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LA NASCITA DELLE MOSTRE - Francis Haskell, Sintesi del corso di Museologia

riassunto del libro di Francis Haskell: La nascita delle mostre I dipinti degli antichi maestri e l’origine delle esposizioni d’arte

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 27/07/2022

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Scarica LA NASCITA DELLE MOSTRE - Francis Haskell e più Sintesi del corso in PDF di Museologia solo su Docsity! 1 La nascita delle mostre I dipinti degli antichi maestri e l’origine delle esposizioni d’arte Francis Haskell 1.CELEBRAZIONE E COMMERCIO Roma Le prime mostre di antichi maestri furono organizzate nella Roma del Seicento. Il loro primo scopo era cerimoniale e si conformavano all’antica usanza di appendere arazzi alle finestre dei palazzi per celebrare la festa di un santo o l’ingresso trionfale di qualche ambasceria straniera. È sempre stato chiaro che ostentare pubblicamente il possesso di beni preziosi attirasse l’attenzione sulla nobiltà dei proprietari; ciò fu fondamentale per la storia sociale dell’arte, dal momento che per questo scopo venivano scelti dipinti anziché i più ovvi simboli di ricchezza utilizzati in passato. Solitamente in questo genere di esposizioni i quadri prestati dai collezionisti venivano disposti nei chiostri di chiese legate a comunità di stranieri residenti a Roma, che intendevano celebrare così la festa del proprio santo patrono. Alla fine del Seicento ogni anno si tenevano quattro esposizioni (in marzo, luglio, agosto e dicembre) per particolari eventi e organizzati da mecenati o artisti. Qui i giovani pittori cercavano di farsi una reputazione mentre i grandi maestri del passato testimoniavano l’antichità o la ricchezza delle famiglie prestatrici. La dimensione, il contenuto e l’allestimento delle mostre di Roma variavano da sede a sede e di anno in anno; importanti erano le mostre annuali a San Salvatore in Lauro, per celebrare il trasporto a Loreto della Santa Casa di Nazaret e promuovere questa iniziativa fu il cardinale Decio Azzolino, protettore della comunità marchigiana a Roma e titolare della chiesa, ma l’organizzazione spesso veniva affidata a Giuseppe Ghezzi, pittore, copista, restauratore e collezionista. Il suo coinvolgimento nelle esposizioni a San Salvatore in Lauro cominciò nel 1676, solo un anno dopo il loro inizio, e nel giro di pochi anni concepì le direttive per l’allestimento: si doveva affittare del damasco in quantità sufficiente a coprire le lacune nella decorazione della chiesa; per abbellire la facciata in mattoni si usavano degli arazzi; per la scelta dei dipinti erano importanti innanzitutto le dimensioni, si posizionavano cinque o sei grandi per i corridoi principali così da colpire subito; per evitare che si danneggiassero i quadri bisognava pagare guardie, soldati o facchini che li sorvegliassero giorno e notte; più avanti si aggiunse anche il provvedimento di sottoporre ai potenziali benefattori gli elenchi dei prestiti desiderati un anno prima di inoltrare la richiesta effettiva. I quadri esposti erano in gran parte di soggetto religioso, ma vi erano anche paesaggi, scene militari e in un’occasione addirittura dipinti erotici e mitologici – Venere in attesa di Marte di Carracci e Venere dormiente spiata da un satiro di Poussin. Anche se a volte furono esposte opere contemporanee, le mostre erano dominate dagli artisti della prima metà del Seicento; parecchie erano copie o versioni di bottega dei 2 capolavori, ma era il prestatore a determinare sotto quale nome dovesse essere presentato un dipinto, non il ricevente (Ghezzi). Gli allestimenti di Ghezzi non prevedevano didascalie esplicative delle opere presentate e non vi era una disposizione logica precisa. Le mostre ebbero molto successo dovuto alla bellezza e rarità dei dipinti mostrati. Firenze L’esempio di Roma indusse ad organizzare esposizioni d’arte anche a Firenze, sotto gli auspici dell’Accademia del Disegno, il cui protettore era il Granduca di Toscana. Il loro scopo era celebrare la festa del santo patrono dell’Accademia, san Luca, e si tenevano nella cappella a lui dedicata e nei chiostri, la prima nel 1674. Qui veniva data più importanza alle opere di giovani artisti. Nel 1706 il Gran Principe Ferdinando de’ Medici suggerì un orientamento che costituisce una tappa fondamentale nella storia delle esposizioni di maestri antichi: fu dato molto più spazio alle opere dei “più rinomati artisti scomparsi” rispetto ai “più illustri viventi”, venivano selezionati con l’intento di mutare la direzione dell’arte fiorentina del tempo e di ampliare gli orizzonti dei pittori contemporanei attivi a Firenze. Lo scopo di questa mostra non era quello di glorificare la nobiltà come a Roma, ma quello di consentire al pubblico e agli artisti di osservare da vicino opere altrimenti poco accessibili. La vera innovazione, però, consistette nella pubblicazione di un catalogo accompagnato da una guida che descriveva l’ubicazione di ogni dipinto. Ma malgrado le innovazioni introdotte, non ebbe molte edizioni successive. Persino a Roma l’era delle esposizioni dei grandi maestri giunse al termine a metà Settecento. Parigi Nel corso del Settecento, le opere degli antichi maestri conservate nelle chiese e nelle gallerie principesche di Roma e Firenze e altre grandi città italiane cominciarono ad essere indicate in modo più chiaro dalle guide stampate e quindi più accessibili per i viaggiatori. Nel frattempo però un altro tipo di mostra assumeva maggiore importanza: i mercanti e le case d’asta allestivano esposizioni temporanee di antichi maestri simili a quelle ospitate per l’occasione nelle cappelle e nei chiostri. Sin dai primi anni del Settecento le case d’asta di Londra, Parigi e altre città offrivano le migliori opportunità di dare un occhiata a opere di ammirati antichi maestri. Nel 1782 e 1783 celebrazione, sfoggio e commercio – che erano i principali motivi delle mostre – lasciarono il posto a un desiderio disinteressato di onorare gli autori delle opere esposte. In particolare due mostre a Parigi si caratterizzarono per l’introduzione di molte innovazioni: ne fu responsabile Mammès-Claude Pahin de La Blancherie. Una visita negli Stati Uniti lo aveva riempito di orrore per la crudeltà della tratta degli schiavi, e al suo ritorno in Francia egli si consacrò all’emancipazione di arti e scienze dalla tirannia della tradizione e alla creazione di un luogo d’incontro dove artisti e scienziati di tutta Europa potessero riunirsi 5 Ai visitatori del Lyceum le quattro pareti della galleria si presentavano rivestite di quadri, appesi senza cornice e disposti simmetricamente a coprire completamente i muri, dal pavimento al soffitto. La galleria di Pall Mall conteneva opere di minori dimensioni e qui, a differenza dell’altra galleria, le opere di veneziani occupavano molto meno spazio della scuola romana, di Poussin o dei bolognesi. La comunità artistica riconobbe di comune accordo che quelli di Tiziano erano i dipinti migliori della collezione. L’opera più discussa, invece, fu la Resurrezione di Lazzaro di Sebastiano del Piombo, ritenuta da alcuni “estasiante” e da altri “imperfetta” o addirittura “ridicola”. Alcuni contemporanei spiegarono che al Lyceum si recavano anche meno visitatori di quanti andassero alla galleria di Pall Mall perché le opere al Lyceum venivano meno capite e meno apprezzate, il luogo era anche più freddo e male illuminato, poiché le opere ammassate e prive di cornici apparivano scure e sporche. Ciononostante l’evento ebbe grande risonanza poiché mai prima d’ora artisti e comuni amatori ebbero modo di studiare le opere così accuratamente e inoltre poiché stimolò il collezionismo e lo sviluppo della connoisseurship. 