcosa di molto grave. ⁃ “L'altra, si era ch'io temeva di esser visto cosí dagli amati novizi; e questo mi passava veramente il cuore.” non voleva fare questa figura agli occhi dei novizi, verso cui lo provava queste sensazioni affettive. “Or mira, o lettore, in me omiccino il ritratto e tuo e di quanti anche uomoni sono stati o saranno; che tutti siam pur sempre, a ben prendere, bambini perpetui.” Invita il lettore ad immedesimarsi in questo bambino così ridotto, a far capire al lettore che questo tipo di sentimenti sono dolorosi e che chiunque può avere provato, così come da bambino ma anche come adulto, perché il sentimento della vergogna e di umiliazione si può provare in qualsiasi età, e dentro di noi rimane sempre quel bambino che si vergognò così malamente. Ancora una volta lo studio del cuore umano che parte da se stesso e si generalizza, che diventa un insegnamento che vale per capire come si comporta in generale l’uomo e come dentro all’adulto rimangano certi semi che si sono creati nell’infanzia. “Ma l'effetto straordinario in me cagionato da quel gastigo, avea riempito di gioia i miei parenti e il maestro; onde ad ogni ombra di mancamento, minacciatami la reticella abborrita, io rientrava immediatamente nel dovere, tremando.” capendo che lui era così umiliato, ogni qual volta ce ne fosse bisogno, il maestro e i genitori lo minacciavano con questa funzione. Questo aspetto molto autoritario dell’educazione da lui ricevuta passa attraverso la minaccia di un’umiliazione pubblica, cosa che non dovrebbe esserci. “Pure, essendo poi ricaduto al fine in un qualche fallo insolito, per iscusa del quale mi occorse di articolare una solennissima bugia alla signora madre, mi fu di bel nuovo sentenziata la reticella;” Nonostante questo, fa un’altra marachella per cui viene punito in questo stesso modo: la prima volta non si ricorda cosa aveva fatto, la seconda volta si ricorda che era stato sottoposto alla punizione della reticella per aver detto una bugia a sua madre. “e di piú, che in vece della deserta Chiesa del Carmine, verrei condotto cosí a quella di S. Martino, distante da casa, posta nel bel centro della città e frequentatissima su l'ora del mezzo giorno da tutti gli oziosi del bel mondo.” La pena aumenta, non solo la reticella ma lo trascinano non nella chiesa con poche persone ma quella molto affollata nella città. “Oimè, qual dolore fu il mio! pregai, piansi, mi disperai, tutto invano. Quella notte ch'io mi credei dover essere l'ultima della mia vita, non che chiudessi mai occhio, non mi ricordo mai poi di averne in nessun altro mio dolore passata una peggio.” Non solo non dormì, ma il ricordo gli dice che quella fu la nottata più brutta che lui passò. Entrato in città, diventa muto e silenzioso, non si fa più trascinare, e camminando più velocemente, sperava di passare inosservato. “Arrivai nella piena chiesa, guidato per mano come orbo ch'io era; che in fatti chiusi gli occhi all'ingresso, non gli apersi piú finché non fui inginocchiato al mio luogo di udir la messa; né, aprendoli poi, li alzai mai a segno di potervi distinguere nessuno” per sopportare questa tortura psicologica, non guarda, chiude gli occhi. “E rifattomi orbo all'uscire, tornai a casa con la morte in cuore, credendomi disonorato per sempre.” Riesce a rendere, con questo racconto, la vera disperazione infantile per una punizione crudele, che non tiene conto della sua sensibilità. “Non volli in quel giorno mangiare, né parlare, né studiare, né piangere.” Reagisce rinchiudendosi nel suo guscio, come solito. Diventava come un pezzo di ghiaccio per difendersi dalla vergogna del mondo. “E fu tale in somma e tanto il dolore, e la tensione d'animo, che mi ammalai per piú giorni; né mai piú si nominò pure in casa il supplizio della reticella, tanto era lo spavento che cagionò alla amorosissima madre la disperazione ch'io ne mostrai.” Ed ebbe anche un effetto fisico, perché si ammalò. La sua reazione ha spaventato anche la madre, che decise di non nominare più questa punizione. “Ed io parimenti per assai gran tempo non dissi piú bugia nessuna; e chi sa s'io non devo poi a quella benedetta reticella l'essere riuscito in appresso un degli uomini i meno bugiardi ch'io conoscessi.” Ipotizza forse che è grazie a quella punizione e a quel forte trauma che oggi è un uomo sincero. !20 Altra storia: un’altro aneddoto che sembra insignificante ma che invece rivela lo spessore psichico importante del bambino. Questo episodio riguarda la visita della nonna materna. È una nobile importante nella società piemontese, ed è vedova di un nobile molto altolocato con un ruolo importante nella corte torinese. Alfieri disprezzava la corte, e lui alludeva al nonno chiamandolo un “barbassore di corte”, cioè qualcosa di medioevale. “Altra storietta. Era venuta in Asti la mia nonna materna, matrona di assai gran peso in Torino, vedova di uno dei barbassori di corte, e corredata di tutta quella pompa di cose, che nei ragazzi lasciano grand'impressione.” Intorno a questa nonna c’è un’aria importante, un’aristocratica. E di questo suo tono così alto il bambino si rendeva conto, lo percepiva. In realtà poi anche questa nonna, pur essendo importante ed altezzosa, si mostrerà molto affettuosa nei confronti di Vittorio. “Questa, dopo essere stata alcuni giorni con la mia madre, per quanto mi fosse andata accarezzando moltissimo in quel frattempo, io non m'era per niente addimesticato con lei, come selvatichetto ch'io m'era;” Salvatichetto = selvatico. Qui vuole dire che è un bambino che vive senza la compagnia di nessun’altro bambino, con pochi rapporti sociali, pochi stimoli ad essere socievole, e questa nonna così autorevole lo mette in imbarazzo, e quindi lui non è riuscito ad istaurare un rapporto. “onde, stando essa poi per andarsene, mi disse ch'io le doveva chiedere una qualche cosa, quella che piú mi potrebbe soddisfare, e che me la darebbe di certo. Io, a bella prima per vergogna e timidezza ed irresoluzione, ed in seguito poi per ostinazione e ritrosia, incoccio sempre a rispondere la stessa e sola parola: niente;” E prima che lei partisse gli chiede cosa voleva come regalo. Lui dice “niente”, da parte sua c’è un grande irrigidimento, come se lui percepisca un’incapacità della nonna di essere amorevole con lui, di essere formale, che la nonna vorrebbe espiare facendogli un regalo. “e per quanto poi ci si provassero tutti in venti diverse maniere a rivoltarmi per pure estrarre da me qualcosa altro che non fosse quell'ineducatissimo niente, non fu mai possibile; né altro ci guadagnarono nel persistere gl'interrogatori, se non che da principio il niente veniva fuori asciutto, e rotondo; poi verso il mezzo veniva fuori con voce dispettosa e tremante ad un tempo; ed in ultimo, fra molte lagrime, interrotto da profondi singhiozzi.” ad un certo punto si logora in questa sua resistenza agli interrogatori. È disperato, e anche qui cade in un pianto dirotto. È un bambino con una grande sensibilità, che viene poco compresa nell’ambito familiare. E assume degli atteggiamenti che non sono consueti in un bambino. “Ma quell'istesso io, che con tanta pertinacia aveva ricusato ogni dono legittimo della nonna, piú giorni addietro le avea pure involato in un suo forziere aperto un ventaglio, che poi celato nel mio letto, mi fu ritrovato dopo alcun tempo; ed io allora dissi, com'era vero, di averlo preso per darlo poi alla mia sorella.” lui aveva rubato un ventaglio da uno scrigno della nonna. L’aveva preso con l’idea di regalarlo alla sua sorella. E per questo, quando la nonna le chiede che regalo voleva, lui dice niente. “Gran punizione mi toccò giustamente per codesto furto; ma, benché il ladro sia alquanto peggior del bugiardo, pure non mi venne piú né minacciato né dato il supplizio della reticella;” benché avesse rubato il ventaglio, non gli infliggono il supplizio della reticella, per paura della madre che lui si ammalasse ancora. “difetto, per il vero, da non temersi poi molto, e non difficile a sradicarsi da qualunque ente non ha bisogno di esercitarlo.” un furto di questo tipo, di una cosa di cui non si ha bisogno, non è questo tipo di peccato di rubare grave, perché si può sradicare facilmente. Non è facile sradicare il peccato del rubare quando si ruba per il bisogno. “Il rispetto delle altrui proprietà, nasce e prospera prestissimo negl'individui che ne posseggono alcune legittime loro.” il senso del rispetto della proprietà nasce presto in chi non ha bisogno di rubare. Nuova storia: la sua prima confessione. È comico il modo in cui Alfieri la racconta: la prima cosa che ci dice è che la famiglia cerca di preparalo a questo passo. “Il maestro mi vi andò preparando, suggerendomi egli stesso i diversi peccati ch'io poteva aver commessi, dei piú de' quali io ignorava persino i nomi.” La mente del bambino è vittima di molti enigmi, lui non capisce i vari peccati, ed è indotto, quando va a confessarsi, a parlare di cose che non ha commesso. Il prete lo assolve ma gli da una penitenza: dovrà mettersi in ginocchio di fronte alla madre. Questo era per lui un gesto molto umiliante, e si rifiuterà di farlo. Si scopre poi che la madre e il confessore erano d’accordo su questa cosa, però non lo può ovviamente dire, e quindi ne esce una situazione imbarazzante. !21 “Andai: né so quel che me gli dicessi, tanta era la mia natural ripugnanza e il dolore di dover rivelare i miei segreti fatti e pensieri ad una persona ch'io appena conosceva.” Lui ha difficoltà ad aprirsi facilmente, soprattutto verso un estranio. “E parimente la madre non la voleva accennare, per non tradire il traditor confessore.” “Onde la cosa finí, che ella perdé per quel giorno la prosternazione da farglisi, ed io ci perdei il pranzo, e fors'anco l'assoluzione datami a sí duro patto dal padre Angelo.” Con molta ironia dice che forse non essendosi prostrato non aveva più valida la confessione. Capitolo quinto: ultima storiella puerile, con il quale si chiude la prima epoca. Partirà poi l’eta dell’adolescenza e dell’ineducazione, quando viene mandato a Torino nel collegio reale. Questa è una storia molto significativa, dove ribadisce molti punti del suo carattere e dove accoglie molti aspetti della psicologia infantile. Lui è un bambino solo, privo di compagnie infantili. Gli capita però durante un’estate di avere come ospite a casa un suo fratellastro, un figlio di primo letto della madre, che si stava educando nel collegio dei gesuiti a Torino. Il fratello ha 14 anni, mentre Vittorio ne ha 8. Questa differenza di età comporta che questo fratello lo tiranneggi, ma al tempo stesso lui finalmente ha una compagnia. Non è legato a questo fratello con quell’affetto che lo lega alla sorella, ma tutta via instaura con lui un rapporto interessante. Il fratello è già stato istruito nella ginnastica, che era indirizzata a fare degli esercizi militari. Alfieri ci parla del gioco che fanno insieme, dicendo che facevano l’esercizio alla prussiana: giocavano a fare i soldati, e questo fratello gli insegnava come marciare, come rispondere agli ordini militari. Lo chiama “alla prussiana” perché nel 700 quello di Federico II era quello modello per l’Europa (Alfieri lo prenderà molto in giro nelle sue satire). Nel fare questi giochi, Vittorio cade, batte la testa sul caminetto, e si fa una ferita tremenda sul sopracciglio destro, di cui gli rimane una cicatrice. La cosa acuta che ci racconta è che tutto sommato, come si può riscontrare nell’esperienza infantile, l’andare medicato e bendato in giro è per lui qualcosa di cui va orgoglioso, si sente virile per poter esibire questa ferita guerresca. “e che so io, tante altre cosarelle aveva egli, che io non avea, che allora finalmente io conobbi per la prima volta l'invidia.” era invidioso del fratello “Ella non era però atroce, poiché non mi traeva ad odiare precisamente quell'individuo, ma mi faceva ardentissimamente desiderare di aver io le stesse cose, senza però volerle togliere a lui.” C’è un’emulazione positiva. Questo discorso sull’emulazione ritornerà nelle pagine della scuola. “Dalla caduta mi rizzai immediatamente da me stesso, ed anzi gridai subito al fratello di non dir niente; tanto piú che in quel primo impeto non mi parea d'aver sentito nessunissimo dolore, ma bensí molta vergogna di essermi cosí mostrato un soldato male in gambe.” La prima cosa che pensa è che si vergogna di essere caduto. “Ma già il fratello era corso a risvegliare il maestro, e il romore era giunto alla madre, e tutta la casa era sottosopra. In quel frattempo, io che non avea punto gridato né cadendo né rizzandomi, quando ebbi fatti alcuni passi verso il tavolino, al sentirmi scorrere lungo il viso una cosa caldissima, portatevi tosto le mani, tosto che me le vidi ripiene di sangue cominciai allora ad urlare.” Ad un certo punto nota il sangue scorrere sul suo viso e si mise ad urlare. “Essendo poi in convalescenza, ed avendo ancora gl'impiastri e le fasciature, andai pure con molto piacere alla messa al Carmine; benché certo quell'assetto spedalesco mi sfigurasse assai piú che non quella mia reticella da notte, verde e pulita, quale appunto i zerbini d'Andalusía portano per vezzo. Ed io pure, poi viaggiando nelle Spagne la portai per civetteria ad imitazione di essi.” Quell’aspetto lo sfigurava molto di più di portare la retina, e dice che gli zerbini (=giovani alla moda) portavano per abbellimento in Spagna. “Quella fasciatura dunque non mi facea nessuna ripugnanza a mostrarla in pubblico: o fosse, perché l'idea, di un pericolo corso mi lusingasse; o che, per un misto d'idee ancora informi nel mio capicino, io annettessi pure una qualche idea di gloria a quella ferita.” Il bambino voleva la fascia per sentirsi più virile. Questo è tasto della psicologia infantile molto preciso, segno di un uomo capace di una grande sensibilità dei confronti di questi aspetti della vita psichica. “Ed ecco, come nei giovanissimi petti, chi ben li studiasse, si vengono a scorgere manifestamente i semi diversi delle virtú e dei vizi. Che questo certamente in me era un seme di amor di gloria; ma, né il prete Ivaldi, né quanti altri mi stavano intorno, non facevano simili riflessioni.” Il fatto che lui così infantilmente !22 di Vittorio che compare nella vita. Ci sarà poi un’altra figura di servitore personale: il fido Elia. Di Andrea si dice che è giovane, intelligente, e dice che pur essendo un ragazzo di provincia e facendo una professione servile, sa leggere e scrivere, cosa molto rara per quelli del suo ceto al tempo. Fa un viaggio per poste: si viaggiava in carrozza con i cavalli, e lungo le strade di comunicazione c’erano queste stazioni di posta dove si lasciavano i cavalli stanchi per prenderne di nuovi. Le poste avevano una certa distanza l’una dall’altra, calcolata sulla forza dei cavalli e il percorso che potevano fare. Sono cinque poste che coprivano il percorso tra Asti e Torino. Durante il primo tratto piange e si dispera, mentre dopo inizia ad eccitarsi per il viaggio, anche perché apprezza la velocità di questo calesse. “Piansi durante tutta la prima posta; dove poi giunto, nel tempo che si cambiava i cavalli, io volli scendere nel cortile, e sentendomi molto assetato senza voler domandare un bicchiere, né far attinger dell'acqua per me, accostatomi all'abbeveratoio de' cavalli, e tuffatovi rapidamente il maggior corno del mio cappello, tanta ne bevvi quanta ne attinsi. L'aio fattore, avvisato dai postiglioni, subito vi accorse sgridandomi assai; ma io gli risposi, che chi girava il mondo si doveva avvezzare a tai cose, e che un buon soldato non doveva bere altrimente.” Alla prima posta fa una bravata che giustifica infantilmente con il sentirsi non più un bambino. Vuole bere, ma non chiede a nessuno e si arrangia. Quando arriva l’aio fatto però, si propone come uomo di mondo, come uno che viaggia e futuro soldato. “Dove poi avessi io pescate queste idee achillesche, non lo saprei; stante che la madre mi aveva sempre educato assai mollemente, ed anzi con risguardi circa la salute affatto risibili.” non sa da cosa gli siano arrivate queste idee, soprattutto perché la madre lo aveva educato con un eccesso di preoccupazione verso le sue malattie. Anche in questa sua spavalderia ingiustificata vuole dare una giustificazione: “Era dunque anche questo in me un impetino di natura gloriosa, il quale si sviluppava tosto che mi veniva concesso di alzare un pocolino il capo da sotto il giogo.” lui aveva detto per spavalderia e per l’amore di gloria che aveva indicato come molla infantile del suo atteggiamento quando aveva avuto per le fasciature in testa. Lui è lontano dalla madre, sta conquistando un gradino di autonomia e dice che questo impeto alla gloria lo può esplicitare tanto più quanto è meno controllato. “E qui darò fine a questa prima epoca della mia puerizia, entrando ora in un mondo alquanto men circoscritto, e potendo con maggior brevità, spero, andarmi dipingendo anche meglio. Questo primo squarcio di una vita (che tutta forse è inutilissima da sapersi) riuscirà certamente inutilissimo per tutti coloro, che stimandosi uomini si vanno scordando che l'uomo è una continuazione del bambino.” Entra ora in un mondo più vasto. L’avere raccontato la sua infanzia può sembrare inutile solo a chi dimentica che l’uomo è una continuazione del bambino, non ammette che nel bambino ci sono i semi dell’uomo adulto. Questi fatti dimostrano come ci sono in questi atteggiamenti i segnali del carattere dell’uomo adulto. Epoca seconda: adolescenza Entra in accademia. L’ambiente è descritto molto puntualmente. Inizierà il racconto della sua carriera scolastica, che passa attraverso i primi gradini del cursus studiorum che erano previsti nel collegio. Il cursus studiorum del collegio prevedeva cinque classi che venivano numerate in ordine decrescente. La prime tre classi (quinta, quarta e terza) erano quelle dove si insegnava la grammatica, in terza si davano anche rudimenti di prosodia, di studio del verso. La seconda era quella di umanità e la prima era quella di retorica. Alfieri ci dirà che lui era piuttosto bravo a scuola, e quando entra nel collegio gli fanno un test e lo mettono subito in quarta, facendogli saltare il primo livello. Passa poi tutti questi gradi molto rapidamente, perché è bravo, impara facilmente e si adegua facilmente a quell’insegnamento. Il titolo della secondo capitolo della seconda epoca è infatti “primi studi pedanteschi e malfatti”. Prima di parlarci dell’edificio dove finisce, uno dei più importanti di Torino, dove c’era anche il teatro Regio, e dove ci sono tutti gli edifici dove quali si svolge la vita culturale di Torino, ci parla ancora del viaggio e delle nuove impressioni che prova. Lo fa perché il tema dei viaggi è molto importante nella sua vita, trascorrerà la giovinezza facendo i viaggi (Tour in Italia e in Europa) e avrà una grande attenzione nel giudicare la funzione che i viaggi hanno avuto nella sua educazione, arrivando alla conclusione che il viaggiare senza avere gli strumenti per interpretare la realtà dove si viaggi finisce per essere molto meno fruttevole per l’educazione. !25 “Eccomi or dunque per le poste correndo a quanto piú si poteva; in grazia che io al pagar della prima posta aveva intercesso presso al pagante fattore a favore del primo postiglione per fargli dar grassa mancia; il che mi avea tosto guadagnato il cuor del secondo.” Sottolinea che va di corsa. Ha convinto il fattore che lo accompagna di dare mance al cocchiere per andare più forte. È la prima esperienza di velocità che Alfieri fa, ed è il primo momento dove ha un contatto con i cavalli. La carrozza della madre aveva dei sedili dove i passeggeri sprofondavano, e quindi non poteva godersi la vista esterna. Questo calesse invece era diverso, e si poteva godere della vista. “Era una giornata stupenda, e l'entrata di quella città per la Porta Nuova, e la piazza di San Carlo fino all'Annunziata presso cui abitava il mio zio, essendo tutto quel tratto veramente grandioso, e lietissimo all'occhio, mi aveva rapito, ed era come fuor di me stesso.” L’impressione di questo bambino che entra nella capitale, vede questi palazzi, gli sembra tutto straordinariamente bello. Inizialmente la prima notte si sente molto triste. Dopo alcuni giorni invece si abitua e si rallegra, talmente tanto che lo zio non lo sopporta, e quindi lo manda in collegio prima del tempo. “In età di nove anni e mezzo io mi ritrovai dunque ad un tratto traspiantato in mezzo a persone sconosciute, allontanato affatto dai parenti, isolato, ed abbandonato per cosí dire a me stesso; perché quella specie di educazione pubblica (se chiamarla pur vorremo educazione) in nessuna altra cosa fuorché negli studi, e anche Dio sa come, influiva su l'animo di quei giovinetti.” abbandonato a se stesso, non trovando una collocazione all’interno di quell’educazione, inizia a fare le prime critiche a questa educazione pubblica, nella qualche manca completamente la formazione del carattere, la crescita morale, è soltanto un’educazione formale di tipo nozionistico: “Nessuna massima di morale mai, nessun ammaestramento della vita ci veniva dato.” Inizia la descrizione del collegio: un grande palazzo sontuoso con un cortile nel mezzo. Gli studenti erano divisi e occupavano appartamenti dell’accademia a seconda dell’età. Vicino c’erano scuola militare e università. Come avveniva nei collegi, gli studenti erano suddivisi in camerate di undici bambini ciascuna, e ogni camerata era controllata da un assistente, una figura che è rimasta nella memoria di Alfieri come una figura spregevole. Questo perché si trattava di persone di origine sociale umile, che venivano dalla campagna, e che fanno questo lavoro di assistenti senza ricevere uno stipendi, solo in cambio di vitto e alloggio. Questo consente a loro di potere frequentare l’università, facendo le facoltà di teologia o legge. Molti di questi sono poi destinati e fare sacerdoti o fare gli avvocati quindi. Se non erano giovani campagnoli che si pagavano gli studi, c’erano vecchi preti e rozzi. Nello spazio dell’accademia c’erano anche i paggi, invidiati da Alfieri perché sono molto più liberi di loro, avevano possibilità di uscire e divertirsi. Quelli del primo appartamento sono giovani più grandi, paggi o studenti che venivano da paesi stranieri, e facevano una vita molto più libera. Per andare a fare le loro varie attività, gli studenti come Alfieri dovevano spostarsi e passare anche nel primo appartamento, e vedevano quegli studenti più liberi, che era in grande contrasto con il loro sistema, e li facevano soffrire. L’avere messo così vicino la “galera” e la libertà è una disposizione che era molto ineducativa. “Chi fece quella distribuzione era uno stolido, e non conosceva punto il cuore dell'uomo; non si accorgendo della funesta influenza che doveva avere in quei giovani animi quella continua vista di tanti proibiti pomi.” Capitolo secondo Parla del servitore Andrea, alle prese con un bambino sul quale può esercitare qualsiasi prepotenza, e si approfitta della situazione. Diventa “un diavolo scatenato” con Alfieri. “Costui dunque mi tiranneggiava per tutte le cose domestiche a suo pieno arbitrio. E cosí l'assistente poi faceva di me, come degli altri tutti, nelle cose dello studio, e della condotta usuale.” Si ritrova con due figure tiranneggianti: il servitore e l’assistente. Gli fanno il test e diventa un “forte quartano” che poteva andare direttamente in quarta, e