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Poesia di Saba, Ungaretti e Quasimodo: Esplorazione Poesia Italiana Novecento, Appunti di Letteratura Italiana

Poesia italiana del NovecentoStoria della Letteratura Italiana ModernaAutori Italiani del Novecento

Una ricca esplorazione della poetica di Saba, Ungaretti e Quasimodo, tre grandi autori italiani del Novecento. Scoprirete come i loro versi riflettono la vita italiana e come la loro poesia ha evoluto attraverso i decenni. Vedrete come la loro poesia ha influenzato la cultura italiana e come hanno contribuito alla cosiddetta 'poesia ermetica'.

Cosa imparerai

  • Come la poesia di Montale riflette la società italiana?
  • Come la poesia di Ungaretti ha evoluto attraverso i decenni?
  • Come la poesia di Saba riflette la vita italiana?
  • Che autori italiani del Novecento si discute nel documento?
  • Che tema caratterizza la poesia ermetica?

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 11/10/2021

Selene_98
Selene_98 🇮🇹

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Scarica Poesia di Saba, Ungaretti e Quasimodo: Esplorazione Poesia Italiana Novecento e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! LA NUOVA POESIA LA LIRICA DEL NOVECENTO La lirica del Novecento cerca di svincolarsi dalle forme della tradizione, confrontandosi con la caduta dell'immagine del poeta-vate promulgata da D'Annunzio. Lirica che tende a porsi come voce di un soggetto solitario e assoluto creando u nuovo modo di espressione dell’io sospendendo il soggetto lirico in uno spazio astratto e quasi ideale. Dino CAMPANA inauguratore della nuova lirica del Novecento, intorno alla sua figura è nato un vero e proprio mito. Fu preda di violenti turbamenti psichici subi vari internamenti di breve durata in manicomio. Entrò in contatto con la Voce e con gli ambienti culturali fiorentini e nel 1913 consegnò un manoscritto dal titolo “il più lungo giorno” perduto e ritrovato nel 1971. Cercò di arruolarsi nella grande guerra ma nel 18 fu nuovamente internato e rimase li fino alla morte. Campana cerca di scatenare nella poesia una volontà anarchica e distruttiva: mira a sconvolgere gli equilibri della comunicazione borghese e a creare lampi improvvisi. Legandosi alla tradizione simbolista Campana insegue le corrispondenze e le analogie nascoste tra le cose di una realtà che gli viene incontro in vertiginosi movimenti ascendenti e discendenti. La poesia sorge dagli aspetti più inquietanti dei paesaggi naturali e dalle forme notturne e perverse della vita cittadina, in cui l’amore si intreccia con il crimine. REBORA Tensione morale e ricerca di verità caratterizzano tutta la sua vita e le sue opere. Nella sua poesia l'io si impegna in un confronto acceso con la totalità di una ricerca ostinata e sofferta che approda alla verità totale della religione. Vicino alla “Voce”, Rebora era lontano dalle ambizioni di protagonismo intellettuale, il moralismo aspirava all’umiltà, a una riduzione del valore dell'io, a una dedizione a umili compiti quotidiani, mostra quanto forte ed essenziale possa essere ancora un’autentica esperienza religiosa. La sua poesia ha ‘una fortissima capacità di creare azioni e reazioni tra le cose. Il lavoro poetico sottopone ogni senso e ogni segno a una martellante e ostinata spoliazione. Nato nel 1885 a Milano, vi compi gli studi e si laureò in Lettere, dedicandosi poi all'insegnamento nelle scuole tecniche inferiori e in quelle serali. Un intenso bisogno di partecipazione lo spinge verso l'impegno sociale, mentre collabora, con articoli di argomento scolastico, alla "Voce", presso la quale esce, nel 1913, la raccolta dei Frammenti lirici. Partecipa alla guerra in qualità di sottufficiale, ma, per un trauma nervoso, viene congedato; dell'esperienza militare