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La paura degli italiani, Schemi e mappe concettuali di Lingue e letterature classiche

Questo libro ha le sue radici nel mio Antifascisms: Cultural Politics in Italy, 1943-1946. Benedetto Croce and the Liberals, Carlo Levi and the «Actionists», pubblicato nel 1996 dalla Fairleigh Dickinson University Press. Il terzo capitolo di questo volume è una versione modificata e ampliata del sesto capitolo di Antifa- scisms. Il resto del libro è invece inedito.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2019/2020

Caricato il 14/01/2023

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Scarica La paura degli italiani e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Lingue e letterature classiche solo su Docsity! INDICE L’Orologio di Carlo Levi e l’Italia del dopoguerra di Giovanni De Luna VII I Fascismo, Neo-fascismo e antifascismo 00 1. Esordi gobettiani 00 2. I ceti medi e il fascismo 00 3. L’autonomia 00 4. Il mito politico 00 5. Lo Stato 00 II Il sud e l’Italia 00 1. Nella rete della repressione 00 2. Paura della libertà 00 3. La storia 00 3.1 I suoi inganni, p. 00 - 3.2 In presenza della morte, p. 00 4. L’incontro con il Sud 00 4.1 Il Sud metafora della creatività, p. 00 - 4.2 Il movimento con- tadino, p. 00 5. L’occasione storica 00 5.1 L’epurazione, p. 00 - 5.2 Il passato che ritorna, p. 00 - 5.3 Quale identità nazionale?, p. 00 INTRODUZIONE V III La rivoluzione democratica 00 1. Dall’espatrio alla clandestinità 00 2. Il governo Parri e le forze della restaurazione 00 3. La sconfitta del PdA: L’Orologio 00 3.1 Scarto tra codici espressivi e totalità del reale, p. 00 - 3.2 Ro- ma e Firenze, p. 00 - 3.3 Il Traforo: Contadini e Luigini, p. 00 - 3.4 Napoli: la morte, il senso della vita, la concezione della sto- ria, p. 00 - 3.5 Croce, il PLI e la restaurazione, p. 00 - 3.6 Il tem- po, p. 00 IV L’intellettuale in viaggio 1. Verso un Sud immaginario 00 2. L’attività politica istituzionale 00 3. Arte, creatività e politica: il ruolo dell’intellettuale 00 4. Reportages di viaggi e autobiografia intellettuale 00 INDICE VI NOTA DELL’AUTORE Questo libro ha le sue radici nel mio Antifascisms: Cultural Po- litics in Italy, 1943-1946. Benedetto Croce and the Liberals, Car- lo Levi and the «Actionists», pubblicato nel 1996 dalla Fairleigh Dickinson University Press. Il terzo capitolo di questo volume è una versione modificata e ampliata del sesto capitolo di Antifa- scisms. Il resto del libro è invece inedito. Desidero ringraziare il Wellesley College per le borse di studio che mi hanno consentito di condurre la ricerca per que- sto progetto; il professor Lester Little dell’Accademia america- na a Roma dove è stata completata la prima stesura del libro; e i miei colleghi del Department of Italian Studies al Wellesley College, soprattutto Sergio Parussa. Desidero inoltre ringrazia- re Chiara Colombini per l’accurato lavoro redazionale reso ne- cessario dal mio italiano non da madrelinguista. Un ringrazia- mento a parte va al professor Giovanni De Luna per la fiducia mostratami e per avere permesso la pubblicazione di questo li- bro. Infine, un grazie di cuore a mia moglie Eugenia Paulicelli. È stata lei ad accompagnarmi per tutte le fasi di questo lungo progetto. Senza il suo aiuto prezioso questo libro non avrebbe visto la luce. È a Eugenia insieme a nostra figlia Anna che dedi- co questo libro. INTRODUZIONE VII particolare, e un suo particolare destino... La città non è più la patria, la immutabile, divina terra dei padri, ma qualche cosa che si fa e muta giorno per giorno, slegata dalla storia, staccata dal padre, adulta, sola»1. La Roma descritta ne L’Orologio è una città malata; la guerra appena finita ne ha provocato come un corrompimento, infettandone le strade e le piazze, avvelenandone l’aria, assimi- landola a un essere mostruoso, ferino, con un’identità animale- sca indefinita e perciò più inquietante. L’esistenza collettiva dei romani vi appare come scandita da una frenesia fine a se stessa, una movimento disperato il cui unico obbiettivo è la sopravvi- venza; le vie si affollano «di gente, gomito a gomito, camicette d’estate, soprabiti pesanti, scialli, fazzoletti, cappelli, stracci, giacche militari alleate, sandali, scarponi; donne formose che muovono i fianchi e lanciano occhiate, vecchie attente alle ve- trine, ragazzi agitati e sporchi che corrono chissà a quale gioco o baratto, soldati americani, inglesi, italiani, negri; operai in tu- ta, impiegati usciti allora dalle banche o dai ministeri [...] tutti si muovono, gesticolano, guardano con occhi neri e brillanti, pensano, parlano, gridano, seguendo e contemplando con visi intenti [...] la loro avventura quotidiana»2. A questo andirivieni di formiche impazzite si affianca l’indolenza di un ozio sfaccia- to, senza remore, anche questo teso soltanto a un vivere per vi- vere senza scopo, tutto schiacciato sul presente di una piazza po- polata di figure come quella della «borsara nera dell’angolo di faccia, una giovane popolana grassa, con un grembiule di tela grigia e uno scialle in capo», e di una «folla di bambini, di ra- gazze, di vecchie, di sfaccendati, di gobbi, di scamiciati, di gen- te in divisa, di prostitute»3, impegnata a lanciarsi ingiurie «tra grandi risate e schiamazzi». «Non c’è un portone senza cartello di “Affittasi”» – annotava Levi – «Affittare le camere è, in un certo senso, una forma, sia pure larvata e simbolica, di prostitu- zione: un dare per denaro una parte di sé: tutto il quartiere pa- re concorde in questa vocazione»4. Questa umanità degradata ha trasformato Roma in un ani- male mostruoso, con verminai sulla pelle e una voce che «non è GIOVANNI DE LUNA X 1 Cfr. C. Levi, Dopo il diluvio, Milano, Garzanti, 1947. 2 Cfr. C. Levi, L’Orologio, Milano, Mondadori, 1960, p. 83. 3 Cfr. ivi, p. 34. 4 Cfr. ivi, p. 9. il suono metallico dei tram notturni nelle curve, lo stridere lun- go ed eccitante dei tram di Torino, grido dolente ma fiducioso di quelle notti operaie nell’aria fredda e vuota. È un rumore pie- no d’ozio, come uno sbadiglio belluino, indeterminato e terri- bile»5. Torino è l’altra città, una città che si sottrae alla morsa del binomio ozio/frenesia ancorandosi al tempo del lavoro scandito dalle sirene delle fabbriche, «a quel suono complesso di note acute e basse, roche e squillanti, fischianti e stridule, quel respiro musicale delle officine, quel soffio di un grande animale paziente e ribelle, quell’urlo amichevole di una forza compressa e liberata, di un vapore sprigionato»6: da un lato una città la cui voce è un «urlo amichevole», dall’altro «uno sbadi- glio belluino». Nelle due città sono stati gli stessi riti della quotidianità della guerra ad assumere una cadenza diversa; le cucine popo- lari, ad esempio: a Torino, «tutti aspettavano con pazienza, da- vanti alla cassa, per ricevere lo scontrino del pasto...Nessuno badava a quello che metteva in bocca: era il piacere eccitante del sacrificio collettivo, di un ordine austero. Si usciva leggeri e pieni di speranze, nelle strade tutte egualmente diritte, con in fondo, il profilo azzurro e trasparente delle montagne»7; a Ro- ma, invece, «dove le vie erano piene di merci proibite, le vetri- ne zeppe e ricolme... le mense non avevano altro sapore che la miseria». L’immagine di Roma è come appestata dagli umori mali- gni che la infestano. E su quella immagine si deposita l’odio freddo e distaccato che circonda tutte le cose impure. Roma è odiata. Al Nord, durante la Resistenza, Roma era il nemico. «“Deve essere uno di Roma” dicevano i contadini quando pas- sava qualche faccia sospetta. Quelli delle Valli non sono mica degli anarchici, e neanche dei rivoluzionari. Sono gente ordina- ta e di buon senso, che gli piace vedere le cose giuste...sono sta- ti tutti con noi su in montagna perché non volevano più dipen- dere da Roma, da quelli di Roma. Non volevano più aspettare il permesso di Roma per fare un ponte di legno...Qui non c’è una fabbrica: le industrie le abbiamo fatte noi. Non c’è massa ope- L’«OROLOGIO» DI CARLO LEVI E L’ITALIA DEL DOPOGUERRA XI 5 Cfr. ivi, p. 1. 6 Cfr. ivi, pp. 68-69. 7 Cfr. ivi, p. 88. raia, non ci sono contadini: solo degli impiegati, dei parassiti»8. A lanciare questa invettiva è Dante Livio Bianco, comandante regionale delle Formazioni Giustizia e Libertà del Piemonte, nella descrizione di Carlo Levi, «un avvocato di Cuneo, che ave- va tenuto con le sue bande le Valli per due anni; dai neri occhi brillanti e dal viso asciutto e nobile»9. Le parole di Livio scor- rono su altre parole, si mischiano ad altre maledizioni sempre contro Roma, come queste raccolte da un altro comandante par- tigiano, di Bergamo, che riporta frammenti di conversazioni udite nel buio dei rifugi durante le incursioni dei bombardieri alleati: «“A Roma, a Roma dovrebbero andare. Non qui. E che non lasciassero una pietra. Così ci liberebbero davvero. Quella è la sciagura d’Italia”. Tutti applaudivano e ridevano, contenti per quelle immaginazioni di Roma distrutta, quasi non si ricor- davano che, intanto, a pochi chilometri, le loro case andavano in fiamme»10. 2. Queste pagine de L’Orologio ci restituiscono il versante lette- rario di una delle più recenti e solide acquisizioni del dibattito storiografico che nella crisi italiana 1943-1945 segnala una du- plice rottura, la prima relativa al sistema politico e all’apparato statuale, la seconda – più profonda – che attiene direttamente alla identità nazionale su cui quel determinato sistema si era mo- dellato. In termini molto più generali, si può dire che l’affiorare di spinte regionalistiche, autonomistiche, separatiste, connotate comunque da appartenenze definite su basi “etniche” e territo- riali, rappresenta una sorta di fiume carsico che percorre tutto il Novecento italiano. In particolare i due dopoguerra sono sta- ti segnati da un proliferare di partiti e di movimenti in grado di coniugare, in entrambi i casi, l’opposizione radicale al centrali- smo dello Stato nazionale con una protesta etno-centrica in gra- do di mobilitare interi segmenti sociali, nonché spezzoni consi- stenti delle classi subalterne. L’esperienza del Partito sardo d’A- zione, (ma anche dei movimenti combattentistici e del Partito dei Contadini) nel primo dopoguerra, o fenomeni come il sepa- GIOVANNI DE LUNA XII 8 Cfr. ivi, pp. 225-26. 9 Cfr. ivi, p. 223. 10 Cfr. ivi, p. 225. sul lavoro o nel governo locale del Comitato di Liberazione»13; dall’altro «uno stagno di interessi e di intrighi di cui sfuggiva la ragione, un mondo chiuso e impenetrabile»14. Al Nord, nei ven- ti mesi della lotta partigiana, il conflitto aveva alimentato un’ir- ripetibile esperienza di “democrazia diretta” vissuta prima an- cora che nel “cielo” della politica e degli assetti istituzionali di- rettamente nel cuore e nelle coscienze degli uomini; allora «tutti si capivano: in città e in campagna: e si poteva battere a tutte le porte, e si aprivano senza bisogno di parole d’ordine. Ci si rico- nosceva, così allo sguardo, a fiuto. Si era tutti d’accordo»15. A questa dimensione solare della politica si contrapponeva l’oscu- ra trama del compromesso, il mondo delle pratiche invisibili, «la selva misteriosa della politica del governo e dei partiti, nati allo- ra e già così complicati, con un loro linguaggio sacro e conven- zionale, dei loro costumi nascosti al profano, un rituale simbo- lico e incomprensibile»16. La politica della Resistenza si era alimentata di succhi di- versi ed eterogenei, selezionando una classe politica non unifor- me, affollata da una varietà di “tipi” umani che nel L’Orologio sfilano con una loro irresistibile carica di esemplarità: Fede (Vit- torio Foa) è lo scienziato della politica, appassionato al suo gio- co come un campione di scacchi: «nelle sue meditazioni su quel cielo della politica dove ora spaziava, egli pensava di averne sco- perte le leggi, immutabili e eterne, dure, machiavelliche leggi al- le quali si confermava con sicurezza entusiasta, come un eroe di Stendhal....proprio la troppa fretta, l’ansia di esperienza, gli im- pediva di vedere le cose e di riuscire veramente a toccarle; come un affamato che inghiotta in furia, tutti insieme, i cibi di una grande tavola, senza poter distinguere il gusto di nessuno»17; al- l’estremo opposto c’era il Presidente (Ferruccio Parri) che «non volava in quel cielo, non voltava neppure gli occhi a guardarlo; ma camminava su una piccola terra, e non sapeva e voleva veder altro che le facce e le mani di tutti quelli che incontrava sulla sua strada; e si fermava a parlare con loro dimenticando ogni altra L’«OROLOGIO» DI CARLO LEVI E L’ITALIA DEL DOPOGUERRA XV 13 Cfr. C. Levi, L’Orologio, cit., p. 36. 14 Cfr. ivi, p. 49. 15 Cfr. ivi, p. 195. 16 Cfr. ivi, p. 36-37. 17 Cfr. ivi, p. 236. cosa; e piangeva delle loro lacrime»18. Invece Fede «non vede- va quei visi, non pensava a quegli uomini: per il suo realismo quelle erano parole, cioè forze politiche, elementi, sì, elementi di un grande difficilissimo gioco»19. Tra i due poli, tra il «tecni- cismo e la passione rinnovatrice» stava Carmine (Manlio Rossi Doria), «seguendo un giorno il sogno di una lenta, paziente co- struzione, che nascesse naturale dai problemi del campo e del villaggio, e il giorno seguente quello dell’efficacia della lotta po- litica, dei partiti, delle idee nuove, della spinta delle masse, del- l’organizzazione. Stava a cavallo, con un piede sulla politica pu- ra e l’altro sulla pura tecnica...questa sua incertezza lo conser- vava vivo e appassionato»20. Ma tra la folla dei personaggi messi in scena ne L’Orologio, la voce che con maggiore efficacia rac- conta la sorte del PdA e dell’azionismo è quella di Andrea Va- lenti (Leo Valiani): «Eravamo partiti che volevamo la rivoluzio- ne mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Ita- lia, e poi di alcune riforme, e poi di partecipare al Governo, e poi di non esserne cacciati. Eccoci ormai sulla difensiva: doma- ni saremo ridotti a combattere per l’esistenza di un partito, e poi magari di un gruppo o di un gruppetto, e poi, chissà, forse per le nostre persone, per il nostro onore e la nostra anima...»21. Quando Andrea Valenti pronuncia queste parole, il governo Parri è appena caduto; il “vento del Nord” ha smesso di soffia- re, i venti mesi della Resistenza sono stati troppi per i lutti e le sofferenze subite dal paese, ma troppo pochi perché l’Italia po- tesse liberarsi dei guasti di 20 anni di dittatura totalitaria. Alla fine del 1945, il Partito d’Azione stava per essere definitiva- mente sconfitto; aveva fatto della “rottura” con il passato la pro- pria ragione d’essere e ora non poteva sopravvivere alla “conti- nuità” che segnava il passaggio dal fascismo all’Italia repubbli- cana. Andrea Valenti/Leo Valiani incarna il PdA, ne rappresen- ta fisicamente, con il suo vissuto, la trasfigurazione simbolica più efficace. In questo caso, l’acuta percezione e il talento dello scrittore hanno anticipato il giudizio degli storici; la scelta di Carlo Levi di attribuire quel ruolo a Leo Valiani si rivela di sba- GIOVANNI DE LUNA XVI 18 Cfr. ivi, p. 256. 19 Cfr. ivi, p. 312. 20 Cfr. ivi, p. 257. 