gli dicono che dopo tre mesi sarebbe potuto entrare in terza. E infatti a novembre fu subito messo nella classe terza, grazie al confronto con gli altri che lo portò a fare un altro esame. Il maestro viene descritto come forse più ignorante di don Ivaldi: “e che aveva inoltre assai minore affetto e sollecitudine per i fatti miei, dovendo egli badare alla meglio, e badandovi alla peggio, a quindici, o sedici suoi scolari, che tanti ne aver.” non era più un’educazione uno a uno, aveva quindici bambini da insegnare e non si impegnava. !26 Inizia a dire cosa studia. L’educazione si fonda tutta sulla letteratura latina. Nel caso di Manzoni, nella sua esperienza milanese, si vede come si era cominciato (ma trent’anni dopo e in un’altra città) a studiare anche la letteratura italiana in volgare. “vi si facevano certi temi sguaiati e sciocchissimi; talché in ogni altro collegio di scuole ben dirette, quella sarebbe stata al piú piú una pessima quarta.” la terza che lui frequentava era di scarso livello. Lui era bravo, non era mai l’ultimo della classe. Il confronto con gli altri (l’”emulazione”) faceva sì che lui si impegnasse e che brillasse negli studi. Diventa poi il più bravo della classe, e non aveva più stimoli. Ci dice che traducevano le vita di Cornelio Nipote, un latino facile, ma le traducevano senza dare spessore culturale a questo lavoro. Di questi uomini illustri dei quali Cornelio Nipote narra la vita, in quella Accademia non c’era nessun interesse nel capire il senso e nel collocarli in un contesto storico e culturale, per dare un significato alla loro posizione politica. Semplicemente si doveva imparare la loro vita a memoria. Lo spessore culturale di quella lettura non era presente. La conoscenza della vite degli uomini antichi è considerata da Alfieri importante perché negli uomini antichi si sviluppa quell’idea di eroismo molto cara a lui. Il modello dell’eroe classico ha una rilevanza culturale importante sia per Alfieri o successivamente in Foscolo (nelle ultime lettere, Japoco ha un libro nelle mani: le vite di Plutarco). Lo studio delle vite e dei documenti degli uomini antichi importanti sono viste da Alfieri e Foscolo come esempi di moralità, invece per l’Accademia non era importante il contenuto, perché facevano solo una lettura grammaticale per imparare il latino. E quindi non vengono trasmesse idee in questa educazione. “Tutte le idee erano o circoscritte, o false, o confuse; nessuno scopo in chi insegnava; nessunissimo allettamento in chi imparava. Erano insomma dei vergognosissimi perdigiorni; non c'invigilando nessuno; o chi lo faceva, nulla intendendovi. ” non c’era scopo, non c’era interesse, era una sola perdita di tempo. “Ed ecco in qual modo si viene a tradire senza rimedio la gioventú.” Quando non si pone uno scopo formativo all’educazione non si fa altro che tradire la gioventù. L’autoironia Saggio: si tratta di autoironia, il tema del registro stilistico ironico che Alfieri adotta nello scrivere le proprie memorie. Abbiamo un risvolto comico nella sua autobiografia. Posto che una tendenza verso la scrittura ironica e satirica in Alfieri c’è sempre, così c’è anche questa ispirazione ironica che poi sfocia anche nel comico che punteggia tutta la sua produzione. Questa scrittura comico-satirica si concentra nella fase posteriore alla scrittura delle tragedie. Lui è molto programmatico: decide di mettersi a scrivere l’autobiografia una volta finite le tragedie, e questo significa che comincia presto (a 49 anni) a scrivere un’autobiografia. Secondo le discussioni che in parte Anglani nel saggio richiama di carattere teorico intorno al carattere biografico. Ne “Il patto autobiografico” Philippe Lejeune vuole stabilire lo statuto per la scrittura di questo genre ed arrivare ad una definizione precisa dell’autobiografia, dicendo che c’è autobiografia dove c’è coincidenza perfetta tra autore, narratore e personaggio. “coincidenza..” -> questa perfetta coincidenza tra tre entità, che la distinguere da altri generi simili, se viene usata per l’autobiografia di Alfieri vediamo come Alfieri fa qualcosa di diverso, perché questa coincidenza tra autore, narratore e personaggio in realtà non è perfetta, perché è evidente che, attraverso il filtro dell’ironia e dell’autoironia, Alfieri fa emergere se stesso come personaggio della storia che racconta, crea una distanza letteraria tra chi scrive e chi è il protagonista dell’azione che viene narrata. Quando lui fa autoironia, ride e fa ridere di se stesso, in quel momento si crea un distacco tra l’autore e il proprio personaggio che fa somigliare l’autobiografia alle caratteristiche del romanzo (un autore che mantiene una distanza tra il personaggio). Ad Alfieri, l’autoironia serve a questo: guardare a se stesso come un personaggio che agisce in scena indipendente da se. Questo distacco è tradotto attraverso la autoironia. Questa caratteristica dell’autoironia, che spesso sfocia nel comico, è un atteggiamento proprio della sua autobiografia e non di altre. Rousseau si prende sul serio, scrive la sua autobiografia con una autodichiarazione di totale sincerità per dare l’immagine vera di se stesso e mostrare che i suoi nemici lo hanno falsificato e denigrato (nella posizione di Rousseau c’è un atteggiamento complottista, lui scrive per difendersi da chi ha !27 “Era quel conte Benedetto un veramente degn'uomo, ed ottimo di visceri. Egli mi amava ed accarezzava moltissimo; era appassionatissimo dell'arte sua; semplicissimo di carattere, e digiuno quasi d'ogni altra cosa, che non spettasse le belle arti.” Un uomo dedicato all’arte dell’architettura. È un uomo che gli fa conoscere per la prima volta il nome di Bonarroti (Michelangelo) e gli mostra come lui abbia una devozione intellettuale verso Michelangelo. Si sovrappongono l’ammirazione e l’affetto per lo zio da piccolo con la considerazione fatta in età avanzata verso l’architettura e l’arti classiche. Su questo zio si riverbera l’amore per il mondo classico, lui viveva a Roma, sempre a contatto con i reperti dell’attività classica. E Alfieri fa osservazioni sul buon gusto dello zio, che è tale perché ha come suo esempio la scuola degli antichi in letteratura e quello di Michelangelo. E dice che il gusto dello zio, per venire in contro alle richiesta del mercato, aveva dovuto qualche volta cedere al gusto predominante dei suoi clienti, e quindi lui aveva anche una impronta del gusto allora dominante, quello del rococo, antitetico rispetto a quello classico. Questi cedimento da parte dello zio al gusto del rorococo richiesti dalla moda sono delle “piccole macchie” che ci sono nella sua produzione di architetto, ma che non si ritrovano in certe sue realizzazioni, tipo quella del Teatro Regio. Invece, per esempio per la chiesa di Carignano, aveva dovuto cedere al gusto popolare del rococo. “Mancava forse soltanto alla di lui facoltà architettonica una piú larga borsa di quel che si fosse quella del re di Sardegna e ciò testimoniano i molti e grandiosi disegni ch'egli lasciò morendo, e che furono dal re ritirati, in cui v'erano dei progetti variatissimi per diversi abbellimenti da farsi in Torino, e tra gli altri per rifabbricare quel muro sconcissimo, che divide la piazza del Castello dalla piazza del Palazzo Reale; muro che si chiama, non so perché, il Padiglione.” Grande ammirazione per lo zio, e critiche neanche troppo larvate nei confronti della committenza reale, perché dice che il re di Sardegna avrebbe potuto offrire più commissioni. “Mi compiaccio ora moltissimo nel parlar di quel mio zio, che sapea pure far qualche cosa; ed ora soltanto ne conosco tutto il pregio.” Capisce l’architettura dello zio solo in età adulta. “Ma quando io era in Accademia, egli, benché amorevolissimo per me, mi riusciva pure noiosetto anzi che no; e, vedi stortura di giudizio, e forza di false massime, la cosa che di esso mi seccava il piú era il suo benedetto parlar toscano, ch'egli dal suo soggiorno in Roma in poi mai piú non avea voluto smettere;” Dice com’era stupido quando era piccolo: gli disturbava che lo zio invece che in dialetto piemontese parlasse in toscano (cioè l’italiano). A Torino si parlava o il dialetto o il francese, non l’italiano. “Ma tanta è però la forza del bello e del vero, che la gente stessa che al principio quando il mio zio ripatriò, si burlava del di lui toscaneggiare, dopo alcun tempo avvistisi poi ch'egli veramente parlava una lingua, ed essi smozzicavano un barbaro gergo, tutti poi a prova favellando con lui andavano anch'essi balbettando il loro toscano; e massimamente quei tanti signori, che volevano rabberciare un poco le loro case e farle assomigliar dei palazzi: opere futili in cui gratuitamente per amicizia quell'ottimo uomo buttava la metà del suo tempo compiacendo ad altrui, e spiacendo, come gli sentii dire tante volte, a sé stesso ed all'arte.” Quest’uomo è una mosca bianca a Torino, perché ha vissuto a Roma, parla l’italiano, ha una visione dell’arte improntata sui classici, e a volte si abbassa a quella moda piemontese alla quale quella competenza ricca e borghese che voleva far ristrutturare le loro case richiedeva, che secondo Alfieri non capivano niente di architettura. Il ricordo è così segnato nelle memorie, perché questo zio è veramente un alieno nella Torino di quel tempo, è un personaggio che non risponde alle caratteristiche culturali di quella città, e che si adegua alle richieste del pubblico, ma che in realtà è ispirato da un altro clima culturale per le esperienze che ha fatto. Curiosamente, Alfieri ricorda che questo zio aveva fatto un viaggio a Napoli, e durante questa esperienza ha fatto l’esperienza della gita dentro al cratere del Vesuvio. Si è fatto, come facevano gli scienziati, calare con le corde nel cratere per cercare di vedere meglio questo fenomeno della natura. Nella sua maturità, negli anni ottanta del settecento, anche Alfieri andrà a Napoli, e l’esperienza che fa lì i contatti culturali che avrà, saranno molto importanti per lui. Non è casuale che voglia ricordare come elemento che contraddistingue in positivo la personalità dello zio (questa esperienza di turismo naturalistico scientifico) perché nella città di Napoli erano molto praticati studi di carattere filosofico scientifico e naturalistico che riguardano il vulcano. Siamo negli anni nei quali uno degli scienziati, Antonio Vallisneri, era stato interpellato per scrivere la sua autobiografia, e si era interrogato sul rapporto tra storia della natura e storia dell’uomo. Questo rapporto è una questione molto dibattuta nel settecento, e riguarda per esempio lo studio dei fossili, Antonio Vallisneri !30 scrive molte pagine sulla presenza dei fossili in cima alle montagne (pet esempio di pesci e conchiglie) testimonia che una volta dove ci sono le montagne ora c’era il mare. Questo è la prova scientifica di come nella natura ci siano delle grandi rivoluzioni che cambiano la faccia della terra, e questo tipo di riflessione mette in discussione la piccolezza della storia dell’uomo rispetto alla natura. L’uomo vuole costruire le proprie civiltà, che poi però potrebbero venire inghiottite da un cataclisma. Il Vesuvio è un esempio di questo, ai suoi piedi (Pompei) ci sono le testimonianze della debolezza della civiltà. (Ci ricorda Leopardi nelle ginestre). Quello di cui parla Leopardi nella Ginestra, quando riflette su questo tema e ne fa il centro sulla critica dell’antropocentrismo, è una riflessione che ha i suoi antecedenti nella riflessione filosofico scientifica del 700, alla quale appartenevano anche per esempio le considerazioni di Vallisneri (Queste considerazioni scientifico filosofiche che Vallisneri avanza erano entrate in contraddizione con il dogma della chiesa). Alfieri stesso passerà nelle sue permanenze nell’ambiente Napoletano entrerà in contatto con personaggi che sono tutti immersi in queste filosofie. Tutto questo spiega perché ha parlato così dettagliatamente dello zio e voglia chiudere evocando il suo viaggio a Napoli e il viaggio che ha fatto. (→ “Questo mio zio aveva anche fatto il viaggio di Napoli insieme con mio padre suo cugino, circa un par d'anni prima che questi si accasasse con mia madre; e da lui seppi poi varie cose concernenti mio padre. Tra l'altre, che essendo essi andati al Vesuvio, mio padre a viva forza si era voluto far calar dentro sino alla crosta del cratere interno, assai ben profonda; il che praticavasi allora per mezzo di certe funi maneggiate da gente che stava sulla sommità della voragine esterna. Circa vent'anni dopo, ch'io ci fui per la prima volta, trovai ogni cosa mutata, ed impossibile quella calata. Ma è tempo, ch'io ritorni a bomba.”) Capitolo quarto Ritorna a parlare dei suoi non-studi. “Non c'essendo quasi dunque nessuno de' miei che badasse altrimenti a me, io andava perdendo i miei piú begli anni non imparando quasi che nulla, e deteriorando di giorno in giorno in salute; a tal segno, ch'essendo sempre infermiccio, e piagato or qua or là in varie parti del corpo, io era fatto lo scherno continuo dei compagni, che mi denominavano col gentilissimo titolo di carogna; ed i piú spiritosi ed umani ci aggiungevano anco l'epiteto di fradicia.” Sta male e lo prendono in giro. “Quello stato di salute mi cagionava delle fierissime malinconie, e quindi si radicava in me sempre piú l'amore della solitudine.” La solitudine in questo caso è forzata. Lui la ama, però certamente se lo prendevano in giro era anche obbligato a stare solo. Nonostante tutto passa in Rettorica. “Ma il maestro di Rettorica trovandosi essere assai meno abile di quello d'Umanità, benché ci spiegasse l'Eneide, e ci facesse far dei versi latini, mi parve, quanto a me, che sotto di lui io andassi piuttosto indietro che innanzi nell'intelligenza della lingua latina.” Il maestro era incapace. Loro andavano nella stanza del sottopriore, perché dalle finestre di quella stanza vedevano meglio il gioco del calcio nel cortile, e andando lì vede i suoi quattro tomi dell’Ariosto. Ne prede uno alla volta, cercando di non farsi notare. Nell’Orlando Furioso ci sono molti fili di narrazione, passa da un filo all’altro tenendo insieme tutta la regia, ma ci sono molte avventure che si svolgono contemporanee e Ariosto passa da una storia all’altra. Questa narrazione spezzata e multilineare è caratteristica del suo modo di condurre l’azione ed è quello che gli era stato riprovato dai classicisti al suo tempo (che richiedevano unità d’azione). L’eco di questa discussione ritorna in questi giudizi che Alfieri qui da: l’altro elemento che lo teneva lontano dall’appassionarsi per la lettera dell’Ariosto non era solo la difficoltà a comprenderlo, ma anche “ e l'altra era quella continua spezzatura delle storie ariostesche, che nel meglio del fatto ti pianta lí con un palmo di naso; cosa che me ne dispiace anco adesso, perché contraria al vero, e distruggitrice dell'effetto prodotto innanzi.” Questa idea che la molteplicità delle storie sia un difetto, e che si debba invece perseguire l’unità dell’azione, è un principio classicista che Alfieri sposa, come i teorici aristotelici del 500 che criticavano per quello l’opera dell’Ariosto. E lui, in quanto tragediografo che si ispira ai classici, non può non avere nel suo DNA di autore l’unità dell’azione. !31 “Del Tasso, che al carattere mio si sarebbe adattato assai meglio, io non ne sapeva neppure il nome.” Rispetto alla molteplicità d’azione promossa da Ariosto, l’unicità dell’azione e dell’eroe del Tasso avrebbero dovuto fargli apprezzare Tasso, ma lui non poteva leggerlo. “Mi capitò allora, e non mi sovviene neppure come, l'Eneide dell'Annibal Caro, e la lessi con avidità e furore piú d'una volta, appassionandomi molto per Turno, e Camilla.” Gli capita tra le mani la traduzione italiana dell’Eneide e si appassiona. Dice anche che ne fa un uso utilitaristico, perché usa questa traduzione di Annibale Caro per fare la traduzione dell’Eneide che il maestro gli dava, e per questo impara ancora meno (—> “E me ne andava poi anche prevalendo di furto, per la mia traduzione scolastica del tema datomi dal maestro; il che sempre piú mi teneva indietro nel mio latino.”) Altro testo in italiano che gli capita di conoscere sono alcune opere di Metastasio, alcuni melodrammi. Anche qui ne da un giudizio curioso: ciò che ha reso celebri i libretti di Metastasio sono le famose Ariette, quei pezzi di bravura che erano destinati a fare esercitare anche il virtuosismo dei cantanti, ed erano il momento clou nella recitazione del melodramma, da tutto il pubblico atteso, perché in quella poesia si manifestava la bravura dei cantanti che la interpretavano. Alfieri dice che leggeva Metastasio ma le Ariette gli davano fastidio, gli piacevano di più i momenti recitativi. Questi libretti di Metastasio lo riceveva quando a carnevale lo portavano a vedere questi melodrammi a teatro. Avvicina le interruzioni dei Ariosto con le Ariette di Metastasio. Si avvicina ad Ariosto, l’Eneide e Metastasio per caso. Riceveva anche delle commedie di Goldoni direttamente dal maestro. Alle commedie di Goldoni viene riconosciuto un alto potenziale educativo, e quindi può essere messo nelle mani dei ragazzini. “Ma il genio per le cose drammatiche, di cui forse il germe era in me, si venne tosto a ricoprire o ad estinguersi in me, per mancanza di pascolo, d'incoraggiamento, e d'ogni altra cosa.” La sua inclinazione per le scritture drammatiche, fatte per la recitazione (Metastasio e Goldoni) si venne ad estinguere in lui perché non c’erano maestri che lo spinsero a questo. Nell’aneddoto che racconta subito dopo spiega come le sue capacità e competenze (pur così basse) gli consentono attraverso di barattare dei regali con un ragazzo in cambio di componimenti e compiti svolti. In particolare gli da delle palle da gioco. Veniva minacciato se il baratto non veniva fatto: quindi, si vendica dando a questo ragazzo un componimento in latino mettendoci dentro degli sbagli clamorosi. Questo ragazzo però non poteva rivelarsi, altrimenti sarebbe stato scoperto. Questo è un segnale di una capacità di resistenza al sopruso, uno di tanti, è un elemento che lo contraddistingue, la capacità di sapersi difendere. Su questa capacità fa una considerazione, dicendo che era arrivato a questo punto (l’azione vendicativa) per reagire alla sua prepotenza, alla minaccia degli scapellotti. Infatti la conclusione dell’episodio è che a determinare i rapporti tra gli uomini è la paura. È una considerazione che ha una chiara ascendenza politica: gli uomini si comportano in determinate maniere perché c’è la paura in mezzo a loro. (—> “Onde io imparai sin da allora, che la vicendevole paura era quella che governava il mondo.”) Ci stiamo avviando verso la conclusione della adolescenza e l’inizio della terza età (la giovinezza), quella caratterizzata dai viaggi. Man mano che ci avviciniamo verso la fine dell’adolescenza vediamo che è sempre più insistita nel racconto l’esigenza della libertà. Questo ragazzo sente sempre più forte dentro di se una voglia di indipendenza, che riuscirà a cominciare ad affermare negli ultimi tempi in accademia, dove il passaggio nel primo appartamento, a contatto con ragazzi stranieri e più grandi di lui gli fa vivere esperienze nuove (in particolare riesce ad uscire frequentemente dall’accademia e quindi aumentare il suo grado di libertà). Inoltre il suo grado di libertà è aumentato dal fatto che può disporre più facilmente del suo denaro, perché in seguito alla morte del suo tutore aveva potuto, secondo le leggi del Piemonte, disporre dei beni liquidi, e questo gli da maggiore libertà. !32 Ritroveremo qualcosa di simile quando lui ci parlerà delle sensazioni che prova quando si trova nei paesaggi desertici che tanto lo attraevano, che poteva indurre anche sentimenti di smarrimento e di paura in chi solitario li osserva, e invece producono in lui una sensazione piacevole, che possono essere chiamati anche qui una “malinconia non spiacevole” “dalla quale mi ridondava una totale svogliatezza e nausea per quei miei soliti studi, ma nel tempo stesso un singolarissimo bollore d'idee fantastiche, dietro alle quali avrei potuto far dei versi se avessi saputo farli, ed esprimere dei vivissimi affetti, se non fossi stato ignoto a me stesso ed a chi dicea di educarmi.” Questa sensazione prolungata degli effetti della musica gli fa provare distacco e disgusto per i suoi studi abituali, gli fa sentire come quegli studi siano aridi, non risuonino in nessun modo nel suo animo. Qualcosa però si smuoveva in lui, un bollore di idee fantastiche, che se avesse avuto le capacità di tradurlo, avrebbe potuto fare dei versi. L’unico modo per tradurre quello stato d’animo sarebbe stato scrivere dei versi, ma lui non ne aveva i mezzi. Se coloro che erano deputati ad educarmi l’avrebbero fatto, avrebbe avuto la possibilità di esprimere ciò che sentiva dentro, di fare sfogo a ciò che aveva dentro. “E fu questa la prima volta che un tale effetto cagionato in me dalla musica, mi si fece osservare, e mi restò lungamente impresso nella memoria, perch'egli fu assai maggiore d'ogni altro sentito prima.” Fu la prima volta che sentì questo stato d’animo, e gli rimase per lungo tempo. “Ma andandomi poi ricordando dei miei carnovali, e di quelle recite dell'opera seria ch'io aveva sentite, e paragonandone gli effetti a quelli che ancora provo tuttavia, quando divezzatomi dal teatro ci ritorno dopo un certo intervallo, ritrovo sempre non vi essere il piú potente e indomabile agitatore dell'animo, cuore, ed intelletto mio, di quel che lo siano i suoni tutti e specialmente le voci di contralto e di donna. Nessuna cosa mi desta piú affetti, e piú vari, e terribili. E quasi tutte le mie tragedie sono state ideate da me o nell'atto del sentir musica, o poche ore dopo.” La musica è per lui la maggiore fonte di smuovimento dell’animo, lo fa agitare, lo commuove più di tutte. Ed è stata per lui ispiratrice, gli ha smosso le emozioni interiori che poi lo hanno portato a prodursi nella sua arte (la poesia tragica). “Essendo scorso cosí il mio primo anno di studi nell'Università, nel quale si disse, dai ripetitori (ed io non saprei né come né perché) aver io studiato assai bene, ottenni dallo zio di Cuneo la licenza di venirlo trovare in codesta città per quindici giorni nel mese d'agosto.” Fa in questo periodo un viaggetto. Di questo secondo viaggetto ricorda la spiacevole sensazione di non aver potuto trovare la felicità e gioia della velocità che aveva provato nella precedente. I vetturini sono quelli che guidano le carrozze. Va molto lentamente. Nel raccontare questo andare lentamente dice che soffre particolarmente questa lentezza perché lui ha provato l’ebbrezza della velocità. “Onde all'entrare in Carignano, Racconigi, Savigliano, ed in ogni anche minimo borguzzo, io mi rintuzzava ben dentro nel piú intimo del calessaccio, e chiudeva anche gli occhi per non vedere, né esser visto; quasi che tutti mi dovessero conoscere per quello che avea altre volte corsa la posta con tanto brio, e sbeffarmi ora come condannato a sí umiliante lentezza.” Qui ha la solita sensazione di avere tutti gli occhi addosso, che tutto il mondo lo stia osservando e che lo prenda in giro per questa ridicola lentezza con la quale procede nel viaggio. Si rannicchia sui sedili di questo calesse e chiudeva gli occhi, perché aveva la sensazione che agente ridesse per la lentezza con cui andava rispetto ad anni prima. È un atteggiamento