resterà l'atroce testimonianza in alcune delle Poesie sparse, scritte fra il 1913 e il 1918. Prosegue intanto nella sua ricerca di certezze spirituali, capaci di dare un senso alla propria vita, appagando l'intenso desiderio di una solidarietà universale: dapprima è attratto da Mazzini, individuando nel suo pensiero una sorta di evangelismo laico e populista; si avvicina poi alle religioni orientali e al misticismo buddista; aderisce infine alla fede cattolica, trovando in essa l'appagamento a lungo cercato. Il travaglio di questi percorso è documentato dai Canti anonimi, composti fra il 1920 e il 1922. L'approdo alla religione si conclude con l'ingresso nell'ordine rosminiano e l'ordinazione a sacerdote, nel 1936. Per l'intensa attività pastorale l'esercizio. Della poesia si fa più sporadico (otto Poesie religiose, nel periodo 1936-1947). Una più assidua ripresa (Canti del'infermità, 1955-1956) coincide con la paralisi e l'aggravarsi della malattia, che lo condurrà alla morte (avvenuta a Stresa, nel 1957). Anche per la poesia di Rebora il problema essenziale è costituito dalla ricerca di una verità capace di dare risposta ai più urgenti è inquietanti problemi dell'uomo. Di qui il carattere di un impegno totale che i Frammenti lirici vengono a sollecitare, accompagnandolo ad una sempre vigile attenzione filosofico-morale; questa si esprime attraverso la tensione di un linguaggio in cui la cruda concretezza dei riferimenti subisce spesso un processo di distorsione è deformazione espressionistica, come segno di un rapporto sofferto e tormentato con la realtà. Gli orrori della guerra contribuiranno ad acuire il conflitto, che si propone come ulteriore ricerca nei Canti anonimo, lasciando intravedere una possibile soluzione. Nelle Poesie religiose la conquista della fede appare finalmente in grado di comporre il dissidio dell'uomo. Ma che non si tratti di una fede accettata è confermato dai Canti dell’infermità, sollecitati ancora una volta dalla ‘urgenza di un tormento non solo fisico (la malattia) ma interiore, a cui il contrasto fra la sofferenza umana è l'amore divino conferisce un'intima drammaticità. Sbarbaro Camillo Sbarbaro (1888-1967), nato in provincia di Genova, si trasferisce nel 1904 con la famiglia a Savona dove consegue il diploma di licenza. Nel 1910 trova lavoro in un'industria siderurgica. Il suo esordio poetico avviene un anno dopo con il volumetto di poesie dal titolo “Resine”, che sarà rifiutato dall’autore stesso. Nel 1914 pubblica “Pianissimo” la sua raccolta più significativa. Nello stesso anno si trasferisce a Firenze dove conosce Papini, Campana e altri artisti che facevano parte della rivista “La voce”: proprio grazie a loro collaborerà con la rivista. Quando scoppia la grande guerra, Sbarbaro lascia l’impiego e si arruola come volontario nella Croce Rossa Italiana e nel febbraio del 1917 viene richiamato alle armi. A luglio parte per il fronte. Scrive in questo periodo le prose di “Trucioli” che verranno pubblicate nel 1920 a Firenze da Vallecchi. Lasciato il lavoro nell'industria siderurgica, si guadagna da vivere con le ripetizioni di greco e di latino, appassionandosi sempre di più alla botanica e dedicandosi alla raccolta e allo studio dei licheni, sua vera passione. Camillo Sbarbaro ha condotto una vita appartata, sostentata dopo l’abbandono dell’industria con ripetizioni di latino e greco. Muore nel 1967. La sua pocsia rientra nell’espressionismo più peri temi che per lo stile: le scelte formali sono lontane dalla tensione violenta degli espressionisti contemporanei. Il lessico è banale e quotidiano, e lo stile prosastico con l'influenza della metrica tradizionale. Anche se la materia è autobiografica Sbarbaro riesce a scrivere poesie che trattano con distacco la sua stessa vita, dovuta