2. TRIBUTO E TRIONFO Le spettacolari mostre di antichi maestri che si tennero a Londra alla fine del Settecento non furono le sole a scaturire dagli avvenimenti francesi in quel decennio. Quasi in contemporanea con le esposizioni a Pall Mall, gli amministratori del Musée Central des Arts inauguravano una serie di mostre nell’ex palazzo reale del Louvre, che nel 1793 era stato riaperto come museo. Questi eventi non possono essere propriamente descritti come esposizioni temporanee, ma resero visibili al pubblico opere d’arte che altrimenti sarebbero rimaste inaccessibili. E questo fu il motivo che spinse gli amministratori del museo a inaugurare nella Galerie d’Apollon nell’agosto 1797 una mostra che comprendeva più di 400 disegni e pastelli insieme a una selezione di ritratti a smalto e busti marmorei. La maggioranza delle opere era stata selezionata dalla collezione del defunto re. I disegni erano incorniciati e protetti da vetri e ordinati in base alle leggi della simmetria piuttosto che per scuole nazionali o cronologia. Responsabili dell’allestimento e della selezione dei pezzi furono l’architetto Léon Dufourny, amministratore in capo del museo, e il suo assistente. Collezionista egli stesso, Dufourny aveva grande familiarità con l’arte e credeva fermamente nel suo valore pedagogico. Il catalogo pubblicato da Dufourny riportava i nomi degli autori, i soggetti, le tecniche e occasionali indicazioni sulla provenienza. Il posto d’onore era assegnato ai maggiori maestri italiani del Cinquecento e del Seicento, seguiti dai francesi e dai “fiamminghi” (scuola tedesca e olandese). Tra maggio 1796 e inizio 1799, Bonaparte aveva fatto ricorso alla forza per razziare famosissime opere d’arte da molte tra le più importanti città italiane. Quando arrivarono i primi dipinti rubati, il Louvre era in uno stato di confusione a causa della chiusura della Grande Galerie per riparazioni; perciò, l’amministrazione fu costretta a collocare alcune opere della galleria nel Salon Carré, suscitando disappunto 6 negli artisti viventi che esponevano le loro opere in quella sala. Per questo le opere rubate vennero tenute in magazzino. Nel frattempo sulla stampa ci si lamentava di quei curatori “barbari” che volevano tenere nascosti i dipinti e si suggeriva di esporli temporaneamente nell’attesa che la Grande Galerie fosse pronta per riceverli. Alla fine, nel 1798, una selezione di circa 86 opere fu esposta fino a giugno nel Salon Carré. Il catalogo resta a testimoniarci l’elevato livello di connoisseurship raggiunto nella Francia del 700. Il catalogo era di basso costo, volto alle “classi meno fortunate” oltre che ai conoscitori di tutta Europa; per ogni opera erano indicate le misure, la natura del supporto ed eventuali iscrizioni. Erano sempre riportati i nomi di chiese o gallerie dalla quale i dipinti erano stati prelevati e ogni commento era introdotto da breve biografia dell’artista. Le descrizioni delle opere erano notevolmente complete. Gli accostamenti erano concepiti per far risaltare le differenze stilistiche e, poiché non vi era spazio sufficiente per mostrare tutti i dipinti, veniva cambiata la disposizioni nel corso della mostra. Il posto d’onore fu assegnato alla scuola bolognese, con più della metà delle opere esposte; di particolare rilievo quelle di Guercino, che sottolineavano l’intento didattico. La mostra doveva offrire uno spettacolo stupefacente. Appena quattro anni prima il governo francese aveva proibito la creazione di arte devozionale e ne aveva limitato la fruizione, confinando le opere delle collezioni nazionali che potevano eccitare il “fanatismo” religioso in sale riservate ai soli artisti: eppure nell’esposizione si potevano ammirare capolavori per la maggior parte realizzati per istituzioni religiose. Ciò non piacque a tutti. Ma nonostante alcune obiezioni, vi fu solo entusiasmo per i risultati degli artisti esposti. L’esposizione comprendeva un certo numero di opere di fama addirittura superiore a quelle dei bolognesi, ad esempio di Correggio, di Raffaello e di Leonardo (si distinse la Gioconda). Nel 1815 le opere esposte nel Salon Carré sarebbero state restituite per la maggior parte all’Italia. Nel 1806 le vittorie dell’Imperatore in Germania portarono l’allora Musée Napoléon ad acquisire un altro enorme carico di opere. Il 14 ottobre 1807, nel giorno del primo anniversario della battaglia di Jena, DominiqueVivant Denon inaugurò un’esposizione per celebrare la vittoria: l’esposizione più grande mai vista, il catalogo elenca circa 368 opere di pittura e oltre 280 sculture antiche e moderne, ma la loro importanza non era paragonabile a quella delle opere che erano state rubate in Italia. Il livello qualitativo del catalogo dei dipinti fu giudicato molto basso rispetto a quelli precedenti; Denon fece il possibile per spiegare che si era scelto di riassumere il più possibile per non renderlo troppo voluminoso, ma non giustificava l’eliminazione di notizie importanti quali misure, provenienza, supporto. L’ultima esposizione di Denon (di dimensioni assai inferiori a quella precedente) svoltasi nel 1814, segnò un punto di partenza nuovo perché fu l’ultima significativa mostra di maestri antichi organizzata in Francia. Nel settembre 1810 Napoleone ordinò in tre province italiane dell’Impero Francese la soppressione di tutti i monasteri e conventi; poco dopo Denon partì per l’Italia per osservare le conseguenze di questa decisione sul patrimonio artistico. Da lungo tempo si caratterizzava l’idea di aggiungere al Musée Napoléon una 7 selezione di opere dei pittori della scuola fiorentina. A Firenze fin da metà Settecento erano stati raccolti nel “Quarto Gabinetto” degli Uffizi una serie di dipinti del Tre e Quattrocento, in modo che fu possibile esaminare a fondo i precursori del Rinascimento, quali Paolo Uccello, Filippo Lippi, Botticelli. Il viaggio di Denon durò cinque mesi, in cui visitò molte città italiane. Egli scrutò oltre quattromila dipinti e ritenne che sessanta fra questi fossero adatti al museo, tutte di artisti sconosciuti in Francia; il governo accettò le sue proposte. Dopo qualche difficoltà nella gestione di tempi e allestimento, Denon riuscì ad esporre i Primitivi italiani e nordici al Salon Carré, nella stessa sala; tra questi si distinsero Cimabue, Giotto e opere di alcuni pittori genovesi. Vi furono esposte anche opere di artisti spagnoli selezionati tra quelli conservati nei depositi del Louvre, ancora meno note ai francesi. Di questi, alcuni erano stati notati dallo stesso Denon in Spagna; altri erano stati confiscati; altri