assolutamente infantile, ma su questo atteggiamento lui si interroga. “Erano eglino in me questi moti il prodotto d'un animo caldo e sublime, oppure leggiero e vanaglorioso?” il fatto che lui avesse tanto orgoglio in lui da pensare che la gente potesse prenderlo in giro era segno di un animo caldo e sublime oppure leggero e vanitoso? “Non lo so; altri potrà giudicarlo dagli anni miei susseguenti. Ma so bene, che se io avessi avuto al fianco una qualche persona che avesse conosciuto il cuor dell'uomo in esteso, egli avrebbe forse potuto cavare fin da allora qualche cosa da me, con la potentissima molla dell'amore di lode e di gloria.” È chiaro che era un’interrogazione teorica: in questo orgoglio che lui ha e che lo fa vergognare del fatto di andare ora così lentamente dopo che aveva provato l’ebbrezza della velocità, questa paura del ridicolo che lo attanaglia nella sua prima età, ci sono realtà dei semi di qualcosa di positivo: dell’amore, della lode e della gloria. Non sono segni negativi, di superbia, ma di una persona che si vuole impegnare per dare nella vita un buon risultato. E dice che se avesse avuto in vita dei maestri migliori, capace di conoscere come si sviluppano nell’uomo i semi della virtù, avrebbe capito che quelli che lui aveva erano elementi di coltivare nel futuro. !35 In questa sua vacanza estiva gli viene in mente di scrivere un sonetto, che è orrendo, non può che essere orribile perché lui non sa nulla di poesia italiana. Gli unici versi che aveva orecchiato erano quelli di Metastasio e quei pochi versi di Ariosto (poco compresi). Vuole scrivere un sonetto ma gli unici esercizi di poesia che gli hanno fatto fare sono in latino, di metrica italiana non sapeva nulla. Per questo esce un sonetto orribile. Questo elemento della prima prova in quell’arte che poi dovrà essere quella sua vita, il fatto che sia un fallimento, è curiosamente una situazione nella quale troviamo cadere anche Goldoni. Se guardiamo nella sua autobiografia, c’è un momento nel quale lui, alle primissime armi, scrive un dramma in modo pessimo, e quando lo legge a persone che si intendono di poesie per musica ne ha un giudizio negativo, perché gli dicono che non ha seguito le regole che esistono per scrivere in quel genere di poesia. Fallimenti quali quello che ci racconta Alfieri sono dei topoi della letteratura autobiografia, il racconto del primo tentativo di esprimersi nella propria arte che si rivela un fallimento, e lo troviamo in diversi autori. Alfieri aveva letto l’autobiografia di Goldoni, e probabilmente è stata uno stimolo a parlarne. Era un sonetto in lode di una signora che era corteggiata dallo zio che lo ospitava, un sonetto d’occasione. “Con tutto ciò mi venne lodato assai, e da quella signora, che non intendeva nulla, e da altri simili; onde io già già quasi mi credei un poeta.” “Ma lo zio, che era uomo militare, e severo, e che bastantemente notiziato delle cose storiche e politiche nulla intendeva né curava di nessuna poesia, non incoraggí punto questa mia Musa nascente; e disapprovando anzi il sonetto e burlandosene mi disseccò tosto quella mia poca vena fin da radice; e non mi venne piú voglia di poetare mai, sino all'età di venticinque anni passati.” Lo zio, che era un uomo pratico, non interessato alla poesia, disse chiaramente al bambino che non era il caso di continuare su quella strada, e quindi incontrando questo atteggiamento dello zio questa sua vena poetica viene disseccata. Tutto questo detto con autoironia: ora che lui è diventato il più grande poeta tragico di Italia, dice che questa sua ambizione di diventare poeta aveva avuto all’inizio molti ostacoli. “Quanti buoni o cattivi miei versi soffocò quel mio zio, insieme con quel mio sonettaccio primogenito!” il termine primogenito lo usa molto per parlare delle sue opere. Abbiamo tutta un’intonazione autoironica. Poi abbiamo un’altro episodio che si collega con quello della nonna (che avrebbe voluto fargli un regalo ma lui risolutissimo disse che non voleva niente). Qui è invece sempre lo zio che vuole fargli un regalo perché lui continua ad essere bravo a scuola; questo regalo gli viene fatto appetire molto dal servo Andrea che gli dice e preannuncia che suo zio gli avrebbe fatto un regalo ed era una cosa seria, senza digli cosa fosse. “Questa speranza indeterminata, ed ingranditami dalla fantasia, mi riaccese nello studio, e rinforzai molto la mia pappagallesca dottrina.” quest’ansia di sapere il regalo cosa fosse gli riaccese la voglia di studiare. “Un giorno finalmente mi fu poi mostrato dal camerier dello zio, quel famoso regalo futuro; ed era una spada d'argento non mal lavorata. Me ne invogliai molto dopo averla veduta; e sempre la stava aspettando, parendomi di ben meritarla; ma il dono non venne mai. Per quanto poi intesi, o combinai, in appresso, volevano che io la domandassi allo zio; ma quel mio carattere stesso, che tanti anni prima nella casa materna mi aveva inibito di chiedere alla nonna qualunque cosa volessi, sollecitato caldamente da lei di ciò fare, mi troncò anco qui la parola; e non vi fu mai caso ch'io domandassi la spada allo zio; e non l'ebbi.” Questo regalo era una spada d’argento molto lavorata, che si addiceva allo zio militare. Capitolo sesto Questa volontà di non chiedere, di non prostarsi, questo orgoglio così sviluppato, è caratterizzante del suo modo di essere. Ed è anche una sua grande capacità di difesa verso ciò che lo terrorizza: la paura di cadere nel ridicolo (centro: episodio retina, dove già di vedeva in lui un tentativo di sottrarsi a quel ridicolo, perché se si paragona la prima volta nella quale lui è costretto a indossare la retina e la seconda c’è una differenza. La prima volta chiude gli occhi, non vuole vedere, venne trascinato e spinto in chiesa, ha una posizione passiva, mentre la seconda volta questa passività la domina, perché cerca di non attirare su di se l’attenzione, si nasconde dietro il prete, cerca di diminuire il danno.) Ancora nel ridicolo cade la prima volta quando aveva avuto quella malattia alla testa, per cui lo prendevano in giro. Quando gli accade una seconda volta, sempre per uno stress a cui era soggetto di incorrere in queste pustole sulla testa e in maniere talmente grave che aveva dovuto tagliarsi i capelli e usare la parrucca, accade qui che tutti lo prendano in giro per la parrucca, cercano di prendergliela e di buttargliela via, scherzi crudeli dell’infanzia. Ma questa volta lui riesce a sottrarsi a questo ridicolo, che per un carattere come il suo che non si piega doveva essere terrificante, lui stesso di leva la parrocchia e inizia a giocarci lanciandola per aria, e !36 quindi disarma completamente chi lo prendeva in giro, e lui che esercita da se stesso su se stesso il ridicolo, sottraendolo ai suoi torturatori, rendendoli innocui, perché così loro smettono di farlo, perché lui li aveva annientati prendendosi in ridicolo da solo. L’episodio è questo: lui deve studiare legge, ma non sopporta questa materie. Siccome non riuscivano ad entrargli in testa queste cose, la testa secondo lui aveva provocato queste pustole, in modo molto peggiore rispetto alla prima. La parrucca è al centro della sua memoria e della sua sofferenza, e riemerge nella sua memoria incarnata nella parrucca, come la fonte di tutto il suo dolore. “Da prima io m'era messo a pigliarne apertamente le parti; ma vedendo poi ch'io non poteva a nessun patto salvar la parrucca mia da quello sfrenato torrente che da ogni parte assaltavala, e ch'io andava a rischio di perdere anche con essa me stesso, tosto mutai di bandiera, e presi il partito il piú disinvolto, che era di sparruccarmi da me prima che mi venisse fatto quell'affronto, e di palleggiare io stesso la mia infelice parrucca per l'aria, facendone ogni vituperio.” Questa parrucca sembra diventare un oggetto animato: (usa un linguaggio avvocatesco) prima la difende, come fosse un avvocato difensore. Ma dice che se continuava a difenderla in questo modo sarebbe impazzito anche lui, sarebbe stato lacerato nella psiche per il tormento dei ragazzi che lo prendevano in giro. E allora “cambiò bandiera”, cambiò strategia: fece finta di non soffrire di questa tortura, “sparruccandosi” lui stesso. Lui prende il suo destino tra le sue mani, si toglie la parrucca e ci gioca, disarmando i compagni. “Ed in fatti, dopo alcuni giorni, sfogatasi l'ira pubblica in tal guisa, io rimasi poi la meno perseguitata, e direi quasi la piú rispettata parrucca, fra le due o tre altre che ve n'erano in quella stessa galleria.” questa strategia infatti funzionò. “Allora imparai, che bisognava sempre parere di dare spontaneamente, quello che non si potea impedire d'esserti tolto.” fingere di dare spontaneamente quello che sai che comunque ti verrebbe tolto. Qui c’è un’ironia che si gioca sul ridicolo, quel ridicolo del quale lui ha soggettivamente un terrore assoluto, ma del quale sa anche impadronirsi, per giocarlo lui stesso in sua difesa, facendo quindi dell’autoironia, ed è proprio quello che fa nella sua autobiografia. Sta mostrando di essere capace di difendersi grazie alla ironia, ci fa capire che famigliarità ha lui con lo strumento dell’ironia, che maneggia con tanta capacità da poterla rivolgere anche contro se stesso. Dice poi che man mano che va avanti nel suo cursus studiorum è iniziato anche a nuove discipline. Per esempio lo studio del clavicembalo e della geografia. Del clavicembalo ne parla male: era arido, gli piace la musica ma vorrebbe poter suonare ad orecchio, non si sente capace ne desidera imparare a leggere la musica, le note, a fare gli esercizi. Invece la geografia gli piace abbastanza, perché gli piace lavorare con il mappamondo e con le carte, e dice anche che il maestro che gliela insegnava (in Francese) e anche colui che gli presta molti romanzi francesi. Sono quelli più famosi del 600 francese. Arriva poi a parlare della disciplina del ballo: il ballo, come la scherma, sono due di quelle discipline che erano materie imprescindibili di insegnamento nelle accademie dei nobili, perché servivano a fare di loro dei buoni cortigiani, ma erano per lui discipline in cui era negato. Nella scherma perché è troppo debole. Per il ballo ci dice che ovviamente è impartita da un maestro francese, perché i francesi primeggiano in questa arte e in quel momento i balli che sono praticati nelle feste a corte sono tutti francesi, a cominciare dal minuetto. Il discorso sul ballo che fa è un occasione per lui per mostrare il suo misogallismo, la sua antipatia per la Francia e i francesi, che ripete anche un’immagine stereotipata del tipo e carattere francese che lui riprende: l’idea che i francesi siano salottieri, molto capaci di conversare senza dir nulla di serio, molto affettati nei loro atteggiamenti. In questo maestro di ballo ci sono caratterizzazioni che lo presentano come un tipo caricaturale, con atteggiamenti effeminati, che caratterizzano il modo di porsi di questo maestro e non lo fanno piacere ad Alfieri, il quale ritiene che quei modi di ballo che sono molto famosi nel suo tempo gli sembrano ridicoli. Usa un espressione a proposito del minuetto: “lo fa sia ridere che fremere”: lo fa ridere perché gli sembra che atteggi i corpi dei danzatori in maniera ridicola, e fremere perché ci vede dentro una frivolezza ed effeminatezza del tipo francese. “e la caricatura perpetua dei suoi moti e discorsi, mi quadruplicava l'abborrimento innato ch'era in me per codest'arte burattinesca.” Il ballo è per lui un’arte burattinesca. “Io attribuisco in gran parte a codesto maestro di ballo quel sentimento disfavorevole, e forse anche un poco esagerato, che mi è rimasto nell'intimo del cuore, su la nazion francese, che pure ha anche delle piacevoli e ricercabili qualità.” era consapevole che forse questo suo atteggiamento verso i francesi era forse esagerato. !37 feci dei progressí bastanti, massime nell'arte della mano, e dell'intelletto reggenti d'accordo, e nel conoscere e indovinare i moti e l'indole della cavalcatura.” impara come si va a cavallo, ci vuole fisico e capacità di entrare in sintonia con il cavallo. “A questo piacevole e nobilissimo esercizio io fui debitore ben tosto della salute, della cresciuta, e d'una certa robustezza che andai acquistando a occhio vedente, ed entrai si può dire in una nuova esistenza.” il sapere andare a cavallo, nell’ordine delle discipline che dovevano imparare i nobili che frequentavano l’accademia, era alla stessa stregua del sapere ballare e tirare di scherma, ma di queste tre discipline che erano nel “piano di studi” dei nobili l’unica che veramente lui apprezza e in cui diventerà abilissimo è il cavallo, che sarà l’emblema del suo spirito di libertà. Grazia a questo si rafforza fisicamente, inizia ad essere meno malaticcio e questo suo rafforzarsi gli fa di giorno in giorno sempre più “alzare la cresta”, è sicuro di se. Talmente sicuro che dice al priore del collegio che lui di quegli studi di legge che doveva fare non gli importava nulla e non li voleva fare più. “Il curatore allora abboccatosi col governatore dell'Accademia, conchiusero di farmi passare al Primo Appartamento, educazione molto larga, di cui ho parlato piú sopra.” Passa nel primo appartamento, dove c’erano i ragazzi grandi con molta libertà. È un passaggio molto positivo per lui, e infatti come altri molti positivi, ne ricorda la data: “Vi feci dunque il mio ingresso il dí 8 maggio 1763.” Erano quasi finiti i corsi, e passa lì l’estate quasi solo. In autunno ritornano, e sono in grande parte forestieri (non francesi, ma inglesi polacchi tedeschi ecc.) con i quali fa amicizia, in particolare con gli inglesi, e lui svilupperà sempre più per il popolo inglese. Lì mangiano bene, spendono molto, comincia a spendere per farsi degli abiti, per cambiarsi quelle divise nere di quando era piccolo. Il curatore dei suoi beni era contrario. Considerazione: “Avuta l'eredità, e la libertà, ritrovai tosto degli amici, dei compagni ad ogni impresa, e degli adulatori, e tutto quello insomma che vien coi danari, e fedelmente con essi pur se ne va.” In questo momento in cui li spende è circondato da amici, ma lui dice subito che gli amici si affollano quando sei ricco ma se ne vanno quando non li hai più. È il più piccolo di quel gruppo. “Di tempo in tempo aveva in me stesso dei taciti richiami a un qualche studio, ed un certo ribrezzo ed una mezza vergogna per l'ignoranza mia, su la quale non mi veniva fatto d'ingannare me stesso, né tampoco mi attentava di cercar d'ingannare gli altri.” Questa dissipazione non è tale da fargli perdere completamente la coscienza delle proprie debolezze, la principale di cui era il fatto di sapere di essere ignorante. Questo suo scoppio di libertà non gli fa dimenticare e ingannare se stesso, lui sa benissimo di essere ignorante, e guardando dentro di se si vergogna. Ma constata che non ha nessuno che gli insegni. In questo periodo legge romanzi francesi, quelli del 600 che andavano di moda. Qui fa un inciso perché dice di leggere questi romanzi francesi perché di romanzi italiani leggibili non ce ne sono. È un’annotazione (usa il presente) dell’Alfieri che sta scrivendo la propria autobiografia: il romanzo moderno italiano ancora non c’era, bisognerà aspettare le lettere di Jacopo Ortis, che quando usciranno Alfieri sarà già morto. Certa di colmare la propria ignoranza dandosi l’obbiettivo di fare delle letture più serie, che però erano solo quelle che poteva trovare nel collegio. Allora gli viene l’idea di leggere “la storia ecclesiastica” di Fleury: parla della storia della chiesa dalle origini fino al 1400. Era scritta in francese, e molto noiosa. È quasi come un’auto-punizione che lui si affligge, e si impone anche di studiarla. Fa dei riassunti, degli estratti, delle schede. È come se si volesse dare l’abito della persona studiosa. C’è in questa cosa, anche molto infantile, di trovarsi una occupazione seria, risultato della constatazione di quanto poco lui sappia. In un certo senso nell’infliggersi la lettura e lo studio della storia ecclesiastica del Fleury c’è già un segno di quella volontà di applicarsi a qualcosa di serio. Di questa lettura molto noiosa gli resta di buono, lui dice, è l’avere capito che la chiesa aveva fatto tanti sbagli, che i preti si erano comportati tanto male. “Fu quella lettura che cominciò a farmi cader di credito i preti, e le loro cose.” Questo periodo è poi caratterizzato dal fatto che fa delle gran scorribande a cavallo sulle colline torinesi, fa anche cose pericolose quando cavalca (corse a perdifiato lungo terreni molto scoscesi), tipico di quell’età. Organizza le sue passeggiate a cavallo molto bene. Mandavano avanti un cavallo disarcionato per poi ricorrerlo, o un cavaliere che poi avrebbero raggiunto a grande velocità (lui e gli altri ragazzi). !40 “Ma questi stessi strapazzi mi rinforzavano notabilmente il corpo, e m'innalzavano molto la mente; e mi andavano preparando l'animo al meritare e sopportare, e forse a ben valermi col tempo dell'acquistata mia libertà sí fisica che morale.” con tutti i loro limiti, con la loro anarchia, queste scorribande sono un assaggio importante di libertà, che lo fa uscire da quella prigione che era stata finora la sua adolescenza. Capitolo ottavo In questi capitoli conclusivi dell’età della adolescenza ci racconta anche come in lui, per questo ritrovato senso di libertà, si rafforzi moltissimo l’ostinazione (lui non usa questo termine, ma si tratta di questo). Quello che lui vuole fare è uscire quando vuole dal collegio, comportandosi come si comportavano i suoi compagni di Primo Appartamento, che però erano più grandi. Lui viene punito, viene chiuso nella sua stanza, ma siccome lui continua a scappare questa punizione diventa lunghissima. In uno di questi “arresti” che gli viene comminato, che era particolarmente lungo (dura più di 3 mesi) (1764), lui prova un’ostinazione terribile. In questa rinclusione: “Io mi ostinai sempre piú a non voler mai domandare d'esser liberato, e cosí arrabbiando e persistendo, credo che vi sarei marcito, ma non piegatomi mai. Quasi tutto il giorno dormiva; poi verso la sera mi alzava da letto, e fattomi portare una materassa vicino al caminetto, mi vi sdraiava su per terra; e non volendo piú ricevere il pranzo solito dell'Accademia, che mi facevano portar in camera, io mi cucinava da me a quel fuoco della polenta, e altre cose simili. Non mi lasciava piú pettinare, né mi vestiva ed era ridotto come un ragazzo salvatico. Mí era inibito l'uscire di camera; ma lasciavano pure venire quei miei amici di fuori a visitarmi; i fidi compagni di quelle eroiche cavalcate. Ma io allora sordo e muto, e quasi un corpo disanimato, giaceva sempre, e non rispondeva niente a nessuno qualunque cosa mi si dicesse. E stava cosí delle ore intere, con gli occhi conficcati in terra, pregni di pianto, senza pur mai lasciare uscir una lagrima.” Lui non voleva chiedere niente, e anzi si puniva da solo, si rinchiudeva ancora di più in quell’abbrutimento. Questo è il segno di una ostinazione terrificante, che si rivolge anche contro di lui e in senso negativo, che ci da la misura di quanto fosse ostinato. E ci serve a capire come la stessa forza di ostinazione poi la rivolgerà al bene, alla propria educazione e formazione, quando si comincia ad autoeducare. Capitolo nono “Matrimonio della sorella. Reintegrazione del mio onore. Primo cavallo.” Si libera da quella liberazione di “bestia” perché la sorella si sposa. Il cognato viene a fare mediatore con i capi del collegio, lui viene portato fuori dal collegio per partecipare al matrimonio. Torna quindi alla vita civile. Soprattutto, dopo le nozze della sorella, comincia a vedere da parte del curatore un’allargamento della borsa: per venire incontro a questi suoi atteggiamenti molto anticonformisti gli concedono più soldi. E lui si compra il primo cavallo. Ci parla del suo primo cavallo come parlerebbe del suo primo amore, con una semantologia dell’innamoramento: “Lo amai con furore, e non me lo rammento mai senza una vivissima emozione. La mia passione per esso andò al segno di guastarmi la quiete, togliermi la fame ed il sonno, ogni qual volta egli aveva alcuno incommoduccio;” Il cavallo sembra lui, ha caratteristiche simili al carattere e alla complessione fisica di Alfieri. Dire che è il cavallo è focoso e delicato sono gli stessi termini che potrebbe applicare a se stesso. “e quando poi l'aveva fra le gambe, il mio affetto non m'impediva di tormentarlo e malmenarlo anche tal volta quando non volea fare a modo mio.” voleva che il cavallo gli obbedisse. “La delicatezza di questo prezioso animale mi serví ben tosto di pretesto per volerne un altro di piú, e dopo quello due altri di carrozza, e poi uno di calessetto, e poi due altri di sella, e cosí in men d'un anno arrivai sino a otto, fra gli schiamazzi del tenacissimo curatore,” Il fatto che l’animale fosse delicato gli diede il pretesto per comprarne altri, mentre il curatore non era d’accordo. “V'erano alcuni di quegli inglesi miei compagni, che spendevano assai; onde io non volendo essere soverchiato, cercava pure e mi riusciva di soverchiare costoro.” qui abbiamo un’emulazione nello spendere. Gli inglesi, amanti dei cavalli e dei bei vestiti, stanno diventando il suo modello. Non vuole essere da meno, e quindi spende molto. Oltre agli inglesi entra in competizione anche con i giovani nobili torinesi, che hanno un costume proprio, molto sobrio, non sono abituati ad essere così come gli inglesi, disposti a spendere molto, amanti !41 dell’eleganza eccetera, e quindi lui si comporta in due modi diversi a seconda se è con gli amici inglesi o con gli amici torinesi. Con quest’ultimi infatti non sfoggiava niente. “Ma, per altra parte, quei giovinotti miei amici di fuori dall'Accademia, e coi quali io conviveva assai piú che coi forestieri di dentro, per essere soggetti ai lor padri, avevano pochi quattrini; onde benché a loro mantenimento fosse decentissimo, essendo essi dei primi signori di Torino, pure le loro spese di capriccio venivano ad essere necessariamente tenuissime. A risguardo dunque di questi, io debbo per amor del vero confessare ingenuamente di aver allora praticata una virtú, ed appurato che ella era in me naturale, ed invincibile: ed era di non volere né potere soverchiar mai in nessuna cosa chi che sia, ch'io conoscessi o che si tenesse per minore di me in forza di corpo, d'ingegno, di generosità, d'indole, o di borsa. Ed in fatti, ad ogni abito nuovo, e ricco o di ricami, o di nappe, o di pelli ch'io m'andava facendo, se mi veniva fatto di vestirmelo la mattina per andare a corte, o a tavola con i compagni d'Accademia, che rivaleggiavano in queste vanezze con me, io poi me lo spogliava subito al dopo pranzo, ch'era l'ora in cui venivano quegli altri da me; e li faceva anzi nascondere perché non li vedessero, e me ne vergognava in somma con essi, come di un delitto; e tale in fatti nel mio cuore mi pareva, e l'avere, e molto piú il farne pompa, delle cose che gli amici ed eguali miei non avessero.” “E cosí pure, dopo avere con molte risse ottenuto dal curatore di farmi fare una elegante carrozza, cosa veramente inutilissima e ridicola per un ragazzaccio di sedici anni in una città cosí microscopica come Torino, io non vi saliva quasi mai, perché gli amici non l'avendo se ne dovevano andare a sante gambe sempre. E quanto ai molti cavalli da sella, io me li facea perdonare da loro, accomunandoli