21 Cfr. ivi, p. 193. lorditiva lungimiranza, anche alla luce del dibattito storiografi- co sedimentatosi sul Partito d’Azione. Il passo citato sintetizza sia la vicenda storica del PdA che il percorso biografico di Valiani fino ad allora. Era stato comu- nista quando aveva 20 anni. E aveva allora sognato “la rivolu- zione mondiale”. Il suo distacco dal PCI era cominciato alla fine del 1935, quando, in carcere con Secchia, Terracini e Spinelli, ri- cevuti clandestinamente i documenti del VI congresso dell’In- ternazionale, si era pronunciato contro la loro approvazione in- condizionata. Le sue posizioni erano poi state sviluppate nel pe- riodo della collaborazione, tra il 1936 e il 1939, alla rivista parigina «Que faire?», l’ultimo organo di una opposizione in se- no alla III Internazionale, fino alla rottura definitiva, traumatica, nei giorni tragici del patto tedesco-sovietico dell’agosto 1939. Un anno dopo, nel 1940, nel campo di concentramento del Vernet, sulle montagne della Francia del sud-ovest, decise di lasciare definitivamente il Partito comunista. Con lui c’era un al- tro ex comunista, Arthur Koestler, che, allora, fu l’unico a sape- re di quella scelta, per il resto rigorosamente taciuta. Si era nel pieno della drôle de guerre e le autorità francesi erano molto più attente a combattere i comunisti sul fronte interno che non l’e- sercito nazista sul fronte occidentale; al patto Molotov/Ribben- trop si era accompagnata una sorta di isteria persecutoria con- tro il PCF, così che, nel timore che il suo gesto potesse essere in- terpretato come un cedimento opportunistico, Valiani preferì tenerlo nascosto, rinunciando all’immediata scarcerazione che si prospettava per quanti si allontanavano dal partito. Al Vernet c’erano in prevalenza reduci della guerra civile spagnola, anar- chici, trozkisti, gente che aveva sperimentato l’ossessione re- pressiva dello stalinismo senza mai smettere di considerare il fa- scismo come nemico principale. Erano gli uomini rifluiti nella “schiuma della terra”. Valiani sperimentò allora quella che sa- rebbe stata poi la sua linea politica nella Resistenza; «mai con i comunisti, ma mai senza i comunisti» fu il principio-guida del- le formazioni di Giustizia e Libertà nella lotta partigiana e del- l’azionismo in tutte le vicende del lungo dopoguerra italiano. Arrivato a Roma il 9 ottobre 1943, aderì immediatamente al PdA: giudicava l’ azionismo la formula politica adatta a una fa- se storicamente decisiva, “la fase liberale della rivoluzione italia- na”. Era il momento, per riprendere ancora le parole di Andrea Valenti, in cui ci si «accontentava» della «rivoluzione in Italia». L’«OROLOGIO» DI CARLO LEVI E L’ITALIA DEL DOPOGUERRA XVII ro Gobetti nel 1924: «se al regime fascista dovesse seguire un re- gime di cui fosse elemento essenziale l’onorevole Bonomi, pas- seremmo da uno stato di cose odioso a uno stato di cose spre- gevole». Ma sono proprio le pagine de L’Orologio, comunque, a sfondare l’astrattezza modellistica delle categorie politologiche per restituircene i risvolti esistenziali, lungo un versante pola- rizzato intorno alla coppia opacità/dinamismo. La Resistenza vi viene descritta come il grimaldello che aveva scardinato la so- cietà civile da quei caratteri di passività e rassegnazione che sem- bravano pesare come una sorta di tara genetica sulla nostra iden- tità collettiva, introducendo nel vivo del corpo sociale i germi di un attivismo febbrile, di un vitalistico slancio ricostruttivo, di una irrefrenabile voglia di vivere che in soli tre anni, dal 1945 al 1948, portò a cancellare del tutto le ferite materiali inferte dalla guerra: «guardate le facce delle persone, i loro gesti la loro atti- vità:» – scriveva Carlo Levi – «non hanno perso quello che ave- vano trovato allora, e forse non lo perderanno per molto tempo. Sono vivi, attivi, tirano su muri diroccati, si sposano, fanno al- l’amore, cercano tutti i modi possibili, senza pigrizia e senza la- menti, di guadagnare la vita, di migliorarla e, con una incredi- bile rapidità, si sono dimenticati della guerra, della paura, del sangue, della servitù, del moralismo, della falsa santità, degli sta- ti e delle leggi, e di tutte le menzogne e le atrocità degli anni pas- sati». Ma su questo slancio, sull’audacia progettuale di queste scelte si era abbattuto un violento corto circuito, che ne aveva attutito la carica dirompente, facendola ripiegare su se stessa, cosicché i politici che avrebbero dovuto, «essere i loro portavo- ce e anche le loro guide [...] avevano fatto rinascere vecchi par- titi, vecchie idee, vecchi pregiudizi e vecchie contese». Era stato così che la dimensione epica del conflitto si era diluita nel tempo quasi immobile della politica e della continuità dello stato; ed era stato così che Roma, con i suoi ministeri, i suoi palazzi, le facce dei suoi uomini politici, era diventata la me- tafora orribile e mostruosa di una gigantesca occasione manca- ta non tanto sul piano delle svolte rivoluzionarie quanto proprio su quello della rigenerazione degli uomini e delle coscienze. Le istituzioni («i muri dei ministeri isolano dal mondo di fuori una casta chiusa di piccoli borghesi degenerati e miserabili, sordi e ciechi e insensibili a tutto se non ai loro piccoli bisogni, alla lo- ro omertà, ai loro intrighi talmente meschini e microscopici da riuscire incomprensibili»), i “palazzi” («Il Ministero è una spe- GIOVANNI DE LUNA XX cie di tempio, dove si adorano e perfezionano i vizi più abietti, i tre più desolati peccati mortali: la pigrizia, l’avarizia e l’invi- dia»)25, gli uomini («Dei vecchi, strani animali preistorici, sta- vano sdraiati con sussiego sui loro scranni, avvolti in una atmo- sfera di rispetto coagulato. Avevano saputo durare, indifferenti come pietre, agli avvenimenti, o secondandoli appena, accen- nando col capo a muoversi con quelli, pur restando fermi; na- scondendo i vecchi visi sotto le maschere barbute, aspettando in letargo ma pieni di ambizioni nascoste, la loro ora»)26 erano quelli di sempre, i «luigini», irrimediabilmente contrapposti ai «contadini». 4 . E proprio la contrapposizione tra «contadini» e «luigini» è la chiave di volta su cui poggiano tutte le categorie analitiche uti- lizzate da Carlo Levi nella costruzione dello scenario storico che fa da sfondo a L’Orologio. Il nodo storiografico affrontato e ri- solto nelle pagine del romanzo è quello legato alla querelle in- terpretativa su una presunta, permanente “impossibilità di es- sere normali” degli italiani. L’assenza di una identità nazionale, di una uniformità di comportamenti e di valori è come se ci aves- se espropriato per sempre della possibilità «di raggiungere per via “normale” – attraverso aggregazioni spontanee e provvedi- menti amministrativi – un’omogeneità sufficiente di rivendica- zioni e di interessi»27, rendendo tutto più difficile e faticoso, ob- bligandoci a una diaspora continua verso mille chiusure corpo- rativistiche, egoismi familistici, avide grettezze di gruppo. Negli anni de L’Orologio, i guasti causati dalla privazione di una “italianità” vissuta come valore “forte” furono molto ef- ficacemente rappresentati da autori come Guareschi, Giannini e Longanesi, che innalzarono una sorta di monumento lettera- rio agli «apoti» («coloro che non la bevono, che non si lasciano imbrogliare»), sbalzandone (come ci ricorda sempre Lanaro), con grande vigore i tratti salienti. Una religiosità lucrativa, un fa- milismo autoritario, il disprezzo per la cultura, un concetto sen- timental servile della legittimazione del potere, il culto della “ro- L’«OROLOGIO» DI CARLO LEVI E L’ITALIA DEL DOPOGUERRA XXI 25 Cfr. ivi, p. 112. 26 Cfr. ivi, p. 177. 27 Cfr. S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1992, p. 23 ba” erano le coordinate al cui interno si realizzava il program- ma esistenziale riassunto nelle affermazioni di Guglielmo Gian- nini: «noi vogliamo vivere tranquilli, non vogliamo agitarci per- manentemente come non abbiamo voluto vivere pericolosa- mente: vogliamo andare a teatro, uscire la sera, recarci in villeggiatura, trovare sigarette, ordinarci un abito nuovo»28. Ma il “tengo famiglia” e “mi faccio i fatti miei” erano i capisaldi di un progetto di vita che, lungi dall’essere il prodotto della man- canza di identità nazionale, costituiva esso stesso il fondamento specifico di una almeno delle identità nazionali che era possibi- le rintracciare in questo paese. Piuttosto che alimentare una storiografia segnata da un certo approccio deprecatorio, la giusta constatazione della no- stra impossibilità di essere normali può, in realtà, diventare una categoria analitica, suggerendo un percorso conoscitivo in gra- do di collocarne le radici proprio nella presenza contemporanea di diverse identità, le cui relazioni conflittuali sono state il mo- do specifico di cui questo paese si è servito per crescere e ma- turare lungo il breve secolo della sua storia unitaria. Non esiste una identità data una volta per tutte, sottratta alla verifica del confronto con le altre. E questa non è una patologia italiana; penso alle failles che caratterizzano l’identità nazionale dei fran- cesi, attraversata da un conflitto permanente tra due schiera- menti che, dislocatisi in occasione dell’“affare Dreyfus”, si sono ripresentati quasi negli stessi termini nei rapporti tra Vichy e la Resistenza nella seconda guerra mondiale. Il fatto è che proprio il conflitto rappresenta la più pre- gnante categoria interpretativa per definire in termini dinamici una identità nazionale; è nel conflitto che si è sempre annidata la molla in grado di attivare le energie migliori di questo paese, quelle in grado di sprigionarsi nelle grandi stagioni del protago- nismo collettivo dei soggetti sociali. Ed è in questo senso che la contrapposizione tra «contadini» e «luigini» assume una porta- ta immediatamente storiografica, indipendentemente dai succhi letterari che ne alimentano la descrizione. «Contadini» e «luigi- ni» sono i rappresentanti di due mondi non connotati da collo- cazioni di classe, da opzioni ideologiche o dai gradini occupati nella scala sociale. Carlo Levi ci restituisce il versante antropo- GIOVANNI DE LUNA XXII 28 Cfr. ivi, p. 29. I FASCISMO, NEOFASCISMO E ANTIFASCISMO 1. ESORDI GOBETTIANI Del suo incontro con Piero Gobetti, vero punto di partenza del- la sua evoluzione politica, intellettuale e personale, Carlo Levi ebbe occasione di scrivere quasi quaranta anni più tardi: «Mi pareva di trovarci, espresso in parole esplicite, rilevato, diventa- to comunicabile e chiaro, tutto il vago ineffabile che era in me, tutta l’energia indeterminata e così nuova che non sapeva nean- che di esistere, tutta la potenza diffusa e inconsapevole»1. Ben- ché quasi coetanei – Gobetti infatti nacque nel 1901, Levi, figlio di Ercole e Annetta, nel 1902 – Gobetti rimase, per Levi e il suo pensiero politico, un punto di riferimento obbligato, quasi una figura paterna; aveva affermato nel 1933: «scrivere di Piero Go- betti significa, per noi della nostra generazione, fare della auto- biografia; rivedere i dati e i motivi stessi della nostra formazio- ne morale e politica; riprendere [...] quelle idee e quelle passio- INTRODUZIONE 1 1 Carlo Levi, Gli anni di Energie Nove, in «Il Contemporaneo», III, n. 7, 18 febbraio 1956, p. 3; citato in Gigliola De Donato e Sergio D’Amaro, Un torinese del Sud: Carlo Levi, Milano, Baldini & Castoldi, 2001, p. 26. ni che, diventate per opera sua patrimonio dei migliori giovani italiani, avevano trasmutato le singole storie ideali in un proces- so comune, in una comune civiltà»2. Anche durante la Resistenza, quando Levi era direttore della «Nazione del popolo» a Firenze (giornale del Comitato di liberazione nazionale toscano), e nell’immediato dopoguerra, quando dirigeva «L’Italia libera» (giornale del Partito d’Azio- ne) a Roma, nei momenti di crisi e di esaltazione ritornano mol- ti riferimenti a Gobetti. Quando Levi scrive del ritrovato senso di autonomia dimostrato dai Comitati di liberazione nazionale locali a Firenze e della loro gestione della città, la voce che rie- cheggia somiglia a quella del Gobetti che parlava con entusia- smo dei Consigli di fabbrica a Torino durante il biennio rosso3. E più tardi, nel 1945, negli articoli scritti durante la crisi di go- verno orchestrata dai liberali, intimoriti dalle pretese radicali del governo di Ferruccio Parri (conclusasi con la sua caduta), tornano ancora i riferimenti a Gobetti, indicato come esempio di intellettuale liberale che, a differenza di quelli alla direzione del Partito liberale di allora, non aveva avuto paura del cam- biamento4. Levi e Gobetti si conobbero nei primi anni del dopoguer- ra per iniziativa di Levi, incuriosito dalla rivista fondata e diret- GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 2 2 C. Levi, Piero Gobetti e la Rivoluzione liberale, in «Quaderni di Giu- stizia e Libertà», giugno 1933, n.7; ripubblicato in «Il Ponte», 1949, n. 8-9 e in Gigliola De Donato (a cura di), Coraggio dei miti. Scritti contemporanei 1922- 1974, Bari, De Donato Editore, 1975, pp. 16-32. In una toccante lettera del 27 febbraio 1926, scritta subito dopo la morte dell’amico, Levi aveva descritto la paura di non essere all’altezza delle aspettative di Gobetti: «Temo, ahimè, di essere stato [...] per lui una delusione. Quello che egli sia stato per me, allora e più tardi, tu lo sai», cfr. Carteggio Carlo Levi-Natalino Sapegno (L’unità e l’im- pegno di una generazione) II, in «Basilicata», XXVIII, n. 2, febbraio 1986, p. 19, citato in Leonardo Sacco, L’Orologio della Repubblica. Carlo Levi e il caso Italia, con 37 disegni di Carlo Levi, Galatina (LE), Argo, 1996, p. 43. 3 Cfr. C. Levi, Firenze libera, in «La Nazione del Popolo» (NdP), 15 agosto 1945, numero unico. 4 Cfr. C. Levi, Dubbi liberali, in «L’Italia libera» (IL), III, 2 ottobre 1945, n. 235; La crisi dei “galantuomini”, in «IL», III, 6 novembre 1945, n. 265; Giolittismo ideale, in «IL», III, 1 dicembre 1945, n. 287; Troppi animali nel- l’Arca, in «IL», IV, n. 13, 16 gennaio 1946. La crisi dei “galantuomini” e Gio- littismo ideale sono ora in L. Sacco, Il Mezzogiorno è l’altro mondo, Reggio Ca- labria, Casa del Libro, 1980, p. 62 e p. 64 rispettivamente. ta da Gobetti, «Energie Nove», nel 19185. Quando si recò per la prima volta alla casa di Gobetti, non sapendo che il direttore fosse un suo coetaneo, Levi rimase sorpreso: «Suonai il campa- nello con estrema esitazione e venne subito ad aprirmi un ra- gazzo alto, magro, con una gran testa di capelli scarruffati bion- do-castani, un paio di occhiali di metallo sul naso aguzzo, e oc- chi vivacissimi e penetranti dietro le lenti. Volevo chiedergli se c’era in casa il signor Piero Gobetti, che pensavo dover essere suo padre; ma egli, credo, capì dal mio viso il mio dubbio e su- bito mi disse: “Gobetti sono io, tu sei quello che mi ha scritto, sei Levi?”»6. Negli anni che seguirono fra i due nacque un vero sodali- zio. L’influsso che il pensiero di Gobetti e le sue proposte poli- tiche e culturali esercitarono su Levi fu talmente grande che lo accompagnarono per il resto della sua vita. Occorre sottolinea- re, tuttavia, che l’esperienza con Gobetti rappresenta per Levi la continuazione di un percorso politico e intellettuale già ini- ziato negli anni precedenti al loro incontro. Nipote del deputa- to socialista Claudio Treves, fin dall’adolescenza Levi era abi- tuato ad assistere a dibattiti politici e alla compagnia degli espo- nenti della vita politica torinese e nazionale che frequentavano la sua casa. Attraverso le conversazioni con lo zio, il giovane Le- vi venne a conoscenza dei maggiori fatti politici e culturali dei primi anni del Novecento: le lotte sindacali, le manifestazioni, i cortei, i tentativi, a volte violenti, di reprimere queste iniziative. Fu in questo contesto che Levi iniziò ad apprezzare e capire l’importanza fondamentale dell’autonomia e della libertà, le due idee guida di tutto il suo pensiero politico e le basi su cui, più tardi, avrebbe poggiato il suo antifascismo. Quindi, prima an- cora dell’incontro con Gobetti, i capisaldi del pensiero politico di Levi erano già stati, almeno in nuce, costruiti. Ad essi Gobetti diede forma e sostanza. L’attività di Levi nei primi anni Venti fu multiforme: la col- laborazione con Gobetti e il suo gruppo di giovani intellettuali; gli studi di medicina (si laureò nel 1924 e fino al 1928 lavorò co- FASCISMO, NEOFASCISMO E ANTIFASCISMO 3 5 Per l’influsso di Gobetti su tutta una generazione di giovani intellet- tuali torinesi, cfr. Angelo d’Orsi, L’aura gobettiana, in Id., La cultura a Torino tra le due guerre, Torino, Einaudi, 2000, pp. 73-96. 6 C. Levi, Gli anni di Energie nove, cit. niziativa dei singoli, a scardinare le strutture rigide che sembra- vano governare il reale. L’insofferenza non era solo nei confronti di posizioni filo- sofiche, ma anche nei confronti degli uomini che formavano la classe politica italiana di quegli anni, esponenti di un liberalismo che sembrava aver perso la bussola. L’articolo di Levi su Salan- dra ne è una prova lampante. Si sente, in queste pagine, la voce di un giovane un po’ arrogante, convinto di vedere in modo chiaro i mali dell’Italia dei primi venti anni del Novecento e di conoscere già i rimedi; un giovane convinto di essere un altro ti- po di italiano, che non condivide quasi nulla con una genera- zione ormai superata dai tempi ma che, resistendo ai cambia- menti in atto, continua a occupare la sua posizione di rilievo nei centri del potere politico, economico e istituzionale. Non anco- ra «esuli in patria», ma quasi11. Questa, per Levi e Gobetti, fu la vera tragedia dei tempi, una tragedia illustrata dallo stato in cui versava il liberalismo in Italia. Tutta la loro attività politico-culturale mirava a dare una riposta a una questione che giudicavano di importanza cruciale: come trasformare un liberalismo ormai ridotto a mero esercizio del potere, in preda alla corruzione, all’inerzia, al trasformismo e al favoritismo, in una forza veramente dinamica; come ridare energia a un liberalismo imborghesito e in stato di crisi; come restituire a un’ideologia ormai priva di ideali la visione di una società futura. Nel cercare le loro risposte, Gobetti e i suoi col- laboratori dovevano necessariamente fare i conti con il comuni- smo, la nuova forza dinamica che sembrava promettere la rivi- talizzazione della politica nazionale, evitando la tendenza all’i- nerzia che era, per Gobetti, la caratteristica principale della borghesia12. Proprio in rapporto al marxismo due possibili strade si aprivano per i liberali: da una parte, vedere il marxismo come nemico irriducibile dalla cui influenza era necessario difendersi GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 6 11 Cfr. P. Gobetti, La tirannide, in «RL», I, n. 33, 23 novembre 1922, ma probabilmente uscito il 9 novembre. Ora in Opere complete, vol. I, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Torino, Einaudi, 1960, p. 428. 