evidentemente da una scarsa vitalità. Il protagonista degli episodi narrati si presenta come un fantoccio o un sonnambulo che vive la vita alienante in condizione di oggetto e non di soggetto. Al poeta non resta altro che guardarsi dall’esterno diventando spettatore di sé: è questo il tema dello sdoppiamento che caratterizza tanto la poetica di Camillo Sbarbaro. La freddezza della poesia di Sbarbaro è sicuramente un’auto repressione dovuta al contrasto del desiderio di una vita autentica e la sua impossibile realizzazione. Così come il protagonista è arido così il paesaggio in cui vive, la città è un deserto in cui è impossibile interagire con le persone e gli oggetti della civiltà moderna. Negli anni 20 del ‘900 conosce Eugenio Montale che gli dedicherà un saggio nella raccolta “Auto da fè”: fu tale l’elogio che indusse Montale alla confessione di aver scelto il titolo della sua raccolta “Ossi di seppia”, proprio in onore di Sbarbaro e della sua poetica dello scarto. La poesia ormai è un residuo, è stata messa ai margini e ormai non può rispondere all’agonia del mondo. È questo il motivo che indusse i poeti al forte soggettivismo autobiografico. Camillo Sbarbaro diventa così un paradigma per Montale, poiché con la sua poetica rivive e fa rivivere la condizione di crisi del poeta nel 900. I temi centrali della poetica sbarbariana sono quindi il doppio, lo scarto e la chiaroveggenza, intesa come la consapevolezza di un poeta sincero e onesto che ha imparato a conoscere sé, nel tentativo di risvegliare il distratto viandante che non si volta. È evidentemente una denuncia sociale nella quale egli non nega uno spiraglio di salvezza per l'uomo, ma neppure l’afferma. Le due raccolte più importanti di Sbarbaro sono “Trucioli” e “Pianissimo”: “Pianissimo” è un canto cupo di sconforto per la condizione del poeta e dell’uomo in generale. è una poesia della disperazione e della sofferenza tutta personale. I motivi ricorrenti in questa raccolta sono dunque: lo sconforto universale e la condizione di sofferenza individuale. La critica che muoverà Montale alla raccolta, volta a riconoscerne il limite, è l'impossibilità e l'inadeguatezza di Sbarbaro di coniugare questi due aspetti: egli non riesce a farsi carico di una voce universale, tema tanto caro a Montale. “Trucioli” sono pagine di diario, fogli volanti, in cui il tema centrale è lo scarto, visibile dal nome stesso della raccolta. Sbarbaro cammina “con un terrore da ubriaco” tra la gente che non comprende, in un luogo che non sente familiare. Egli galleggia come il sughero sull’acqua. Il poeta riesce a descrivere la condizione di sofferenza personale, soffermandosi anche sulla Natura che però è vista come mondo crudele. Per questo motivo è possibile rinvenire Leopardi e i poeti francesi del 900 per il tema della solitudine. UMBERTO SABA Umberto Saba, nome di penna di Umberto Poli, nasce a Trieste nel 1883 dal matrimonio tra Felicita Rachele Cohen, di confessione ebraica, e Edoardo Poli. Nonostante le nozze tra i due si fossero svolte nel 1882, già al momento della nascita del piccolo Umberto, l’anno successivo, il padre si dilegua, abbandonando moglie e nascituro. Sicuramente la scelta del Poli d'ignorare le sue responsabilità di marito e di padre ha contribuito a far si che Umberto scegliesse sin da subito uno pseudonimo per firmare il proprio lavoro, rigettando il cognome paterno: il termine saba in ebraico significa "nonno". Inoltre, la balia adorata da Umberto, con cui il poeta trascorse i primi tre anni della sua vita e che egli considerava come una madre, si chiamava Peppa Sabaz. Quando in maniera improvvisa Felicita Cohen reclama suo figlio, il distacco feroce dalla balia viene riconosciuto dallo stesso Saba come il primo trauma subito nella sua vita, e anima - molto