con essi; oltre che essi pure ne aveano ciascuno il suo, e mantenuto dai loro rispettivi genitori. Perciò questo ramo di lusso mi dilettava anche piú di tutti altri, e con meno misto di ribrezzo, perché in nulla veniva ad offendere gli amici miei.” Si fece comprare anche una carrozza, e per sentirsi meno in colpa prestava i cavalli ai suoi amici. Le sue virtù che escono: lui non voleva umiliare li altri, voleva essere molto generoso e aveva un’idea molto importante dell’amicizia. “Esaminando io spassionatamente e con l'amor del vero codesta mia prima gioventú, mi pare di ravvisarci fra le tante storture di un'età bollente, oziosissima, ineducata, e sfrenata, una certa naturale pendenza alla giustizia, all'eguaglianza, ed alla generosità d'animo, che mi paiono gli elementi d'un ente libero, o degno di esserlo.” Nell’atteggiarsi in questo modo nei confronti dei suoi amici torinesi che non potevano spendere si mostra questa innata tendenza “alla giustizia, all'eguaglianza, ed alla generosità d'animo” Capitolo decimo Fa una vacanza con due suoi amici (fratelli), suoi compagni di cavalcate, e si invaghisce per una loro cognata, moglie del fratello maggiore. “Era questa signorina, una brunetta piena di brio, e di una certa protervia che mi facea grandissima forza. I sintomi di quella passione, di cui ho provato dappoi per altri oggetti cosí lungamente tutte le vicende, si manifestarono in me allora nel seguente modo.” lui, che quando scriveva era esperto delle molte esperienze amorose che ha avuto successivamente, riconosce in questo primo invaghimento i sintomi dell’innamoramento, che proverà tutte le volte che si innamorerà in vita sua, che sono: “Una malinconia profonda e ostinata; un ricercar sempre l'oggetto amato, e trovatolo appena, sfuggirlo; un non saper che le dire, se a caso mi ritrovava alcuni pochi momenti (non solo mai, che ciò non mi veniva fatto mai, essendo ella assai strettamente custodita dai suoceri) ma alquanto in disparte con essa; un correre poi dei giorni interi (dopo che si ritornò di villa) in ogni angolo della città, per vederla passare in tale o tal via, nelle passeggiate pubbliche del Valentino e Cittadella; un non poterla neppure udir nominare, non che parlar mai di essa;” “quegli effetti sí dottamente e affettuosamente scolpiti dal nostro divino maestro di questa divina passione, il Petrarca.” Dice che è quello che scrive anche Petrarca. Ci da un’immagine simile a quella scritta da Petrarca: un’idea dell’amore molto letteraria, nel senso che c’è in lui, in questa descrizione dell’amore, l’idea dell’amore nobilitante, che innalza l’animo dell’uomo, così come quell’idea dell’uomo che ci ha trasmesso la lirica amorosa del medioevo (lo stilnovo, colui che si innamora, il corgentile, viene nobilitato da quella esperienza). “Effetti, che poche persone intendono, e pochissime provano; ma a quei soli pochissimi è concesso l'uscir dalla folla volgare in tutte le umane arti.” nella sua autobiografia, la svolta della sua vita, la conversione alla poesia, coincide anche con l’abbandono dei falsi amori e l’amore nel vero amore della sua vita. !42 “e il tutto alla peggio, non sapendo io questa linguaccia se non se a caso; non mi ricordando piú di nessuna regola ove pur mai l'avessi saputa da prima; e molto meno ancora sapendo l'italiano, raccoglieva cosí il frutto dovuto della disgrazia primitiva del nascere in un paese anfibio, e della valente educazione ricevutavi.” paese anfibio = il Piemonte era un paese dove l’identità italiana non è marcata. “Per la via di Piacenza, Parma, e Modena, si giunse in pochi giorni a Bologna; “ in queste città passa di corsa e non guarda nulla. Ci dice una cosa importante riguardo alle prime notazioni di questo viaggio nevrotico: il solo piacere non era arrivare alla meta, ma muoversi e correre a cavallo davanti alla carrozza. —> “Ed il mio maggiore, anzi il solo piacere ch'io ricavassi dal viaggio, era di ritrovarmi correndo la posta su le strade maestre, e di farne alcune, e il piú che poteva, a cavallo da corriere.” “Bologna, e i suoi portici e frati, non mi piacque gran cosa;” Bologna fa parte dello stato pontificio: i “frati” sono quindi gli abitanti. Lui aveva imparato a non apprezzare il clero leggendo quel libro sulla storia della chiesa. “dei suoi quadri non ne seppi nulla; e sempre incalzato da una certa impazienza di luogo, io era lo sprone perpetuo del nostro aio antico, che sempre lo instigava a partire.” l’aio è uno dei vecchi che c’è con lui, è molto lento nelle decisioni, e lui lo incalza continuamente a sbrigarsi. E infatti successivamente lo toglierà. “Arrivammo a Firenze in fin d'ottobre; e quella fu la prima città, che a luoghi mi piacque, dopo la partenza di Torino;” Firenze è la prima città che gli piace. Rimangono a Firenze un mese, ed è costretto a vedere alcune bellezze della città. “e là pure, sforzato, dalla fama del luogo, cominciai a visitare alla peggio la Galleria, e il Palazzo Pitti, e varie chiese; ma il tutto con molta nausea, senza nessun senso del bello;” Attribuisce questo suo interesse per la scultura per il suo zio architetto che gli aveva fatto apprezzare la scultura e gli aveva fatto apprezzare Michelangelo. Qui vediamo che se ha gli strumenti, riesce ad apprezzare quello che ha davanti. (→ “massime in pittura; gli occhi miei essendo molto ottusi ai colori; se nulla nulla gustava un po' piú era la scoltura, e l'architettura anche piú; forse era in me una reminiscenza del mio ottimo zio, l'architetto. La tomba di Michelangelo in Santa Croce fu una delle poche cose che mi fermassero; e su la memoria di quell'uomo di tanta fama feci una qualche riflessione;”) “fin da quel punto sentii fortemente, che non riuscivano veramente grandi fra gli uomini, che quei pochissimi che aveano lasciata alcuna cosa stabile fatta da loro.” sono grandi coloro che lasciano qualche opera importante nel loro cammino. È una considerazione che poi lo guiderà, quando scrive l’autobiografia sa che con le sue tragedie ha lasciato qualcosa di stabile ai suoi concittadini e avendo riformato il genere della tragedia. “Ma una tal riflessione isolata in mezzo a quell'immensa dissipazione di mente nella quale io viveva continuamente, veniva ad essere per l'appunto come si suol dire, una goccia di acqua nel mare.” “Fra le tante mie giovenili storture, di cui mi toccherà di arrossire in eterno, non annovererò certamente come l'ultima quella di essermi messo in Firenze ad imparare la lingua inglese, nel breve soggiorno di un mese ch'io vi feci, da un maestruccio inglese che vi era capitato; in vece di imparare dal vivo esempio dei beati toscani a spiegarmi almeno senza barbarie nella loro divina lingua, ch'io balbettante stroppiava, ogni qual volta me ne doveva prevalere.” lui invece di pensare di imparare l’italiano proprio a Firenze, impara l’inglese. Ha studiato inglese a Firenze perché in quegli anni c’era un’importante colonia di inglesi, perché era molto attivo l’ambasciatore dell’Inghilterra a Firenze (Horace Mann) che aveva collegamenti con gli uomini di cultura fiorentini, che promosse tante traduzioni di opere inglesi in italiano, e strinse rapporti con tanti traduttori inglesi. Per questo la lingua inglese era molto diffusa a Firenze e anche a Livorno (che gli piacerà, grazie al mare). “Con tutto ciò, io mi ero subito ripurgata la pronunzia di quel nostro orribile u lombardo, o francese, che sempre mi era spiaciuto moltissimo, per quella sua magra articolazione, e per quella boccuccia che fanno le labbra di chi lo pronunzia, somiglianti in quell'atto moltissimo a quella rísibile smorfia che fanno le scimmie, allorché favellano.” Di questo suo peccato di non aver imparato in quel frangente la lingua italiana ci dice che non gli interessava, che era molto pigro, e che la cosa a cui aveva badato dal punto di vista della lingua era quello di !45 cercare di liberarsi da quell’”orribile” suono francese, una pronuncia che gli sembrava molto barbara e della quale ci da una rappresentazione satirica. “E ancora adesso, benché di codesto u, da cinque e piú anni ch'io sto in Francia ne abbia pieni e foderati gli orecchi, pure egli mi fa ridere ogni volta che ci bado; e massime nella recita teatrale, o camerale (che qui la recita è perpetua), dove sempre fra questi labbrucci contratti che paiono sempre soffiare su la minestra bollente, campeggia principalmente la parola nature.” Parla di sé nel presente a Parigi, dove sente ancora questo suono in grande abbondanza. Trae occasione di questo ragionamento sulla lingua per dirci che fino da allora aveva cercato di liberarsi di quella “u”, dalla quale sembra quasi perseguitato, e trova modo in questo contesto per fare una tirata (che nasce dalla esperienza presente, e non dal passato) contro i francesi, dei quali sono insopportabili le recite teatrali e camerali (quelle fatte nei salotti, ma lui le chiama lo stesso recite, perché secondo lui i francesi sono falsi, e quindi anche quando conversano nei salotti secondo lui sono falsi). E per fare l’esempio dell’insopportabilità di questo sono tira fuori la parola nature, quindi tira una frecciata contro Rousseau, perché quella parola era l’emblema della sua filosofia. Quindi sentiamo fortissimo l’Alfieri post-rivoluzionario che assume questi atteggiamenti nei confronti della filosofia di Rousseau. Tra le città che gli capita di visitare e che gli piace è Livorno, con il mare e il porto. “Questa città mi piacque assai e perché somigliava alquanto a Torino, e per via del mare, elemento del quale io non mi saziava mai.” La conformazione topografica di Livorno gli richiamava Torino (per esempio la conformazione delle vie), e le piaceva per il mare. Nell’autobiografia troviamo lui che fa il bagno nel mare (cosa insolita al tempo), fa passeggiate lungo la spiaggia: il suo amore per il mare era molto grande. “Il soggiorno nostro vi fu di otto o dieci giorni; ed io sempre barbaramente andava balbettando l'inglese, ed avea chiusi e sordi gli orecchi al toscano.” continua la pratica dell’inglese anche a Livorno, dove c’erano molti anglofoni. “Esaminando poi la ragione di una sí stolta preferenza, ci trovai un falso amor proprio individuale, che a ciò mi spingeva senza ch'io pure me ne avvedessi.” si chiede perché avesse questa fissa per l’inglese. E dice che era per amor proprio: negli ultimi anni al collegio aveva vissuto con gli inglesi, e cominciava a farsi spazio in lui l’idea che l’Inghilterra sia la più grande e migliore nazione europea. (→ “Avendo per più di due anni vissuto con inglesi; sentendo per tutto magnificare la loro potenza e ricchezza; vedendone la grande influenza politica; e per l'altra parte vedendo l'Italia tutta esser morta; gl'italiani, divisi, deboli, avviliti e servi; grandemente mi vergognava d'essere, e di parere italiano, e nulla delle cose loro non voleva né praticar, né sapere.”) C’era un rifiuto dell’italianità, quello che lui aveva definito un “falso amor proprio individuale”: non voleva confondersi con gli italiani. Questo mito dell’Inghilterra poi scomparirà e diventerà orgoglioso di essere italiano, ma l’ammirazione verso l’Inghilterra ci sarà sempre, soprattutto l’ammirazione politica, il modo di governo degli stati, che è il migliore che si possa avere: la monarchia costituzionale. Questa passione dell’Inghilterra ora è per un sentito dire, dai suoi amici inglesi e dagli ambienti inglesi di Firenze e Livorno, e ora è un volersi disitalianizzare. Va poi a Siena. Sarà importante perché qui troverà il suo migliore amico e qui avrà rapporti importanti, e qui uscirà la prima edizione delle sue tragedie. Al primo contatto, l’elemento che lo colpisce è il toscano che viene parlato a Siena. Anche la lingua delle persone più umili è bellissima. (→ “e una dolcissima lusinga agli orecchi e al cuore, nell'udire le piú infime persone cosí soavemente e con tanta eleganza proprietà e brevità favellare.”) A Siena stette pochissimo, perché “ il tempo della mia conversione letteraria e politica era ancora lontano assai;” —> per potere apprezzare l’italianità che quella lingua trasmetteva doveva ancora maturare molto. “mi bisognava uscire lungamente d'Italia per conoscere ed apprezzar gli Italiani.” doveva uscire dall’italiana per apprezzarla. Fa tutte le tappe canoniche del tour italiano, a cui seguiranno, dopo Siena, Roma, e Napoli. “Partii dunque per Roma, con una palpitazione di cuore quasiché continua, pochissimo dormendo la notte, e tutto il dí ruminando in me stesso e il San Pietro, e il Coliseo, ed il Panteon; cose che io aveva tanto udite esaltare; ed anche farneticava non poco su alcune località della storia romana, la quale (benché senza ordine e senza esattezza) cosí presa in grande mi era bastantemente nota ed in mente, essendo stata la sola !46 istoria ch'io avessi voluto alquanto imparare nella mia prima gioventú.” Roma è un mito nella sua mente. All’accademia aveva imparato molto di questo mito, traducendo dal latino documenti dall’antica Roma, e quindi ha molto nella sua mente questo posto. “Finalmente, ai tanti di decembre dell'anno 1766 vidi la sospirata Porta del Popolo; e benché l'orridezza e miseria del paese da Viterbo in poi mi avesse fortemente indisposto, pure quella superba entrata mi racconsolò, ed appagommi l'occhio moltissimo.” ripete una verità che si trova scritta in tutti i libri dei viaggi ache aveva nominato: si arrivava a Roma passando attraverso le desolatissime e miserissime campagne laziali. Tutti i viaggiatori che hanno lasciato i loro ricordi del viaggio a Roma ci parlano di questo, per sottolineare la cattiva forma di governo dello stato della chiesa, che contrapponeva la grandiosità degli antichi monumenti e la misera che era intorno alla città. “Appena eramo discesi alla piazza di Spagna dove si albergò, subito noi tre giovanotti, lasciato l'aio riposarsi, cominciammo a correre quel rimanente di giorno, e si visitò alla sfuggita, tra l'altre cose, il Panteon. I miei compagni si mostravano sul totale piú maravigliati di queste cose, di quel che lo fossi io. Quando poi alcuni anni dopo ebbi veduti i loro paesi, mi son potuto dare facilmente ragione di quel loro stupore assai maggiore del mio.” Questa presenza dell’antico era qualcosa che non c’era fuori Roma e all’estero. “Vi si stette allora otto giorni soli, in cui non si fece altro che correre per disbramare quella prima impaziente curiosità. Io preferiva però molto di tornare fin due volte il giorno a San Pietro, al veder cose nuove. E noterò, che quell'ammirabile riunione di cose sublimi non mi colpí alla prima quanto avrei desiderato e creduto, ma successivamente poi la maraviglia mia andò sempre crescendo; e ciò, a tal segno, ch'io non ne conobbi ed apprezzai veramente il valore se non molti anni dopo, allorché stanco della misera magnificenza oltramontana, mi venne fatto di dovermi trattenere in Roma degli anni.” Per apprezzare veramente l’Italia e Roma avrebbe dovuto prima recarsi all’estero. Capitolo secondo Quello che lui e i due giovani volevano era proseguire il viaggio e andare verso la tappa di Napoli, dove avrebbero dovuto soggiornare tutto il periodo del carnevale, dove c’erano feste e divertimenti. Per fare il viaggio da Roma a Napoli, con strane dissestate e insicure, decidono di fare il viaggio non per le poste ma con il metodo più lento del noleggio delle vetture (i vetturini). Questo tipo di carrozze vanno più lentamente, hanno cavalli molto lenti. È una scelta obbligata per le strade e per i pericoli, ma questo modo lento di viaggiare lo annoia moltissimo, e spesso è lui che prova a cavalcare quei cavalli, che però non reggevano la sua guida. Dovevano andare piano anche perché Elia si è rotto un braccio. EPISODIO → “Molto coraggio e presenza di spirito e vera fortezza d'animo avea mostrato costui in codesto accidente; poiché rialzatosi da sé, ripreso il ronzino per le redini, si avviò soletto a piedi sino a Radicofani distante ancora piú d'un miglio. Quivi, fatto cercare un chirurgo, mentre lo stava aspettando si fece sparare la manica dell'abito, e visitandosi il braccio da sé, trovatolo rotto, si fece tenere ben saldamente la mano di esso stendendolo quanto piú poteva, e coll'altra, che era la mandritta, se lo riattò sí perfettamente, che il chirurgo, giunto quasi nel tempo stesso che noi sopraggiungevamo con la carrozza, lo trovò rassettato a guisa d'arte in maniera che, senza piú altrimenti toccarlo, subito lo fasciò, e in meno d'un'ora noi ripartimmo, collocando il ferito in carrozza, il quale pure con viso baldo e fortissimo pativa non poco. Giunti ad Acquapendente, si trovò rotto il timone della carrozza; del che trovandoci noi tutti impicciatissimi, cioè noi tre ragazzi, il vecchio aio, e gli altri quattro stolidi servitori, quel solo Elia col braccio al collo, tre ore dopo la rottura, era piú in moto, e piú efficacemente di noi tutti adoperavasi per risarcire il timone; e cosí bene diresse quella provvisoria rappezzatura, che in meno di du' altre ore si ripartí, e l'infermo timone ci strascinò senz'altro accidente poi sino a Roma.” C’è un elogio per Elia. “Io mi son compiaciuto d'individuare questo fatto episodico, come tratto caratteristico di un uomo di molto coraggio e gran presenza di spirito, molto piú che al suo umile stato non parea convenirsi.” era molto più intelligente di quelli della sua classe. “Ed in nessuna cosa mi compiaccio maggiormente, che nel lodare ed ammirare quelle semplici virtú di temperamento, che ci debbono pur tanto far piangere sovra i pessimi governi, che le trascurano, o le temono e le soffocano.” sta dicendo che lui ha sempre ammirato in Elia il fatto di avere queste doti pur essendo di origine sociale umile, e questa osservazione gli fa dire che invece i governi che ci sono in giro (per lui !47 “ed una totale stupidità nei gran venti solstiziali ed equinoziali;” quando soffiavano questi venti si sentiva intontito. “e una infinitamente minore perspicacità la sera che la mattina;” era molto più produttivo alla mattina. “e assai piú fantasia, entusiasmo, e attitudine all'inventare nel sommo inverno e nella somma state che non nelle stagioni di mezzo.” le stagioni di transizione lo precipitano in uno stato di malinconia Queste riflessioni le fa sulla base di una considerazione su se steso che è di fondamento sensistico, quella filosofia sensista che fa partire la conoscenza dai sensi, e che ci parla dell’uomo come una macchina fisica che è attraversata da fibre, che sono più o meno sensibili. Parla di se stesso e di come in lui lo stato psichico dipenda dalla costituzione fisica: “Questa mia materialità, che credo pure in gran parte essere comune un po' piú un po' meno a tutti gli uomini di fibra sottile, mi ha poi col tempo scemato e annullato ogni orgoglio del poco bene ch'io forse andava alle volte operando, come anche mi ha in gran parte diminuito la vergogna del tanto piú male che avrò certamente fatto, e massime nell'arte mia; essendomi pienamente convinto che non era quasi in me il potere in quei dati tempi fare altrimenti.” Lui è una persona sensibile (come la intendiamo noi), e nel settecento secondo la visione sensista questo deriva dalle fibre che abbiamo dentro di noi: se abbiamo le fibre sottili siamo più influenzati dai fattori esterni. Questa sua materialità, il vedere che lui dipendeva dal punto di vista intellettuale dalla sua complessione fisica, lo ha giustificato dal non avere, in certi momenti, potuto produrre meglio e di più, perché lui essendo fatto così (con le fibre sensibili) subisce di più le fibre esterne. Il soggiorno a Venezia chiude il viaggio in Italia, Alfieri fa ritorno a Torino e da lì ricomincia a viaggiare, e nel 1767 si imbarca per la Francia. Torna a Genova e da lì, su una feluca, si imbarca per Antibo. Ha un problema: si ferma a Savona, sta lì un paio di giorni e poi riprende il viaggio, e sbarcherà poi ad Antibo. “Giunto pure una volta in Antibo, e sbarcatovi, parea che tutto mi racconsolasse l'udire altra lingua, il vedere altri usi, altro fabbricato, altre faccie; e benché tutto fosse piuttosto diverso in peggio che in meglio, pure mi dilettava quella piccola varietà. Tosto ripartii per Tolone; e appena in Tolone, volli ripartir per Marsiglia, non avendo visto nulla in Tolone, città la cui faccia mi dispiacque moltissimo.” Tolone non gli era piaciuta. Si ferma a Marsiglia, una città di mare, gli piace, in particolare perché a Marsiglia si trova immerso in un paesaggio che a lui è particolarmente consono. “Non cosí di Marsiglia, il cui ridente aspetto, le nuove, ben diritte e pulite vie, il bel corso, il bel porto, e le leggiadre e proterve donzelle, mi piacquero sommamente alla prima; e subito mi determinai di starvi un mesetto, per lasciare sfogare anche gli eccessivi calori del luglio, poco opportuni al viaggiare.” Voleva ripartire dopo che l’estate e il caldo fossero passati. “Nel mio albergo v'era giornalmente tavola rotonda, onde io trovandomi aver compagnia a pranzo e cena, senza essere costretto di parlare (cosa che sempre mi costò qualche sforzo, sendo di taciturna natura), io passava con soddisfazione le altre ore del giorno da me.” Tavola rotonda: tavola in comune dove tutti quelli dell’albergo vanno a mangiare. Stava bene perché a parte il momento della tavola poteva stare molto da solo. “E la mia taciturnità, di cui era anche in parte cagione una certa timidità che non ho mai vinta del tutto in appresso, si andava anche raddoppiando a quella tavola, attesa la costante garrulità dei francesi, i quali vi si trovavano di ogni specie; ma i piú erano ufficiali, o negozianti.” poteva star zitto perché tanto i francesi erano chiacchieroni e bastava lasciarli fare. “Con nessuno però di essi né amicizia contrassi né famigliarità, non essendo io in ciò mai stato di natura liberale né facile.” vuole fare amicizie serie, e quindi fa fatica. “Io li stava bensí ascoltando volentieri, benché non v'imparassi nulla; ma lo ascoltare è una cosa che non mi ha costato mai pena, anche i piú sciocchi discorsi, dai quali si apprende tutto quello che non va detto.” “Una delle ragioni che mi aveano fatto desiderare maggiormente la Francia, si era di poterne seguitatamente godere il teatro.” in questo momento il teatro francese è il più importante d’Europa, sia per la commedia sia per la tragedia. !50 “Io aveva veduto due anni prima in Torino una compagnia di comici francesi, e per tutta un'estate l'aveva assiduamente praticata; onde molte delle principali tragedie, e quasi tutte le piú celebri commedie, mi erano note.” “Onde io ascoltava le altrui con attenzione sí, ma senza intenzione nessuna; e, ch'è piú, senza sentirmi nessunissimo impulso al creare; anzi sul totale mi divertiva assai piú la commedia, di quello che mi toccasse la tragedia, ancorché per natura mia fossi tanto piú inclinato al pianto che al riso.” Lui che sarà l’autor tragico per eccellenza, aggiunge che quello che gli piaceva di più erano le commedia. Le commedie lo interessavano di più. Ciò che gli dava fastidio delle tragedie francesi erano che avevano troppi personaggi, e infatti quando lui farà le tragedie il numero sarà ridottissimo. E poi gli da fastidio sentir parlare francese, perché le tragedie francesi sono in versi alessandrini, sono in rima, e sono particolarmente monotoni, suonano come una cantilena. Il ritmo e la cadenza che hanno questi versi lo infastidisce. Però dice di aver letto alcune tragedie di averli apprezzati: “la Fedra, l'Alzira, il