12 Cfr. in proposito P. Gobetti, La Rivoluzione liberale. Saggio sulla lot- ta politica in Italia, a cura di Ersilia Alessandrone Perona, Torino, Einaudi, 1983, p.135: «La borghesia sarebbe il momento dell’inerzia, della rinuncia in cui tutte le élites ricadono quando si avvicina il loro tramonto». a spada tratta; dall’altra, vederne la parte migliore, e cioè il suo idealismo e la sua visione sociale, come possibili fonti di inno- vazione. Gobetti e il suo gruppo optarono per la seconda di que- ste due ipotesi, trovando in due esperienze contemporanee di stampo comunista, la Rivoluzione russa e i Consigli di fabbrica a Torino, due esempi del dinamismo politico che cercavano, an- che se, da un punto di vista convenzionale, questi due fenome- ni erano di fatto agli antipodi del liberalismo. Ma per Gobetti, l’energia che spingeva questi due movimenti era in fondo libe- rale. Sia in Russia che a Torino, i protagonisti delle due espe- rienze erano nuove élites che lottavano contro lo status quo per una libertà che la classe dirigente al potere negava. Per Gobetti e per Levi, questo antagonismo (nuove classi o gruppi emergenti che sfidano l’establishment e fanno progredire la storia), era l’essenza di un liberalismo autentico e illuminato. Levi, come Gobetti e Antonio Gramsci, fu subito entusia- sta dei Consigli di fabbrica: «Abbiamo finalmente degli eroi», scrisse in una lettera privata a Natalino Sapegno nel 1920. In- fatti, Levi rimproverò se stesso di essere arrivato tardi alla con- statazione dell’importanza della classe operaia torinese: «Ci de- ve solo dolere di non aver compreso la necessaria vitalità del mo- vimento operaio, e di esserci così volontariamente messi fuori del movimento cui con tanto ardore vorremmo partecipare»13. Questa fu solo la prima di una serie di espressioni di entusiasmo: esse ritornano dinanzi agli avvenimenti cruciali per la vita poli- tica di Levi e per il suo impegno personale; tra questi emblema- tica importanza assumerà la Resistenza, destinata a diventare la metafora privilegiata per descrivere ogni possibile innovazione. L’esperienza formativa con Gobetti e coi Consigli di fab- brica ebbe un’importanza fondamentale per Levi. Tutti i suoi scritti, sia letterari che politici, sono animati dalla stessa filoso- fia di fondo: la vita cessa di essere autenticamente vita quando al posto della creatività, politica o artistica che sia, la quale ga- rantisce il dinamismo e la novità e spinge l’umanità verso il pro- gresso e la conquista di più larghi spazi di libertà, subentra una concezione dell’esistenza prigioniera di schemi predeterminati e di codici ereditati che vengono seguiti ciecamente. In tutti i FASCISMO, NEOFASCISMO E ANTIFASCISMO 7 13 Cfr. La fraterna amicizia dei gobettiani Carlo Levi e Natalino Sapegno I, in «Basilicata», XXVIII, gennaio 1986, n. 1, p. 17. suoi scritti, Levi riserva il sarcasmo più profondo per quei per- sonaggi, di cui Salandra è un perfetto esempio, che sono intel- lettualmente pigri, spaventati dalla creatività che, per lui, è in- nata in tutti gli uomini e le donne, ma dalla quale molti fuggono per cercare rifugio in ciò che è familiare, conosciuto, ereditato, sicuro. L’accusa principale che Levi lancia a Salandra è, per esempio, quella di volere perpetuare in eterno un metodo di go- verno, legato a un determinato momento storico ora passato, e un approccio alla vita non adeguato ai tempi. Si tratta di un’ac- cusa tipicamente gobettiana. Il pensiero di Salandra consiste in una «ripetizione accademica, pallida e falsificatrice [...] [che] si accontenta di formule, e non attinge mai la realtà ribelle»14. La stessa nozione di progresso risulta fatalmente viziata da questo atteggiamento, dal momento che la paura di Salandra si mani- festa nel suo modo di concepire il cambiamento. Quest’ultimo, lungi dal rappresentare qualcosa di nuovo, qualcosa di inaspet- tato, o «un futuro da avvicinare», si traduce subito nei termini difensivi di «un passato da difendere e, tutt’al più, da emenda- re»15. Questa ostinata difesa dei codici del passato, resi quasi in- toccabili dall’abitudine, non solo impedisce a Salandra e ad al- tri liberali di capire o apprezzare quei movimenti popolari che «tendono a superare i gialli schemi di un’organizzazione politi- ca invecchiata», ma li spinge anche a temerli. Secondo Levi, Sa- landra è anche uomo del Risorgimento, e come tale «prigionie- ro del passato»; un riferimento questo alla decisione dell’allora Primo ministro di portare l’Italia nella Prima guerra mondiale per completare, dal punto di vista territoriale, il processo di emancipazione nazionale, e un’anticipazione della critica mossa a Croce, a proposito della sua fede in Giolitti, nell’immediato se- condo dopoguerra16. Levi scrive, infatti, che Salandra vede «nel Risorgimento il centro non solo della nostra politica passata, ma anche della futura, quasi la forma predeterminata sulla quale la GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 8 14 C. Levi, Antonio Salandra, cit.; in G. De Donato, Coraggio dei miti, cit., p. 3 e in D. Bidussa (a cura di), Scritti politici, cit., pp. 3-4. 15 Ivi, in G. De Donato, Coraggio dei miti, cit., p. 4; in D. Bidussa (a cu- ra di), Scritti politici, cit., p. 4. 16 Cfr. C. Levi, Giolittismo ideale, in «IL», III, n. 287, 1 dicembre 1945. Per un’analisi delle differenti aspirazioni del variegato fronte interventista ita- liano cfr. Vittorio Foa, Questo Novecento, Torino, Einaudi, 1996, pp. 45-49 e Enzo Sereni, Le origini del fascismo italiano, Firenze, La Nuova Italia, 1998, pp. 79-89. Corrisponde, piuttosto, ai codici della vita dei nobili che Jolanda presume siano stati accettati da tutti e ha la funzione di legitti- mare le sue aspirazioni a un posto nel mondo dei signori. La sua vita è un gioco di specchi, un «mondo abusivo e imitatorio» (131) in cui «l’imitazione era diventata una seconda natura»(226). Il cugino, Giovanni, che porta una parrucca bionda e non toglie mai gli occhiali da sole, lavora come funzionario al Mini- stero dell’Africa Italiana, ma poiché, secondo la sua versione dei fatti, è così importante da poter andare in ufficio solo una volta al mese, gli hobbies, la scrittura, la musica e il disegno, sono di- ventati le sue attività principali. Come Jolanda, Giovanni ha co- struito le sue attività creative su ciò che presume siano codici in- derogabili: «Quello che per Jolanda era il mondo dei Signori, per lui era quello dell’Arte: qualche cosa di supposto e non co- nosciuto, al quale si cercava di appartenere, imitandone dal di fuori, a caso, le vuote apparenze» (229). I suoi quadri sono ste- reotipati, «copie di cartoline di dozzina» presentati a Carlo co- me «veri quadri, degli originali a buon diritto firmati. Nessun dubbio gli sfiorava la mente» (229); e i suoi libri, raccolti in vo- lumi fabbricati da lui stesso per genere e accompagnati da cita- zioni di recensioni inventate, tratte dai maggiori quotidiani del momento, riescono solo a essere ombre pallide del mondo del- la letteratura cui Giovanni aspira, ma la cui ricetta gli è assolu- tamente sconosciuta. Anche quando mangiano Jolanda e Gio- vanni sembrano scimmiottare i modi dei signori intravisti in un manuale di galateo: «I due mangiavano con sussiego, con modi caricati, tenendo il dito mignolo graziosamente ritto e le labbra chiuse, come in un trattato di belle maniere» (222). Perfino il modo con cui la nuova casa di Levi è stata arre- data dà prova di questo desiderio di imitare i presunti gusti dei signori: «per vederci, si doveva accendere una lampada ricoper- ta di vetri giallo-rosati, che lo illuminava a stento, e gli dava l’a- spetto di una imitazione immaginaria di un immaginario luogo di piacere, come può essere concepito da un lettore di romanzi popolari [...]. Una mano pretensiosa aveva cercato di innestare, su questo ceppo antico, con gli specchi, i marmi, la scala capre- se, le decorazioni, i lumi velati, quello che credeva fossero i se- gni necessari della modernità e dell’eleganza. Era successo alla casa come alla Jolanda, che aveva sovrapposto alla sua natura contadina uno strato di belletto mal disteso, una caricatura grot- tesca del vagheggiato costume dei signori» (132-33). FASCISMO, NEOFASCISMO E ANTIFASCISMO 11 Il tono scherzoso, comico e un po’ arrogante che si ri- scontra in queste pagine e che, al di là dei limiti dei personaggi in questione, dimostra tutta l’insofferenza dell’intellettuale di si- nistra nell’Italia del secondo dopoguerra nei confronti della cul- tura popolare e per i gusti delle masse, non deve, tuttavia, trar- re in inganno. Per Levi c’è un filo diretto che collega il confor- mismo di gente come Jolanda e Giovanni, conformisti anche quando credono di essere anticonformisti, cioè diversi dagli al- tri, e il sostegno di massa al fascismo. Levi non scherza affatto quando indica in gente come Jolanda e Giovanni, nella loro mancanza di autonomia, nella loro fede in forme di vita e codi- ci precostituiti e calati dall’alto, i segni della persistenza fra la piccola borghesia italiana di una mentalità, un costume in tutto simile a quello che aveva portato ad accogliere entusiasticamen- te il fascismo negli anni Venti e che, negli anni in cui scriveva L’Orologio, sembrava porre le basi per un largo sostegno al- l’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini. Tornando agli scritti degli anni Venti, si può constatare che Levi condivide del tutto la nota affermazione di Gobetti se- condo cui il fascismo è «l’autobiografia della nazione»21. Ma più di Gobetti, che sottolineava anche il ruolo dei «ceti plutocrati- ci»22, Levi, come emerge dal suo quinto articolo per «La Rivo- luzione liberale», mette l’accento in primo luogo sulle respon- sabilità della piccola borghesia, di tutti i Giovanni e le Jolanda del mondo23. L’articolo, I torinesi di Carlo Felice, offre un qua- GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 12 21 Cfr. P. Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, cit., p. 165. Per un quadro delle analisi della natura del fenomeno fa- scista cfr. Marco Revelli, Fascismo: teorie e interpretazioni, in Il mondo con- temporaneo, Storia d’Europa, vol. IV, a cura di Bruno Bongiovanni, Gian Car- lo Jocteau, Nicola Tranfaglia, Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 1561-611; per un compendio della posizione giellista, cfr. Carlo Rosselli, Socialismo libe- rale, Torino, Einaudi, 1997, pp. 111-24. 22 Cfr. P. Gobetti, Dopo le elezioni, in «RL», III, n. 16, 15 aprile 1924, ripubblicato in Opere complete, vol. I, Scritti politici, cit., p. 635-39. 23 Levi ebbe occasione di assistere alla Marcia su Roma durante un viag- gio che fece con suo fratello Riccardo. In una lettera quest’ultimo mette in ri- lievo il carattere “domestico” del fenomeno fascista: «Roma si era mangiata immediatamente il fascismo e lo addomesticava. Si vedevano fascisti girare col moschetto a tracollo, ma non avevano l’aria spavalda [...]. Potemmo visitare Roma, come turisti normali. In pochissimi giorni non si videro più fascisti per le vie. Tutto si adeguava: Roma ai fascisti e i fascisti a Roma», cfr. Riccardo Le- vi, Ricordi politici di un ingegnere, Milano, Vangelista, 1981, p. 13. dro di Torino negli anni Venti: una città divisa fra due ceti so- ciali, gli operai e la piccola borghesia, due mondi questi che non comunicano affatto fra loro. Nel centro vive la piccola borghe- sia, «i discendenti dei sudditi fedeli [di Carlo Felice]», abituati a obbedire, «la gente che non si muove»; essa risiede in una par- te della città di una desolante tristezza dove «nessuno guarda, dalle doppie vetrate, nelle strade solitarie», dove si respira «un melanconico odor provinciale, una freddezza di cuore, una mo- lesta abitudinaria debolezza». Occorre qui notare l’uso di ag- gettivi come «abitudinaria» e, nella citazione che segue, espres- sioni come «ordinate consuetudini», che per Levi hanno sem- pre un significato negativo, sinonimi di pigrizia mentale, di inabilità di pensare e agire in modo autonomo. Dall’altra parte della città, ci sono i quartieri degli operai e delle fabbriche, la nuova realtà, vibrante e ricca di energia, la fonte da cui deve sorgere una nuova élite, la nuova classe diri- gente dinamica dello schema gobettiano. Ma questa parte della città rimane una realtà ignorata dalla vecchia Torino, che desi- dera solo che il rumore delle officine rimanga lontano, e che tro- va «il tumulto degli scioperi odioso perché turba le ordinate consuetudini». Per Levi, è questa massa amorfa, servile e indif- ferenziata – il termine che adopererà in Paura della libertà – la materia prima utilizzata dal fascismo per costruire un’ampia ba- se di consenso: «il fascismo dovrebbe prosperando fiorire» si conclude l’articolo24. Gigliola De Donato ha certamente ragio- ne quando nota che l’analisi leviana delle origini del fascismo in Italia sostanzialmente esonera da colpe e responsabilità gli in- dustriali e gli agrari, e tende a dare relativamente poca impor- tanza alle radici economiche del fenomeno, confondendo la ba- se di massa del fascismo, che è la piccola borghesia, con le scel- te egemoniche delle classi industriali e capitalistiche25. FASCISMO, NEOFASCISMO E ANTIFASCISMO 13 24 Questa e le citazioni precedenti sono tratte da C. Levi, I torinesi di Carlo Felice, cit. Come Marco Revelli sottolinea, l’analisi di Levi ha qualcosa in comune con quella di José Ortega y Gasset, La rebeliòn de las masas, Ma- drid, Ediciones de la Rivista de Occiente, 1930, e di Friedrich Meinecke, Idee der Staaträson in der neueren Geschichte, Berlin, 1924. Cfr. a questo proposi- to G. De Luna, M. Revelli, Fascismo/Antifascismo. Le idee, le identità, Firen- ze, La Nuova Italia, pp. 3-43. 25 Cfr. G. De Donato, Saggio su Carlo Levi, Bari, De Donato Editore, 1974, pp. 37-43. La De Donato segue una linea simile in Coraggio dei miti, cit., pp. XXXI-XXXVI. degli agrari e dei gruppi industriali, ha il difetto di ignorare le colpe della massa prevalentemente piccolo borghese. Infatti, ve- dere il fascismo solo come il risultato di un complotto capitali- stico, scrive Levi, equivale a non comprendere, quel senso della molteplicità e complessità delle forze in giuoco, della varietà degli interessi che hanno costituito come un nodo, da cui è na- to, il totalitarismo; e, mentre è profondamente analizzata la politica dei gruppi conservatori industriali ed agrari che hanno dominato il paese, manca lo studio degli atteggiamenti della piccola borghesia italiana, dal cui tentativo di conquista dello Stato, accompagnato da nuove mi- tologie nate dal complesso di inferiorità, è sorta la rivoluzione di de- stra, la «palingenesi piccolo borghese», il fascismo e la sua idolatria statale.28 Il pomo della discordia in questo scambio di vedute non è solo la questione dei partiti di massa ma anche, e soprattutto, la stessa nozione di massa e i pericoli a cui può condurre. In un ar- ticolo scritto per «La Nazione del popolo» nell’ottobre del 1944, Levi si sofferma in termini chiari sul nesso fra massa e fa- scismo. Lo Stato fascista, lungi dall’essere solo la creazione di gruppi economici ansiosi di proteggere i loro interessi, è il ri- sultato inevitabile di una società di massa in crisi. «Il più poten- te degli idoli, lo Stato» viene, sì, imposto dall’alto alle masse, ma rappresenta un sollievo per quegli individui che trovano rifugio in uno Stato che è «figlio dello spavento», concepito, cioè, in modo tale che «annul[i] la persona nella “massa”, e gli uomini l’ador[i]no per dimenticarsi, per liberarsi di sé e della propria individuale paura». Sotto la paura fisica delle bombe e i massa- cri della Seconda guerra mondiale, Levi trova una paura ancora più radicata: Il terrore, il terrore fisico delle bombe, degli spari, degli assassi- ni, delle prigioni, delle stragi, della selva cittadina popolata di lupi fe- roci, nasceva da un terrore più profondo: la paura elementare di esi- stere, e di essere liberi, la paura dell’uomo che è nell’uomo. Agli uo- mini incapaci di contatti reali, incapaci cioè di libertà, in città smisurate, in opere meccaniche e colossali, non restava che la sterile solitudine, e il bisogno di perdersi in una amorfa collettività. La pau- GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 16 28 C. Levi, Rompere col passato, in «IL», IV, n. 2, 3 gennaio 1946. ra generava il razionalistico orgoglio della desolazione, e la irrazionale volontà di dissoluzione totalitaria. Così, da questa paura elementare è nato il nazismo: anzi, esso non è che questa paura [...]. Il nazismo è la paura, dove non vi è par- te per l’uomo, ma soltanto per i suoi idoli mostruosi, tentativi dispe- rati di impossibile salvezza.29 Levi quindi collega direttamente la paura della libertà ca- ratteristica della cultura di massa all’ascesa del fascismo, visto come risposta alle apprensioni e alle speranze di una indifferen- ziata società massificata. Nemmeno la lettura più superficiale dei suoi scritti può lasciare dubbi su questo punto: il fascismo è la rivelazione dei limiti della piccola borghesia italiana30. Nel- l’articolo menzionato precedentemente, Paura della libertà, sen- za risparmiare insulti alla massa degli italiani, chiamando «servi nati», «schiavi», «vili», quelli che hanno visto in Mussolini il sal- vatore della patria, l’uomo della provvidenza, scrive: La paura della libertà è il sentimento che ha generato il fascismo. Per chi ha l’animo di un servo, la sola pace, la sola felicità è nell’avere un padrone; e nulla è più faticoso, e veramente spaventoso, che l’eser- cizio della libertà. Questo spiega l’amore di tanti schiavi per Mussoli- ni: questa mediocrità divinizzata, necessaria per riempire il vuoto del- l’animo, e calmarne l’inquietudine con un senso di riposante certezza. Per chi è nato servo, abdicare a se stessi è una beatificante necessità. Levi poi offre una teoria per spiegare il processo di «cri- stallizzazione artificiale» per il quale il fascismo può apparire alle masse come un antidoto benefico e provvidenziale per il lo- ro senso di smarrimento, di confusione e paura. Questo pro- cesso agisce non a livello razionale ma nelle pieghe nascoste dell’anima: non già nella politica presieduta dalla ragione e dal senso degli inte- ressi vivi e della libertà, ma in quella politica uterina, propria delle masse informi, fatta di incerti terrori, di bisogni inespressi, di conati, di ambizioni e di complessi di inferiorità, che ha avuto nel fascismo e FASCISMO, NEOFASCISMO E ANTIFASCISMO 17 29 C. Levi, Liberazione dal terrore, in «NdP», I, n. 37, 9 ottobre 1944. 