razziati dagli ufficiali dell’Imperatore; altri donati al fratello di Napoleone, Giuseppe re di Spagna dal 1808. Quella di questi pochi dipinti spagnoli poteva essere definita una vera e propria “esposizione”: già prima della sua apertura Luigi XVIII aveva concesso in privato agli aristocratici spagnoli la restituzione dei dipinti di loro proprietà. Le schede del catalogo furono scritte da Morel d’Arleux. Ogni dipinto era approfonditamente descritto e furono registrate anche opinioni di alcuni scrittori, inoltre le schede inducevano spesso il visitatore a confrontare le opere di un maestro con quelle degli allievi, se esposte insieme. Questo catalogo non fa nessun progresso rispetto a quelli delle prime esposizioni di quasi vent’anni prima, non riporta neanche le misure dei quadri. Resta il dubbio se Denon sia riuscito a richiamare l’attenzione sull’importanza storica di queste opere sconosciute, perché nello stesso periodo la Grande Galerie accoglieva i più noti capolavori di Raffaello, Correggio, Guido Reni, Correggio e altri. Le esposizioni di antichi maestri inaugurate a Parigi sotto il Direttorio e proseguite sotto il regime napoleonico costituiscono ancora il loro aspetto più rilevante. Esse furono le più splendide che si erano mai viste e rimangono per certi versi insuperate. A Parigi queste mostre giungevano a termine in seguito alla battaglia di Waterloo, mentre a Londra nasceva l’esposizione di antichi maestri. 3. LE PRIME ESPOSIZIONI DELLA BRITISH INSTITUTION Le opere di maestri antichi prestate nel ‘600 dai nobili romani per uno o due giorni l’anno e frettolosamente sistemate nei chiostri delle chiese stabilirono un precedente importante per le mostre di antichi maestri come le conosciamo oggi; così pure fecero le mostre organizzate saltuariamente a Londra e Parigi negli ultimi decenni del ‘700 allo scopo di celebrare un mercante o le vittorie di un comandate. Le mostre di opere di antichi maestri fin ora organizzate non erano fini a sé stesse: alcune avevano lo scopo di ammaliare o sedurre il pubblico e altre servivano come espedenti per sottolineare particolari occasioni o 10 di Gainsborough la maggioranza erano paesaggi e fantasie pittoriche; nei quadri di Hogarth dominavano ritratti e scene di vita moderna; infine, Zoffany ritraeva per lo più scene teatrali. I dipinti di questa esposizione coprivano un lasso di tempo alquanto superiore a quella dell’anno prima. Hazlitt osservò polemicamente che la reputazione degli artisti in mostra era “a metà tra la popolarità transitoria e la fama dei maestri antichi”. Le opere di Wilson, in precedenza discusso, furono una delusione per i collezionisti, anche se furono i più copiati di tutta la mostra; Hazlitt difese solo i suoi paesaggi italiani. Hazlitt rimase profondamente deluso anche da Gainsborough: secondo la sua prima impressione i dipinti erano caratterizzati da “debolezza e nervosismo dell’esecuzione”. Ammetteva però che tra i dieci ritratti in mostra ce n’era uno molto bello, Il ragazzo in azzurro, e che i paesaggi giovanili erano superiori per naturalezza a quelli tardi. Le immagini satiriche di Hogarth erano le più note fra tutte le opere esposte, poiché realizzate per l’incisione, soprattutto il Mariage à la mode. Hazlitt sosteneva che Hogarth era un genio comico dotato di una insuperata conoscenza della vita e degli usi umani; era inoltre un maestro della composizione, con una straordinaria capacità di inventare, narrare e caratterizzare; la sua sfera espressiva si estendeva ben oltre la comicità volgare a cui spesso veniva associato. Dopo questa mostra Hogarth fu riconosciuto come uno dei più grandi artisti inglesi. I direttori però furono probabilmente delusi dalle reazioni a un’esposizione che intendeva glorificare la vecchia scuola inglese e anche a incoraggiare i giovani artisti. I quadri ricevevano solo un’attenzione minima anche perché erano mal esposti e mal illuminati. Perciò i direttori della British Institution decisero che l’esposizione dell’anno seguente, 1815, sarebbe stata dedicata alle opere migliori degli antichi maestri fiamminghi e olandesi. Dunque, nove “nobleman and gentlemen” introdussero in Inghilterra, e nel mondo, una radicale innovazione prosperata fino ai giorni nostri: l’esposizione di antichi maestri. 4. NASCITA DELLA “MOSTRA DI ANTICHI MAESTRI” Pall Mall La magnifica mostra di “dipinti di Rubens, Rembrandt, Van Dyck e altri artisti delle scuole fiamminga e olandese” aprì al pubblico nelle sale della British Gallery a Pall Mall nel maggio 1815. Fra i mecenati dell’Istituzione figurava virtualmente l’intera famiglia reale. Quasi tutti quelli che erano stati contattati accettarono di concedere i prestiti, e il principe reggente, Giorgio IV, inviò alcune opere della propria collezione. Il problema era costituito dalla disponibilità di troppi quadri importanti e fu quindi necessario operare alcune scelte difficili, suggerite dal mercante e restauratore William Seguier. L’autore della prefazione al catalogo, non firmata, sottolineava il valore che l’esposizione rivestiva per gli artisti inglesi e nel lanciare appelli al patriottismo. “I grandi esempi sono i veri promotori dell’emulazione, la via più sicura per giungere all’eccellenza”. L’autore sottolinea ripetutamente la necessità di “regole e 11 autorità” poiché “nessuna opinione può essere più fallace e, per l’artista, nessun errore più fatale dell’idea che molte delle grandi opere che ci stanno davanti possano sembrare frutto del genio senza aiuto dello studio”. Da qualche tempo però c’erano dei segnali percettibili da cui si intuiva che l’idillio tra maestri antichi e arte moderna non sarebbe durata a lungo. All’inizio di giugno 1815 Sir George Beaumont aveva ricevuto un Catalogue raisonné of the Pictures now exhibiting at the British Institution, che non includeva indicazioni sul nome dell’autore o dello stampatore. Il pamphlet (breve pubblicazione, scritta con intento polemico o satirico, in cui l'autore prende posizione contro un altro autore) era espressamente denigratorio sul suo conto e dei suoi colleghi. L’autore, con l’intendo di screditare gli antichi maestri e i loro collezionisti a beneficio dell’arte moderna, dichiarava che la sua polemica era rivolta al nuovo costume di esporre opere di antichi maestri, sostenendo che arrecava danno agli interessi dei pittori inglesi viventi, il cui sostegno costituiva l’obbiettivo originale della British Institution. Sir George perse il suo entusiasmo e volse verso il declino. Il catalogo diede inizio alla pratica di mettere in discussione l’autorevolezza delle attribuzioni che sono offerte in maniera tanto fiduciosa dai cataloghi delle esposizioni di antichi maestri. Per diversi anni le esposizioni di arte contemporanea attrassero molto più pubblico rispetto a quelle dedicate agli antichi maestri; anche se a Londra queste ultime vennero allestite comunque. Nel maggio 1816 venne aperta per tre mesi un’esposizione di 125 dipinti della “Scuola Italiana e Spagnola, dominata dai cartoni di Raffaello. Benjamin Robert Haydon, che li studiò accuratamente, riteneva che bastasse la loro presenza a giustificare la realizzazione della