Maometto, e poche altre.” Arriviamo al momento più importante a Marsiglia. “Oltre il teatro, era anche uno de' miei divertimenti in Marsiglia il bagnarmi quasi ogni sera nel mare.” tutte le sere fa il bagno in mare, cosa molto inusuale a quei tempi. “Mi era venuto trovato un luoghetto graziosissimo ad una certa punta di terra posta a man dritta fuori del porto, dove sedendomi su la rena con le spalle addossate a uno scoglio ben altetto che mi toglieva ogni vista della terra da tergo, innanzi ed intorno a me non vedeva altro che mare e cielo;” il ricordo di questa spiaggia è la prima importante notazione paesaggistica che c’è dei viaggi. Siamo nella solitudine, sono esperienze che fa da solo. I suoi apprezzamenti degli elementi paesaggistici sono sempre fatti in solitudine. Va da solo, si siede allo scoglio, in modo che lui possa vedere solo il mare che ha davanti. “e cosí fra quelle due immensità abbellite anche molto dai raggi del sole che si tuffava nell'onde, io mi passava un'ora di delizie fantasticando; e quivi avrei composto molte poesie, se io avessi saputo scrivere o in rima o in prosa in una lingua qual che si fosse.” un’esperienza di una contemplazione del mare, che a lui piace moltissimo perché gli da il senso dell’infinitezza, dell’essere senza confine. Esperienza analoga a quelle che proverà nei deserti dell’Aragona e nei ghiacci della Svezia. Questa contemplazione a tu per tu con l’immensa dimensione del cielo e del mare attiva in lui la facoltà della fantasia e la piacevolezza della fantasia e dell’immaginazione, di lasciare la mente libera di vagare, di “annientarsi nell’infinito” come diceva Leopardi (è un’esperienza molto simile a quella che Leopardi farà con l’infinito). A Leopardi quell’esperienza genererà i versi dell’Infinito, mentre Alfieri ancora in quel momento non aveva gli strumenti per tradurre ciò che vede in poesia. Anche il soggiorno a Marsiglia finisce, perché lo riprende la sua frenesia di raggiungere Parigi. Fa un viaggio velocissimo verso Parigi. Ignora i paesaggi petrarcheschi che ci sono in Provenza, passa per Avignone ma non va a vedere la tomba di Laura: corre verso Parigi, dove arriva verso la metà di agosto nel 1767. Siamo in estate, ma è una Parigi molto autunnale e triste, melanconica, uggiosa, piovigginosa. E questa atmosfera che loa accoglie contribuisce al suo giudizio negativo su Parigi. “Era, non ben mi ricordo il dí quanti di agosto, ma fra il 15, e il 20, una mattinata nubilosa fredda e piovosa; io lasciava quel bellissimo cielo di Provenza e d'Italia, e non era mai capitato fra sí fatte sudicie nebbie, massimamente in agosto; onde l'entrare in Parigi pel sobborgo miserrimo di San Marcello, e il progredire poi quasi in un fetido fangoso sepolcro nel sobborgo di San Germano, dove andava ad albergo, mi serrò sí fortemente il cuore, ch'io non mi ricordo di aver provato in vita mia per cagione sí piccola una piú dolorosa impressione.” L’impressione dell’arrivo a Parigi è dolorosa, perché nega tutte le sue aspettative, è molto deluso. “Tanto affrettarmi, tanto anelare, tante pazze illusioni di accesa fantasia, per poi inabissarmi in quella fetente cloaca. Nello scendere all'albergo, già mi trovava pienamente disingannato; e se non era la stanchezza somma, e la non picciola vergogna che me ne sarebbe ridondata, io immediatamente sarei ripartito. Nell'andar poi successivamente dattorno per tutto Parigi, sempre piú mi andai confermando nel mio disinganno.” !51 “L'umiltà e barbarie del fabbricato; la risibile pompa meschina delle poche case che pretendono a palazzi; il sudiciume e goticismo delle chiese; la vandalica struttura dei teatri d'allora; e i tanti e tanti e tanti oggetti spiacevoli che tutto dí mi cadeano sott'occhio, oltre il piú amaro di tutti, le pessimamente architettate faccie impiastrate delle bruttissime donne;” L’architettura gli sembra povera e barbera, le case più lussuose e i palazzi sembrano meschini (inferiori a Torino). La visione delle francesi che aveva visto nella casa materna era rimasto un imprinting affinché le vedesse sempre tutte così, e brutte. Cose che gli piacciono: “queste cose tutte non mi venivano poi abbastanza rattemperate dalla bellezza dei tanti giardini, dall'eleganza e frequenza degli stupendi passeggi pubblici, dal buon gusto e numero infinito di bei cocchi, dalla sublime facciata del Louvre, dagli innumerabili e quasi tutti buoni spettacoli, e da altre sí fatte cose.” “Continuava intanto con incredibile ostinazione il mal tempo, a segno che da quindici e piú giorni d'agosto ch'io aveva passati in Parigi, non ne aveva ancora salutato il sole. Ed i miei giudizi morali, piú assai poetici che filosofici, si risentivano sempre non poco dell'influenza dell'atmosfera.” lui era meteoropatico, e quel tempo non gli faceva bene. “Quella prima impressione di Parigi mi si scolpí sí fortemente nel capo, che ancora adesso (cioè ventitré anni dopo) ella mi dura negli occhi e nella fantasia, ancorché in molte parti la ragione in me la combatta e condanni.” lui ha sempre cercato di correggere questa visione di Parigi, ma rimarrà sempre con lui. Nel viaggiare, in Italia e in Europa, Alfieri si appoggia sempre alla rete diplomatica, ai vari ambasciatori. È estate, il re non è a Parigi ma è in campagna, e quindi non c’è nemmeno l’ambasciatore piemontese (che è appunto alla corte in campagna) che quindi non poteva introdurlo. “La corte stava in Compiegne, e ci si dovea trattenere per tutto il settembre; onde non essendo allora in Parigi l'ambasciatore di Sardegna per cui aveva delle lettere, io non vi conosceva anima al mondo, altri che alcuni forestieri già da me incontrati e trattati in diverse città d'Italia. E questi neppure conosceano nessuna onesta persona in Parigi.” Le uniche persone che frequenta sono quelle che ha incontrato nei suoi viaggi, c’è questo elemento del Tour che fa sì che le stesse persone tu le potevi incontrare nelle tappe che tutti facevano, che erano le stesse. “Dunque cosí passava io il mio tempo fra i passeggi, i teatri, le ragazze di mondo, e il dolore quasi che continuo: e cosí durai sino al fin di novembre, tempo in cui da Fontainebleau si restituí l'ambasciatore a dimora in Parigi. Introdotto io allora da esso in varie case, principalmente degli altri ministri esteri, dall'ambasciatore di Spagna dove c'era un faraoncino, mi posi per la prima volta a giuocare.” Torna l’ambasciatore, che lo presenta in particolare all’ambasciatore spagnolo. Il Faraone è un gioco d’azzardo molto diffuso nel 700. Nel Caffè c’era stato un articolo con le probabilità sulle carte. “Faraoincino" perché si facevano delle puntate basse, per non perdere tutto. Ma subito subito anche il Faraone gli provoca noia. E anche Parigi, così riparte. “Ma senza notabile perdita né vincita mai, ben presto mi tediai anche del giuoco, come d'ogni altro mio passatempo in Parigi; onde mi determinai di partirne in gennaio per Londra; stufo di Parigi, di cui non conoscea pure altro che le strade; e sul totale già molto raffreddato nella smania di veder cose nuove; tutte sempre trovandole di gran lunga inferiori, non che agli enti immaginari ch'io mi era andati creando nella fantasia, ma agli stessi oggetti reali già da me veduti nei diversi luoghi d'Italia; talché in Londra poi terminai d'imparare a ben conoscere e prezzare e Napoli, e Roma, e Venezia, e Firenze.” Parigi e Londra non rispondevano alle idee che si aveva fatto, ma anzi aveva trovato le città italiane anche migliori. (anche se Londra la apprezzerà moltissimo) Prima di lasciare Parigi però ci parla del re di Francia. Ci racconta come essendo tutti i suoi rapporti mediati dall’ambasciatore, questo lo vuole presentare alla corte, seguendo una prassi usuale (quando c’erano importanti esponenti dei ceti più di alti di altri paesi di presentarli al re). Noi sappiamo qual è l’atteggiamento di Alfieri rispetto alle corti e al re, e quindi si piega a questa idea solo per non fare un torto alla buona educazione e all’ambasciatore. “Prima ch'io partissi per Londra, avendomi proposto l'ambasciatore di presentarmi a corte in Versailles, io accettai per una certa curiosità di vedere una corte maggiore delle già vedute da me sin allora, benché fossi pienamente disingannato su tutte.” La corte francese era la più grande di quelle che aveva già visto fin ora, ma ci va già “disingannato”. !52 nazioni ai forestieri. All’inizio Alfieri è molto contento di potere frequentare i salotti londinesi, dove lo trascina il suo nuovo compagno di viaggio, il nipote del principe. Ma ad un certo punto lui si annoia di fare questa vita così sociale e decide di fare qualcosa più consono al suo carattere e alle cose che gli piacciono: decide di fare il vetturino di questo suo amico, di guidare la carrozza con cui lo accompagna nei salotti e poi di andarsene. Gli piace guidare le carrozza per via di quella sua mania per i cavalli. Diventa lui stesso quasi un cocchiere, perché si fa credere un cocchiere e si comporta come tale, e quindi va anche nei parchi di Londra dove i cocchieri erano abituati a fare delle corse di carrozze tra di loro (I cocchiere accompagnavano i signori e poi non avevano nulla da fare nel frattempo). ! Questo lo diverte molto, e dice di essere stato molto bravo in queste gare, perché è riuscito a non rompere mai la carrozza e non danneggiare mai i cavalli. Un altro divertimento che ha è fare cavalcate tutte le mattine, e con questo suo amico va a fare delle gite fuori Londra, raggiungendo altre località, e si accorge che anche nelle località che non sono Londra trova diffuso lo stesso benessere: “Il paese mi piacque molto, e l'armonia delle cose diverse, tutte concordanti in quell'isola al massimo ben essere di tutti, m'incantò sempre piú fortemente; e fin d'allora mi nascea il desiderio di potervi stare per sempre a dimora;” Concepisce questo desiderio di vivere per sempre a Londra, che però non si realizzerà mai. Riscontra nel carattere degli inglesi che: “non che gli individui me ne piacessero gran fatto, (benché assai piú dei francesi, perché piú buoni e alla buona), ma il local del paese, i semplici costumi, le belle e modeste donne e donzelle, e sopra tutto l'equitativo governo, e la vera libertà che n'è figlia; tutto questo me ne faceva affatto scordare la spiacevolezza del clima, la malinconia che sempre vi ti accerchia, e la rovinosa carezza del vivere.” Questa equità del governo deriva dal fatto che sono ben separati i tre poteri. In Inghilterra vige il principio liberale dell’organizzazione dello stato. Dal governo equitativo deriva “la vera libertà”. Tutte queste caratteristiche positive sono quelle che lui diceva gli facevano scordare gli aspetti piacevoli dell’Inghilterra. Finito il soggiorno in Inghilterra va in Olanda, e la riflessione che fa è questa: “La Olanda è nell'estate un ameno e ridente paese; ma mi sarebbe piaciuta anche piú, se l'avessi visitata prima dell'Inghilterra; atteso che quelle stesse cose che vi si ammirano, popolazione, ricchezza, lindura, savie leggi, industria ed attività somma, tutte vi si trovano alquanto minori che in Inghitterra.” L’Olanda è una specie di copia dell’Inghilterra, la mercatura è sviluppata, il benessere è diffuso, ma in misura inferiore che in Inghilterra. Tra tutti questi paesi che visita l’Olanda è una vera repubblica (vera, perché lui chiama repubblica anche l’Inghilterra, che era una monarchia costituzionale). Dietro questo giudizio certamente il primo posto che spetta all’Inghilterra è così perché lui il miglior governo è la monarchia costituzionale, e non la repubblica. Il bilancio che fa di questo suo primo viaggio, fino a questo punto, è questo: “Ed in fatti poi, dopo molti altri viaggi e molta piú esperienza, i due soli paesi dell'Europa che mi hanno sempre lasciato desiderio di sé, sono stati l'Inghilterra e l'Italia; quella, in quanto l'arte ne ha per cosí dire soggiogata o trasfigurata la natura; questa, in quanto la natura sempre vi è robustamente risorta a fare in mille diversi modi vendetta dei suoi spesso tristi e sempre inoperosi governi.” Fa un confronto tra Inghilterra e Italia: le due forze predominanti in Inghilterra e Italia sono diverse: in Inghilterra l’arte e in Italia la natura. - L’arte è la capacità che hanno gli uomini di darsi da fare e di vincere in quel modo anche le difficoltà della natura. - La natura è quella forza istintiva che c’è dentro ai popoli, e che lui vede prosperosa in Italia, ma che in Italia deve combattere contro quei governi mal fatti. Ammira la capacità degli italiani, nonostante il governo, questa capacità naturale, questo istinto e forza, a risollevarsi sempre. Come dire che il vero problema dell’Italia è non avere governi che sappiamo sfruttare queste energia. In Inghilterra questa forza naturale è minore, ma loro riescono a costruirsi con l’arte dei governi buoni. Tra questa distinzione c’è il pensiero di Montesquieu, l’idea delle teorie climatiche: i popoli verrebbero influenzati nei loro caratteri dal meteo in cui vivono: tutti i popoli mediterranei hanno questo impulso naturale, una energia data dal fatto che hanno tanta luce, tanto sole e tanto calore. Gli inglesi sono popoli freddi, e riescono tuttavia, dandosi da fare con la ragione che attiva l’arte, a darsi governi buoni. !55 Dietro questo giudizio e questo confronto c’è anche un’idea che è assodata al suo tempo e che tra l’altro viene da quei libri di viaggio che aveva con se: lui non ci dice chi sono gli autori, ma noi sappiamo che chi aveva scritto libri di viaggio di Italia aveva sempre sottolineato questi elementi, e in particolare il fatto che l’Italia è abitata da un popolo con molta energia in sé, ma che ha dei governi pessimi. Il rimprovero più grande fatto dai viaggiatori stranieri è che gli italiani sono oppressi dal governo della chiesa: la chiesa li tiene sotto ad una cappa di arretratezza culturale che è il limite del modo di essere dell’Italia. Questo discorso sull’Italia approda a dire che gli italiani come popolo avrebbero tutte le risorse per avere un buon governo, ma non riescono. Gli inglesi e i popoli settentrionali sono meno attivi come risorse innate, ma riescono tuttavia a darsi buoni governi. Alfieri risiede per qualche tempo all’Haia, in Olanda. Qui ha la fortuna di entrare in amicizia con un personaggio che è un ambasciatore (del Portogallo): Don Iosé D'Acunha. Lui diventa un suo amico, entrano in confidenza, grazie a lui farà alcune letture molto importanti, perché è colui che gli regala “Il Principe” di Machiavelli. Inizierà a rendersi conto dell’importanza di questo libro quando ne approfondirà la lettura, ma lui lo inizia allo studio del pensiero politico. L’esperienza dell’Haia la ricorda con grande piacere anche per l’amore. Lui diventa l’amante di una giovane signora sposata. “Io dunque mi trovava felicissimo nell'Haia, dove per la prima volta in vita mia mi occorreva di non desiderare altra cosa al mondo nessuna, oltre l'amica, e l'amico. Amante io ed amico, riamato da entrambi i soggetti, traboccava da ogni parte gli affetti, parlando dell'amata all'amico, e dell'amico all'amata; e gustava cosí dei piaceri vivissimi incomparabili, e fino a quel punto ignoti al mio cuore, benché tacitamente pur sempre me li fosse egli andato richiedendo, e additando come in confuso.” Dentro di lui capisce che c’è sempre stata esigenza di amicizia e amore, ma non era mai riuscito a realizzarli. “Mille savi consigli mi dava continuamente quel degnissimo amico; e quello massimamente, di cui non perderò mai la memoria, si fu del farmi con destrezza ed efficacia arrossire della mia stupida oziosa vita, del non mai aprir un libro qualunque, dell'ignorar tante cose, e piú che altro i nostri, pur tanti e sí ottimi, italiani poeti ed i piú distinti (ancorché pochi) prosatori e filosofi.” Lui è portoghese, è un uomo colto, e gli chiede se non si vergogna di non conoscere i grandi poeti e prosatori dell’Italia, la sua nazione. E tra questi pochi prosatori, specialmente Machiavelli. “Tra questi, l'immortal Niccolò Machiavelli, di cui null'altro sapeva io che il semplice nome, oscurato e trasfigurato da quei pregiudizi con cui nelle nostre educazioni ce lo definiscono senza mostrarcelo, e senza averlo i detrattori di esso né letto, né inteso se pur mai visto l'hanno.” Di Machiavelli conosceva solo il nome, circondato da una cortina di condanna, di disprezzo, per via dell’educazione che aveva ricevuto. L’immagine che avevano dato a Machiavelli era quella di uno che insegna al principe ad essere la ragion di stato, che doveva passare sopra a tutto, che insegnava l’amoralità, il principe che deve essere crudele, che deve passare sopra bene e buono per affermare il suo potere. Questa era l’immagine data del principe, influente per molto tempo. Alfieri ci parla di questa immagine del principe così tramandata nei suoi precari studi perché il portoghese ha un’altra considerazione di Machiavelli, che Alfieri ritroverà ben affermata negli ambienti toscani che andrà frequentando, e cioè la reputazione repubblicana di Machiavelli: il principe non va letto alle lettera, ma pensando che Machiavelli abbia voluto rappresentare il principe in questa maniera per mettere in guardia il popolo contro il dispotismo del principe, Machiavelli non sta dalla parte del principe cattiva, ma da quella del popolo, a cui insegna i segreti di governo del principe, e insegna loro come difendersi. È un disvelamento di come funziona la politica che deve servire al popolo per non farsi opprime dal despota. Questa è la considerazione di Alfieri su Machiavelli, che uscirà più avanti nella sua vita. E dice che nelle scuole “lo definiscono senza dimostrarcelo”. “L'amico D'Acunha me ne regalò un esemplare, che ancora conservo, e che poi molto lessi, e alcun poco postillai, ma dopo molti e molti anni.” Questa edizione de “Il principe” viene conservata ancora oggi a Montpellier. Sopra ci scrisse una postilla dove c’è scritto come allora lui non avesse ancora gli strumenti per necessari per capire la lezione di Machiavelli, ma ad ogni modo vuole far risaltare l’azione del portoghese che lo sprona a studiare. Rimarrà con D'Acunha in corrispondenza epistolare, e avrà un ruolo importantissimo per la sua formazione. “Una stranissima cosa però (la quale io notai molto dopo, ma che allora vivamente sentii senza pure osservarla) si era, che io non mi sentiva mai ridestare in mente e nel cuore un certo desiderio di studi ed un certo impeto ed effervescenza d'idee creatrici, se non se in quei tempi in cui mi trovava il cuore fortemente !56 occupato d'amore; il quale, ancorché mi distornasse da ogni mentale applicazione, ad un tempo stesso me ne invogliava; onde io non mi teneva mai tanto capace di riuscire in un qualche ramo di letteratura, che allorquando avendo un oggetto caro ed amato mi parea di potere a quello tributare anco i frutti del mio ingegno.” Questo stato d’animo che lo occupa quando è all’Haia: lui ha vicino l’amico, e constata che nella sua vita è stato produttivo in letteratura quando il suo cuore è stato pieno d’amore, quando era innamorato. In questa fase è ancora un amore che lo travolge e non gli lascia la lucidità mentale per occuparsi negli studi, però sente più forte in se il desiderio di far qualcosa di buono nella vita. E dice che lo sprono dell’amore lo spingeva a scrivere opere letterarie anche perché nasceva in lui l’idea di scrivere quelle opere per dedicarle alla donna amata. “Ma quella mia felicità olandese non mi durò gran tempo. Il marito della mia donna, era un ricchissimo individuo il di cui padre era stato governatore di Batavia; egli mutava spessissimo luogo, ed avendo recentemente comprata una baronia negli Svizzeri, voleva andarvi a villeggiare in quell'autunno. Nell'agosto egli fece colla moglie un viaggietto all'acque di Spa; ed io dietro loro, non essendo egli gran fatto geloso. Nel tornare poi di Spa verso l'Olanda, si venne insieme sino a Mastricht, e là mi fu forza lasciarla, perché ella dovea andar in villa con la di lei madre, mentre il marito andava egli solo verso la Svizzera. Io non conosceva la di lei madre, e non v'era né pretesto né mezzo decente e plausibile per intromettermi in casa altrui. Codesta prima separazione mi spaccò veramente il cuore; ma rimanevaci pure ancora una qualche speranza di rivederci. Ed in fatti, tornato io all'Haia, e partito il marito per la Svizzera, di lí a pochi giorni ricomparí l'adorata donna nell'Haia. La mia contentezza fu somma, ma fu un lampo momentaneo. Dopo dieci giorni in cui veramente mi tenni ed era beato sopra ogni uomo, non sentendosi ella il cuore di dirmi qual giorno dovesse ripartire per la villa, né avendo io il coraggio di domandarglielo; una mattina ad un tratto mi venne a vedere l'amico D'Acunha, e nel dirmi ch'ell'era sforzatamente dovuta partire, mi diede una sua letterina che mi colpí a morte, benché tutta spirasse affetto ed ingenuità nell'annunziarmi l'indispensabile necessità in cui si trovava, di non poter piú senza scandalo differire la di lei partenza alla volta del marito, che le avea ingiunto di raggiungerlo. L'amico soavemente aggiungeva in voce, che non v'essendo rimedio, bisognava dar luogo alla necessità ed alla ragione.” Ci racconta poi come si svolge questo amore. Il marito viaggiava moltissimo, e quindi loro ne approfittavano per vedersi. Lui era un’amico che anche il marito conosceva. Arriva a pensare di suicidarsi, e fa un anche un tentativo, da cui viene salvato dal fido Elia, che si comporta in maniera tale da evitare che lui muoia dissanguato. “Non sarei forse reputato veridico, se io volessi annoverare tutte le frenesie dell'addolorato disperato mio animo. A ogni conto voleva io assolutamente morire, ma non articolai però mai tal parola a nessuno; e fingendomi ammalato perché l'amico mi lasciasse, feci chiamare il chirurgo perché mi cavasse sangue, venne, e me lo cavai. Uscito appena il chirurgo, io finsi di voler dormire, e chiusomi fra le cortine del letto io stava qualche minuti fra me ruminando a quello ch'io stava per fare, poi principiai a sfasciare la sanguigna avendo fermo in me di cosí dissanguarmi e perire. Ma quel non meno sagace che fido Elia, che mi vedea in tale violento stato, e che anche dall'amico era stato addottrinato prima di lasciarmi, simulando che io lo avessi chiamato mi tornò alla sponda del letto rialzando la cortina ad un tratto; onde io sorpreso e vergognoso ad un tempo, forse anche pentito o mal fermo nel mio giovenile proposto, gli dissi che la fasciatura mi s'era disfatta; egli finse di crederlo, e me la rifasciò, né piú mi volle perder di vista un momento. Ed anzi, fatto di nuovo cercar l'amico, egli corse da me, ed ambedue quasi mi sforzarono ad alzarmi da letto, e l'amico mi volle portare a casa sua dove mi vi trattenne per piú giorni, nei quali mai non mi abbandonò. Il mio dolore era cupo e taciturno; o sia che mi vergognassi, o che mi diffidassi, non l'ardiva esternare; onde o taceami, ovvero piangeva. Frattanto ed il tempo, e i consigli dell'amico, e le piccole divagazioni a cui egli mi costringeva, e un qualche raggio d'incerta speranza di poterla rivedere; di ritornare in Olanda l'anno dopo, e piú ch'ogni cosa forse la natural leggerezza di quella età di anni diciannove, mi andarono a poco a poco sollevando. Ed ancorché il mio animo non si risanasse per assai gran tempo, la ragione mi rientrò pure intera nello spazio di pochi giorni. Cosí alquanto rinsavito, ma dolentissimo, fermai di partire alla volta d'Italia, riuscendomi ingratissima la vista di un paese e di luoghi ai quali io ridomandava il mio bene perduto quasi ad un tempo che posseduto. Mi doleva però assaissimo di staccarmi da un tale amico; ma egli stesso, vedendomi sí gravemente piagato, mi incoraggí al partire, essendo ben convinto che il moto, la varietà degli oggetti, la lontananza ed il tempo infallibilmente mi guarirebbero. Verso il mezzo settembre mi separai dall'amico in Utrecht, dove mi volle accompagnare, e di donde per la via di Brusselles, per la Lorena, Alsazia, Svizzera, e Savoia non mi arrestai piú sino in Piemonte, altro che !57 dell'Ungheria. Ridivenuto oziosissimo, altro non faceva che andare attorno qua e là nelle diverse compagnie; ma sempre ben armato contro le insidie d'amore. ” Ha avuto questa esperienza amorosa che lo ha lasciato traumatizzato, quindi decide di “non innamorarsi”. Per distrarsi e non assecondare le sue pulsioni: “E mi era a questa difesa un fidissimo usbergo (=scudo) il praticare il rimedio commendato da Catone.” Il rimedio di Catone è quello che i giovani per difendersi d’amore o si danno alla castità o vanno con le prostitute. E quindi lui a Vienna va con molte prostitute, e infatti gli verrà la sifilide. Vediamo com’è sincero e autoironico. A Vienna c’è Metastasio, che è poeta cesario a Vienna, il poeta ufficiale della corte, stipendiato, e che era una specie di star. Metastasio è il poeta più famoso del mondo, perché è l’autore dei libretti di melodramma, e tutti i musicisti più famosi d’Europa scrivono musica per i libretti, e le sue opere vengono rappresentate ovunque. Ora sappiamo di Metastasio grazie all’epistolario che era una specie di nume, di dio, per coloro che scrivevano versi in Europa. Tutti scrivevano versi, e li mandavano a lui per avere un giudizio. Questo per dire che è un’autorità riconosciuta in poesia: era d’obbligo per un italiano (dato che Metastasio era italiano), passando per Vienna, andare a trovarlo e a rendergli omaggio. Alfieri di un personaggio così però pensa male, perché è un cortigiano. “Io avrei in quel soggiorno di Vienna potuto facilmente conoscere e praticare il celebre poeta Metastasio, nella di cui casa ogni giorno il nostro ministro, il degnissimo conte di Canale, passava di molte ore la sera in compagnia scelta di altri pochi letterati, dove si leggeva seralmente alcuno squarcio di classici o greci, o latini, o italiani.” Sarebbe stato facile andare da lui, perché l’ambasciatore era in ottimi rapporti con il poeta. Però lui aveva visto che Metastasio si era inchinato davanti alla regina, cosa orribile per Alfieri, che lo credeva un poeta venduto. “Ma io, oltre all'essere di natura ritrosa, era anche tutto ingolfato nel francese, e sprezzava ogni libro ed autore italiano. Onde quell'adunanza di letterati di libri classici mi parea dover essere una fastidiosa brigata di pedanti. Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasio a Schoenbrunn nei giardini imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia sí servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa (=poeta) appigionata o venduta all'autorità despotica da me sí caldamente abborrita.” C’è un lessico antitrannico. “In tal guisa io andava a poco a poco assumendo il carattere di un salvatico pensatore;” non si inchina a questi usi. “e queste disparate accoppiandosi poi con le passioni naturali all'età di vent'anni e le loro conseguenze naturalissime, venivano a formar di me un tutto assai originale e risibile.” C’è autoironia: sottolinea il fatto che è anticonformista, un personaggio al di fuori dei ranghi, comprende di essere diverso da tutti, e con autoironia si dice anche “risibile”, ridicolo. Il capitolo nono è quello che riguarda il viaggio che porta alfieri in Prussia e in Russia. Nel capitolo successivo torna in Inghilterra con il suo secondo intoppo amoroso. Nell’andare da Stoccolma a Pietroburgo, Alfieri si era appassionato dello viaggiare in slitta. Per procedere attraverso luoghi viaggiati deve togliere le ruote dalla carrozza per farla procedere su dei pattini. Qui ci racconta di una avventura in mezzo ai ghiacci, che gli serve per avvicinarsi alla Finlandia e a Pietroburgo, che è interessante perché da questa esperienza lui ne trae delle riflessioni su questi inconsueti (per un cittadino dell’Europa meridionale) paesaggi nordici. Questi paesaggi lo mettono a contatto con un paesaggio anti-idillico, è un paesaggio scabro, molto desolato, dove la presenza dell’uomo è molto limitata e che va nella direzione di quel bello-orrido, di quel bello-sublime che diventerà la caratteristica dell’estetica romantica, che riconosce il bello anche nei paesaggi alpini, nei dirupi delle alpi, nei ghiacci, nei paesaggi paurosi che si aprono in certi posti. Un paesaggi di questo tipo è quello di Foscolo in una delle ultime lettere di Jacopo Ortis, che portano al suicidio di Jacopo, dove lui descrive il paesaggio terroroso, pieno di segnali di morte, che lo avvince prima del passo fatale. Alfieri, dopo avere fatto una visita ad una università in Svezia e dopo aver visitato le miniere di ferro di quelle zone, ci racconta di essere giunto di essere punto in un posto “Grisselhamna”. !60 Di questa avventura dei viaggi abbiamo una testimonianza diretta in una lettera che Elia scrive alla sorella di Alfieri, in cui le descrizioni coincidono. “Giunto a Grisselhamna, porticello della Svezia su la spiaggia orientale, posto a rimpetto dell'entrata del golfo di Botnia, trovai da capo l'inverno, dietro cui pareva ch'io avessi appostato di correre.” Lui si era allontanato dall’inverno all’inizio dello scioglimento dei ghiacci, e si ritrova invece in un paese in inverno, ed è come se lo avesse inseguito. “Era gelato gran parte di mare, e il tragitto dal continente nella prima isoletta (che per cinque isolette si varca quest'entratura del suddetto golfo) attesa l'immobilità totale dell'acque, riusciva per allora impossibile ad ogni specie di barca.” è tutto immobile e le barche sono ferme per via del ghiaccio. Deve aspettare tre giorni, finché si alza un tempo più tiepido che inizia a far crepare il ghiaccio. “Mi convenne dunque aspettare in quel tristo luogo tre giorni, finché spirando altri venti cominciò quella densissima crostona a screpolarsi qua e là, e far crich, come dice il poeta nostro,” Come dici Dante per rendere il rumore che fa il ghiaccio del Lago Cocito nell’ultima parte dell’Inferno. “quindi a poco a poco a disgiungersi in tavoloni galleggianti, che alcuna viuzza pure dischiudevano a chi si fosse arrischiato d'intromettervi una barcuccia.” il ghiaccio si rompe e uno poteva, volendo, infilarsi con una barca attraverso i ghiacci e attraversare le acque. E lui lo fa, perché vede arrivare un pescatore che arriva dall’isoletta che deve raggiungere. “Ed in fatti il giorno dopo approdò a Grisselhamna un pescatore venente in un battelletto da quella prima isola a cui doveva approdar io, la prima; e disseci il pescatore che si passerebbe, ma con qualche stento. Io subito volli tentare, benché avendo una barca assai piú spaziosa di quella peschereccia, poiché in essa vi trasportava la carrozza, l'ostacolo veniva ad essere maggiore;” Nonostante la sua barca fosse più grossa del pescatore lui voleva lo stesso tentare il viaggio. “ma però era assai minore il pericolo, poiché ai colpi di quei massi nuotanti di ghiaccio dovea piú robustamente far fronte un legno grosso che non un piccolo.” Era un mare orrido, che incuteva terrore, non era quello che aveva visto a Napoli, a Marsiglia, a Genova, a Livorno. Questo è mare diverso. Però è propio questo l’orrido che finisce con l’attrarlo. “E cosí per l'appunto accadde. Quelle tante galleggianti isolette rendevano stranissimo l'aspetto di quell'orrido mare che parea piuttosto una terra scompaginata e disciolta, che non un volume di acque;” sembra una crosta terrestre rotta da una eruzione sotterranea. “ma il vento essendo, la Dio mercè, tenuissimo, le percosse di quei tavoloni nella mia barca riuscivano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro gran copia e mobilità spesso li facea da parti opposte incontrarsi davanti alla mia prora, e combaciandosi, tosto ne impedivano il solco; e subito altri ed altri vi concorreano, ed ammontandosi facean cenno di rimandarmi nel continente.” I lastroni cozzavano davanti alla sua barca, si riunivano, e impedivano che la barca facesse il solco attraverso i viaggi. Quindi dovevano scendere e spaccare con le asce il ghiaccio. “Rimedio efficace ed unico, veniva allora ad essere l'ascia, castigatrice d'ogni insolente. Piú d'una volta i marinai miei, ed anche io stesso scendemmo dalla barca sovra quei massi, e con delle scuri si andavano partendo, e staccando dalle pareti del legno, tanto che desser luogo ai remi e alla prora; poi risaltati noi dentro coll'impulso della risorta nave, si andavano cacciando dalla via quegli insistenti accompagnatori;” Rende la dinamica velocissima: scendono, spaccano il ghiaccio, quando il ghiaccio si muove risalgono sulla barca e continuano con le mani ad allontanare dalla barchetta i pezzi di viaggio. “e in tal modo si navigò il tragitto primo di sette miglia svezzesi in dieci e piú ore.” procedettero molto lentamente. “La novità di un tal viaggio mi divertí moltissimo; ma forse troppo fastidiosamente sminuzzandolo io nel raccontarlo, non avrò egualmente divertito il lettore. La descrizione di cosa insolita per gl'italiani, mi vi ha indotto. Fatto in tal guisa il primo tragitto, gli altri sei passi molto piú brevi, ed oltre ciò oramai fatti piú liberi dai ghiacci, riuscirono assai piú facili.” Dice che forse avrà annoiato il lettore con questo racconto, ma l’ha fatto perché è qualcosa che non cadrà mai sotto l’esperienza degli italiani. “Sminuzzandolo” richiama anche l’idea di quello che ha appena fatto nell’avventura. !61 “Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d'Europa che mi siano andati piú a genio, e destate piú idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell'atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuor del globo.” Abbiamo una riflessione generale su com’è quel paesaggio insolito per gli italiani e su come a lui piaccia quel paesaggio. La ripercussione sulla sua sensibilità è che nel suo essere un paesaggio così duro e ruvido, la Svezia è uno dei paesi d’Europa che gli sono piaciuti di più, perché gli hanno destato più idee fantastiche, malinconiche e grandiose. Questo amore per i paesaggi desertici, che impaurisce anche, crea piacere dentro di lui, e gli fa sorgere una serie di sensazioni che sono dovute all’apprezzamento che lui ha di quell’”indefinibile silenzio” che ti porta fuori dal mondo. Alfieri aveva, a proposito di questo senso dell’infinito, fatto delle riflessioni in presenza del mare, e aveva fatto che degli studi astronomici, innamorandosi della contemplazione degli astri, di mandare la sua fantasia verso questi vasti silenzi, che ritrova ora in questo genere di paesaggio. Il paesaggio in Svezia è il ricordo più bello che lui ha nelle terre nordiche. Successivamente avremo un’esperienza molto negativa, quella della Russia. È dovuta a riflessioni di carattere politico: in quel momento, quando lui va a vistare la Russia, siamo nel 1770 e c’è Caterina II, la zarina che è apprezzata in tutta europa dagli illuministi perché è una despota riformatrice, è l’imperatrice che vuole tirare fuori la Russia dal medioevo nella quale è ancora immersa, e per far questo si ispira alle idee degli illuminati francesi, e fa addirittura venire in Russia molti di loro. Si crea in tutta europa un mito verso Caterina II, una imperatrice illuminata che rimette la Russia su un livello di incivilimento. Questo mito è completamente sfatato da Alfieri, che viaggiando in Russia constata come sia ancora avvolta nella barbarie medievale. La Russia moderna è ancora quella dei tartari del medioevo, è così arrestata perché il tipo di governo che Caterina adotta è dispotico e autocratico. In più Caterina II è un personaggio spregevole, amante del potere, che per affermare il suo potere unico è arrivata anche a fare uccidere il proprio marito. Tutti i giudizi che Alfieri esprime a proposito di Caterina II e del suo modo di governare coincidono perfettamente con l’idea della Russia che viene fuori da un poema scritto da Gianbattista Casti, un poeta che è succederà nella carica di poeta cesario a Metastasio. È riconosciuto perché di lui è stata mandata un’immagine negativa da un sonetto di Parini, che aveva scritto male di lui perché Casti era soprattutto noto per avere scritto dei testi erotici, e in più era una persona moralmente discutibile, soprattutto agli occhi di Parini (un prete), perché questo personaggio era stato malato di sifilide, e aveva il volto deformato da questa malattia. Questo Casti in realtà era un poeta interessante, che aveva scritto anche un poema che si intitola “Poema tartaro” che è la descrizione satirica del regno di Caterina II. Non potendo dire male direttamente di Caterina II, Casti aveva ambientato la sua narrazione nella Russia dei tartari, cioè nella Russia del tempo antico del medioevo, ma fingendo di parlare della Russia del medioevo, faceva ironia sulla Russia di Caterina II, infierendo contro la sua malvagità, che aveva fatto fuori il marito per il potere e aveva sempre governato appoggiandosi a personaggi di rilevo che provenivano dal esercito russo. Era quindi una donna che aveva molti amanti, e questi amanti erano suoi uomini di corte. Tutto questo giudizio negativo su di lei, sia politicamente che moralmente, presente in Casti, di cui Alfieri era a conoscenza, si ritrova appunto nel giudizio dello stesso Alfieri. Prima di tutto politicamente, che ruota intorno all’idea che la Russia continui ad essere una nazione medioevale e barbare, e per quanto l’imperatrice faccia la filosofa e moderna, i russi continuano ad essere dei barbari che, sotto il governo di Caterina, cercano di imitare i costumi europei, ma continuano ad essere lo stesso arretrati, e questa imitazione dei costumi europei è soltanto una parvenza. “Io aveva letta la storia di Pietro il Grande nel Voltaire; mi era trovato nell'Accademia di Torino con vari moscoviti, ed avea udito magnificare assai quella nascente nazione.” Anche all’accademia lui aveva sentito parlare di Pietro il Grande prima e di Caterina poi. “Onde, queste cose tutte, ingrandite poi anche dalla mia fantasia che sempre mi andava accattando nuovi disinganni, mi tenevano al mio arrivo in Pietroborgo in una certa straordinaria palpitazione dell'aspettativa.” lui tendeva a crearsi delle aspettative che venivano poi deluse e arrivò infatti a Mosca pieno di aspettative. “Ma, oimè, che appena io posi il piede in quell'asiatico accampamento di allineate trabacche, ricordatomi allora di Roma, di Genova, di Venezia, e di Firenze mi posi a ridere.” di fronte a quella arretratezza, messa a confronto con l’Italia, gli veniva da ridere. !62 “In tale orribile stato io vissi circa cinque mesi, finché finalmente scoppiò la bomba nel modo seguente. Piú volte già in diverse ore del giorno con grave rischio d'ambedue noi io era stato da essa stessa introdotto in casa; inosservato sempre, attesa la piccolezza delle case di Londra, e il tenersi le porte chiuse,” nei palazzi è difficile passare inosservati, mentre in quelle piccole case di Londra era più facile entrare, e l’abitudine delle case inglesi era quello di far vivere la servitù nei sotterranei, e quindi lei non aveva difficoltà a farlo entrare. “e la servitú stare per lo piú nel piano sotterraneo, il che dà campo di aprirsi la porta di strada da chi è dentro, e facilmente introdursi l'estraneo ad una qualche camera terrena contigua immediatamente alla porta. Quindi quelle mie introduzioni di contrabbando erano tutte francamente riuscite; tanto piú ch'era in ore ove il marito era fuor di casa, e per lo piú la gente di servizio a mangiare. Questo prospero esito ci inanimí a tentare maggiori rischi. Onde, venuto il maggio, avendola il marito condotta in una villa vicina, sedici miglia di Londra, per starci otto o dieci giorni e non piú, subito si appuntò il giorno e l'ora in cui parimente nella villa verrei introdotto di furto;” decidono il giorno e l’ora in cui lui andrà anche nella villa. “e si colse il giorno d'una rivista delle truppe a cui il marito, essendo uffiziale delle guardie, dovea intervenir senza fallo, e dormire in Londra. Io dunque mi ci avviai quella sera stessa soletto, a cavallo; ed avendo avuto da essa l'esatta topografia del luogo, lasciato il mio cavallo ad un'osteria distante circa un miglio dalla villa, proseguii a piedi, sendo già notte, fino alla porticella del parco, di dove introdotto da essa stessa passai nella casa, non essendo, o credendomi tuttavia non essere, stato osservato da chi che fosse. Ma cotali visite erano zolfo sul fuoco, e nulla ci bastava se non ci assicurava del sempre.” volevano dare stabilità agli incontri. “Si presero dunque alcune misure per replicare e spesseggiar quelle gite, finché durasse la villeggiatura breve, disperatissimi poi se si pensava alla villeggiatura imminente e lunghissima che ci sovrastava.” in quegli otto/dieci giorni cercarono di vedersi il più possibile prima che lei dovesse andarsene. “Ritornato io la mattina dopo in Londra, fremeva e impazziva pensando che altri due giorni dovrei stare senza vederla, e annoverava l'ore e i momenti. Io viveva in un continuo delirio, inesprimibile quanto incredibile da chi provato non l'abbia, e pochi certamente l'avranno provato a un tal segno. Non ritrovava mai pace se non se andando sempre, e senza saper dove; ma appena quetatomi o per riposarmi, o per nutrirmi, o per tentar di dormire, tosto con grida ed urli orribili era costretto di ribalzare in piedi, e come un forsennato mi dibatteva almeno per la camera, se l'ora non permetteva di uscire.” il suo innamoramento è fortissimo. “Aveva piú cavalli, e tra gli altri quel bellissimo comprato a Spa, e fatto poi trasportare in Inghilterra. E su quello io andava facendo le piú pazze cose, da atterrire i piú temerari cavalcatori di quel paese, saltando le piú alte e larghe siepi di slancio, e fossi stralarghi, e barriere quante mi si affacciavano. Una di quelle mattine intermedie tra una e l'altra mia gita in quella sospirata villa, cavalcando io col marchese Caraccioli, volli fargli vedere quanto bene saltava quel mio stupendo cavallo, e adocchiata una delle piú alte barriere che separava un vasto prato dalla pubblica strada, ve lo cacciai di carriera;” Voleva mostrare quanto è bravo a cavallo, ma cade, si rompe la clavicola, e nonostante questo lui vuole andare a trovarla. “La slogatura del braccio era accaduta nella mattina del sabato; pazientai per quel giorno, e la domenica, sino verso la sera, onde quel poco di riposo mi rendé alcuna forza nel braccio, e piú ardire nell'animo. Onde verso le ore sei del giorno mi volli a ogni conto alzare, e per quanto mi dicesse il mio semi-aio Elia, entrai alla meglio in un carrozzino di posta soletto, e mi avviai verso il mio destino. Il cavalcare mi si era fatto impossibile atteso il dolore del braccio, e l'impedimento della stringatissima fasciatura, onde non dovendo né potendo arrivare sino alla villa in quel carrozzino col postiglione, mi determinai di lasciare il legno alla distanza di circa due miglia, e feci il rimanente della strada a piedi con l'un braccio impedito, e l'altro sotto il pastrano con la spada impugnata, andando solo di notte in casa d'altri, non come amico. La scossa del legno mi avea frattanto rinnovato e raddoppiato il dolore della spalla, e scompostami la fasciatura a tal segno che la spalla in fatti non si riallogò poi in appresso mai piú.” la spalla con questi strapazzi peggiora. “Pareami pur tuttavia di essere il piú felice uomo del mondo avvicinandomi al sospirato oggetto. Arrivai finalmente, e con non poco stento (non avendo l'aiuto di chicchessia, poiché dei confidenti non v'era) pervenni pure ad accavalciare gli stecconi del parco per introdurmivi, poiché la porticella che la prima volta ritrovai socchiusa, in quella seconda mi riuscí inapribile. Il marito, al solito per cagione della rivista dell'indomani lunedí, era ito anche quella sera a dormire in Londra. Pervenni dunque alla casa, trovai chi mi vi aspettava, e senza molto riflettere né essa né io all'accidente dell'essersi ritrovata chiusa la porticella !65 ch'essa pure avea già piú ore prima aperta da sé, mi vi trattenni fino all'alba nascente. Uscitone poi nello stesso modo, e tenendo per fermo di non essere stato veduto da anima vivente, per la stessa via fino al mio legno, e poi salito in esso mi ricondussi in Londra verso le sette della mattina assai mal concio fra i due cocentissimi dolori dell'averla lasciata e di trovarmi assai peggiorata la spalla. Ma lo stato dell'animo mio era sí pazzo e frenetico, ch'io nulla curava qualunque cosa potesse accadere, prevedendole pure tutte. Mi feci dal chirurgo ristringere di nuovo la fasciatura senza altrimenti toccare al riallogamento o slogamento che fosse. E martedí sera trovatomi alquanto meglio, non volli neppur piú stare in casa, e andai al Teatro Italiano nel solito palco del principe di Masserano, che vi era con la sua moglie, e che credendomi mezzo stroppio ed in letto, molto si maravigliarono di vedermi col solo braccio al collo.” Andando a teatro, il marito apre la porta del palco del teatro, se lo trova di fronte. “Io, per un semplice moto machinale, balzo alla porta, l'apro, e richiudola dietro di me in un attimo, e agli occhi mi si presenta il marito della mia donna, che stava aspettando che di fuori gli venisse aperto il palco chiuso a chiave da quegli usati custodi dei palchi, che nei teatri inglesi si trattengono a tal effetto nei corridoi. Io già piú e piú volte mi era aspettato a quest'incontro, e non potendolo onoratamente provocare io primo, l'avea pure desiderato piú che ogni cosa al mondo. Presentatomi dunque in un baleno fuori del palco, le parole furon queste brevissime, «Eccomi qua» gridai io. «Chi mi cerca?» «Io,» mi rispos'egli, «la cerco, che ho qualche cosa da dirle.» «Usciamo,» io replico; «sono ad udirla.» Né altro aggiungendovi, uscimmo immediatamente dal teatro. Erano circa le ore ventitré e mezzo d'Italia; nei lunghissimi giorni di maggio cominciando in Londra i teatri verso le ventidue. Dal Teatro dell'Haymarket per un assai buon tratto di strada andavamo al Parco di San Giacomo, dove per un cancello si entra in un vasto prato, chiamato Green-Park. Quivi, già quasi annottando, in un cantuccio appartato si sguainò senza dir altro le spade.” Il marito lo sfida a duello. “Era allor d'uso il portarla anch'essendo infrack, onde io mi era trovato d'averla, ed egli appena tornato di villa era corso da uno spadaio a provvedersela. A mezzo la via di Pallmall che ci guidava al Parco San Giacomo, egli due o tre volte mi andò rimproverando ch'io era stato piú volte in casa sua di nascosto, ed interrogavami del come. Ma io, malgrado la frenesia che mi dominava, presentissimo a me, e sentendo nell'intimo del cuor mio quanto fosse giusto e sacrosanto lo sdegno dell'avversario, null'altro mai mi veniva fatto di rispondere, se non se: «Non è vera tal cosa; ma quand'ella pure la crede son qui per dargliene buon conto». Ed egli ricominciava ad affermarlo, e massimamente di quella mia ultima gita in villa egli ne sminuzzava sí bene ogni