30 Per uno sguardo d’insieme sul dibattito azionista riguardante i ceti medi cfr. G. De Luna, Storia del Partito d’Azione 1942-1947, Roma, Editori Riuniti, 1997, pp. 219-226. nel nazismo la più recente e clamorosa espressione. Questo mondo im- personale, che ha paura di se stesso e della libertà cerca, per riempire il proprio vuoto, un uomo, un nome, una formula, e, una volta trova- to, una volta avvenuta la «cristallizzazione», vi si appaga con il settari- smo dell’irrazionale. Questo modo sessuale della politica è stato il fa- scismo: e, per quanto i tempi siano mutati non è a credere che esso sia del tutto finito. Gli uomini qualunque, quelli che non sono ancora per- sone, sentono nella loro vanità un bisogno doloroso che per essi il ri- tualismo fascista soddisfaceva, e si volgono qua e là, come vermi cie- chi, per trovare qualche cosa che lo sostituisca. Dietro ad essi, natu- ralmente, come dietro alla massa totalitaria fascista, stanno forze e interessi ben determinati e consapevoli, che si valgono di questo loro bisogno elementare di sicurezza gregaria per volgerlo ai loro fini; per provocare artificialmente quel processo di cristallizzazione che fa di una massa indeterminata, una forza fanatica. Il processo stesso è alquanto semplice. Nel cercare un sen- so di sicurezza e certezza con cui riempire il vuoto che la paura della libertà ha lasciato, le masse sono attratte da tutto quello che si presenta loro in modo più convincente: «un uomo, un no- me, una formula». Qualora la figura di un Mussolini o di un Hi- tler conquisti la fiducia delle masse e appaia come la risposta provvidenziale alle loro ansie, il processo di cristallizzazione è compiuto. Questo, bisogna aggiungere, non è un processo limi- tato a dittature di stampo fascista. Levi interpretò alcuni avve- nimenti del periodo postbellico come tentativi di cristallizzare l’opinione pubblica intorno a figure e gruppi che si ponevano come alternativa al Comitato di liberazione nazionale alla guida della nazione: innanzi tutto, la formazione di una Lega per la di- fesa delle libertà democratiche, un’idea partorita da alcuni fra gli esponenti più prestigiosi e presentabili del Partito liberale; e poi, la comparsa del movimento dell’Uomo qualunque. In que- st’ultimo caso, comunque, la mancanza di carisma politico del leader Giannini, avrebbe impedito lo svolgimento di un vero processo di “cristallizzazione”31. GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 18 31 C. Levi, Cristallizzazione artificiale, in «IL», III, n. 239, 6 ottobre 1945. Cfr. anche, Favole e realtà, in «IL», III, n. 249, 18 ottobre 1945; ora in L. Sacco, Il Mezzogiorno è l’altro mondo, cit., p.60: «Esiste in Italia una “Lega per la difesa delle libertà democratiche». Difesa contro chi? Contro coloro, a quel che pare, che hanno conquistato all’Italia le libertà democratiche. Que- sta singolare Lega ha pubblicato un appello, chiedendo, per le elezioni per la colari come questo, a far presa sull’immaginazione di strati di poveri disperati, fatalmente attratti dalle immagini di lusso che il ricco armatore trasmette e di cui conosce bene, o almeno in- tuisce, il valore: Sono cose che appartengono a un altro mondo, a un mondo ine- sistente e esemplare per coloro che, totalmente sfiduciati di se stessi, del mondo in cui vivono e di qualunque ragionevole e umana possibi- lità di miglioramento, amano compensarsi con i sogni, con gli idoli, col culto dei morti, con le speranze nella cabala, nel gioco del lotto, nel to- tocalcio, nei santi, con l’immagine miracolosa del re che, poverino, vi- ve in esilio, o del duce che, poverino, è stato tradito e ucciso. In un mondo le cui sole realtà sono i miracoli sperati, nessun partito politi- co può far presa se non quelli, come il monarchico o il fascista, che si pascono solo di parole, di false speranze, di falsi miracoli. (33-34) L’unico pericolo rappresentato dal neofascismo in un pae- se, scrive Levi crocianamente, che è stato «vaccinato per sempre contro questa malattia» (40), deriva dalla possibilità, che il Msi venga assorbito dall’ala più conservatrice della Democrazia Cri- stiana (Dc), per costruire un’alleanza di destra capace di porta- re avanti il progetto del Vaticano («o almeno di certi suoi espo- nenti» [35]), dell’Azione Cattolica e degli «strati più retrivi dei ceti industriali e agrari» (35) di clericalizzazione dello Stato. Questo scenario non era fantapolitica. In vista di un calo della Dc alle elezioni politiche e dell’eventualità di essere costretti a formare un’alleanza di governo con i partiti laici, il cui prezzo sarebbe stato una vanificazione delle misure miranti alla cleri- calizzazione del paese, Luigi Gedda, capo dell’Azione Cattoli- ca, aveva proposto una alleanza fra Dc, Msi e Monarchici di Lauro. La proposta fu subito bocciata, ma intanto aveva avuto l’effetto di dare ai neofascisti una legittimazione prima scono- sciuta: «il fatto stesso che essa fosse stata tentata, l’impressione generale che la manovra derivasse dalle più alte sfere vaticane, forse dal Papa stesso, bastò a rinforzare enormemente la posi- zione dei fascisti» (29). Levi fu costretto a tornare sull’argomento del neofascismo nel 1960, in occasione di un discorso tenuto nel trigesimo dei morti di Reggio Emilia34. Il caso Tambroni e il suo tentativo fal- FASCISMO, NEOFASCISMO E ANTIFASCISMO 21 34 Il 29 aprile del 1960 il governo del democristiano Ferdinando Tam- broni ottenne la fiducia in Senato grazie ai voti del MSI; venivano accantona- lito di includere il MSI nella coalizione di governo, rappresenta per Levi un altro elemento su cui riflettere a proposito di una permanente tentazione fascista del paese. Nel discorso di Reg- gio Emilia, nonostante gli appelli a una nuova Resistenza, si in- travede nelle sue parole il riconoscimento che il fascismo, o co- munque una forma di esso, è destinato a fare parte in maniera permanente del panorama politico italiano. Alla ricerca delle cause dell’insorgere del neofascismo, Levi scrive: Ma la gravità della situazione [...] aveva radici [...] lontane, in tutti i problemi sociali e politici non risolti; nella immobilità di una classe politica incapace [...] nella struttura stessa dello Stato inadatta ai bisogni e alle qualità nuove di una vita moderna [...] nel paternali- smo o nella violenza dei rapporti fra le autorità e i cittadini, non con- siderati veri cittadini, ma sudditi, nella mancanza di democrazia reale in tutti i momenti della vita comune, nei luoghi di lavoro, nelle gerar- chie di fabbrica, nei mezzi di istruzione pubblica, nella diffusione del- la cultura, nella realtà dei diritti possibili, in tutti i rapporti umani. Ma che cosa significa questo? Questo, qualunque siano le forme e i nomi e la radice antica, è il significato vecchio e nuovo del fascismo, di quel fascismo che è tra di noi, che prende aspetti diversi e che richiede, per essere distrutto, non la battaglia di un giorno, né mutamenti di super- ficie, ma un radicale mutamento di struttura.35 GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 22 te, in questo modo, le prospettive di “apertura a sinistra” maturate all’interno della stessa DC. La coscienza antifascista del paese emerse prepotentemente qualche tempo dopo, in occasione del VI Congresso nazionale che il MSI, con l’appoggio del governo, aveva deciso di tenere a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Il 30 giugno una manifestazione di protesta attraversò la città: si verificarono tafferugli violentissimi tra i dimostranti e le forze dell’ordine, in seguito ai quali il congresso del MSI fu rinviato. Il 5 luglio, a Licata, durante uno sciopero, la polizia aprì il fuoco, provocando un morto e cinque feriti tra i manifestanti. Nei giorni seguenti si moltiplicarono i cortei di protesta e gli scontri in altre città: a Roma il 6 luglio una carica a cavallo investì un comizio antifascista; a Reggio Emilia, il 7, la polizia sparò nuovamente e cinque furo- no i morti (19 feriti); l’8 luglio, le vittime furono tre, due a Palermo e una a Ca- tania. In seguito a questi eventi tragici, il 19 luglio Tambroni rassegnò le di- missioni. Cfr. in proposito l’Introduzione di G. De Luna a C. Levi, Il bambi- no del 7 luglio, cit., pp. 1-7; sui fatti del luglio 1960 e sulla travagliata gestazione del centro-sinistra in Italia, cfr. Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal do- poguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, p. 344 sgg. 35 C. Levi, La nuova Resistenza, prefazione a Renato Nicolai, Reggio Emilia, 7 luglio 1960, Roma, Editori riuniti, 1960, ora in G. De Donato, Co- raggio dei miti, cit., p. 149. In proposito cfr. anche C. Levi, Il bambino del 7 lu- glio, cit.: dalla selezione di articoli pubblicata in questo libro – riguardanti le 3. L’AUTONOMIA Per Levi, il radicale mutamento di struttura di cui l’Italia aveva bisogno urgente, ancora negli anni Sessanta, era la riforma del- lo Stato in senso autonomistico, un tema che era stato uno dei punti centrali di Giustizia e Libertà negli anni Trenta e del Par- tito d’Azione negli anni Quaranta, una lotta questa che lo ac- compagnò in tutte le fasi della sua vita politica e fino agli ultimi anni della sua esistenza. L’autonomia, scrive Levi in una com- memorazione di Leone Ginzburg – con cui aveva collaborato al- la redazione di una proposta programmatica, pubblicata nel 1932 sui «Quaderni di Giustizia e Libertà» con il titolo Il con- cetto di autonomia nel programma di G.L. – è fondamentale; non è soltanto un «principio ideale», ma «un modo concreto dello Stato basato sui centri storici e reali di vita come il comune, co- me sui consigli rivoluzionari nel mondo del lavoro»36. Nella sua attività politica degli anni Trenta, sin dai primi scritti, Levi sostiene che l’educazione alla libertà passa attraver- so la capacità dell’individuo di agire in modo autonomo. Que- sto diventa il tema centrale dei suoi contributi alla rivista «Qua- derni di Giustizia e Libertà», sia per quanto riguarda il tema del- l’organizzazione dello Stato, sia per quanto riguarda il rapporto tra etica e politica nell’antifascismo, nonché per i codici di com- portamento dei singoli37. FASCISMO, NEOFASCISMO E ANTIFASCISMO 23 sollevazioni popolari del luglio 1960 e comparsi sul settimanale ABC tra il lu- glio 1960 e il marzo 1961 – emerge chiaramente la posizione di Levi per quan- to concerne la cosiddetta Nuova Resistenza. Scrive Levi il 10 luglio: «Genova è dunque [...] il primo segno che la Resistenza può ricominciare, non come gloria passata, o celebrazione, ma come lotta di oggi, forma della vita popola- re. [...] Uomini nuovi, giovani nuovi, ripensano nuovi pensieri, che sono i no- stri. E la fiducia, rinasce», cfr. ivi, p. 66. 36 C. Levi, Ricordo di Leone Ginzburg, in G. De Donato, Coraggio dei miti, cit., p. 167. 37 Gli scritti di Levi sui «Quaderni di Giustizia e libertà» (QGL) sono: Seconda lettera dall’Italia, in «QGL», marzo 1932, n.2; Malaparte e Bonaparte, ossia l’Italia letteraria, in «QGL», marzo 1932, n.2 ; Il concetto di autonomia nel programma di G.L., in «QGL», settembre 1932, n.4; In morte di Claudio Treves, in «QGL», giugno 1933, n. 7; Piero Gobetti e la Rivoluzione Liberale, in «QGL», giugno 1933, n. 7; Due mondi, in «QGL», febbraio 1934, n. 10; Sport, in «QGL», febbraio 1934, n. 10. Inoltre, in questo periodo, 1932-34, Levi ha pubblicato i seguenti articoli su altre riviste: Ariosto, in «La Cultura», XI, n. 1, ottobre 1932; e Leone Ginzburg, in «Giustizia e Libertà», I, n. 27, 16 te dagli «elementi immaturi alla lotta politica» (36), scelgono la militanza nel Pci non perché sedotti dai miti utopici della cul- tura politica comunista, ma per cogliere l’occasione di impe- gnarsi politicamente, possibilità che il partito offre a causa del «suo metodo, non per la sua mitologia ma per la sua guerra: lo accettano come la più semplice parola d’ordine di lotta consa- pevoli (più o meno esplicitamente) che l’importanza non è la pa- rola d’ordine, ma la lotta stessa» (36). Questi, quindi, sono operai che in modo autonomo han- no sviluppato posizioni antifasciste e vedono nel Pci il modo mi- gliore di attuare il loro antifascismo, in forma concreta e collet- tiva, antifascisti prima di essere comunisti e per questo non di- sponibili a lasciarsi sedurre dall’illusione di una mitica società futura che continua ad informare la cultura del partito. In altre parole, si tratta di comunisti che dimostrano tutti i tratti miglio- ri di una cultura politica liberale, proprio come quelli che ave- vano dato vita ai Consigli di fabbrica 15 anni prima. Ma se gli operai rappresentano il lato liberale e creativo del Pci, le nuove leve piccolo borghesi e intellettuali rappresen- tano il rischio che il partito ricada in pratiche ormai superate dai lavoratori. L’influsso dei nuovi militanti, «mossi più dalla dispe- razione che dalla consapevolezza» (37), rischia quindi di com- promettere l’evolversi dell’itinerario liberale degli operai e di far riemergere la «parte peggiore e illiberale» del Pci (37). Attratte dal partito «perché esiste, perché è una forza organizzata, perché non richiede ad essi simpatizzanti uno sforzo di adesione crea- tiva, ma promette un rovesciamento completo, perché l’Inter- nazionale vi è intesa come un dato, non come un punto di arri- vo; perché porta nella lotta contro il fascismo la mentalità mili- tare» (37), le nuove leve si avvicinano al Pci per gli stessi motivi per cui, in modo parallelo, altri italiani ugualmente disorientati si sono avvicinati al fascismo: «Nella loro simpatia per il comu- nismo ci sono, di nuovo, i motivi dell’adesione degli italiani al fascismo. Il comunismo è considerato come il liberatore – il sal- vatore della patria; ed essi provano il piacere di darsi, mani e pie- di legati, a qualcuno che li salvi» (37). Ed è qui che si possono incominciare a vedere i limiti estremi del progetto politico di Giustizia e Libertà e di Levi: un progetto mirante, in fondo, a riaffermare la continua rilevanza del liberalismo (coniugato, però, con i principi del socialismo), nonostante lo stato di crisi in cui era caduto nei primi decenni GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 26 del Novecento. Non potendo attingere a soggetti sociali classi- camente liberali – la piccola borghesia, per intenderci – in cer- ca di istanze di dinamismo politico, gli intellettuali di Giustizia e Libertà si trovavano costretti ad assorbire all’interno del loro liberalismo rinnovato gli esempi di dinamicità provenienti da settori non liberali, come il movimento operaio o la parte di es- so che si riteneva più avanzata. Come a dire: tutti gli esempi di dinamismo politico, quali che ne siano le origini, sono spinti da una cultura liberale, la quale, in questo modo, si autolegittima rivendicando per sé il meglio delle ideologie rivali, assorbendo- le e, almeno agli occhi dei fautori di questa tesi, superandole. Qui non siamo affatto distanti dal Croce di Perché non possiamo non dirci cristiani. La tattica di separare i buoni dai cattivi, come nel caso suddetto dei comunisti illuminati da quelli ciecamente fedeli al- le parole d’ordine del partito, per poi offrire i primi come esem- pi di uno stadio più evoluto di preparazione politica, perché esi- biscono i tratti salienti del liberalismo, che rappresenterebbe quindi, in quest’ottica, un’ideologia superiore a quella comuni- sta, non era nuova. Gobetti aveva usato lo stesso approccio nel- le discussioni riguardanti i Consigli di fabbrica, una strategia se- condo la quale gli operai comunisti, come i protagonisti della Ri- voluzione russa, dimostrando il loro spirito di sacrificio, le loro competenze professionali, e la loro intransigenza ecc., esibivano caratteristiche prettamente liberali, nel senso che la loro lotta apriva orizzonti sempre più ampi di libertà. Per questo erano da considerarsi liberali, anche se inconsapevoli. In fondo a questa modalità analitica non è difficile intravedere il rifiuto un po’ snobistico di riconoscere che la lotta per maggiori spazi di li- bertà possa essere condotta dall’interno di un’ideologia non li- berale. Inoltre, si nota anche un ritorno della pretesa del libera- lismo di configurarsi come un’ideologia universale e universa- lizzante. Infatti, seguendo questa linea di pensiero, si giudica che tutto quello che succede di positivo nel mondo sia un esem- pio di liberalismo: chiunque ne sia responsabile è liberale, qua- lunque cosa pretenda di essere. Difatti, la seconda parte dell’ar- ticolo tesse le lodi di Giustizia e Libertà: unico esempio, salvo un cambiamento di rotta da parte del Pci che lo avvicini alle po- sizioni del movimento capeggiato da Rosselli, di come portare avanti la lotta antifascista e fare la rivoluzione in modo da non ripetere gli errori del passato. FASCISMO, NEOFASCISMO E ANTIFASCISMO 27 Tutto questo non era che la continuazione di un lungo e violento dibattito fra esponenti di Giustizia e Libertà e del Pci. Non dovrebbe sorprendere, quindi, che la reazione del Pci alle critiche espresse da Giustizia e Libertà nei confronti del partito fosse feroce. Giustizia e Libertà era accusato di essere un movi- mento di intellettuali borghesi inefficaci e “socialfascisti”. Nel gennaio del 1931 Carlo Rosselli, nella sua Risposta a Giorgio Amendola, che aveva accusato Giustizia e Libertà di agire con- tro gli interessi del proletariato (il titolo del suo articolo era Con il proletariato o contro il proletariato?), descriveva la cultura po- litica comunista in termini molto forti, accusando il PCI di trat- tare i propri militanti come un gregge40. Nessuno uscì bene da questo scontro aspro che prese la forma di un vero dialogo fra sordi e che per certi versi anticipò i termini dello scontro fra Pci e la rivista “Politecnico” nell’im- mediato secondo dopoguerra: né i comunisti con le loro accuse ridicole di “socialfascismo” nei confronti di Giustizia e Libertà, a cui Levi replicava, come abbiamo visto nell’articolo sopracci- tato, sottolineando l’affinità fra l’adesione al fascismo e l’ade- sione al PCI; né Giustizia e Libertà, con la riluttanza, se non pro- prio il rifiuto, ad accettare che il liberalismo non avesse il mo- nopolio sulle istanze di libertà e che militanti comunisti potessero essere soggetti autonomi, pur restando militanti co- munisti a tutti gli effetti e non liberali camuffati. Questa, in es- senza, è la critica che Gramsci rivolge a Gobetti quando scrive: «ci auguriamo che egli [Gobetti] si persuada sempre più che se il liberalismo significa sviluppo della libertà e della autonomia popolare, se liberalismo significa incremento di capacità politi- ca negli individui, oggi il liberalismo, come concretezza storica, vive solo nel Comunismo internazionale»41. Sottesa a tutta la polemica fra Giustizia e Libertà e PCI è, ancora una volta, la questione dell’autonomia, sia per quanto ri- guarda gli atteggiamenti dei singoli militanti nella lotta antifa- scista, che per quanto riguarda la forma dello Stato, tema cru- GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 28 40 Cfr. Carlo Rosselli, Risposta a Giorgio Amendola, in «QGL», gen- naio 1932, n. 1. L’articolo di Amendola é in «Lo Stato Operaio», V, n. 6, giu- gno 1931, p. 310. 