mostra. Si potevano comunque ammirare altri capolavori di Tiziano, Veronese, Murillo, Raffaello e Poussin. Alla crescita di benefici arrecati al “gusto nazionale” e all’arte moderna si contrapponeva un significativo calo delle richieste di esposizione da parte degli artisti moderni alla British Gallery; pertanto, si rese necessario fare concessioni sempre più ampie al sentimento patriottico. Si decise così di dedicare l’esposizione del 1817 agli “Artisti inglesi non più viventi”. Nella tela che Scarlett Davis dipinse per illustrare l’esposizione sembra che le opere dominanti siano La carretta del mercato di Gainsborough e la Sacra Famiglia di Reynolds, ma in verità la mostra consisteva in gran parte di dipinti olandesi, fiamminghi, spagnoli e italiani. A influenzare le scelte fu il Catalogue Raisonné, la cui seconda uscita fu feroce quanto la prima. Vennero derisi anche i singoli proprietari, per questo i direttori della British Institution introdussero una formula usata tutt’oggi: “Ogni Opera è stata ascritta al Maestro sotto il cui nome è stata inviata dal Proprietario”. Il Catalogue sottolineava quanto gli stessi organizzatori considerassero queste prime esposizioni una sorta di complemento dei loro salotti privati, senza accordare la dovuta considerazione a problemi quali lo sviluppo del gusto nazionale o la proposta di esempi utili ai giovani artisti. La chiarezza con cui Hazlitt critica incisivamente lo stile e i contenuti del Catalogue produce un grande sollievo. 12 Con il tempo però, il genere di esposizioni di antichi maestri della British Gallery non si limitava ai due obiettivi primari dell’istituzione (elevazione del gusto britannico e promozione di artisti inglesi), ma offriva un’eccellente opportunità per comprare e vendere opere d’arte senza la necessità di rivolgersi a mercanti o alla pubblicità. Nel 1848, tuttavia, fu introdotta un’innovazione che però fu presto soppressa; direttori e governatori rivolsero la loro attenzione a “una novità che non si può passare sotto silenzio, ovvero una serie di dipinti dei tempi di Giotto e Van Eyck”. Il tratto più notevole delle mostre di maestri antichi della British Institution era l’armonia tra coloro che sceglievano e coloro che prestavano le opere. La crisi annunciata dal Catalogue Raisonné quando si inaugurò la serie di queste esposizioni si dissolse rapidamente. Burlington House Nel settembre 1867 scadde il contratto d’affitto dei locali della British Institution a Pall Mall: al suo posto il principe di Galles volle un club maschile. Sembrò che a Londra le mostre regolari di antichi maestri fossero sul punto di finire e che l’attrazione esercitata dal club avrebbe preso il posto dell’esposizioni di capolavori. Dopo oltre cinquant’anni, la tradizione era profondamente radicata e si sentiva un forte bisogno di continuare ad esporre pubblicamente dipinti appartenenti a collezioni private. Così, dopo diverse negoziazioni e il rifiuto della proposta da Leeds, la soluzione si deve al Burlington Fine Arts Club, un’associazione di collezionisti e conoscitori. Il Club propose di rilevare l’organizzazione delle esposizioni, che avrebbe però allestito nelle sale della Royal Academy. Ciò fu possibile perché l’Academy si era appena stabilita nel grande palazzo di Lord Burlington a Piccadilly, rimaneggiato appositamente per soddisfarne la necessità. La prima esposizione nella nuova sede aprì nel gennaio 1870; le mostre che si susseguirono negli anni seguenti avevano concezione simile a quelle organizzate sotto la British Institution. Continuarono ad essere un evento pubblico di importanza primaria. C’è però una differenza notevole tra queste esposizioni e quelle tenutesi alla British Institution. La Royal Academy doveva necessariamente fare affidamento sulle grandi famiglie aristocratiche, che possedevano ancora gran parte dei dipinti da esporre; tuttavia, non erano più i proprietari a decidere cosa sarebbe stato esposto, ma se ne occupava un ristretto gruppo di accademici. Questi ultimi non erano interessati alla promozione di particolari temi o artisti, avevano invece l’unico obiettivo di ottenere il maggior successo possibile grazie ai capolavori. I maggiori problemi dell’esposizione furono causati dagli entusiasti piuttosto che dagli oppositori: il comitato fu sommerso di missive da tutto il Paese, inviate da persone desiderose di partecipare e di prestare le proprie opere. Quando le offerte sembravano plausibili, due membri del comitato andavano ad esaminare le opere di persona. Molti vedevano nelle esposizioni di antichi maestri l’occasione per pubblicizzare le opere che intendevano vendere. Questi aneddoti rivestono reale importanza: ogni mostra è 15 L’edificio doveva consistere in una struttura in ferro e vetro, che potesse essere rapidamente assemblata, ma anche smontata e riciclata. Le vedute dell’interno mostrano come gli spazi non fossero così diversi dai musei dell’epoca, con i quadri ammassati in file di tre e visibili al di là di una ringhiera. I corridoi su ogni lato del grande salone centrale erano abbastanza lunghi da permettere un’estesa sequenza di cronologica e abbastanza stretti da incoraggiare confronti tra opere sistemate su pareti affrontate. L’interesse per gli allestimenti cronologici era abbastanza comune all’epoca; la dimostrazione “dell’esistenza contemporanea di scuole parallele” era però un’idea nuova. l’espressione “scuole parallele” però presentava una serie di problemi: l’arte italiana in precedenza era stata suddivisa in diverse scuole, mentre qui aspirava all’unità. L’intero approccio comparativo invitava ad a un’indagine sulle cause: il carattere nazionale, la tradizione locale, la fede religiosa e la razza divennero materia di riflessione per gli storici dell’arte. La nuova sistemazione dei maestri antichi doveva costituire un grande valore educativo per il pubblico colto. Scharf si rammaricava del fatto che poteva ottenere un risultato migliore con più tempo e degli scarsi sussidi per i visitatori incolti, come le didascalie incomplete. Tuttavia, l’opportunità di un contatto con la cultura più elevata sollevò il morale di quella città manufatturiera e l’esposizione fu un evento di grande popolarità. L’imperatore Napoleone III e i capi di governo di altri Stati inviarono speciali commissari che riferissero sull’esposizione, che diede ovviamente un impulso formidabile all’organizzazione di altre mostre di antichi maestri in diversi luoghi. Dresda Con il suo allestimento l’esposizione di Manchester mise in luce e al contempo suscitò alcuni dei temi portanti nella storia dell’arte: il confronto tra le scuole, il sorgere e il tramontare degli stili, la scoperta delle tecniche. Contribuirono a darle forma l’intervento del principe consorte, l’iniziativa di Waagen e l’energia di Scharf, secondo cui il genere artistico che ebbe minor risalto a Manchester fu la scultura. Il principe Alberto si preoccupava anche delle repliche e la sua principale occupazione ricreativa era la realizzazione di un corpus fotografico delle opere di Raffaello basato sul catalogo di J. D. Passavant. Con la recente invenzione della fotografia si poteva ottenere un’idea assai