particolarità, ch'io rispondendo sempre, «Non è vero», vedea pure benissimo ch'egli era informato a puntino di tutto. Finalmente egli terminava col dirmi: «A che vuol ella negarmi quanto mi ha confessato e narrato la stessa mia moglie?». Strasecolai di un sí fatto discorso, e risposi (benché feci male, e me ne pentii poi dopo): «Quand'ella il confessi, non lo negherò io». Ma queste parole articolai, perché oramai era stufo di stare sí lungamente sul negare una cosa patente e verissima; parte che troppo mi ripugnava in faccia ad un nemico offeso da me; ma pure violentandomi, lo faceva per salvare, se era possibile, la donna. Questo era stato il discorso tra noi prima di arrivar sul luogo ch'io accennai. Ma allorché nell'atto di sguainar la spada, egli osservò ch'io aveva il manco braccio sospeso al collo, egli ebbe la generosità di domandarmi se questo non m'impedirebbe di battermi. Risposi ringraziandolo, ch'io sperava di no, e subito lo attaccai. Io sempre sono stato un pessimo schermidore; mi ci buttai dunque fuori d'ogni regola d'arte come un disperato; e a dir vero io non cercava altro che di farmi ammazzare. Poco saprei descrivere quel ch'io mi facessi, ma convien pure che assai gagliardamente lo investissi, poiché io al principiare mi trovava aver il sole, che stava per tramontare, direttamente negli occhi a segno che quasi non ci vedeva; e in forse sette o otto minuti di tempo io mi era talmente spinto innanzi ed egli ritrattosi e nel ritrarsi descritta una curva sí fatta, ch'io mi ritrovai col sole direttamente alle spalle. Cosí, martellando gran tempo, io sempre portandogli colpi, ed egli sempre ribattendoli, giudico che egli non mi uccise perché non volle, e ch'io non lo uccisi perché non seppi. Finalmente egli nel parare una botta, me ne allungò un'altra e mi colse nel braccio destro tra l'impugnatura ed il gomito, e tosto avvisommi ch'io era ferito; io non me n'era punto avvisto, né la ferita era in fatti gran cosa. Allora abbassando egli primo la punta in terra, mi disse ch'egli era soddisfatto, e domandavami se lo era anch'io. Risposi, che io non era l'offeso, e che la cosa era in lui. Ringuainò egli allora, ed io pure. Tosto egli se n'andò; ed io, rimasto un altro poco sul luogo voleva appurare cosa fosse quella mia ferita; ma osservando l'abito essere, squarciato per lo lungo, e non sentendo gran dolore, né sentendomi sgocciolare gran sangue la giudicai una scalfittura piú che una piaga.” Ritorna a teatro. “mi venne la pazza voglia puerile di rientrare al Teatro, e nel palco donde avea preso le mosse. Tosto entrando fui interrogato dal principe di Masserano, perché io mi fossi scagliato cosí pazzamente fuori del suo palco, e dove fossi stato. Vedendo che non aveano udito nulla del breve diverbio seguito fuori del loro palco, dissi che mi era sovvenuto a un tratto di dover parlar con qualcuno, e che perciò era uscito cosí: né altro dissi. Ma per quanto mi volessi far forza, il mio animo trovavasi pure in una estrema agitazione, !66 pensando qual potesse essere il seguito di un tal affare, e tutti i danni che stavano per accadere all'amata mia donna. Onde dopo un quarticello me n'andai, non sapendo quel che farei di me. Uscito dal Teatro mi venne in pensiero (già che quella ferita non m'impediva di camminare) di portarmi in casa d'una cognata della mia donna, la quale ci secondava, e in casa di cui ci eramo anche veduti qualche volta. Opportunissimo riuscí quel mio accidentale pensiero, poiché entrando in camera di quella signora il primo oggetto che mi si presentò agli occhi, fu la stessa stessissima donna mia.” Penelope gli dice che il marito lo sospettava fino dall’inizio. “Ella dunque mi disse, che il marito sin dal primo mio viaggio in villa n'avea avuta la certezza, dalla persona in fuori; avendo egli saputo soltanto che qualcun c'era stato, ma nessuno mi avea conosciuto. Egli avea appurato, che era stato lasciato un cavallo tutta la notte in tale albergo, tal giorno, e ripigliato poi in tal ora da persona che largamente avea pagato, né articolato una sola parola. Perciò all'occasione di questa seconda rivista, avea segretamente appostato alcun suo familiare perché vegliasse, spiasse, ed a puntino poi lunedí sera al suo ritorno gli desse buon conto d'ogni cosa.” La seconda volta che Alfieri era andato nella villa era stato spiato da un uomo di fiducia del marito. “Egli era partito la domenica il giorno, per Londra; ed io come dissi, la domenica al tardi di Londra per la villa sua, dove era giunto a piedi su l'imbrunire. La spia (o uno o piú ch'ei si fossero), mi vide traversare il cimitero del luogo, accostarmi alla porticella del parco, e non potendola aprire, accavalciarne gli stecconi di cinta. Cosí poi m'avea visto uscire su l'alba, ed avviarmi a piedi su la strada maestra verso Londra. Nessuno si era attentato né di mostrarmisi pure, non che di dirmi nulla; forse perché vedendomi venire in aria risoluta con la spada sotto il braccio, e non ci avendo essi interesse proprio, gli spassionati non si pareggiando mai cogli innamorati, pensarono esser meglio di lasciarmi andare a buon viaggio. Ma certo si è, che se all'entrare o all'uscire a quel modo ladronesco dal parco, mi avessero voluto in due o tre arrestare, la cosa si riducea per me a mal partito; poiché se tentava fuggire, avea aspetto di ladro, se attaccarli o difendermi, aveva aspetto di assassino: ed in me stesso io era ben risoluto di non mi lasciar prender vivo. Onde bisognava subito menar la spada, ed in quel paese di savie e non mai deluse leggi queste cose hanno immancabilmente severissimo gastigo.” In questa vicenda trova l’occasione per dire che in quel paese le leggi funzionavano. “Inorridisco anche adesso, scrivendolo: ma punto non titubava io nell'atto d'espormivi. Il marito dunque nel ritornare il lunedí giorno in villa, già dallo stesso mio postiglione, che alle due miglia di là mi avea aspettato tutta notte, gli venne raccontato il fatto come cosa insolita, e dal ritratto che gli avea fatto di mia statura, forme, e capelli, egli mi avea benissimo riconosciuto. Giunto poi a casa sua, ed avuto il referto della sua gente, ottenne al fine la tanto desiderata certezza dei danni suoi.” In questo modo il marito può andare a sfidarlo a teatro in un duello. Alfieri ci sta parlando del secondo dei tre intoppi amorosi (amori sbagliati) che precedono la sua conversione letteraria. Sono questi amori frutto dell’ozio, c’è uno stretto rapporto tra l’insorgere di questi amori e un vuoto che c’è nella sua mente, che non trova nessuna occupazione di carattere intellettuale. Una volta che la sua mente sarà piena di altri pensieri, e in particolare della volontà di dare un senso alla propria vita, cioè diventare poeta, questi amori cesseranno, e si aprirà la strada per l’incontro amoroso più importante della sua vita. A Londra è in mezzo ad una vicenda amorosa che assume anche risvolti drammatici, perché viene sfidato a duello al marito della ragazza. Il marito chiederà il divorzio, e Alfieri nutre l’idea di subentrare a questo marito, cioè di sposare Penelope Pit. Ma in realtà questo non avverrà perché questo amore così dirompente sarà ghiacciato da quello che, nel capitolo undicesimo, Alfieri chiama “il disinganno orribile”: questa donna gli confesserà di avere avuto un altro amante, un palafreniere, e questo fatto la trasforma agli occhi di Alfieri, gliela fa vedere come non più degna del suo amore. Nel capitolo undici dell’epoca terza, ci riferisce Alfieri il colloquio che si svolge tra i due, e il momento del suo fierissimo disinganno. Alfieri è reduce dalle ferite che ha subito nel duello, ma anche da una bravata che ha compiuto facendo delle bravate con il cavallo, dove cadendo si era rotto la clavicola. “Io dunque, dopo una sí penosa giornata, rinfrancato da molte ore di placidissimo sonno, rimedicate alle meglio le mie due ferite, di cui quella della spalla mi dolea piú che mai, e l'altra sempre meno, subito corsi !67 Nel fare questo viaggio ripassa per Parigi, che gli rifà una brutta intenzione. Ciò che ci dice questa volta di Parigi (dove si trattiene prima di andare in Spagna perché la faceva troppo caldo) era che aveva avuto l’occasione di incontrare Rousseau, perché un italiano suo conoscente aveva stretti rapporti con lui. Quindi, questo suo amico italiano voleva condurlo dal famoso filosofo. L’amico conviene Rousseau dicendo che tra Alfieri e Rousseau si sarebbero intesi, c’era una somiglianza di carattere. Non lo stima tanto per i suoi libri (aveva già letto i libri ↑), perché gli sembrano “figli di affettazione e di stento”. “Quest'italiano mi ci volea assolutamente introdurre, entrandomi mallevadore che ci saremmo scambievolmente piaciuti l'uno l'altro, Rousseau ed io. Ancorché io avessi infinita stima del Rousseau piú assai per il suo carattere puro ed intero e per la di lui sublime e indipendente condotta, che non pe' suoi libri, di cui que' pochi che avea potuti pur leggere mi aveano piuttosto tediato come figli di affettazione e di stento; con tutto ciò, non essendo io per mia natura molto curioso, né punto sofferente, e con tanto minori ragioni sentendomi in cuore tanto piú orgoglio e inflessibilità di lui; non mi volli piegar mai a quella dubbia presentazione ad un uomo superbo e bisbetico, da cui se mai avessi ricevuta una mezza scortesia glie n'avrei restituite dieci, perché sempre cosí ho operato per istinto ed impeto di natura di rendere con usura sí il male che il bene. Onde non se ne fece altro.” Questo ritratto di Rousseau parte da una considerazione positiva, una stima del carattere che nelle Confessioni si era manifestata anche troppo, un’autostima che si riversava sugli avversari in maniera violenta; questo gli fa dire che alla fine Rousseau gli pare superbo e bisbetico, che usa male quell’alta considerazione di se, e quindi non lo vuole incontrare. A Parigi compra anche una raccolta di tutti i maggiori poeti e prosatori italiani, una collezione completa, in trentasei piccoli volumi (più comode da trasportare). Tuttavia, benché lo accompagnino del proseguo dei suoi viaggi, non frequenta molto queste lettere. Le legge ma non ne approfondisce lo studio. Sono i classici italiani, non ci dice esattamente quali sono (ma intuiamo Dante, Boccaccio, Petrarca). Tra questi ci sono anche autori che non conosceva, risalenti 500/600, di poesia burlesca: ci dice che questo genere di poesia lo imparerà una volta affinate le sue capacità di lettura dei testi letterari e che dice che non meritano di essere apprezzate. “poemi, dei quali molti anni dopo deplorai la triviale facilità, e la fastidiosa abbondanza.” È un giudizio condivisibile, perché questi poemi vogliono far ridere, sono molto prolissi, molto lunghi (abbondanza) e sono testi piuttosto facili, che spesso vogliono far ridere in modo troppo popolaresco, con un livello stilistico troppo basso. Accanto a questi però ci sono autori di livello, e lui dice che: “Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Boccaccio e Machiavelli; e di cui (pur troppo per mia disgrazia e vergogna) io era giunto all'età di circa ventidue anni senza averne punto mai letto, toltone alcuni squarci dell'Ariosto nella prima adolescenza essendo in Accademia, come mi pare di aver detto a suo luogo.” Passando per Parigi, si avvia poi verso metà agosto per la Spagna. La prima città che vede è Barcellona, e l’impressione più significativa è che ha della Spagna è quella che avrà quando si pone in via per Madrid, e attraversa i deserti dell’Aragona, che lo impressionano molto, come avevano fatto le distese di ghiacci della Svezia. Nel fare questi viaggi, questo attraversamento del deserto all’interno della Spagna, lui assume una certa parvenza donchisciottesca, che si rileva da quello che ci dice: dice che trovandosi in Spagna vuole provare a leggere in spagnolo il Don Chisciotte, che già aveva letto in francese. E si descrive mentre attraversa il deserto in compagnia dei suoi servi, affiancato anche dal fede Elia. Senza che lui espliciti questo paragone, le figure di lui e di Elia finiscono con somigliare al Don Chisciotte e Sancho Panza. “Postomi in via per Saragozza e Madrid, mi andava a poco a poco avvezzando a quel nuovissimo modo di viaggiare per quei deserti; dove chi non ha molta gioventú, salute, danari e pazienza, non ci può resistere.” Era un viaggio faticoso, per niente comodo, che si può affrontare solo da giovani, con molte energie, con denaro e pazienza. Tra l’altro, i posti dove ci si ferma a riposare sono poveri, poco forniti. “Pure io mi vi feci in quei quindici giorni di viaggio sino a Madrid in maniera che poi mi tediava assai meno l'andare, che il soggiornare in qualunque di quelle semibarbare città: ma per me l'andare era sempre il massimo dei piaceri; e lo stare il massimo degli sforzi; cosí volendo la mia irrequieta indole.” le città spagnole gli sembrano molto povere. Ma in quel modo di viaggiare trova piacere. !70 “Quasi tutta la strada soleva farla a piedi col mio bell'andaluso accanto, che mi accompagnava come un fedelissimo cane, e ce la discorrevamo fra noi due;” Lui va a piedi tenendo il cavallo per le briglie, che lo accompagna come un fedelissimo cane. Parla con questo cavallo, che ha comprato in Spagna. Lui ama la solitudine, e qui lo vediamo, è immerso in un paesaggio desolato, e quindi gli viene spontaneamente di parlare con il cavallo. “ed era il mio gran gusto d'essere solo con lui in quei vasti deserti dell'Arragona;” “perciò sempre facea precedere la mia gente col legno e le mule, ed io seguitava di lontano.” Per stare solo con il suo cavallo, mandava avanti i servi che lo accompagnavano con la carrozza e i muli e lui lui seguiva da lontano. “Elia frattanto sovra un muletto andava con lo schioppo a dritta e sinistra della strada cacciando e tirando conigli, lepri, ed uccelli, che quelli sono gli abitatori della Spagna; e precedendomi poi di qualch'ora mi facea trovare di che sfamarmi alla posata del mezzogiorno, e cosí a quella della sera.” Elia cacciava quegli animali, gli unici che vivevano in quegli ambienti, e tra i suoi compiti c’era anche quello di cucinargli il cibo. (Elia come S.Panza) “Disgrazia mia (ma forse fortuna d'altri) che io in quel tempo non avessi nessunissimo mezzo né possibilità oramai di stendere in versi i miei diversi pensieri ed affetti; ché in quelle solitudini e moto continuato avrei versato un diluvio di rime, infinite essendo le riflessioni malinconiche e morali, come anche le imagini e terribili, e liete, e miste, e pazze, che mi si andavano affacciando alla mente.” Lui trova ispirazione in quei paesaggi isolati dove parla con se stesso. Vuole dire che l’emozione che gli danno questi tipi di esperienze, tutte nella stessa linea (mare, mare ghiacciato, deserto), sentiva dentro di se queste emozioni che se avesse avuto i mezzi le avrebbe potute trasformare in versi. Aggiunge qualcosa per completare il quadretto “don chisciettesco”: nello scrivere versi, nel fare poesia, c’è un elemento di pazzia, di stravaganza, di originalità, che lui sottolinea così: “Ma non possedendo io allora nessuna lingua, e non mi sognando neppure di dovere né poter mai scrivere nessuna cosa né in prosa né in versi, io mi contentava di ruminar fra me stesso, e di piangere alle volte dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo di ridere: due cose che, se non sono poi seguitate da scritto nessuno, son tenute per mera pazzia, e lo sono; se partoriscono scritti, si chiamano poesia, e lo sono.” In questa solitudine le sue emozioni sono così forti che lo commuovono fino al punto di piangere o lo rendono così felice che si mette a ridere. Nella poesia c’è un elemento di pazzia, un elemento che deriva da un’aspirazione che a sua volta deriva da emozioni forti, e in questo giudizio c’è anche un elemento di idea del poeta che il romanticismo ci ha trasmesso: un individuo eccezionale, ma strano e diverso dagli uomini normali, che prova certe emozioni più di quelli che non sono poeti, e sanno tradurle in versi. Che ci sia un collegamento tra pazzia e poesia è un’idea molto assodata, molto comune, e che c’è sempre stata. Pensiamo a come la interpretavano gli antichi. Platone ci parla di un poeta come un individuo invasato da un lume, qualcuno di pazzo. Questo è l’elemento più importante della sua esperienza spagnola. Al racconto di questo attraversamento dei deserti si aggiunge un episodio strano, che vede come comprimario ancora Elia. Abbiamo detto che Alfieri (episodio del racconto dell’amore per Penelope) non si censura: non censura i comportamenti della sua vita che potrebbero essere considerati riprovevoli. Un episodio riprovevole è quello che racconta qui: quando era a Madrid, frequentava un personaggio, un orologiaio, del quale diventa amico; lui aveva esperienza di vita perché aveva viaggiato molto, ed era sempre con lui, sia a pranzo che a cena. Dopo una di queste cene succede che Elia, mentre gli pettinava i capelli (come faceva sempre prima di andare a dormire), gli tira i capelli e gli fa male. Lui ha una reazione violenta e inconsulta. “Una sera che questo oriuolaio avea cenato meco, e che ancora si stava discorrendo a tavola dopo cenati, entrò Elia per ravviarmi al solito i capelli, per poi andarcene tutti a letto; e nello stringere col compasso una ciocca di capelli, me ne tirò un pochino piú l'uno che l'altro. Io, senza dirgli parola, balzato in piedi piú ratto che folgore, di un man rovescio con uno dei candelieri ch'avea impugnato glie ne menai un cosí fiero colpo su la tempia diritta, che il sangue zampillò ad un tratto come da una fonte sin sopra il viso e tutta la persona !71 di quel giovine, che mi stava seduto in faccia all'altra parte di quella assai ben larga tavola dove si era cenati.” Prende il candeliere e ferisce Elia. “Quel giovane, che mi credé (con ragione) impazzito subitamente, non avendo osservato né potendosi dubitare che un capello tirato avesse cagionato quel mio improvviso furore, saltò subito su egli pure come per tenermi. Ma già in quel frattempo l'animoso ed offeso e fieramente ferito Elia, mi era saltato addosso per picchiarmi; e ben fece.” Elia era una servo, ma non subisce. Reagisce da uomo. “Ma io allora snellissimo gli scivolai di sotto, ed era già saltato su la mia spada che stava in camera posata su un cassettone, ed avea avuto il tempo di sfoderarla. Ma Elia inferocito mi tornava incontro, ed io glie l'appuntava al petto; e lo spagnuolo a rattenere ora Elia, ed or me; e tutta la locanda a romore; e i camerieri saliti, e cosí separata la zuffa tragicomica e scandalosissima per parte mia. Rappaciati alquanto gli animi si entrò negli schiarimenti; io dissi che l'essermi sentito tirar i capelli mi avea messo fuor di me; Elia disse di non essersene avvisto neppure; e lo spagnuolo appurò ch'io non era impazzito, ma che pure savissimo non era. Cosí finí quella orribile rissa, di cui io rimasi dolentissimo e vergognosissimo e dissi ad Elia ch'egli avrebbe fatto benissimo ad ammazzarmi. Ed era uomo da farlo; essendo egli di statura quasi un palmo piú di me che sono altissimo; e di coraggio e forza niente inferiore all'aspetto.” Elia aveva anche la struttura fisica per ammazzarlo, perché era molto più alto di Alfieri. “La piaga della tempia non fu profonda, ma sanguinò moltissimo, e poco piú in su che l'avessi colto, io mi trovava aver ucciso un uomo che amavo moltissimo per via d'un capello piú o meno tirato. Inorridii molto di un cosí bestiale eccesso di collera; e benché vedessi Elia alquanto placato, ma non rasserenato meco, non volli pure né mostrare né nutrire diffidenza alcuna di lui;” “e un par d'ore dopo, fasciata che fu la ferita, e rimessa in sesto ogni cosa me n'andai a letto, lasciando la porticina che metteva in camera di Elia, aderente alla mia, aperta al solito, e senza voler ascoltare lo spagnuolo che mi avvertiva di non invitare cosí un uomo offeso e irritato di fresco ad una qualche vendetta. Ma io anzi dissi forte ad Elia che era già stato posto a letto, che egli poteva volendo uccidermi quella notte se ciò gli tornava comodo, poiché io lo meritava. Ma egli era eroe per lo meno quanto me; né altra vendetta mai volle prendere, che di conservare poi per sempre due fazzoletti pieni zeppi di sangue, coi quali s'era rasciutta da prima la fumante piaga; e di poi mostrarmeli qualche volta, che li serbò per degli anni ben molti.” Lo spagnolo consiglia ad Alfieri di chiudere la porta comunicante mentre dormivano. Ma lui non lui fa. Elia conserva i fazzoletti pieni di sangue con la ferita, così che gli facesse vedere quando Alfieri faceva dei gesti impulsivi. “Questo reciproco misto di ferocia e di generosità per parte di entrambi noi, non si potrà facilmente capire da chi non ha esperienza dei costumi, e del sangue di noi piemontesi” Qui la teoria del carattere nazionale si riferisce ai piemontesi, e Alfieri dice che lui sono fatti così. “Io, nel rendere poi dopo ragione a me stesso del mio orribile trasporto, fui chiaramente convinto, che aggiunta all'eccessivo irascibile della natura mia l'asprezza occasionata dalla continua solitudine ed ozio, quella tiratura di capello avea colmato il vaso, e fattolo in quell'attimo traboccare.” L’irascibilità naturale era stata accresciuta dal suo modo di vita di allora, dove prevaleva la continua solitudine e l’ozio. Da queste frasi he seguono si capisce come il fatto che i padroni picchiavano i servi fosse una cosa normale. “Del resto io non ho mai battuto nessuno che mi servisse se non se come avrei fatto un mio eguale;” Lui non lo picchiava per il rapporto padrone-servo, ma come un suo pari. “e non mai con bastone né altr'arme, ma con pugni, o seggiole, o qualunque altra cosa mi fosse caduta sotto la mano, come accade quando da giovine altri, provocandoti, ti sforza a menar le mani. Ma nelle pochissime volte che tal cosa mi avvenne, avrei sempre approvato e stimato quei servi che mi avessero risalutato con lo stesso picchiare; atteso che io non intendeva mai di battere il servo come padrone, ma di altercare da uomo ad uomo.” Lui avrebbe stimato chi gli avrebbe risposto con la stessa moneta se li avessi picchiati. Sottolinea che lui ha un grande senso di giustizia, è alieno al rapporto “normale” che vigeva tra padrone e servo. A Madrid si sta ritirato, nell’ozio e nella solitudine: “Vivendo cosí come orso terminai il mio breve soggiorno in Madrid, dove non vidi nessunissima delle non molte cose, che poteano eccitare qualche curiosità; né il !72 buono, presto spegnevano od assopivano in me ogni qualunque velleità di divenire autore. Vegetando io dunque cosí in questa vita giovenile oziosissima, non avendo mai un istante quasi di mio, né mai aprendo piú un libro di sorte nessuna, incappai (come ben dovea essere) di bel nuovo in un tristo amore; dal quale poi dopo infinite angosce, vergogne, e dolori, ne uscii finalmente col vero, fortissimo, e frenetico amore del sapere e del fare, il quale d'allora in poi non mi abbandonò mai piú;” Questo è l’ultimo degli amori sbagliati. Dopodiché uscirà liberato ed emancipato, rafforzato nel carattere e desideroso di rivolgere tutte le sue risorse intellettuali a qualcosa di buono: il sapere e la letteratura. “e che, se non altro, mi ha una volta sottratto dagli orrori della noia, della sazietà, e dell'ozio; e dirò piú, dalla disperazione; verso la quale a poco a poco io mi sentiva strascinare talmente, che se non mi fossi ingolfato poi in una continua e caldissima