41 Antonio Gramsci, Scritti 1915-1921. Nuovi contributi, ed Sergio Ca- prioglio, «Quaderni del corpo», I, 1968, p. 160. La morale dell’intransigenza, comunque si esprima, è modello e anticipazione per gli italiani di domani; è, veramente, opera politica. Gli ultimi sette anni della vita di Claudio Treves contano per il futuro, come l’azione di un partito, se l’esempio di un uomo libero può esse- re creatore di storia.46 4. IL MITO POLITICO Da questi ritratti, si può dedurre una serie di qualità positive possedute dal nuovo tipo morale. Una di queste, forse la più im- portante, è una certa apertura dinanzi al mondo, un’avversione nei confronti di dogmi e fedi assunti acriticamente, una visione non preconcetta o predeterminata del futuro, in cui la creatività umana può esprimersi nelle forme più appropriate alle esigenze del momento. In un riferimento alla cultura ebraica, Levi de- scrive questa qualità in Treves parlando del suo «idealismo ebraico, per cui Dio non si incarna, non prende nome e forma, e non dà compensi, né quaggiù, né in un’altra vita»47. Ma anche se una tale valorizzazione può sembrare attraente, e lo era per molti giovani intellettuali, essa aveva delle conseguenze discuti- bili. Per esempio, l’enfasi sull’idea che il futuro fosse tutto da creare, quasi ex novo, dava un carattere vago, al di là delle gran- di linee guida, alle proposte concrete lanciate da Giustizia e Li- bertà, soprattutto a quelle riguardanti la forma dello Stato. Inoltre, la preoccupazione di lasciare aperte le strade fu- ture che l’attività politica avrebbe potuto prendere, escludeva la possibilità di offrire ai militanti, e a quelli che aspiravano a di- ventarlo, un mito unificante intorno a cui raggrupparsi e con cui identificarsi. Questo non significa che i miti non avessero un ruolo importante nella cultura politica di Giustizia e Libertà. Levi, Rosselli e Gobetti, tutti e tre lettori avidi di Georges Sorel, una lettura d’obbligo in quegli anni, avevano compreso il ruolo del mito come «sprone all’azione», per usare i termini coniati da Gobetti stesso48. FASCISMO, NEOFASCISMO E ANTIFASCISMO 31 46 Ivi, p. 84. 47 Cfr. ivi, cit., p. 82. 48 Cfr. P. Gobetti, La rivoluzione italiana. Discorso al collaboratori di Energie Nove, in «L’Educazione nazionale», 30 novembre 1920; ora in P. Go- betti, Scritti Politici, cit., p. 193. Ma oltre a questa funzione, secondo loro, il mito non do- veva andare. Il suo compito, limitato, era quello di galvanizzare i militanti per l’azione politica; quello che non doveva fare era predeterminare la direzione in cui la loro attività creativa sareb- be andata. Anche se i militanti comunisti coinvolti nei Consigli di fabbrica credevano fermamente nel mito di una società sen- za classi e nel valore dello sciopero generale, per gli intellettua- li di Giustizia e Libertà l’immagine che i comunisti avevano di sé era fondamentalmente falsa. Interessato sempre agli inizi di un processo e mai ai suoi obiettivi, il mito aveva la funzione di spingere quelli che ci credevano a un impegno i cui effetti sa- rebbero stati radicalmente diversi da quelli previsti dal mito stesso: nel caso dei Consigli di fabbrica, ciò a cui conduceva l’a- zione politica non era la società comunista, bensì una società più liberale, più illuminata, più modernamente capitalista creata da una nuova classe dirigente. Il grande paradosso su cui poggiava l’analisi degli intellettuali di Giustizia e Libertà era che, secon- do loro, la nuova classe dirigente protagonista dell’azione poli- tica non era in grado di vedere ciò che andava creando. Questo, però, non influiva minimamente sull’importanza dell’esperien- za. Il ruolo del mito, quindi, è di fornire una visione illusoria di una possibile società futura, la quale spinge quelli che credono in esso all’azione politica. Ma i traguardi a cui porta l’azione po- litica ispirata al mito sono ben diversi da quelli prefissati: non l’utopia impossibile, bensì quello di cui la società ha bisogno e che la storia permette in quel momento49. All’intellettuale liberale rimane il compito di andare oltre il mito e vedere e spiegare agli altri il vero significato del mo- mento, un compito che presuppone un rapporto paternalistico fra intellettuali e masse. Tutto questo è di grande aiuto per spie- gare perché Levi sia molto cauto nel descrivere la funzione del mito nel suo pensiero politico. Nell’articolo su Salandra, per esempio, mette l’accento sul mito come mezzo e non come fine: «Salandra non accetta il concetto di lotta di classe “odiosa GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 32 49 Gobetti esprime quest’idea, riferendosi a Dante: «Morale e logica era l’idea agitata da Dante nel De Monarchia, ma che fosse poco politica, che non rappresentasse una necessità politica, ce lo dice la storia che non ne permise l’attuazione». In P. Gobetti, La Società delle Nazioni, in «Energie Nove» (EN), I, n. 5, 1-15 gennaio 1919, pp. 65-67. espressione di un fatto irreale” ma neppure comprende come at- traverso la lotta di classe, l’internazionalismo, lo sciopero gene- rale, si vada educando a libertà il nostro popolo che non trova se non in questi miti il mezzo di affermarsi»50. E nell’articolo su Gobetti aggiunge la qualifica «critico e storico» al suo riferi- mento al mito che Gobetti stesso era diventato per altri intellet- tuali liberali: «Con “Rivoluzione liberale”, Gobetti ha dato agli italiani insieme una teoria della politica, una morale della li- bertà, lo strumento per la creazione di una classe politica, e l’e- sempio forse unico della nascita di un mito d’azione che è insie- me critico e storico»51. E nel Concetto di autonomia nel pro- gramma di G.L. ancora una volta precisa: «I punti particolari dello schema programmatico debbono essere difesi perché in essi non è questa confusione di ideali (ove ancora fosse, do- vrebbe scomparire), ma rappresentano, e soltanto, dei postula- ti d’ordine politico, validi in quanto costituiscano dei miti d’a- zione»52. Infine Levi si vanta del fatto che, a differenza di altri programmi politici, quello di Giustizia e Libertà è privo di mi- ti, anche se, e qui tocca il vero limite del programma di Giusti- zia e Libertà, è costretto ad ammettere, «l’efficacia propagandi- stica del nostro programma» ne risulta diminuita53. La diffidenza che Levi aveva nei confronti del mito non era, a dire il vero, condivisa da tutti i militanti di Giustizia e Li- bertà. Carlo Rosselli, per esempio, capì forse più di Levi il ruo- lo fondamentale dell’esistenza di un mito unificante intorno a cui raccogliere consensi, dare al movimento una precisa identità e un background storico e nazionale. Rosselli, infatti, si autorap- presentava esplicitamente come l’erede naturale della tradizio- ne dei ribelli del Risorgimento (compreso il suo esilio) e inter- pretava la lotta antifascista (compresa la guerra civile in Spagna) come la continuazione della lotta per l’unificazione in Italia. FASCISMO, NEOFASCISMO E ANTIFASCISMO 33 50 C. Levi, Antonio Salandra, in G. De Donato, Coraggio dei miti, cit. p. 4 e in D. Bidussa (a cura di), Scritti politici, cit., p. 5. 51 C. Levi, Piero Gobetti e la Rivoluzione Liberale, in G. De Donato, Co- raggio dei miti, cit., p. 25 e in D. Bidussa (a cura di), Scritti politici, cit., p. 97. 52 C. Levi, Il concetto di autonomia nel programma di G.L., in D. Bidussa (a cura di), Scritti politici, cit., pp.72-73. 53 Cfr. C. Levi, Seconda Lettera dall’Italia, in G. De Donato, Coraggio dei miti, cit., p. 40 e in D. Bidussa (a cura di), Scritti politici, cit. p. 60. strata dalla decisione di dar vita alla rivista «La Cultura», pub- blicata dalla allora giovane casa editrice Einaudi con cui Levi, Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Luigi Salvato- relli ed altri collaboravano. Piuttosto che puntare sulle azioni spettacolari, lo scopo della «Cultura» era di rivitalizzare una co- scienza antifascista nella fabbrica del consenso che era diventa- ta l’Italia mussoliniana e di promuovere una riforma del costu- me politico e culturale della nazione. A quanto pare, «La Cul- tura» – alla quale, secondo le relazioni dei fiduciari, Vittorio Foa aveva pregato Rosselli di non dare troppa pubblicità, dal mo- mento che rappresentava «un pilone di Resistenza» in Italia – preoccupava le autorità fasciste; e lo scrittore Dino Segre, me- glio conosciuto come Pitigrilli, un altro fiduciario del regime, numero 373, notava in una sua relazione e con uno stile tutto suo che essa era «un ago calamitato sul quale si raduna tutta la limatura di ferro dell’antifascismo cerebrale torinese»57. La preoccupazione era tale che l’Ovra si mosse perfino per ottene- re la chiusura della casa editrice Einaudi e della rivista «La Cul- tura», un’azione «assolutamente indispensabile, se si intenda ef- fettivamente stroncare uno dei centri più infetti, nel quale si an- nidano i più pericolosi antifascisti», ritenendo sia l’una che l’altra «un centro di attrazione pericolosissimo»58. Ma il progetto dei giellisti torinesi, sposato interamente da Levi, forse più ambizioso e certamente di più lungo termine ri- spetto a quello di Rosselli, si scontrava con una realtà che sem- brava vanificarlo. In primo luogo, come abbiamo visto, lo sfor- zo di non predeterminare il futuro e la riluttanza di intellettuali come Levi nell’invocare un mito d’azione per galvanizzare i mi- litanti avevano l’effetto di rendere piuttosto vaghe le proposte GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 36 nalisi dettagliata dei rapporti fra Giustizia e Libertà e la Polizia politica, da cui le informazioni in queste pagine sono tratte, si veda: Joel Blatt, The Battle of Turin, 1933-36: Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà, OVRA and the origins of Mussolini’s anti-Semitic campaign, in «Journal of Modern Italian Studies», I, n. 1, autunno 1995, pp. 22-57. 57 Cfr. Pitigrilli, «Einaudi, Giulio», Archivio Centrale dello Stato, Pub- blica Sicurezza, G1, Busta 281. 58 Senza firma, Roma, 6 maggio, 1935, Archivio Centrale dello Stato, Divisione Polizia Politica, Busta 117; Divisione Polizia Politica, «Al Questore di Torino», Roma, 4 maggio 1935, Archivio Centrale dello Stato, Pubblica Si- curezza, G1, Busta 281; «Pro-Memoria», Roma, 3 agosto 1934, Archivio Cen- trale dello Stato, Divisione Polizia Politica, Busta 122. politiche avanzate dal movimento. In secondo luogo, la natura del programma, che mirava a una riforma profonda del costu- me degli italiani, intellettuali compresi, si rivelava troppo radi- cale perfino per i più illuminati di essi. Sia i limiti che i pregi delle posizioni di Giustizia e Libertà sono evidenti negli articoli che Levi scrive per i «Quaderni di Giustizia e Libertà»: la sua è una scrittura forte e convincente quando denuncia i mali della situazione dell’Italia e i disastri so- ciali, politici e culturali portati dal fascismo; ma è una scrittura che rimane piuttosto vaga e inconcludente quando si tratta di formulare e diffondere le proposte finalizzate a sanare la situa- zione denunciata. In un articolo intitolato Sport, scritto per i «Quaderni di Giustizia e Libertà» nel febbraio del 1934, Levi descrive come lo sport, così com’è concepito dal regime fasci- sta, neghi agli italiani quegli spazi di libertà e autonomia che la pratica agonistica dovrebbe invece garantire. Lo sport, che è, o dovrebbe essere, «iniziativa, contesa, autonomia, lotta, sia pure, in un mondo di puro giuoco», è diventato uno strumento di con- trollo, usato dal regime come diversivo o come mezzo per inco- raggiare l’adorazione del campione sportivo come un idolo59. Così facendo, «si impedisce [al popolo] di sviluppare una atti- vità autonoma e non controllata. Nello stesso tempo ci si vale dell’attività sportiva controllata per scopi di governo, di polizia, di propaganda e di prestigio»60. 5. LO STATO Ma quando ci si sposta dal terreno della denuncia a quello del- la proposta, quando si tratta, per esempio, di delineare la forma delle nuove istituzioni che dovrebbero garantire ai cittadini quello spazio di autonomia che il regime nega sistematicamente in tutti i campi, come nell’articolo Il concetto di autonomia nel programma di G.L., il tono cambia e la scrittura di Levi rimane quasi sempre povera di articolazioni. Questa non è che la con- FASCISMO, NEOFASCISMO E ANTIFASCISMO 37 59 Cfr. C. Levi, Sport, in G. De Donato, Coraggio dei miti, cit., p. 46 e in D. Bidussa (a cura di), Scritti politici, cit., p. 116. 60 Ivi, in G. De Donato, Coraggio dei miti, cit., p. 43 e in D. Bidussa (a cura di), Scritti politici, cit., p. 111. seguenza della sua paura di predeterminare la direzione dell’at- tività creativa, che si traduce in una riluttanza a formulare le pro- poste politiche in termini chiari, a indicare, per esempio, quale potrebbe essere la nuova forma dello Stato capace di assicurare ai cittadini il diritto all’autonomia. Questo limite si manifesta subito nel documento sulla for- ma dello Stato scritto da Levi e Ginzburg, un documento che è profondamente diviso fra le due esigenze (in lotta fra di loro nel- lo stesso testo) avvertite dagli intellettuali di Giustizia e Libertà: il desiderio, da un lato, di essere concreti nel dare un’idea pre- cisa del nuovo Stato proposto; e dall’altro, un desiderio sentito in modo altrettanto forte, di evitare di predeterminare quelle forme, lasciandole aperte, nei loro dettagli, a tutte le possibili so- luzioni che il lavoro creativo di quelli coinvolti nel progetto avrebbe prodotto. Levi ammette l’esistenza di un problema si- mile quando scrive che «la troppa determinatezza onde i punti del programma sono accusati, si rivela invece eccessiva indeter- minatezza: nostro compito è lavorare per giungere a una mag- gior precisazione»61. Ma sia questo articolo che la seconda par- te di Seconda Lettera dall’Italia – dove Levi parla anche del ruo- lo centrale del concetto di autonomia per tutto il progetto di Giustizia e Libertà – contengono frasi di questo tipo: Si tratta di indirizzi e proposte che la realtà si incaricherà di at- tuare o di render vane; ma che hanno oggi il compito di influire sulla futura realtà [...]. E se molti dei dettagli [...] sono materia ampiamen- te opinabile, dove nessuna soluzione è, a priori, la migliore, è bene che anche questi problemi prematuri siano proposti.62 Quali saranno gli organi dell’autogoverno? Parlamenti, costi- tuenti centrali, o locali, consigli operai ecc? Non si può oggi prevede- re se non come desiderio.63 In effetti, le trasformazioni economiche proposte dal program- ma con forse eccessiva precisione non valgono tanto in sé, quanto co- me indicazioni di movimento.64 GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 38 61 C. Levi, Il concetto di autonomia nel programma di G.L., in D. Bidussa (a cura di), Scritti politici, cit., p. 73. 62 Ivi, p. 75. 63 C. Levi, Seconda Lettera dall’Italia, in G. De Donato, Coraggio dei mi- ti, cit., p. 39 e in D. Bidussa (a cura di), Scritti politici, cit., p. 59. 