più completa dell’intero corpus di Raffaello e quindi del suo percorso artistico; si potevano individuare affidabili pietre di paragone per l’autenticità e si poteva valutare con maggior precisione la pretesa autografia di diverse opere. Non appena si poté realizzare su carta questo tipo di assemblaggi, risultò più allettante trasporli nella realtà. E fu quanto accadde, ma in Germania per Holbein. Tra i dipinti più celebri di Dresda figurava una pala d’altare di Holbein che rappresentava la Vergine in atto di allargare il suo mantello per offrire protezione divina a Jacob Meyer, eminente cittadino di Basilea, e alla sua famiglia. Nel 1822 il principe Guglielmo di Prussia acquistò da un mercante francese un altro Holbein, che era una versione del tutto simile della stessa composizione; quattordici anni dopo lo regalò alla figlia per le nozze e nel 1852 il dipinto raggiunse la collezione di famiglia dei granduchi di Hesse a Darmstadt. Era dunque inaccessibile al grande 16 pubblico, ma la principessa permetteva ad alcuni grandi amatori d’arte di andare a vederla quotidianamente; sembra che un numero crescente di eruditi e conoscitori ritenessero il dipinto uno splendido originale, probabilmente superiore al venerato capolavoro di Dresda. Questa opinione risultava del tutto inaccettabile per un vasto numero di amatori d’arte: la controversia che ne scaturì fu la più grande mai scaturita da un opera d’arte. Nel 1869, però, al pubblico fu offerta per la prima volta di vedere dal vivo il dipinto di Darmstadt ad una mostra di antichi maestri a Monaco: gli organizzatori gli sistemarono accanto la litografia per cui il dipinto di Dresda era diventato noto, e una sua foto. Ciò stimolò ancora di più i conoscitori, che richiedevano l’organizzazione di un’esposizione in cui le due versioni della Madonna Meyer potessero essere sistemate una accanto all’altra. La mostra fu inaugurata a Dresda nell’agosto 1871 e i dipinti vi restarono esposti per un mese. Questa fu la prima mostra ispirata da studiosi di storia dell’arte e concepita con l’intenzione di discutere l’autenticità di opere d’arte. La mostra presentava altre numerose innovazioni. Il comitato decise di richiedere prestiti importanti da varie collezioni private, così da poter esporre un numero significativo di dipinti, disegni e incisioni di Holbein stesso, di suo padre e di artisti a loro correlati, arrivando ad avere circa 440 pezzi (alcuni fotografie di opere). L’esposizione costituiva dunque la prima seria mostra monografica di un maestro antico dai tempi di quella dedicata a Reynolds a Londra, più limitata, circa sessant’anni prima. Per renderla possibile, furono richiesti prestiti in diverse parti d’Europa: la regina d’Inghilterra inviò due quadri e una serie di disegni. Questa fu la prima volta in cui i dipinti antichi transitarono attraverso le frontiere con lo scopo di essere esposti. La controversia delle due Madonne proseguì, crescendo addirittura. L’accostamento giocava però a favore del quadro di Darmstadt. Ma i sostenitori di Dresda non erano intenzionati ad arrendersi e proposero dei compromessi: il dipinto di Darmstadt poteva essere accettato come autentico, ma così pure quello di Dresda. era una replica con varianti realizzate dall’artista e, alla fine, era chiaro che la guerra era persa. Il risultato ebbe tuttavia il paradossale effetto di generare confusione, piuttosto che eliminarla, circa le attribuzioni di alcune grandi opere d’arte. Londra Nel 1866 fu costruito a Londra il Burlington Fine Arts Club. Il suo obiettivo originario era l’organizzazione di incontri informali in cui i collezionisti, riunendosi nelle loro dimore, potessero osservare e discutere le opere di loro proprietà. Ben presto, però, affittò una sede in Savile Row, proprio dietro la Royal Academy, allo scopo di realizzarvi mostre aperte al pubblico. Si stabilì che le opere dovevano essere accuratamente selezionate e catalogate da esperti qualificati e che ogni mostra doveva essere dedicata a un tema particolare, come un’artista, un periodo o un’arte applicata. È pur vero che il Club beneficiava anche del supporto dell’aristocrazia, ma la maggior parte di membri era scelta da una nuova generazione di ricchi collezionisti borghesi. La preparazione prevalente era quella della connoisseurship erudita 17 Il Burlington Fine Arts Club sopravvisse fino al 1951, ma le esposizioni più degne di attenzione furono organizzate nel tardo Ottocento, in particolare quella del 1894. Era dedicata a un ambito dell’arte rinascimentale italiana: “opere della scuola di Ferrara-Bologna, 1440-1540”. Fu organizzata da un famoso storico dell’arte italiana, Adolfo Venturi. Come in passato, tutti i pezzi esposti erano stati prestati da collezioni private inglesi e, malgrado Venturi avesse praticamente svolto tutto il lavoro, furono i proprietari a ricevere gran parte dell’onore. È pur vero che, ben prima di allora, gli storici dell’arte screditavano molte blande attribuzioni imposte dai proprietari dei dipinti. L’innovazione più significativa dell’esposizione risiede nell’attenzione tributata alla documentazione erudita. Berenson affermava che la versione del catalogo stampata per i soli sottoscrittori, corredata da ventidue illustrazioni di grande formato, era “magnifica”. Solo alla mostra però si potevano vedere le oltre 250 fotografie di dipinti importanti ai fini della comprensione di quelli appesi alle pareti. Erano sistemate in ordine cronologico e potevano essere consultate da chiunque nel Catalogue Raisonné of Works by Masters of the School of Ferrara-Bologna incluso nel catalogo. Il Club aveva concepito una tipologia di mostra di grande originalità, che offrì ai visitatori non soltanto la possibilità di vedere dei capolavori, ma anche l’opportunità di imparare qualcosa sul contesto nel quale erano stati creati. 6. NAZIONALISMO ED ESPOSIZIONI La grande mostra di Holbein a Dresda fu realizzata nell’anno di fondazione dell’impero germanico: tale celebrazione di un grande artista tedesco non era priva di una componente nazionalistica, anche se la causa prima dell’esposizione consisteva nelle rivendicazioni contrapposte avanzate da collezioni tedesche e conoscitori internazionali. Sul finire dell’Ottocento il nazionalismo era diventato una componente sempre più palese delle mostre allestite in Europa. Le imponenti celebrazioni tenute nell’aprile 1828 per il terzo centenario della morte di Dürer non implicarono l’esposizione di alcuna sua opera, ma venne dato inizio alla realizzazione di un monumento. Dodici anni dopo furono ancora più grandi le cerimonie di Anversa in Belgio, in memoria di Rubens, celebrate sin dalla sua morte ogni cinquant’anni. I cittadini sfilavano in processioni nelle strade e si recavano in cattedrale per una messa solenne; anche in questo caso non furono esposte le opere del grande pittore, bensì di quelli viventi. Con l’avanzare del secolo questo genere di celebrazioni dedicate ai centenari di nascita e morte di grandi artisti divennero sempre più frequenti; parallelamente si era ormai diffusa l’abitudine di dare risalto alla scomparsa dei pittori contemporanei tramite mostre retrospettive. Queste due