occupazione di mente, non v'era certamente per me nessun altro compenso che mi potesse impedire prima dei trent'anni dall'impazzire o affogarmi.” La letteratura e la poesia è stata una salvezza, altrimenti sarebbe impazzito o si sarebbe ucciso. Gabriella Falletti è una nobile sposata, con una decina di anni più di lui, su di lei giravano cattive voci. “Questa mia terza ebrezza d'amore fu veramente sconcia, e pur troppo lungamente anche durò. Era la mia nuova fiamma una donna, distinta di nascita, ma di non troppo buon nome nel mondo galante, ed anche attempatetta; cioè maggiore di me di circa nove in dieci anni. Una passeggiera amicizia era già stata tra noi, al mio primo uscire nel mondo, quando ancora era nel Primo Appartamento dell'Accademia. Sei e piú anni dopo, il trovarmi alloggiato di faccia a lei, il vedermi da essa festeggiato moltissimo; il non far nulla; e l'esser io forse una di quelle anime di cui dice, con tanta verità ed affetto, il Petrarca: So di che poco canape si allaccia un'anima gentil, quand'ella è sola, e non è chi per lei difesa faccia;” Questi versi Petrarca li scrive nel “Trionfo dell’amore” e ci dicono come sia molto facile all’amore catturare un’anima gentile, quando questa è sola e indifesa. “ed in somma il mio buon padre Apollo che forse per tal via straordinaria mi volea chiamare a sé; fatto si è, ch'io, benché da principio non l'amassi, né mai poi la stimassi, e neppure molto la di lei bellezza non ordinaria mi andasse a genio; con tutto ciò credendo come un mentecatto al di lei immenso amore per me, a poco a poco l'amai davvero, e mi c'ingolfai sino agli occhi. Non vi fu piú per me né divertimenti, né amici; perfino gli adorati cavalli furono da me trascurati. Dalla mattina all'otto fino alle dodici della sera eternamente seco, scontento dell'esserci, e non potendo pure non esserci; bizzarro e tormentosissimo stato, in cui vissi non ostante (o vegetai, per dir meglio) da circa il mezzo dell'anno 1773 sino a tutto il febbraio del '75; senza contar poi la coda di questa per me fatale e ad un tempo fausta cometa.” Lui inizia a fare il cavalier servente di questa dama, una figura molto precisa dal punto di vita della sua funzione sociale: è l’accompagnatore delle dame sposate. Non necessariamente questo triangolo “marito - moglie - cicisbeo” è un triangolo che significa che il cicisbeo sia l’amante. È in realtà colui che, con il consenso del marito, in qualche modo controlla la dama, la moglie del nobile, nel suo stare in società. Quindi il legame tra questi tre è legittimo e legale. Ciò non toglie che in alcuni casi il cicisbeo si trasformi nell’amante della dama. In questo caso avviene, così avviene in altri casi famosi: per esempio Verri. Ma questa non era la regola prevalente. Tuttavia il cavalier servente, come vediamo nel giorno di Parini, segue la dama e l’accompagna ovunque vada. Il serventaggio è una sorta di lavoro a tempo pieno, che questi giovani praticano. “Fatale e fausta cometa” fatale, ma fausta perché lui era innamorato. Infatti questo amore, nonostante cerchi lui di troncarlo, prosegue per svariati mesi. Sono questi gli sgoccioli della sua giovinezza, nei quali quasi per caso comincia a “schiccherare” qualche verso. In particolare scrive dei versi di tragedia, intitolata a Cleopatra: li scrive mentre assiste la sua amante che è a letto, di una malattia che probabilmente lui gli ha trasmesso (la sifilide). Prima di arrivare a questo, per dirci come questo amore fosse travolgente e lo avesse travolto anche nella sua salute fisica, per quei riflessi somatici che hanno in lui le tremende passioni, ci racconta come si ammalasse durante questo amore, e come si fosse ridotto a malpartito, tanto da sfiorare la morte. Siamo nel 1773, verso la fine dell’anno. “Nel lungo tempo che durò questa pratica, arrabbiando io dalla mattina alla sera, facilmente mi alterai la salute. Ed in fatti nel fine del '73 ebbi una malattia non lunga, ma fierissima, e straordinaria a segno che i !75 maligni begl'ingegni, di cui Torino non manca, dissero argutamente ch'io l'avea inventata esclusivamente per me.” Lui è un tipo non ignoto alle cronache e al bel mondo Torinese, e questa strana malattia non è comune, tanto che i maligni della città dicono che sia qualcosa che poteva capire solo a lui. Questa malattia lo fa dare di stomaco. I dottori intervengono togliendogli il sangue dal piede, ma poi subentrano delle convulsioni terribili, sbatte la testa al letto, non può deglutire, dimagrisce tantissimo. Finalmente nel sesto giorno cessano le convulsioni dopo che lo hanno tenuto immerso 5/6 ore in un bagno di acqua e di olio. Gli si riapre la via dell’esofago, gli fanno bere un siero, e viene recuperato. “La lunghezza del digiuno e gli sforzi del vomito erano stati tali, che nella forcina dello stomaco, fra quei due ossucci che la compongono, vi si formò un tal vuoto, che un uovo di mezzana grandezza vi potea capire; né mai poi mi si ripianò come prima. La rabbia, la vergogna, e il dolore, in cui mi facea sempre vivere quell'indegno amore, mi aveano cagionata quella singolar malattia.” Lui era convinto che la malattia era dovuta al modo in cui soffre questo tormentato amore, perché lui capisce che la donna di cui è innamorato non è degna di lui, ma lui non riesce a trovare la strada per uscire da questa situazione, e arriva a desiderare la morte. “Ed io, non vedendo strada per me di uscire di quel sozzo laberinto, sperai, e desiderai di morirne. Nel quinto giorno del male, quando piú si temeva dai medici che non ne ritornerei, mi fu messo intorno un degno cavaliere mio amico, ma assai piú vecchio di me, per indurmi a ciò che il suo viso e i preamboli del suo dire mi fecero indovinare prima ch'egli parlasse; cioè a confessarmi e testare.” Lui ci racconta che capisce bene, e chiede da solo di poter fare testamento. “Lo prevenni, col domandar l'uno e l'altro, né questo mi sturbò punto l'animo. In due o tre aspetti mi occorse di rimirare ben in faccia la morte nella mia gioventú; e mi pare di averla ricevuta sempre con lo stesso contegno.” Vuole sottolineare che lui è un uomo forte, come lo erano gli eroi di Plutarco, non ha paura della morte, è uno stoico, si rifà ad una filosofia che punta sulla forza morale e sul contenimento dei desideri. Però questo non lo fa essere vanaglorioso, e infatti dice: “Chi sa poi, se quando ella mi si riaffaccerà irremissibile io nello stesso modo la riceverò. .” Non sa se questa fortezza d’animo sarà tale anche nel momento in qui starà davvero per morire. Aggiunge una frase che rispecchia ciò che dirà nel sonetto “Autoritratto”: “Bisogna veramente che l'uomo muoia, perché altri possa appurare, ed ei stesso, il di lui giusto valore” Soltanto di fronte alla morte di manifesta il valore degli uomini. Abbiamo detto che il suo rientro a Torino definisce l’abbandono dell’idea di fare la carriera diplomatica. Oltre a questo rinuncia a fare la carriera dell’esercito, lui aveva indossato per questi anni la divisa dell’esercito pur non essendosi mai impegnato in questo ruolo. Ma i viaggi, che gli hanno aperto gli orizzonti e gli hanno fatto constatare con mano (in Prussia particolarmente) il suo antimilitarismo, il suo vedere gli eserciti come una mano armata dei despoti, gli fanno capire che deve rinunciare alla carriera militare, sulla quale esprime un giudizio molto duro. “Risorto da quella malattia, ripigliai tristamente le mie catene amorose. Ma per levarmene pure qualcun'altra d'addosso, non volli piú lungamente godermi i lacci militari, che sommamente mi erano sempre dispiaciuti, abborrendo io quell'infame mestiere dell'armi sotto un'autorità assoluta qual ch'ella sia; cosa, che sempre esclude il sacrosanto nome di patria.” Lui aborriva l’idea di appartenere all’esercito quando questo è uno strumento nelle mani di un sovrano, di un potere assoluto. E qui c’è una distinzione importante: lui non vuole appartenere all’esercito, ma questo non vuol dire che non prenderebbe le armi per difendere le armi. L’amor patrio è diverso dal soggiacere al potere del re. E quindi racconta come sia andato dai suoi superiori ed abbia detto che non vuole più indossare la divisa, e dopo una certa resistenza gli viene accordato questo permesso. Frattanto però, le catene dell’amore lo stringevano sempre più. (Serventismo = cicisbeismo, il suo ruolo di cavaliere servente della dama) “Io frattanto strascinava i miei giorni nel serventismo, vergognoso di me stesso, noioso e annoiato, sfuggendo ogni mio conoscente ed amico, sui di cui visi io benissimo leggeva tacitamente scolpita la mia opprobriosa dabenaggine.” Questo serventismo lo fa stare appiccicato alla sua dama, gli fa anche tenere lontane le amicizie, benché veda sui volti dei suoi amici il rimprovero per questo suo peccaminosa e perversa atteggiamento verso la signora. “Avvenne poi nel gennaio del 1774, che quella mia signora si ammalò di un male di cui forse poteva esser io la cagione, benché non intieramente il credessi.” Fa capire che forse non è stato lui ad attaccargliela, facendo capire che forse lei ha avuto altre avventure amorose. !76 Lei è a letto, non può parlare, e lui stando seduto su una sedia ai piedi del suo letto e inizia a scrivere. Sottolinea la casualità del gesto. “E richiedendo il suo male ch'ella stesse in totale riposo e silenzio, fedelmente io le stava a piè del letto seduto per servirla; e ci stava dalla mattina alla sera, senza pure aprir bocca per non le nuocere col farla parlare. In una di queste poco, certo, divertenti sedute, io mosso dal tedio, dato di piglio a cinque o sei fogli di carta che mi caddero sotto mano, cominciai cosí a caso, e senza aver piano nessuno, a schiccherare una scena di una non so come chiamarla, se tragedia, o commedia, se d'un sol atto, o di cinque, o di dieci;” Si butta a scrivere dei dialoghi drammatici teatrali. “ma insomma delle parole a guisa di dialogo, e a guisa di versi,” erano dei dialoghi versificati, com’era nella tragedia. “tra un Photino, una donna, ed una Cleopatra, che poi sopravveniva dopo un lunghetto parlare fra codesti due prima nominati. Ed a quella donna, dovendole pur dare un nome, né altro sovvenendomene, appiccicai quel di Lachesi, senza pur ricordarmi ch'ella delle tre Parche era l'una.” Gli viene in mente un nome antico, anche se in realtà questo è il nome di una delle Parche, e quindi non c’entra con l’antichità. “E mi pare, ora esaminandola, tanto piú strana quella mia subitanea impresa, quanto da circa sei e piú anni io non avea mai piú scritto una parola italiana, pochissimo e assai di rado e con lunghissime interruzioni ne avea letto. Eppure cosí in un subito, né saprei dire né come né perché, mi accinsi a stendere quelle scene in lingua italiana ed in verso.” Lo schizzo che aveva scritto era in francese. “Ma, affinché il lettore possa giudicar da sé stesso della scarsezza del mio patrimonio poetico in quel tempo, trascriverò qui in fondo di pagina a guisa di nota un bastante squarcio di codesta composizione, e fedelissimamente lo trascriverò dall'originale che tuttavia conservo, con tutti gli spropositi perfino di ortografia con cui fu scritto:” Lui fa vedere il suo primo scritto nell’autobiografia. La scena era quella del colloquio tra Cleopatra e Photino. “Aggiungerò una particolarità, ed è: che nessun'altra ragione in quel primo istante ch'io cominciai a imbrattar que' fogli mi indusse a far parlare Cleopatra piuttosto che Berenice, o Zenobia, o qualunque altra regina tragediabile, fuorché l'esser io avvezzo da mesi ed anni a vedere nell'anticamera di quella signora alcuni bellissimi arazzi, che rappresentavano vari fatti di Cleopatra e d'Antonio.” Scelse a caso il soggetto dei suoi scritti. Poteva scegliere altre regine dell’età classica. Ma scelse Cleopatra perché aveva negli occhi questi arazzi nell’anticamera dell’amante, dove c’erano scene dell’amore tra Antonio e Cleopatra. Guarisce la dama, e lui senza dare loro importanza, metti i fogli sotto il cuscino della poltroncina dove stava seduto. Questi fogli rimangono lì per circa un anno. “Guarí poi la mia signora di codesta sua indisposizione; ed io senza mai piú pensare a questa mia sceneggiatura risibile, la depositai sotto un cuscino della di lei poltroncina, dove ella si stette obbliata circa un anno; e cosí furono frattanto, sí dalla signora che vi si sedeva abitualmente, si da qualunque altri a caso vi si adagiasse, covate in tal guisa fra la poltroncina e il sedere di molti quelle mie tragiche primizie.” Qui è molto autoironico. Decide comunque di liberarsi da questa catena amorosa, e lo decide improvvisamente. E quindi, trovandosi tediato ed arrabbiato di fare quella vita servente, prende da un giorno all’altro la decisione di partire per Roma per vedere se l’allontanamento lo può guarire da questo amore. Prende il pretesto per fare questa scelta da una delle tante liti che ha con la sua amante. Tornato a casa dopo una lite, decide di organizzare la sua partenza in cui vuole stare via per un anno. E infatti decide per partire per Milano, come prima tappa del viaggio. Lei lo scopre. Lei gli manda indietro le lettere che lui le aveva scritto e il ritratto che le aveva fatto. Abbiamo il romanzesco in questo racconto d’amore. Questo fatto però già lo faceva tentennare. “Essa non lo seppe che la sera prima (credo il sapesse da qualcuno di casa mia), e subito quella sera stessa al tardi mi rimandò, come è d'uso, e lettere e ritratto. Quest'invio già principiò a guastarmi la testa, e la mia risoluzione già tentennava. Tuttavia, fattomi buon animo, mi avviai, come dissi, per le poste verso Milano. Giunto la sera a Novara, saettato tutto il giorno da quella sguaiatissima passione, ecco che il pentimento, il dolore e la viltà mi muovono un sí feroce assalto al cuore, che fattasi omai vana ogni ragione, sordo al vero, repentinamente mi cangio.” !77 Gli era venuto di buttare giù un sonetto, che aveva inviato a padre Paciaudi, un religioso, un uomo dotto torinese, che farà per molti anni il bibliotecario nella biblioteca del duca di Parma. Questo uomo lo tratta con senso paterno, è affezionato al giovane alfieri, ed è uno dei tanti saggi e colti uomini che ha avuto modo in passato per rimproveralo per la sua vita oziosa. Alfieri scrive qui sia il sonetto che la risposta del padre, che era spiritosa e affettuosa. Questo sonetto parla di questo suo amore finalmente vinto, racconta l’esperienza di questo amore tremendo, del quale gli sembra ora di essere finalmente guarito. La lettera che gli scrive il padre è affettuosa e spiritosa, e anche incoraggiante per lui, perché lui gli dice che il sonetto è buono, ben fatto, e gli augura il meglio nella carriera poetica, incoraggiandolo a intraprendere questa carriera, dove troverà buoni risultati, che sarà utile anche per risollevare le sorti della poesia in Piemonte, dove non ci sono molti buoni poeti. Prima della definitiva rottura con l’amante e l’autoriclusione, lui aveva provveduto a ripescare dalla poltroncina i fogli su Cleopatra. Si mette a lavorare strenuamente alla sua tragedia. La scrive e la riscrive, la disfa, la cambia, va avanti in questo lavoro per fare il quale ha anche escogitato l’espediente di farsi legare alla seggiola, come racconta qui. Portando al termine il lavoro della Cleopatra, dice che era riuscito a riappropriarsi delle proprie capacità intellettive, che erano state lungamente addormentate. E quindi si era trovato anche non più necessitato a farsi legare alla seggiola. “Era tuttavia sommo il guadagno dell'andarmi con questo nuovo impulso cancellando dal cuore quella non degna fiamma, e di andare ad oncia ad oncia riacquistando il mio già sí lungamente alloppiato intelletto. Non mi trovava almeno piú nella dura e risibile necessità di farmi legare su la mia seggiola, come avea praticato piú volte fin allora, per impedire in tal modo me stesso dal poter fuggir di casa, e ritornare al mio carcere. Questo era anche uno dei tanti compensi ch'io aveva ritrovati per rinsavirmi a viva forza. Stavano i miei legami nascosti sotto il mantellone in cui mi avviluppava, ed avendo libere le mani per leggere, o scrivere, o picchiarmi la testa, chiunque veniva a vedermi non s'accorgeva punto che io fossi attaccato della persona alla seggiola. E cosí ci passava dell'ore non poche. Il solo Elia, che era il legatore, era a parte di questo segreto; e mi scioglieva egli poi, quando io sentendomi passato quell'accesso di furiosa imbecillità, sicuro di me, e riassodato il proponimento, gli accennava di sciogliermi. Ed in tante e sí diverse maniere mi aiutai da codesti fierissimi assalti, che alla fine pure scampai dal ricadere in quel baratro.” Riesce a non sentire più il desiderio di quell’amore. Usa anche un altro espediente oltre ai capelli e alla sedia. Non esce mai, è recluso in casa, ma esce mascherato per partecipare ad un ballo pubblico in teatro. È travestito da Apollo, il dio della poesia, imbraccia una cetra, e accompagnandosi con il suono di questa, canta dei versi. “E tra le strane maniere che in ciò adoperai, fu certo stranissima quella di una mascherata, ch'io feci nel finire di codesto carnevale, al publico ballo del teatro. Vestito da Apollo assai bene, osai di presentarmivi con la cetra, e strimpellando alla meglio, di cantarvi alcuni versacci fatti da me, i quali anche con mia confusione trascriverò qui in fondo di pagina”. Il colascione è uno strumento della tradizione popolare. E queste poesie, di andamento popolareggiante, sono poesie nelle quali lui prende in giro se stesso, questo innamoramento folle che lo ha tenuto imprigionato per molto tempo. Il senso di questa mascherata è quello che aveva avuto più giovane quando, rimasto calvo per la malattia, si era difeso dalle prese in giro dei suoi compagni che gli volevano prendere la parrucca e prendendolo in giro e invece l’aveva fatto lui stesso. Qui, vestito così e con queste calescionate, fa lo stesso. “Una tale sfacciataggine era in tutto contraria alla mia indole naturale. Ma, sentendomi io pur troppo debole ancora a fronte di quella arrabbiata passione, poteva forse meritare un qualche compatimento la cagione che mi movea a fare simili scenate; che altro non era se non se il bisogno ch'io sentiva in me stesso di frapporre come ostacolo per me infrangibile la vergogna del ricadere in quei lacci, che con tante publicità avrei vituperati io medesimo.” In queste colascionate prende in giro i lacci amorosi di cui lui stesso era stato vittima. Nel frattempo continua a scrivere e rifare la sua Cleopatra, finché arriva ad averla completata, e la inviai al padre Paciaudi, per un giudizio e una correzione. Con questo stile autoironico, segnala come alcune delle correzioni fatte dal padre fossero spiritose, che prendessero in giro le sue capacità di autore tragico. !80 “Nelle postille da lui apposte a que' miei versi, alcune eran molto allegre e divertenti, e mi fecero ridere di vero cuore, benché fosse alle spalle mie: e questa tra l'altre. «Verso 184, il latrato del cor.. Questa metafora è soverchiamente canina. La prego di torla.»” Ma lui aveva pazientemente rilavorato anche sulla scorta dei suggerimenti del padre, e la sua tragedia venne presentata, ed ebbe successo “Le postille di quel primo atto, ed i consigli che nel paterno biglietto le accompagnavano, mi fecero risolvere a tornar rifare il tutto con piú ostinazione ed arrabbiata pazienza. Dal che poi ne uscí la cosidetta tragedia, quale si recitò in Torino a dí 16 giugno 1775; “ A questa Cleopatra, Alfieri aveva aggiunto una piccola farsa, “I poeti”, che doveva essere recitata dopo la tragedia. Era qualcosa che si faceva spesso, per dare varietà allo spettacolo, dopo una cosa seria come la tragedia, avere qualcosa di comico. E allora lui scrive questa farsa, dicendo che questa musa tragica fosse stata sempre accompagnata da una musa comica e una satirica. Era una farsa scritta in prosa. Con questo suo solito spirito ironico e autoironico, in questa farsa aveva introdotto se stesso sotto le vesti di Zeusippo, a cui aveva messo in bocca dei giudizi spiritosi e ironici su Cleopatra. “Nei Poeti aveva introdotto me stesso sotto il nome di Zeusippo, e primo io era a deridere la mia Cleopatra, la di cui ombra poi si evocava dall'inferno, perch'ella desse sentenza in compagnia d'alcune altre eroine da tragedia, su questa mia composizione paragonata ad alcune altre tragediesse di questi miei rivali poeti, le quali in tutto poteano ben essere sorelle; col divario però, che le tragedie di costoro erano state il parto maturo di una incapacità erudita, e la mia era un parto affrettato di una ignoranza capace.” Vuole dire che a questo Zeusippo metteva in bocca giudizi ironici su quello che aveva scritto, e nella farsa venivano evocate delle ombre dell’inferno, tra le quali c’era Cleopatra stessa (l’eroina), insieme ad altre eroine di tragedia. Questo per mettere a confronto Cleopatra con altre eroine protagoniste di tragedie di altri autori. Ma questo confronto serviva appunto a mettere una di fronte all’altra le diverse capacità degli autori tragici. Lui definisce la sua tragedia “un parto affrettato di una ignoranza capace”: questa Cleopatra era la prima prova di una tragedia non resa in maniera eccellente e perfetta, nella quale si manifestavano i segni della sua ignoranza come autore tragico, ma allo stesso i segnali premonitori di una capacità di produrre in quel genere. Nonostante avesse avuto successo, lui non voleva strafare, e si rifiuta di presentare una terza volta la tragedia. “Furono queste due composizioni recitate con applauso per due sere consecutive; e richieste poi per la terza, essendo io già ben ravveduto e ripentito in cuore di essermi sí temerariamente esposto al pubblico, ancorché mi si mostrasse soverchio indulgente, io quanto potei mi adoprai con gli attori e con chi era loro superiore, per impedirne ogni ulteriore rappresentazione. Ma, da quella fatal serata in poi, mi entrò in ogni vena un sí fatto bollore e furore di conseguire un giorno meritatamente una vera palma teatrale, che non mai febbre alcuna di amore mi avea con tanta impetuosità assalito.” Però dopo quella prova teatrale fu assalito da una passione per il teatro, più forte di quella che aveva provato per amore. “In questa guisa comparvi io al pubblico per la prima volta. E se le mie tante, e pur troppe, composizioni drammatiche in appresso non si sono gran fatto dilungate da quelle due prime, certo alla mia incapacità ho dato principio in un modo assai pazzo e risibile.” Si era presentato alla poesia in due modi: con la tragedia e la commedia. “Ma se all'incontro poi, verrò quando che sia annoverato fra i non infimi autori sí di tragedie che di commedie, converrà pur dire, chi verrà dopo noi, che il mio burlesco ingresso in Parnasso col socco e coturno ad un tempo, è riuscito poi una cosa assai seria.” Qualunque sia, il giudizio sul suo lavoro di autore drammatico, l’impegno che ci ha messo sono stati molto seri. “Ed a questo tratto fo punto a questa epoca di giovinezza, poiché la mia virilità non poteva da un istante piú fausto ripetere il suo cominciamento.” La sua virilità inizia con questo suo primo successo. Nella virilità lui parlerà molto della storia delle sue tragedie, ma sono anche il racconto di altri momenti importanti della sua esistenza, primi fra questi lì incontro con il grande amico della sua vita e della donna della sua vita. !81
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