64 Ivi, in G. De Donato, Coraggio dei miti, cit., pp. 39-40 e in D. Bidussa (a cura di), Scritti politici, cit., p. 60. II IL SUD E L’ITALIA 1. NELLA RETE DELLA REPRESSIONE Levi fu arrestato due volte a causa delle sue attività antifasciste con Giustizia e Libertà: la prima in seguito alle informazioni passate all’Ovra, la polizia segreta fascista, dall’infiltrato france- se René Odin, conosciuto anche come Togo o fiducario 570; la seconda per opera dell’infiltrato Dino Segre, fiduciario 373, co- nosciuto come SOS o Pericle, ma anche scrittore famoso, auto- re, con lo pseudonimo di Pitigrilli, di romanzi come Cocaina e Mammiferi di lusso, all’epoca ritenuti osé. In seguito al primo ar- resto, il 13 marzo 1934, insieme a suo fratello Riccardo, Levi fu ammonito e uscì dal carcere nel maggio dello stesso anno; dopo il secondo, avvenuto il 15 maggio 1935, fu condannato a tre an- ni di confino, da scontare a Grassano e Aliano in Lucania1. Entrato nelle file di Giustizia e Libertà a Parigi, Odin, che si era presentato a Rosselli come uomo d’affari il cui lavoro ri- chiedeva frequenti viaggi in Italia, ricevette il compito delicato INTRODUZIONE 41 1 Per una versione romanzata di questi arresti, ma non per questo me- no utile, cfr. Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Torino, Einaudi, 1963, pp. 95-130. di introdurvi propaganda antifascista. Da un lato, Odin spiava Rosselli e i suoi compagni a Parigi, dall’altro prendeva contatto, grazie ai suoi viaggi, con esponenti di Giustizia e Libertà in Ita- lia, come Mario Levi, fratello di Natalia Ginzburg, e altri mili- tanti come Levi, Leone Ginzburg, e Marco e Attilio Segre. Con- temporaneamente, dava all’Ovra descrizioni dettagliate della struttura di Giustizia e Libertà in Italia e i nomi dei militanti più in vista, aggiungendo spesso una forte dose di antisemitismo. Per esempio, scriveva dei membri di Giustizia e Libertà: «Si in- tuisce facilmente esistere fra loro un comune legame derivato dalla razza (sono tutti quanti ebrei)»2, o ancora: «Costoro han- no in comune, tra l’altro, un elemento caratteristico; la razza: so- no tutti ebrei. Essi quindi operano in pieno accordo fra loro contro il Regime, sotto il manto del semitismo, che li unisce e li rende solidali fra loro»3. Levi fu arrestato per la prima volta sulla scia dell’arresto di Sion Segre e della fuga di Mario Levi a Ponte Tresa, la cosid- detta “operazione Togo”. Nel marzo del 1934, Odin aveva infor- mato l’OVRA che Mario Levi e un amico, viaggiando in treno dalla Svizzera, avrebbero trasportato materiale propagandistico di Giustizia e Libertà in Italia. Mario Levi, comunque, non pre- se il treno, come aveva fatto un’altra volta nel febbraio di quel- l’anno sempre per introdurre in Italia il materiale prodotto da Giustizia e Libertà a Parigi, e fece il viaggio su una macchina guidata da Sion Segre. Per puro caso, alcuni ufficiali doganali a Ponte Tresa fermarono l’automobile e, invece delle sigarette che cercavano, trovarono dei volantini che invitavano gli italiani a votare “no” nel plebiscito del 25 marzo. Mario Levi riuscì a scappare, buttandosi nell’acqua, e con l’aiuto di una barca del- le autorità elvetiche raggiunse le rive della Svizzera; Segre inve- ce fu catturato. Furono così arrestate quaranta persone in tutto, GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 42 2 Cfr. «“Giustizia e Libertà” (relazione del fiduciario Togo circa due ab- boccamenti avuti nella giornata del 19 andante con elementi del gruppo di To- rino)», Torino, 20 dicembre 1933, in Archivio Centrale dello Stato, Divisione Polizia Politica, PP, Busta 114. In queste pagine, attingo liberamente da J. Blatt, The battle of Turin, 1933-36: Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà, OVRA and the origins of Mussolini’s anti-Semitic campaign, cit. 3 Cfr. «“Giustizia e Libertà”, notizie sulla organizzazione di Torino», senza autore, Torino, 19 dicembre 1933, Archivio Centrale dello Stato, Divi- sione Polizia Politica, Busta 114. fra cui sedici ebrei, e tra essi Carlo Levi4. Le sentenze più dure, all’interno di quel gruppo, furono inflitte a Sion Segre e a Leo- ne Ginzburg, condannati rispettivamente a tre e quattro anni di carcere (ad entrambi venne poi concessa un’amnistia di due an- ni). Ciononostante, essendo riuscita a colpire solo i militanti più esposti di Giustizia e Libertà, l’operazione non impedì al grup- po di ricostituirsi intorno agli elementi ancora in libertà5. La notizia degli arresti fu tenuta segreta fino alla fine di marzo, quando uscì un comunicato del regime dal titolo «L’ar- resto di un gruppo di ebrei antifascisti che agivano d’intesa con fuoriusciti di Parigi». Questo comunicato teneva a sottolineare, quattro anni prima della promulgazione della legislazione raz- ziale, le origini ebraiche dei militanti arrestati e la presunta in- compatibilità fra cittadini italiani ebrei e interessi nazionali. In- fatti, era per suggerire questa contraddizione che il comunicato stampa affermava falsamente che Mario Levi, raggiunta la Sviz- zera, aveva gridato «Cani di italiani vigliacchi», mentre in verità aveva urlato «Viva la libertà»6. Levi trascorse due mesi in carcere, e riacquistò la libertà il 9 maggio, con un provvedimento di ammonizione. Pochi giorni prima un appello, firmato fra gli altri da Marc Chagall, era sta- to indirizzato ad Antonio Maraini, segretario generale della Biennale di Venezia, per chiedere che Levi fosse «presto resti- IL SUD E L’ITALIA 43 4 I sedici nomi erano: Carlo Levi, Sion Segre, Leone Ginzburg, Carlo Mussa Ivaldi, Carlo Vercelli, Barbara Allason, Giuliana Segre, Marco Segre, Giuseppe Levi, Gino Levi, Riccardo Levi, Leo Levi, Cesare Colombo, Gio- vanni Guaita, Camillo Pasquale, e Attilio Segre. 5 Per un’analisi dettagliata della repressione poliziesca contro Giustizia e Libertà e per il modo rocambolesco in cui le autorità arrivarono ad indivi- duare i quadri del movimento, cfr. G. De Luna, Una cospirazione alla luce del sole. Giustizia e libertà a Torino negli anni Trenta, in Carlo Levi. Un’esperien- za culturale e politica nella Torino degli anni Trenta, Torino, Archivio di Stato di Torino, s.d. (1985), pp. 71-86, e ora in L’itinerario di Leone Ginzburg, a cu- ra di Nicola Tranfaglia, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, pp.12-39. 6 In una conversazione con un agente dell’OVRA, Pitigrilli, Mario Le- vi nega in modo perentorio che i militanti ebrei di Giustizia e Libertà agisca- no contro gli interessi nazionali. «Noi – dice – non siamo antiitaliani. Siamo antifascisti. Se fossimo nemici dell’Italia non ci studieremmo di modificarne le sorti. [...] L’ebraismo non esclude l’amore per la patria. [...]». Egli conclude: «il mio [parola mancante] non è eccesso di ebraismo, se mai di italianismo», in Pitigrilli, Parigi, 19 aprile 1934, Archivio Centrale dello Stato, Divisione Po- lizia Politica, Busta 122. Man mano che l’ipotesi del confino prendeva consistenza, le lettere di Levi dal carcere esprimevano la preoccupazione che la ancora sconosciuta destinazione non avrebbe fornito un con- testo tale da permettergli di riprendere l’attività pittorica. Levi si augurava che la futura residenza fosse o una città universita- ria o sede di una Accademia delle belle arti; la sua paura, più che legittima data l’ignoranza totale della realtà del Sud, era quella di non trovare ispirazione e stimoli per la propria arte14. Ma an- che se Levi non avrebbe trovato, di certo, istituzioni simili né a Grassano né ad Aliano, il soggiorno nel Sud sarebbe stata la più grande scoperta della sua vita. L’ironia della sorte, quindi, è che i dieci mesi di confino in Lucania sarebbero risultati fondamen- tali non solo per la poetica di Levi ma anche per la sua vita po- litica, l’una crescendo di pari passo coll’altra. Col passare degli anni, dopo il rilascio nel 1936, concesso con l’amnistia seguita alla vittoria nella guerra coloniale in Abissinia, Levi sarebbe tor- nato spesso nei suoi scritti sulla ricchezza unica dell’esperienza in Lucania, enfatizzando insistentemente l’innata creatività e produttività della cultura contadina. I frutti più concreti del periodo lucano di Levi risalgono a qualche anno dopo il suo rilascio. Comunque, la prima appari- zione della questione della cultura contadina negli scritti di Le- vi è del 1939: si tratta di un articolo, scritto per un numero mai pubblicato dei «Quaderni di Giustizia e Libertà», firmato Pie- tro Spina, il nome del personaggio centrale del romanzo di Igna- zio Silone Pane e vino. Purtroppo, oggi non esiste più traccia di questo scritto, dal momento che le bozze furono distrutte dai nazisti15. Sempre sulla scia dell’esperienza lucana, Levi scrisse Paura della libertà, all’inizio della Seconda guerra mondiale, fra il settembre e il dicembre del 1939, a La Baule, in Francia, do- ve era espatriato; ma il libro venne pubblicato solo nel 1946. E nel 1944, Levi scrisse Cristo si è fermato a Eboli – il romanzo che racconta l’esperienza del confino otto anni dopo il periodo in cui ebbe luogo – mentre era in clandestinità nella Firenze occu- GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 46 14 Cfr. C. Levi, È questo il “carcer tetro”?, cit., pp. 134-35. 15 Cfr. A. Garosci, Memoria inedita , Fondazione Carlo Levi, Serie Do- cumenti, b. 109, f. 2424, p. 64: «Se possedessimo quei testi, potremmo scor- gere adesso la prima forma della lezione che Carlo aveva tratto dall’esperien- za di confino», citato in G. De Donato, S. D’Amaro, Un torinese del Sud: Car- lo Levi, cit., p. 140. pata dai nazisti. Nello sviluppo del pensiero di Levi questi ulti- mi due libri si intrecciano: Paura della libertà ispirandosi alle le- zioni apprese in Lucania (che egli presenta come esempio di un modo autentico di vivere in stretto contatto con le cose e pro- pone come antidoto al vivere inautentico e astratto che ha tro- vato nel fascismo la sua realizzazione); Cristo si è fermato a Ebo- li raccontando l’esperienza degli otto mesi lucani attraverso la lente del pensiero esposto in Paura della libertà. 2. PAURA DELLA LIBERTÀ Informato dalla lettura di Vico e del Vecchio Testamento, Pau- ra della libertà è un tentativo ambizioso di identificare le origi- ni, al di là di delle contingenze storiche del caso italiano, del di- fetto umano che ha indotto grandi masse di persone ad acco- gliere l’avvento del fascismo con sollievo. Come il titolo del libro lascia trapelare, è nella paura generalizzata da parte dell’uma- nità nei confronti della propria libertà e autonomia che risiede la chiave della questione. Come abbiamo visto nel capitolo pre- cedente, l’analisi di Levi non tiene in conto i fattori economici, che sono per lui effetti e non cause della paura della libertà. Piuttosto, al centro della discussione di Levi è sempre la creati- vità innata, il dono insieme meraviglioso e problematico di ogni essere umano, attraverso cui si può trovare la felicità e la libertà. Meraviglioso, poiché può essere la fonte di ogni gioia, proble- matico, poiché può anche rappresentare la fonte di ogni paura. Il percorso di uomini e donne per acquisire una propria irridu- cibile specificità individuale parte da uno stadio che Levi chia- ma «l’indistinto originario»: «Esiste un indistinto originario, co- mune agli uomini tutti, fluenti nell’eternità, natura di ogni aspet- to del mondo, spirito di ogni essere del mondo, memoria di ogni tempo del mondo»16. Inoltre, per dare un’ulteriore illustrazio- ne di questo concetto, Levi offre un’immagine della foresta di vichiana memoria: «Una foresta, al principio dei tempi, era, se- IL SUD E L’ITALIA 47 16 C. Levi, Paura della libertà, terza edizione, Torino, Einaudi, 1964, p. 23. Ulteriori riferimenti a Paura della libertà appariranno fra parentesi nel cor- po del testo. Questo saggio è ora in D. Bidussa (a cura di), Scritti politici, cit., pp. 132-204. condo il racconto, sulla faccia della terra, e copriva la faccia del- la terra. Quella stessa prima foresta informe e piena di germi e di terrore, nera nasconditrice di ogni volto, portiamo in noi; da essa cominciò il viaggio» (37-38). Il viaggio di cui parla qui conduce, dunque, l’individuo dallo stadio indeterminato e senza forma nel magma primitivo della foresta verso la forma. Questo non è, comunque, un pro- cesso che si compie una volta per tutte all’inizio di una vita, né crea le condizioni per ciò che sarà l’individuo nel futuro. Piut- tosto, per Levi, il processo di auto-differenziazione si rinnova e si ripete in una continua esperienza creativa. Il desiderio inizia- le dell’umanità di creare forma dal caos indeterminato in cui na- sce rappresenta il primo barlume della sua libertà: «Ogni uomo nasce dal caos, e può riperdersi nel caos [...]. Da questo indi- stinto partono gli individui, mossi da una oscura libertà a stac- carsene per prender forma, per individuarsi» (23). Ma nel mo- mento in cui un individuo si differenzia dal magma indetermi- nato, ha sempre in vista la necessità di tornare indietro allo stato da cui è venuto per ricrearsi, rigenerarsi in un processo conti- nuo di nascita, morte e rinascita. Gli individui, quindi, sono «continuamente riportati da una oscura necessità a riattaccarsi e fondersi in lui [l’indistinto]» (23). Il modo autentico di essere consiste, quindi, in uno stato che comprende sia determinatez- za (o forma) che indeterminatezza (o caos), fuse insieme nello stesso atto creativo: «Ma i soli momenti vivi nei singoli uomini, i soli periodi di alta civiltà nella storia, sono quelli in cui i due opposti processi di differenziazione e di indifferenziazione tro- vano un punto di mediazione, e coesistono nell’atto creatore» (23). Chi trascende del tutto l’indeterminato entra nel regno del- l’astratto, della pura ragione; chi non lo trascende affatto diven- ta preda della bestia che è sempre in agguato. Questo processo di nascita e rinascita, scrive Levi, non è un processo di morte. Anzi, è l’essenza della vita. Si ha la morte quando si ignora il pro- cesso di rigenerazione che è parte integrale del vivere autentico: «Questo doppio sforzo sta fra due morti: la caotica prenatale, e il naturale spegnersi e finire. Ma morte vera è soltanto il distac- co totale dal flusso dell’indifferenziato, vuota ragione egoistica, astratta libertà – e, all’opposto, l’incapacità totale a differen- ziarsi, mistica oscurità bestiale, servitù dell’inesprimibile» (23). Per Levi, entrambi gli estremi di questo schema servono, da un lato, per creare le condizioni per la possibilità di diffe- GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 48 na per tutte le stagioni. Trattare Gramsci in questo modo, con- tinua, significa non capire la lezione della libertà che il suo esem- pio ci ha tramandato: Gramsci [era] un grande creatore di pensiero [...] un grande creatore di cultura, e, soprattutto [...] un grande creatore, scopritore, inventore e assertore di libertà. In lui autonomia significa capacità di egemonia, significa cioè creazione di libertà [...]. Ma, non si può esse- re, per definizione, dei gramsciani ortodossi, perché l’ortodossia è con- traddittoria con la qualità stessa del pensiero di Gramsci. Non si può essere gramsciani ortodossi, non si possono adoperare le sue formule. Bisogna seguire il suo metodo che è il metodo della libertà e il meto- do dell’approfondimento storico.19 Come è stato notato da Dominique Fernandez, Levi non ha interesse per l’applicabilità o meno di formule teoriche, ben- sì per l’unicità dell’esperienza della vita che, quando è vissuta autenticamente, prende la forma di una serie di prime volte, ognuna unica e legata alla specificità di circostanze ed esigenze. A Levi, quindi, interessa il «momento precario della scoperta di se stessi da parte di uomini che se stessi avevano ignorato nel corso dei secoli; questo punto di equilibrio tra la confusione pri- mitiva e il risveglio timido e fiero della coscienza, questo miste- ro della nascita e dell’avvento di un mondo nuovo»20. Sebbene Levi non sia sempre coerente nelle scelte terminologiche, la me- tafora che guida il suo pensiero politico e la sua attività artistica non è quella della scoperta ma quella della creazione, dell’in- venzione. Nell’articolo L’invenzione della verità, Levi scrive: «La poesia è l’invenzione della realtà, l’invenzione, cioè la creazione per la prima volta, non ripetibile né ripetuta: il momento in cui l’espressione coincide, per la prima volta, con la realtà. Preferi- sco dire invenzione anziché scoperta perché la scoperta presup- pone un dato esterno preesistente al suo ritrovamento, e l’in- venzione mette invece l’accento sul carattere creativo del rap- porto con le cose»21. IL SUD E L’ITALIA 51 19 C. Levi, Gramsci e il mezzogiorno oggi, in «Basilicata», XI, n. 5-6, 1967, p. 47. 20 Dominique Fernandez, Uomini-dei o uomini-piante, in Omaggio a Carlo Levi, cit., p. 170. 21 C. Levi, L’invenzione della realtà, in G. De Donato, Coraggio dei mi- ti, cit., pp. 121-22. La migliore illustrazione di tutto ciò, per Levi, è nella cul- tura contadina, che viene proposta nei suoi scritti, a partire dal- l’inizio dagli anni Cinquanta, non tanto come modello da imita- re – un’idea che sarebbe stata in diretta contraddizione con il suo pensiero – ma piuttosto come esempio concreto del modo di mantenere un equilibrio sano e produttivo fra il pericolo del- l’astrattezza da un lato, (un rischio che la cultura contadina evi- ta grazie all’aderenza alle cose che le è caratteristica) e quello della bestialità dall’altro. E la migliore garanzia contro quest’ul- timo pericolo è fornita dagli sforzi creativi dei contadini stessi, o almeno dalle menti più vivaci e illuminate fra essi – come quel- la di Rocco Scotellaro, sindaco di Tricarico che Levi conobbe nel 1946 quando tornò per la prima volta in Lucania, dieci anni dopo il periodo di confino –, sforzi tesi all’affermazione e alla conquista di una coscienza politica. 