attività non furono però associate fino al 1875, con l’inaugurazione a Firenze di tre grandi esposizioni volte a commemorare la nascita di Michelangelo. L’occasione fu organizzata con decorazioni, costumi storici, concerti e banchetti. A Casa Buonarroti furono esposti i pochi disegni del maestro rimasti a Firenze; negli archivi si potevano 20 profonda e colta passione per i viaggi e l’arte, su cui scrissero un libro. Lei amava l’Italia e amava l’arte, e aveva un debole per Mussolini e il fascismo; il suo progetto si concretizzò nel dicembre 1929. Allora, dopo aver lasciato Genova, la nave italiana “Leonardo da Vinci” attraccò nel porto di Londra e cominciò a sbarcare il carico più straordinario mai condotto in Inghilterra. Ne facevano parte la Nascita della Venere di Botticelli e il Dittico Montefeltro di Piero della Francesca dagli Uffizi; il David di Donatello dal Bargello; la Tempesta di Giorgione dalla collezione del principe Giovanelli; La Bella e Il giovane inglese di Tiziano da Palazzo Pitti; la Crocifissione di Masaccio da Napoli. Responsabile di queste era il direttore di Brera e soprintendente delle Belle Arti della Lombardia, Ettore Modigliani. Naturalmente, solo il supporto del governo aveva potuto garantire la possibilità di riunire opere così importanti. Sembrerebbe che Lady Chamberlain, prima di avvicinare il presidente dell’Accademy, Sir Frank Dicksee, per l’affitto delle sale, avesse preso contatti con l’ambasciata italiana di Londra e con Mussolini. Egli certamente concesse al progetto il suo supporto, ed era ansioso di conservare il sostegno del segretario agli Affari Esteri inglesi, compiacendone la moglie. In definitiva, fu Mussolini a scegliere come commissario generale dell’esposizione Ettore Modigliani, benché non fosse fascista. Non lo scelse solo perché era stato direttore di Brera per vent’anni e aveva avuto esperienza nell’organizzazione di mostre in patria e all’estero, ma ancora più importante era il fatto che aveva giocato un ruolo fondamentale nella salvaguardia dei monumenti italiani durante la guerra e che avesse partecipato alla conferenza di pace di Parigi del 1919 come rappresentante culturale del governo. Mesi prima che Lady Chamberlain contattasse l’Academy, Modigliani aveva inviato una lettera all’ambasciatore italiano a Londra per discutere l’idea della mostra. Egli favoriva la ricerca delle opere esclusivamente in Italia e come inizio suggerì di adornare la sala con i celebri arazzi dei Mesi di proprietà del principe Trivulzio. Il suggerimento fu accolto dagli inglesi, ma il principe si oppose a qualsiasi prestito che gli fosse chiesto. Infine fu costituito un comitato italiano, ma l’unico membro a proporre prestiti fu lo stesso Modigliani. Il primo annuncio ufficiale della mostra e del consenso di Mussolini fu dato solo nel febbraio 1928, sottoforma di una lettera scritta al “Times” da Sir Robert Witt. A giugno Mussolini venne a sapere che Lady Chamberlain e Lady Colefax (celebre dama coinvolta nel comitato) erano giunte a Roma e alloggiavano all’ambasciata britannica; erano venute per organizzare un’esposizione d’arte, che si terrà alla Burlington House. Due settimane dopo Arduino Colasanti, direttore generale delle Antichità e Belle Arti, espresse la sua contrarietà per il progetto, che prevedeva il prestito di numerosi capolavori; ma ormai Mussolini aveva già acconsentito. Inoltre, Lady Chamberlain convinse Mussolini a rimuovere ogni divieto dal prestito delle opere di maggior interesse. Il duce ordinò al governo di cooperare totalmente. La direttiva di Mussolini comportò che non vi fossero ostacoli al prestito di tutti i più grandi capolavori da parte di tutti i maggiori musei italiani sui quali il comitato selezionatore avesse posato gli occhi. Anche se un paio di musei tentarono di opporsi. Si era però concordato che i soprintendenti potessero rifiutare le richieste per opere ritenute non in condizioni di viaggiare. 21 In questi casi erano importanti le relazioni sociali: Lady Colefax assicurò i prestiti dagli Stati Uniti; il duca d’Alba convinse il re di Spagna a prestare la Lavanda dei piedi di Tintoretto (che poi non arrivò per la precaria situazione del re). Comunque fu Londra a creare i problemi maggiori; vi erano già dei disaccordi riguardo le percentuali sui profitti con la Royal Academy, inoltre, nel giugno 1929, si intrapresero i primi tentativi per ottenere dalla National Gallery il prestito de La famiglia Vendramin di Tiziano. Il duca di Northumberland rifiutò di prestarlo e alla National Gallery era proibito per legge prestare dipinti. Ramsay MacDonald, uno degli amministratori della National Gallery e anche uno dei presidenti dell’esposizione, propose un progetto di legge al Parlamento per permettere un’eccezione, ma questo fu rifiutato. Il principale oppositore fu Lord Crawford, che temeva per il pericolo nel trasporto delle opere d’arte e per lo spostamento di dipinti visibili gratuitamente in luoghi con ingresso a pagamento. In agosto Lady Chamberlain prese contatti con l’unico museo italiano sul quale il duce non aveva controllo, il Vaticano. Fece in modo che Modigliani e W.G. Constable interpellassero il direttore dei Musei vaticani e inviò una lettera al cardinal Gasparri, ma, dopo aver mostrato la lettera al Papa, il cardinale rispose che era impossibile accontentarla: nulla era mai stato prestato. Lady Chamberlain allora replicò avanzando una proposta alternativa: nella galleria nazionale si trovava una pala d’altare di Cossa, le ali si trovavano presso collezioni private e la predella nella Pinacoteca vaticana. Nel frattempo si erano verificati due nuovi sviluppi: fu acconsentito il prestito delle due ali da parte di Brera; il Vaticano aveva nuovamente spiegato di non poter prestare pezzi dalle proprie collezioni. Comunque, per realizzare il progetto di riunire la pala d’altare, il Papa aveva appositamente commissionato una copia della predella, di cui avrebbe fatto dono al museo inglese. Intanto, vi fu ancora un altro incredibile sviluppo: pare che Modigliani, colto dall’ira del rifiuto da parte del Papa, rifiutò di esporre la copia. Alla fine si rinunciò al progetto e Cossa venne rappresentato soltanto da due disegni di bottega. In Italia erano i collezionisti privati a trovarsi nella posizione più forte per rifiutare le richieste di prestito piuttosto che i musei, soggetti al controllo governativo. C’era un proprietario privato che nemmeno Mussolini poteva intimidire: Vittorio Emanuele III, che era stato proclamato patrono dell’esposizione non appena resi pubblici gli accordi per la sua organizzazione. Nel novembre 1929 però, a meno di due mesi dall’inaugurazione, Ugo Ojetti, che faceva parte del comitato italiano, si trovò seduto accanto a lui a una cena e registrò nel suo diario che Sua Maestà non sapeva nulla né dell’esposizione né che a Firenze era già in atto il trasferimento di opere di Botticelli, Piero, Verrocchio e Donatello. Qualche settimana prima Modigliani aveva scritto al prefetto di Torino sottolineando che l’estrema generosità del re d’Inghilterra in fatto di prestiti vincolava la famiglia reale italiana ad inviare almeno un capolavoro e aveva suggerito come scelta ideale la Veduta del palazzo del Quirinale di Pannini. Il ministro della Casa Reale aveva risposto che sfortunatamente questo era impossibile perché il dipinto era incastonato a una parete. Il rifiuto del prestito avrebbe creato una spiacevole impressione a Londra, ma il Pannini non arrivò mai; il re prestò una legatura e tre disegni della Biblioteca Reale di Torino. 