3. LA STORIA 3.1 I suoi inganni Si possono distinguere due fasi nella riflessione leviana sui con- tadini successiva alla pubblicazione di Cristo si è fermato a Ebo- li: una prima fase, nei primissimi anni Cinquanta, in cui Levi si sofferma di più, anzi quasi esclusivamente, su questioni estetiche collegate alla poeticità innata della cultura contadina; e una se- conda fase, a partire dalla metà circa degli anni Cinquanta, in cui l’accento cade maggiormente sull’emergere di una coscienza po- litica fra le masse contadine. Questa seconda fase è la risposta da- ta da Levi alle critiche ricevute dopo la pubblicazione di Cristo si è fermato a Eboli secondo le quali la sua rappresentazione del Sud era eccessivamente statica e perfino decadentistica. Cristo si è fermato a Eboli, comunque, è un libro che ha molti meriti: per la prima volta un romanzo trattava il Sud non in termini di inferiorità, come una società barbara bisognosa di assistenza dal governo centrale o di alleanze con le classi indu- striali più progredite del Nord, bensì illustrava i tratti di una cul- tura dotata di proprie leggi interne e di una certa dignità e coe- renza. Allo stesso tempo, il limite principale del libro è senz’al- tro quello di aver fornito l’immagine di un Sud immobile, di una società chiusa su se stessa, un’immagine poi che il Levi della se- GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 52 conda metà degli anni Cinquanta avrebbe tentato di corregge- re, scrivendo, per esempio, nella prefazione a L’Uva puttanella di Scotellaro: «se abbiamo narrato di quel mondo immobile era perché si muovesse»22. Anche se può sembrare sorprendente in uno scrittore che è stato spesso richiamato dalla critica per essere stato troppo no- stalgico e addirittura arcaico nelle descrizioni della realtà lucana, è nell’incontro con la realtà contadina del Sud e la successiva ri- flessione su di essa che si ha l’occasione di capire e anche ap- prezzare la radicalità del pensiero di Levi. La chiave di lettura delle tante pagine leviane che trattano la cultura del Sud non è tanto il desiderio di idoleggiare una società primitiva e inconta- minata – un’accusa che Levi stesso respinge in termini inequivo- cabili – quanto la sfiducia totale nei confronti dei supposti effet- ti emancipatori del corso della storia dell’Occidente. Fernandez coglie bene questo tema quando scrive della preoccupazione di Levi di contrastare l’egemonia dell’uomo occidentale e quella di una «Europa troppo umanistica e civile», portando alla ribalta altre culture ed esperienze di vita spesso marginali, emarginate e incomprese che si sono formate autonomamente, secondo lo- giche e criteri diversi23. Levi quindi è riluttante ad abbracciare l’idea della storia come racconto di un incessante movimento di progresso e di emancipazione. In anticipo rispetto ad alcuni ele- menti della critica postmoderna della storia intesa come grand recit, il pensiero di Levi apre la strada a una nozione pluralisti- ca della storia. O meglio: delle storie, ognuna delle quali appar- tenente a una diversa realtà sociale. Spinta da quello che è stato spesso considerato il centro della civiltà, il punto più avanzato della storia/progresso (l’uomo occidentale), l’idea della storia come processo unitario verso sempre più grandi spazi di libertà è stata fondamentale per il pensiero moderno, sia d’ispirazione cristiana che marxista, per citare solo due delle più consistenti matrici culturali e ideologiche dell’Ottocento e del Novecento. Il punto più radicale del pensiero di Levi consiste nella denun- cia dei danni che la storia occidentale provoca con la colonizza- zione di culture e minoranze che ne restano ai margini. È pro- IL SUD E L’ITALIA 53 22 Cfr. C. Levi, Prefazione a Rocco Scotellaro, L’Uva puttanella, Bari, Laterza, 1955, ora in G. De Donato, Coraggio dei miti, cit., p. 98. 23 Cfr. D. Fernandez, Uomini-dei o uomini-piante, cit., p. 161. determinazione, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove. Mi sentivo celato, ignoto agli uomini, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell’albero: tendevo l’orecchio alla notte e mi pareva di esse- re entrato, d’un tratto, nel cuore stesso del mondo. Una felicità im- mensa, non mai provata, era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza.28 Grazie alla prossimità della morte, Levi è qui restituito al- lo stato indeterminato originario di cui aveva parlato in Paura della libertà. Più che un inizio assoluto, il nuovo stato è un fe- nomeno ciclico, un momento ripetuto che si svolge sia nella sto- ria, quando si attuano vere rivoluzioni, che nella vita di un indi- viduo, quando si è in presenza di una conversione autentica. Il ritorno a questo stato è la condizione necessaria per una rina- scita e per una nuova attività creativa, che Levi avverte dentro di sé come una grande pienezza, un germoglio sotto la scorza dell’albero che sta per fiorire, una delle metafore preferite e più suggestive di Levi. Anche nell’atto di fare l’amore, l’io è resti- tuito alla «selva nera, piena di spasimi e di rumori indistinti [...]. Solo l’eterna notte senza fine è il sacro informe d’amore: e il vi- so della donna amata ha il colore della notte. La fusione totale non conosce libertà, né volontà, né dèi – ma l’oscura necessità del cieco abisso originario»29. Questi ritorni, questi nuovi inizi sono il tessuto da cui si crea il vivere autentico. Nella vita di Le- vi stesso, si possono identificare tali momenti: l’incontro con Gobetti, i mesi in carcere, i quali, scrive in una lettera, «p[osso- no] forse rappresentare un benefico ritorno a quell’indistinto originario, a patto che non ci si volti troppo indietro: ché tutte le sapienti favole ti ammoniscono del pericolo del rivolgersi, chi non voglia fermarsi e diventare di pietra [...]. Se nulla mi è da- to, io debbo dare tutto, ricostruire, cavandoli di dentro a me, i termini e le distinzioni, e, senza mattoni e senza calce, riedifica- re la città, e, riedificata, operosamente abitarla»30; un terzo ri- GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 56 28 C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, cit., pp. 198-99. Questo è l’epi- sodio della morte del contadino Pietro Valente a Masseria del Pantano. A Le- vi fu rifiutato il permesso di visitarlo. Cfr. in proposito G. De Donato, S. D’A- maro, Un torinese del Sud: Carlo Levi, cit., p. 129. 29 Cfr. C. Levi, Paura della libertà, cit., p. 41. 30 Cfr. C. Levi, Quaderno di prigione, 14 luglio 1935, citato da Aldo Marcovecchio, Il periplo del mondo, in Omaggio a Carlo Levi, cit., p. 103. torno potrebbe essere costituito dal periodo passato in Lucania; un quarto dall’esilio in Francia all’inizio della seconda guerra mondiale; un quinto dalla possibilità di rifondare la società ita- liana offerta dall’esperienza della Resistenza, in cui egli aveva in- vestito gran parte di se stesso; e un sesto, forse, dal periodo di cecità alla fine della sua vita, di cui il libro Quaderni a cancelli è testimonianza/testamento31. In questo, l’influsso esercitato su Levi e altri intellettuali del Partito d’Azione da Guido Dorso è enorme. Membro con Levi dell’esecutivo del Partito d’Azione, e autore di uno dei pri- mi saggi su Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato su «Il nuovo risorgimento» nell’aprile del 1946, Dorso vedeva nella distru- zione provocata dalla guerra l’occasione storica (per citare il ti- tolo di una sua raccolta di saggi) per porre fine al vizio eterno del sistema politico italiano: il trasformismo, costante bersaglio polemico del suo pensiero32. 4. L’INCONTRO CON IL SUD 4.1 Il sud come metafora della creatività L’importanza politica che Levi assegna alla cultura e al movi- mento dei contadini viene messa in primo piano, come si dice- va prima, solo a partire dalla seconda metà degli anni Cinquan- ta. Prima di questa svolta, Levi si sofferma molto di più sull’in- nata creatività della cultura contadina, il che non è certo di secondaria importanza nel suo pensiero, essendo intesa la crea- tività come la base di ogni azione di rinnovamento politico. In saggi come Il contadino e l’orologio, pubblicato nel 1950, e L’ar- te luigina e l’arte contadina, pubblicato nel 1951, Levi avanza l’i- potesi che il Sud, metaforicamente, rappresenti la parte creati- IL SUD E L’ITALIA 57 31 Cfr. C. Levi, Quaderno a cancelli, Torino, Einaudi, 1979. 32 Cfr. Guido Dorso, Opere, a cura di Carlo Muscetta, vol. III, La rivo- luzione meridionale e vol. IV, L’occasione storica, Torino, Einaudi, 1955. Per il saggio sul romanzo di Levi, cfr. G. Dorso, Cristo si è fermato a Eboli, vol. IV, pp. 169-79. Per i saggi sul trasformismo, in particolare Trasformismo fuor del- l’uscio e Trasformismo sempre vivo, vol. IV, pp. 9-12 e pp. 41-44. Cfr. inoltre le belle pagine dedicate al pensiero di Dorso in G. De Luna Storia del Partito d’A- zione, 1942-1947, cit., pp. 208-15. va che è in ognuno di noi, «l’oscuro fondo vitale di ciascuno di noi», «la grande nascosta riserva poetica»33, ma che essa sia sta- ta oscurata dal dominio dei paradigmi della ragione e della sto- ria: troppo Torino, e troppo poco Matera, si potrebbe dire, ri- prendendo i termini usati da Levi stesso. Come un germoglio sotto la scorza, il Sud non è tanto una zona geografica isolata e semisconosciuta, quanto una componente esistenziale o una po- tenzialità della vita vissuta autenticamente. Espressa nei loro racconti, la creatività dei contadini è caratterizzata dal senso di una scoperta che ha tutto l’equilibrio precario ma gioioso di una prima volta, in cui si creano «le cose nell’atto stesso di rappre- sentarle»34. Contro l’eccessiva astrattezza e aridità dell’arte e della critica contemporanee – bête noire di Levi in questi anni – «che rifanno e difendono un mondo già dato in cui nulla nasce», la creatività dei contadini dà forma a un mondo «realmente vi- vente, sempre prossimo a nascere dall’indistinzione e sempre pericolante per ritornarci»35. Nel corso delle riflessioni sulla creatività della cultura con- tadina, Levi trova anche l’occasione di modificare e quindi chia- rire la sua posizione per quanto riguarda il mito. Come si ricor- derà, nei suoi scritti politici per Giustizia e Libertà, Levi aveva espresso il timore che il mito conducesse all’astrazione e creas- se false immagini, capaci di compromettere l’esito dell’azione politica. Negli scritti sul Sud, invece, il termine mito ricorre più volte, sempre con un’accezione positiva. Ne Il contadino e l’o- rologio, per esempio, Levi parla di un «mito politico e doloroso, che equivale, tutto sommato, alla più chiara e significativa ana- lisi storica»; e, nello stesso saggio, menziona «un oggetto con- creto che entra con estrema naturalezza nel mondo della mito- logia poetica»36. Inoltre, in un saggio pubblicato sul «Saggiato- re» nel numero del 1960-61, Paura e coraggio dei miti, in cui Levi riflette, venti anni dopo, sulla genesi di Paura della libertà, par- la del mito in termini vichiani di «vera narratio»37. Usando la GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 58 33 Cfr. C. Levi, L’arte luigina l’arte contadina, in G. De Donato, Corag- gio dei miti, cit., p. 68 e p. 70. 34 Cfr. ivi, p. 68. 35 Cfr. ivi, p. 68 e p. 69. 36 Cfr. C. Levi, Il contadino e l’orologio, cit., p. 56 e p. 57 37 Cfr. C. Levi, Paura e coraggio dei miti, in G. De Donato, Coraggio dei miti, cit., p. 157. l’emergere per la prima volta di qualcosa di formato dall’indi- stinzione, lo stesso si può dire per la formazione di una coscien- za politica e la nascita di un movimento contadino, che è per Le- vi un fenomeno analogo alla Rivoluzione russa44. In scritti come la prefazione a L’uva putanella e L’errore dei pessimisti, Levi si sofferma più volte su quella che per lui è la novità del momen- to, il movimento contadino visto come degno erede della Resi- stenza, la continuazione in altra forma della lotta degli anni 1943-45, «la concreta, attuale, quotidiana realizzazione della Resistenza»45. Con questa posizione, come ha osservato Manlio Rossi Doria, gli intellettuali del Partito d’Azione anticiparono il sostegno dato al movimento dei contadini da parte del Pci. So- lo qualche anno più tardi, quando si era arrivati alla constata- zione che una rivoluzione guidata dalla classe operaia nel Nord non era più fattibile, il Pci riversò la sua attenzione verso il mo- vimento contadino come potenziale “focolaio” di sovversione46. L’immagine più eloquente che Levi trova per descrivere questo mondo intero che sta per prendere forma ed emergere sulla scena nazionale è quella dell’uva puttanella, il titolo della raccolta di poesie di Scotellaro: «L’uva puttanella è il mondo contadino che per la prima volta si muove, che per la prima vol- ta prende coscienza di sé»47. L’importanza di questo fenomeno nuovo è da trovarsi nel contributo che i contadini, che hanno acquisito una coscienza politica, possono dare alla vita della na- zione, «al rinnovamento della vita italiana», nei confronti della IL SUD E L’ITALIA 61 44 Cfr. ivi, p. 94. 45 Cfr. C. Levi, L’errore dei pessimisti, in Il Contemporaneo, II, n. 30, ora in G. De Donato, Coraggio dei miti, cit., p. 107. Cfr. anche C. Levi, Prefazione a L’uva puttanella, cit., p. 100. 46 Cfr. G. De Luna, Storia del Partito d’Azione, 1942-47, cit., nota 45, p. 381: «Il netto anticipo con il quale il PdA precedette gli altri partiti nella ri- scoperta della questione meridionale trova una stimolante interpretazione in Manlio Rossi Doria, che attribuisce il “ritardo” dei comunisti e dei socialisti alla centralità di una tematica industrialista e operaista all’interno dei loro pro- grammi; soltanto con l’estromissione delle sinistre dal governo (maggio 1947), apparsa come la sanzione politica di una sconfitta operaia maturata diretta- mente nel conflitto sociale, l’esigenza di fondare su nuovi soggetti collettivi il rilancio di una linea di dura opposizione al centrismo degasperiano “costrin- se” i partiti del movimento operaio a riscoprire nel Mezzogiorno e nei suoi contadini i focolai di una endemica “sovversione” politica». 47 Cfr. C. Levi, Prefazione a L’uva puttanella, cit., p. 93. quale sono diventati diffidenti essendone stati a lungo esclusi48. Ma affinché ciò avvenga, bisogna superare un vecchio pregiudi- zio del meridionalismo classico, continua Levi, la mancanza di fiducia nel mondo contadino evidenziata negli scritti di meri- dionalisti come Giustino Fortunato, Guido Dorso e perfino An- tonio Gramsci. Quello che rende unico il contributo di Scotel- laro e che fa di lui una figura emblematica è la sua dichiarazione di fiducia nelle risorse e nelle potenzialità dei contadini stessi, senza fare appello a mediazioni calate dall’alto sul mondo con- tadino. Tutto questo riporta Levi alla valorizzazione dell’auto- nomia politica, questione che tanto lo aveva occupato negli an- ni Trenta e che lo aveva indotto a individuare nell’istituzione del “Comune contadino” l’unico strumento per garantire che il mo- vimento si potesse sviluppare in modo autonomo, ossia lungo un percorso individuato dai contadini stessi, non imposto da altri49. 5. L’OCCASIONE STORICA È importante sottolineare che la filosofia elaborata da Levi nel- le pagine di Paura della libertà e Cristo si è fermato a Eboli non riguarda solo itinerari personali, ma anche itinerari storici, col- lettivi e politici. Ci sono momenti in cui determinati processi storici si esauriscono e la società, il costume, e la cultura su di essi fondati crollano. Gli anni intorno alla caduta del fascismo, la doppia occupazione straniera dell’Italia e la Resistenza – oc- casione, che sembrava unica, di ricostruire su nuove fondamen- ta il paese – rappresentano, per Levi, e per molti suoi compagni del Partito d’Azione, uno di questi momenti. La fase storica se- gnata prima dal regime liberale e poi da quello fascista, e, come abbiamo visto, Levi vedeva una continuità fra i due momenti, era arrivata al suo tramonto: «La società che era sorta, ricca di un vigoroso individualismo, con i Diritti dell’uomo, aveva per- duto dopo un secolo di straordinaria vitalità, le sue capacità GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 62 48 Cfr. ivi, p. 98. 