22 L’ultimo e più notevole imprevisto derivò da un crollo di nervi di Mussolini: l’ambasciatore britannico a Roma scrisse a Lady Chamberlain riferendole il suo incontro con il ministro degli Esteri, Dino Grandi, in proposito dell’Amor sacro e Amor profano di Tiziano. Grandi affermò che Mussolini avrebbe fatto il possibile per il prestito e lo spostamento del dipinto, ma l’opposizione era troppo forte anche per lui. Lady Chamberlain, però, all’oscuro dell’ambasciatore, scrisse a Mussolini. Allora l’ambasciatore le scrisse di aver ricevuto una chiamata da Mussolini in cui diceva che non riteneva opportuno inviare un messaggio in occasione dell’apertura dell’esposizione; inoltre, l’ambasciatore incontrò Grandi e scoprì che Mussolini era del tutto nauseato dall’intera questione dei dipinti, poiché dovette superare l’opposizione di tutte le autorità in campo artistico, la questione del pagamento del trasporto, le critiche per il pericolo dei dipinti sulla Leonardo Da Vinci e, infine, ciò che più lo fece montare in collera fu un articolo su un giornale americano, in cui era scritto che i quadri erano stati inviati a Londra come garanzia per un prestito, e il giornale antifascista lo sfruttò subito. Due settimane dopo il duce si decise a inviare un telegramma al presidente della Royal Academy. Alla fine, l’esposizione risultò mozzafiato ma tutti dissero che, vista la confusione e le difficoltà, nulla di simile sarebbe mai accaduto di nuovo. L’esposizione di Londra, “Italian Art 1200-1900”, aprì il 1˚ gennaio 1930. La chiusura fu prorogata di due settimane dall’affluire di visitatori. La stampa ne fu entusiasta. Degli oltre seicento dipinti, più della metà erano stati prestati da collezioni italiane pubbliche o private, il resto proveniva da Regno Unito, Stati Uniti, Francia, Germania e Francia. L’allestimento era essenzialmente cronologico, ma i capolavori più spettacolari del Quattrocento e del Cinquecento erano esposti insieme nel salone centrale. Una sala venne interamente dedicata alle tele dell’Ottocento, mentre fu sorprendente l’indifferenza dimostrata verso dipinti del Seicento e del Settecento. La mostra era dominata dalla visione di Berenson di un Rinascimento che si era concluso con la morte di Michelangelo, ma che aveva conosciuto una breve seconda vita nella Venezia del Settecento. Le debolezze degli studi apparvero con grande evidenza nel catalogo: l’autore principale stesso, Kenneth Clark, lo descrisse come il peggiore mai stampato per una grande mostra. In Inghilterra fu la reputazione di Roger Fry, artista e critico d’arte, dopo quella di Lady Chamberlain, ad essere maggiormente accresciuta dall’esposizione. La sua difesa della mostra fu inequivocabile: gli articoli di Fry mostrano che la grande esposizione ne conteneva alcune più piccole al suo interno, e si concentrano su una sala consacrata ai primi maestri italiani e a quella dedicata alla scuola di Rimini. Benché l’impegno personale di Mussolini avesse iniziato a indebolirsi a causa dell’insistenza di Lady Chamberlain, il motivo del suo sostegno alla mostra era chiaramente politico: la promozione del fascismo e della stretta alleata di quest’ultimo, l’italianità. L’allestimento di esposizioni di antichi maestri per ostentare il prestigio nazionale era già un’abitudine ben radicata, ma era meno solito promuoverne in nazioni straniere. La parte avuta da Mussolini nell’organizzazione della mostra fu riconosciuta con fervore dai politici, dalla stampa e dal pubblico. La vittoria, però, sarebbe presto svanita: nel giro di pochi anni 25 Ojetti sostenne che l’esposizione avrebbe dato agli artisti viventi la gioia di trovare in Italia, anche in questi due secoli d’arte italiana, guide e maestri ben più sicuri di quelli che per seguire la moda andavano a cercare altrove, ad esempio a Parigi. Ma è comunque vero che anche coloro che lo facevano, potevano riconoscere un’affinità con gli antichi artisti italiani. Ojetti non voleva soltanto chiarire che l’arte italiana dei Sei e Settecento era stata della massima qualità, sosteneva anche che l’arte italiana di tale periodo avesse “anticipato” molte altre opere ben più famose, ma ben più tarde, di artisti francesi e inglesi. L’esposizione dimostra che la pittura di paesaggio dell’Ottocento deriva dalle opere dei vedutisti veneziani del Settecento. Certamente la retorica nazionalista ha sostituito la sensibilità critica. Risulta infatti impossibile comprendere lo sviluppo di pittori stranieri tanto ammirati come Rembrandt, Vermeer, Velázquez, Rubens, Van Dyck e Poussin senza tenere in considerazione il loro debito nei confronti di Caravaggio, Gentileschi, Annibale Carracci, Guido Reni, Domenichino e altri. Ma, per enfatizzare il valore dell’esposizione, Ojetti con Roberto Longhi e colleghi sostenerono che i grandi maestri del Sei e Settecento avevano anche anticipato il “movimento moderno” dell’Ottocento. Parigi, 1934 Dodici anni dopo la mostra del 1922, Parigi sarebbe stata la sede di un’altra esposizione d’arte seicentesca, i cui obiettivi però erano opposti a quella di Firenze. “Les Peintres de la réalité” aprì al Musée de l’Orangerie nel novembre 1934 e chiuse nel marzo 1935. La mostra venne ricordata soprattutto per aver presentato al pubblico un influente gruppo di circa dodici dipinti di Georges de La Tour, la cui opera era fino ad allora conosciuta da pochi specialisti. Al principio del catalogo vi era una lettera introduttiva del direttore dei musei francesi che sottolineava che lo scopo della mostra era quello di gettare luce su un capitolo della storia dell’arte troppo a lungo negletto e di restituire il loro vero rango ad artisti di grande originalità che sono stati dimenticati, ignorati o incompresi. Il periodo era difficile. Poco prima la Francia era sull’orlo di una guerra civile data dallo scontro tra comunisti e fascisti, e i movimenti di sinistra unirono le forze contro l’estrema destra, creando il Front Populaire e altri mutamenti radicali politici. Malgrado la mostra non avesse finalità politiche, le sue implicazioni lo erano inevitabilmente. In quell’epoca “realtà” e “realismo” applicati all’arte suscitavano forti emozioni, che coinvolgevano sia la pittura contemporanea sia quella antica. Così, ad esempio, i fratelli Le Nain presero una posizione distaccata dalla politica e furono celebrati per la loro “francesità”, accettabile sia dalla destra che dalla sinistra. Alla nozione di realismo vennero comunque attribuite connotazioni politiche. Nel 1934, ad esempio, in Unione Sovietica si formularono i principi del realismo socialista; non c’era un rapporto diretto con l’arte francese del Seicento, ma comunque attirava l’attenzione su alcuni aspetti di “Les Peintres de la réalité” che altrimenti sarebbero passati inosservati. Ma