49 Per Levi, infatti, interventi dello Stato centrale come quello, per esempio, della Cassa del Mezzogiorno negli anni Cinquanta non erano riusci- ti perché prestavano poca importanza alle specificità delle situazioni locali e scoraggiavano lo sviluppo di iniziative autonome. creative. L’idea di individuo, che ne era la base, era diventata pu- ramente razionalistica: quella della libertà puramente formale. Si era perso il senso del rapporto vivente fra l’individuo e lo Sta- to, entità schematiche e senza possibile mediazione»50. Il caos terribile e la confusione che avevano sconvolto l’I- talia in questa fase di transizione erano, paradossalmente, pro- pizi per un nuovo inizio, completamente svincolato dal passato. La caduta del fascismo, la guerra e la disarticolazione di ogni set- tore della vita pubblica avevano avuto l’effetto di spazzare via le abitudini consolidate di un secolo. Gli eventi sembravano pre- sentare all’Italia una pagina bianca sulla quale scrivere la nuova storia della nazione. «Il crollo del fascismo, per opera della Re- sistenza, della guerra, della rivoluzione antifascista», scrive Levi, ha portato con sé la caduta di tutti gli istituti tradizionali della vita po- litica italiana, e si è accompagnato a un rivolgimento totale delle abi- tudini, del costume, degli ideali tramandati, dei rapporti di classe, del- le relazioni fra le diverse parti d’Italia, e fra le città e le campagne; del- le basi economiche e morali della vita degli uomini. Tutti i problemi antichi della nostra vita nazionale si ripropongono dunque su basi nuove, vanno ripresi dal principio, e potranno finalmente essere risol- ti, se non ci lasceremo soffocare dai residui di un passato morto.51 Lo stesso concetto veniva espresso così un anno prima nel- l’articolo Crisi di civiltà: Le famiglie sono disperse, le case devastate, le proprietà di- strutte, gli Stati sconvolti. Se queste rovine fossero soltanto materiali il mondo ritornerebbe rapidamente quello che era. Ma il vecchio senso IL SUD E L’ITALIA 63 50 C. Levi, Crisi di civiltà, cit. 51 C. Levi, Rivoluzione democratica, in «IL», III, n. 257, 27 ottobre 1945. L’aspirazione degli azionisti ad una totale rigenerazione del Paese si rial- laccia alla riflessione politica elaborata da Giustizia e Libertà: già nel corso de- gli anni Trenta i militanti giellisti avevano indicato nella futura caduta del re- gime – allora all’apice del successo – l’occasione per sciogliere tutti i nodi ir- risolti della storia d’Italia, l’opportunità per lasciare dietro le spalle una tradizione mai compiutamente democratica. Cfr. per esempio Ancora sulla Germania, in «QGL», giugno 1933, n. 7: «non si deve affatto pensare a salva- re le vecchie posizioni, [...] non si deve fermarsi neppure un momento in un atteggiamento di difesa degli istituti che sono stati perduti. [...] Non potremo vincerlo – il fascismo – se non avremo il coraggio di rinunciare a tutto ciò che in noi vi è di prefascista. Le nostalgie sono oggi un peccato mortale». zione)»56; l’Assemblea costituente un lavoro di «spontanea crea- zione popolare [...] nel periodo che rompe i legami col diritto passato». Era in questo senso che la Costituzione che si andava scrivendo era da considerarsi un atto di poesia paragonabile al «lavoro dei grammatici che chiudono in leggi precise le ancora incerte forme di un nuovo linguaggio; o, meglio, quello di un grande scrittore che per primo sceglie ed impone con l’autorità della sua poesia, nella lingua ancora mutevole del popolo, quel- le che resteranno le forme definitive»57. 5.1 L’epurazione Per Levi e altri compagni del PdA questo era un periodo che of- friva le condizioni per cambiare radicalmente le strutture della società e il costume del paese, per mettere mano a una riscrittu- ra delle leggi e delle consuetudini, che avevano governato la na- zione nel periodo prefascista e in quello fascista. Per tanto, era- no consapevoli del bisogno di sottolineare la rottura qualitativa con il presente e il passato recente, nonché della necessità di ostacolare il riemergere sulla scena politica di personaggi che erano stati coinvolti con il fascismo e ora in cerca di una nuova verginità politica. Uno degli strumenti politici – unitamente al consolidamento delle prerogative dei Cln – scelto dagli azioni- sti per segnare la rottura qualitativa fra passato e futuro era la proposta di una epurazione degli elementi della classe dirigente più compromessi con il regime. Questo doveva essere uno dei punti qualificanti del programma del partito. Inizialmente, le forze politiche più moderate accettarono la proposta, insisten- do però che l’epurazione si limitasse all’accertamento di re- sponsabilità personali. Gli azionisti insistevano, invece, sul si- gnificato politico del provvedimento, visto come strumento di condanna di una intera classe politica. In un articolo per «L’Ita- lia libera», Levi scrive a proposito dell’epurazione che «deve es- sere intesa come un fatto politico, come la soppressione di una classe dirigente in quanto tale. Deve essere politica, cioè, consi- stere nell’allontanamento dalla vita politica, nella privazione dei GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 66 56 Cfr. C. Levi, Limiti e terrori, in «IL», III, n. 252, 21 ottobre 1945. 57 C. Levi, La costituente, in «NdP», I, n. 135, 6 ottobre 1944. diritti politici (e di quel potere economico che consente un do- minio politico) e non ispirata a criteri di gretto moralismo, pu- nitiva nel posto o nello stipendio»58. L’epurazione era di importanza primaria per gli azionisti: rappresentava l’unico modo per impedire che la permanenza nelle strutture del potere statale di una classe dirigente formata- si sotto i governi liberali o sotto il regime fascista costituisse un ostacolo al progetto di rinnovamento radicale. La presenza della classe politica prefascista e di quella fascista minacciava di rista- bilire legami di continuità fra passato e presente; con questa con- tinuità sarebbero riemersi la cultura politica, le abitudini, il co- stume che avevano segnato la storia recente della nazione. L’in- sistenza di Levi sull’aspetto politico e non solo individuale dell’epurazione era motivata da uno dei capisaldi della politica del Partito d’Azione, ovvero la convinzione che l’esistenza di in- dividui fascisti fosse una conseguenza dell’esistenza del fascismo, e non viceversa. Eliminando, cioè, i singoli fascisti non si elimi- nava il fascismo, né si eliminava la cultura politica che l’aveva prodotto, anche se, come ha recentemente notato Vittorio Foa, il trattamento riservato dalle formazioni partigiane del Partito d’Azione ai prigionieri nella fase militare della lotta non sempre fu coerente con questa convinzione59. Il fallimento dell’epura- zione, almeno come la immaginavano gli azionisti, fu forse la lo- ro sconfitta politica più dura e dette inizio alla crisi del partito. 5.2 Il passato che ritorna La mancata attuazione dell’epurazione era poi la conferma del- la paura maggiore degli azionisti: il timore (fondato) che nel pre- IL SUD E L’ITALIA 67 58 C. Levi, Quattro tesi sull’epurazione, in «IL», III, n. 251, 20 ottobre 1945. 59 Cfr. V. Foa, Il Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita, Torino, Ei- naudi, 1991, p. 157; parlando delle sentenze di morte emesse dai tribunali par- tigiani all’indomani della Liberazione, Foa ricorda: «Vi era infatti la diffusa convinzione che il fascismo non fosse finito con la sconfitta del suo regime po- litico e che ci si dovesse cautelare fisicamente contro un suo ritorno. Fino al 1960 questa idea continuò ad aleggiare. Su un piano storico-politico quella cautela era sacrosanta. L’illusione, che oggi ci sembra incredibile, era che si po- tesse sfuggire al pericolo con l’eliminazione fisica dei fascisti. Cioè che il fa- scismo ci fosse in quanto c’erano i fascisti e non viceversa». sente si ripetesse il passato. Infatti, il pericolo più grande per il progetto azionista non proveniva dal presente ma piuttosto dal passato, dalla storia d’Italia; un passato che non poteva rappre- sentare la soluzione ai problemi del presente, essendone esso stesso la radice. Lungi dall’essere il mezzo attraverso cui l’Italia avrebbe potuto emendare i propri limiti, il passato della nazio- ne era, nelle parole di Oronzo Reale, un militante che alimentò con diversi articoli il dibattito politico sulla stampa azionista, «la culla del fascismo»60. Ostili all’interpretazione crociana del fa- scismo come parentesi, gli azionisti ritenevano che la scelta del- l’Italia prefascista come modello su cui basare la ricostruzione del Paese – scelta auspicata dagli ambienti liberali del Cln – avrebbe costituito la premessa per il ritorno del fascismo in al- tra forma. Questo nuovo fascismo “senza Mussolini” non sa- rebbe stato una continuazione diretta del regime; sarebbe nato, piuttosto, dall’incapacità degli italiani di sradicare le cause che nei primi decenni del Novecento avevano preparato il terreno adatto per il sorgere del fascismo. La paura maggiore degli azio- nisti per il futuro dell’Italia non riguardava tanto una continuità storica fra fascismo e postfascismo, impossibile nei fatti data la congiuntura storica. Piuttosto, si temeva che le istituzioni e la cultura politica postfasciste potessero somigliare a quelle dell’I- talia prefascista. In altre parole, ciò che si temeva di più era lo stabilirsi di un rapporto di continuità fra l’Italia liberale del pe- riodo prefascista e l’Italia del dopoguerra. È nel contesto di questo tipo di riflessione che vanno in- terpretati molti degli interventi apparsi sulla stampa azionista. In un articolo anonimo dell’aprile 1945 l’autore (o autrice) met- te in rilievo come con la caduta del fascismo sia venuta meno an- che la legittimità dello Stato prefascista. L’articolo va oltre, af- fermando che un ritorno a un modello prefascista sarebbe l’e- quivalente di un ritorno a una forma di fascismo, benché riveduto e corretto61. E in un articolo pubblicato nell’edizione lombarda dell’«Italia Libera» nell’agosto del 1944, l’autore (o autrice), firmandosi epsilon, indica le origini del fascismo nelle insufficienze di un’intera cultura. Il fascismo, scrive: GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 68 60 Cfr. Oronzo Reale, Due antifascismi, in «IL», II, n. 131, 13 ottobre 1944. 61 Cfr. senza firma, Liberalismo facile e liberalismo difficile, in «IL», III, n. 4, 14 aprile 1945. blema del confronto con il passato della nazione. Questo tema figurò con accenti polemici in uno dei discorsi più controversi di Ferruccio Parri, tenuto il 26 settembre 1945 (per l’inaugura- zione dei lavori della Consulta), quando era Primo ministro: la dichiarazione che l’Italia prefascista non era stata organizzata secondo criteri di democraticità fece scalpore negli ambienti li- berali66. Riferendosi a tale discorso, un altro azionista, Altiero Spinelli, offriva questo quadro dei pericoli derivanti da un’ac- cettazione acritica del passato: «Se ci rendiamo conto dei difet- ti dell’antica struttura del nostro paese, saremo forse in grado di dargliene per l’avvenire una migliore. Se ci limitiamo ad esaltar- la, saremo indotti a tornare pari pari a quei metodi e a quelle contraddizioni, e conserveremo tutti i germi malefici che cova- vano nel suo seno e che han portato al fascismo»67. E in un discorso tenuto all’inizio del 1946, quando il suo governo era appena stato fatto cadere, Parri tornò sul tema del- la mancanza di vera democrazia nell’Italia prefascista. Nello spiegare il «senso effettivo e positivo al nostro antinazionalismo e antimperialismo», Parri chiedeva che si accantonasse la «mil- lenaria civiltà che con il suo abuso può finire per fare il paio con le quadrate legioni». «Accantoniamo» continuava «per vent’anni almeno, le “glorie avite”, che sono la consolazione dei tempi di servitù e di inerzia spirituale» e concludeva «Occorre che questa idea sia acquisita dall’opinione pubblica del nostro e degli altri paesi europei, diventi patrimonio comune e quindi operante»68. IL SUD E L’ITALIA 71 66 Per un resoconto del discorso cfr. Ferruccio Parri, Discorso per l’a- pertura dei lavori della Consulta, 26 settembre 1945, in Scritti 1915/1975, a cu- ra di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 192-93: «Tenete presente: da noi la democrazia è praticamente appena agli inizi. Io non so, non credo che si possano definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo...(Interruzioni, scambio di apostrofi, commenti, rumori) Non vorrei offendere con queste mie parole quei regimi. (Commenti, interruzioni, rumori) Mi rincresce che la mia definizione sia male accetta. Intendevo dire questo: democratico ha un signi- ficato preciso, direi tecnico. Quelli erano regimi che possiamo definire e rite- nere liberali». 67 Altiero Spinelli, Passato e avvenire democratico, in «IL», III, n. 232, 28 settembre 1945. 68 F. Parri, Discorso di Ferruccio Parri alla Consulta: il senso positivo del nostro antinazionalismo, in «IL», IV, n. 7, 19 gennaio 1946. Per i militanti del Partito d’Azione, il fascismo non era la malattia passeggera di un corpo sano, ma, al contrario, la con- seguenza di una diagnosi errata, che non era stata in grado di co- gliere già nel corpo dell’Italia liberale i sintomi chiari di una cor- ruzione irreversibile69. Quello che emerge in modo perentorio dalla stampa azio- nista è la convinzione che un’Italia veramente antifascista avreb- be dovuto essere organizzata secondo criteri molto diversi da quelli che inducevano a vedere nell’Italia prefascista l’immagine di una nazione in salute, contrapposta a quella di malattia e in- fezione rappresentata dal regime. Levi, per esempio, fu fra i pri- mi a caldeggiare un momento di autoanalisi come precondizio- ne per un vero nuovo inizio. Nel 1932, scriveva che il futuro po- stfascista dell’Italia sarebbe dipeso dall’abilità della società politica e culturale di capire le radici domestiche della sua ma- lattia, che essa avrebbe dovuto essere curata non da medici che agissero dall’esterno ma dai malati stessi: «Non possiamo giudi- care il nostro male soltanto come dei medici, marxisti o libera- li, ma dobbiamo ogni giorno sentirlo come dei malati e sforzar- ci, coi nostri mezzi, di guarire»70. 5.3 Quale identità nazionale? Informa di sé tutta la riflessione azionista sul passato, sul pre- sente e sul futuro dell’Italia la questione dell’identità nazionale. Dopo l’ esperienza tragica della guerra e la doppia invasione dal nord e dal sud in seguito alla quale la nazione era diventata il campo di battaglia di due eserciti stranieri, la riabilitazione del- l’identità nazionale compromessa era tanto fondamentale quan- to delicata. «L’Italia non esiste più come forza autonoma. Essa è oggi un semplice oggetto di destinazione militare e se non in- terverrà un fatto nuovo essa sarà in avvenire un semplice ogget- to di destinazione politica», scrivevano Giorgio Diena e Vitto- rio Foa nel 194371. Il progetto di creare una nuova identità na- GLI ITALIANI E LA PAURA DELLE LIBERTÀ 72 69 Per un riassunto delle posizioni di Croce riguardo al fascismo cfr. Sandro Setta, Croce, il liberalismo e l’Italia postfascista, Roma, Bonacci, 1979. 70 C. Levi, Seconda lettera dall’Italia, in G. De Donato, Coraggio dei mi- ti, cit., p. 40 e in D. Bidussa (a cura di), Scritti politici, cit., p. 60. 71 Citato in V. Foa, Il Cavallo e la Torre, cit., p. 137. zionale occupava un posto di rilievo nel progetto azionista: essa avrebbe dovuto essere ispirata non da modelli vecchi e oramai superati, ma da un fatto nuovo, l’esperienza della Resistenza, che «si presentava [...] in partenza, come la riaffermazione di una identità nazionale smarrita»72. Ciò che colpisce di più, for- se, in tutto il dibattito sulla questione dell’identità nazionale è l’i- dea, che fu poi l’aspetto qualificante di tutto il programma del Partito, che se una cultura e un costume davvero antifascisti, di- versi dalla cultura e dal costume liberali, fossero sorti nell’Italia del secondo dopoguerra, la nuova nazione – assumendo come ri- ferimento i canoni tradizionalmente accettati del profilo identi- tario del Paese – sarebbe stata meno “italiana” di quella passata. Se l’antifascismo liberale si muoveva per la restaurazione di un rapporto di continuità fra l’Italia pre e postfascista, gli azionisti spingevano per una rottura, enfatizzando la differenza qualitativa rappresentata dalla Resistenza, da cui avrebbe dovu- to nascere la nuova Italia. Insistendo sull’abolizione della mo- narchia e sull’istituzione della Repubblica – o protestando con- tro la pratica fascista, adottata da alcuni antifascisti, di rapare a zero la testa delle donne che avevano avuto rapporti sessuali con il nemico – lo scopo degli azionisti era sempre e comunque quel- lo di sottolineare la rottura tangibile fra l’ordine costituzionale, il costume e il clima culturale di un periodo della storia italiana che volgeva al termine e l’alba di uno nuovo73. Motivazioni simili erano all’origine del desiderio del Par- tito che l’Italia partecipasse a pieno titolo alla Conferenza di San Francisco nel 1945. Un articolo anonimo pubblicato nell’aprile IL SUD E L’ITALIA 73 72 Cfr. ibidem. Per un esame del complesso problema della ridefinizio- ne dell’identità nazionale affrontato dagli antifascisti italiani nel corso della Resistenza cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 169-89. Per un quadro dell’intricato dibattito sviluppatosi intorno al problema della Resistenza come mito fondativo dell’identità italiana cfr. Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria, Roma-Bari, Laterza, 1995; Gian Enrico Rusconi, Resistenza e po- stfascismo, Bologna, Il Mulino, 1995; G. De Luna, M. Revelli, Fascismo/Anti- fascismo. Le idee, le identità, cit. 73 Per la posizione azionista contro la monarchia, cfr. senza firma, Il con- vegno della liberazione, in «IL», II, n. 3, 26 gennaio 1944; per le proteste con- tro le punizioni di stampo fascista, senza firma, Puritanesimo neofascista, in «IL», II, n. 68, 4 agosto 1944. Cfr. anche G.De Luna, Storia del Partito d’A- zione: La rivoluzione democratica, (1942-1947), cit., pp. 245-54.
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