gli organizzatori erano impegnati a convincere il pubblico dell’essenziale “francesità” dell’arte realista francese. Charles Sterling spiegò che l’obiettivo era stato quello di “realizzare un’esposizione su un 26 movimento realista che corrispondeva al movimento barocco in Italia”. L’unico problema era l’impossibilità di ignorare che a condurre questa francesità era stato un italiano e questo causò grandi difficoltà, come si evince dal catalogo della mostra. La prefazione fu scritta da Paul Jamot, direttore del dipartimento di pittura del Louvre, che prima era archeologo. Riconobbe il ruolo essenziale di Caravaggio, ma lo sminuì il più possibile. Charles Sterling, che scrisse l’introduzione al catalogo e le schede e che condusse la maggior parte delle ricerche, era molto più giovane di Jamot. Anch’egli era desideroso di sottolineare l’essenziale francesità dei pittori esposti e concluse la sua introduzione affermando che “lo scopo dell’esposizione sarà raggiunto quanto questa verrà paragonata a quella dei Primitivi francesi del 1904”. La mostra presentava importanti novità in campo artistico, ed è rimasta nota per l’originalità delle ricerche e dell’approccio scientifico; tuttavia, presenta alcune anomalie. A essere fonte di disagio non è la qualità delle opere, molto elevata, ma il fatto che, in alcuni casi, dipinti poco distintivi dello stile o dei soggetti dei loro artisti siano riuniti per trarre una particolare conclusione sullo spirito dell’arte francese in generale. Sembra tuttavia probabile che non sia stato un puro senso di vanità nazionale a sollecitare il rinnovato culto della francesità che risulta tanto evidente in “Les Peinters de la réalité”. Probabilmente, Jamot e i sostenitori speravano che la loro mostra potesse suggerire in modo diretto agli artisti viventi di riportare l’arte francese alle sue glorie passate, rifiutando il Surrealismo e le ultime cadenti rovine del modernismo e ritornando alle tradizionali virtù nazionali. Questi artisti rinnegarono l’impressionismo, l’espressionismo e il disonesto disegno industriale, e invitarono invece a un ritorno al disegno, all’artigianato e alla tradizione a contatto con la natura. Le esposizioni di Firenze e Parigi rivestirono entrambe grande valore e importanza. Il traguardo raggiunto da palazzo Pitti nel 1922 rese possibili le mostre innovatrici dedicate all’arte italiana dei Seicento e Settecento in numerose città italiane sia prima che dopo la guerra e il crollo del partito fascista. Nel dopoguerra Milano e Bologna aprirono la strada con una serie di esposizioni che influirono sullo spostamento del gusto del pubblico e fissarono degli standard che non sono ancora stati sorpassati. Le grandi esposizioni basate su prestiti della seconda metà dell’Ottocento hanno reso possibile lo sviluppo della storia dell’arte e hanno contribuito a mutare la nostra comprensione dello sviluppo storico dell’arte. Ciò che è straordinario delle mostre di Palazzo Pitti e dell’Orangerie non è solo il modo in cui mutarono la comprensione del pubblico dei maestri antichi in Italia e in Francia, ma è anche l’impatto che questo processo ebbe sull’arte contemporanea. 9. EREDITÀ DURATURE Fin qui si possono trarre due conclusioni: la prima è che esposizioni di antichi maestri nutrono altre esposizioni di antichi maestri; la seconda è che ogni volta che ne viene organizzata una particolarmente spettacolare la stampa e i conoscitori si associano nella predizione che non sarà mai più possibile veder nulla di simile. Si è già ricordato come, dopo il 1900, i musei pubblici che si opponevano ai prestiti abbiano 27 cominciato gradualmente a mutare la propria linea di condotta; solo per questa ragione furono possibili le grandi mostre del 1922, 1930, eccetera. Nessuno avrebbe potuto prevedere il mutamento che ebbe luogo nella seconda metà del Novecento, quanto quasi tutti i musei e le gallerie del mondo hanno uno alla volta organizzato o ospitato mostre basate su prestiti. Oggi queste istituzioni si associano spesso tanto agli allestimenti temporanei quanto alle collezioni permanenti. Quelle piccole istituzioni rimaste fedeli al divieto posto dai relativi fondatori circa il prestito delle opere hanno subito forti pressioni, ricatti e costrizioni. Roberto Longhi, in un convegno a Milano nel novembre 1959, si disse molto favorevole alle mostre, soprattutto alle piccole rassegne monografiche, ma temeva la minaccia che le mostre internazionali, mal organizzate, costituivano per il bene dei musei. Secondo lui, i proprietari delle opere avrebbero dovuto rispondere alle richieste di prestito dicendo di non poterlo concedere perché ne hanno solo un esemplare, insostituibile e prezioso. Longhi concludeva notando che un nuovo museo italiano e altri si erano dotati di un proprio spazio espositivo, sviluppi di questo tipo contribuiscono a garantire il prestito di capolavori. Inoltre, è sbagliato sostenere che nell’Ottocento sia sempre sussistita una divisione tra le mostre basate sui prestiti e i musei o gallerie pubbliche. Alcuni di essi furono fondati sulla scia delle esposizioni, come ad esempio il Bargello di Firenze. Era anche abbastanza comune che le sale adibite a collezioni permanenti venissero svuotate per ospitare un allestimento temporaneo. Oggi per gli sponsor e per il governo il successo di un museo si misura in base alla pubblicità dell’inaugurazione di nuove sale o mostre temporanee. La pressione per i prestiti, che prima era di carattere politico, adesso scaturisce dalle richieste di pubblicità e di risorse che provengono dall’interno dei musei stessi. L’impegno profondo per il benessere delle opere d’arte e la loro conoscenza storico-artistica, purtroppo, non era più una priorità per il direttore del museo. Il primo direttore di museo a confessare una predilezione per l’eccitazione tossica da mostra temporanea fu Kenneth Clark, Stati Uniti. È difficile stabilire fino a che punto le opere d’arte siano state effettivamente danneggiate dagli spostamenti internazionali. Il tema suscitò notevole ansia nei primi decenni dell’Ottocento, quando Goethe scrisse una breve poesia sui danni patiti dai dipinti spediti in lungo e in largo per l’Europa. Le lettere inviate dal quarto marchese di Hertford al proprio agente, Samuel Mawson, costituiscono una delle testimonianze più approfondite dell’atteggiamento di un grande collezionista verso i rischi delle mostre basate sui prestiti: egli sostenne che anche nelle condizioni più favorevoli è sempre pericoloso spostare dei dipinti, ma che incidenti di questo genere capitano tutti i giorni e nessuno può prevenirli. Infatti, insistette per inviare comunque i suoi quadri alla mostra di Manchester e, quando gli giunse notizia che erano stati completamente rovinati dall’acqua di un temporale, affermò che la sua consolazione era quella di aver avuto l’onore di contribuire all’esposizione. Risulta arduo accertare gli effetti delle esposizioni di opere antiche sui dipinti e altrettanto arduo stimare l’impatto che tali mostre ebbero sugli artisti, gli studiosi e il pubblico in generale. La paura di Lord Hertford
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