più avanti - la raccolta Il piccolo Berto, pubblicata nel 1926. Cosi Saba prosegue la sua esistenza e formazione in un universo totalmente femminile, tra le cure della madre e delle due zie, soffrendo molto per la mancanza di un padre. Intraprende studi classici al ginnasio Dante Alighieri di Trieste, ma non risulta, quantomeno in apparenza, portato per questo tipo di studi. Nel 1903 si stabilisce a Pisa per frequentare l’Università, ma nell’estate dell’anno successivo torna nella città natia a causa di una forte depressione (una nevrastenia che lo accompagnerà poi per tutta la vita), e inizia a collaborare con vari giornali. L’anno seguente si trasferisce a Firenze, dove conduce un’intensa vita culturale. In questo periodo conosce anche Carolina Wélfler, che in seguito prende come moglie (seguendo il rito matrimoniale ebraico) e compagna di vita. Nel 1909 nasce la figlia Linuccia, nel 1910 viene pubblicata Poesie, subito succeduta da Coi miei occhi (1911). Allo stesso periodo risale Il mio secondo libro di versi (poi noto col titolo Trieste e una donna). Nel 1913 la famiglia Saba emigra a Bologna e l’anno dopo a Milano. La Prima guerra mondiale vede un Saba fortemente interventista, tanto da trovarsi a collaborare al Popolo d'Italia con Mussolini. Partito per la guerra (pur in posizioni di retrovia e con compiti amministrativi) ne usci provato da crisi nervose e psicologiche sempre più profonde, fino al ricovero nell'ospedale militare di Milano nel 1918. Terminata l’esperienza bellica Saba e la famiglia tornano a Trieste, dove lo scrittore apre una libreria, la Libreria antica e moderna. Nel 1921 esce la prima edizione del Canzoniere, cui seguono le altre fino a quella definitiva pubblicata nel 1961, dopo la morte dell’autore. A seguito di un periodo molto duro per le sofferenze psicologiche e le ricorrenti crisi nervose, Saba decise di entrare in analisi con il dottor Weiss, psicanalista anche di Svevo. Nel 1938 deve lasciare Trieste per Parigi a causa delle leggi razziali e, tornato in Italia l’anno successivo, cerca rifugio prima a Roma e poi a GIUSEPPE UNGARETTI nasce nel 1888 ad Alessandria d'Egitto, figlio di due immigrati lucchesi. Il padre operaio dello scavo del Canale di Suez muore pochi anni dopo la nascita del poeta. Conosce la letteratura francese e inizia a leggere le opere dei simbolisti francesi Rimbaud, Mallarmé, Baudelaire, anche grazie ai consigli dell'amico Moammed Sceab. Si avvicina alla letteratura italiana con l'abbonamento alla rivista La Voce. Si trasferisce a Parigi nel 1912, dove conosce il poeta Apollinaire, con cui stringe subito amicizia. Incontra anche Aldo Palazzeschi, Picasso, De Chirico e Modigliani. Nel 1914 Ungaretti è a Milano e sostiene la fazione interventista. Nel 1915 si arruola volontario. Combatte sul Carso in Friuli, un paesaggio che Ungaretti ritrarrà nella sua prima raccolta Il porto sepolto, pubblicato in 60 copie nel 1916. Il porto sepolto fa parte del nucleo originario della poesia di Ungaretti, al centro delle successive metamorfosi editoriali, prima Allegria di naufragi e poi L'allegria. Nel 1920 sposa Jeanne Dupoix, conosciuta nel 1918 in Francia. Si impiega al Ministero degli Esteri. Aderisce al fascismo, firmando il Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925. Nel 1923 viene ristampato Il porto sepolto con la prefazione di Benito Mussolini, conosciuto qualche anno prima, durante la campagna interventista. Ungaretti, irrequieto e legato alla cultura degli intellettuali francesi, si allontana dal fascismo e la seconda metà degli anni '20 rappresenta per lui un duro periodo di povertà. Nel 1928 Ungaretti si converte al cattolicesimo, conversione che emerge nell'opera "Sentimento del Tempo" del 1933. Nel 1936 si trasferisce in Brasile, a San Paolo, dove ottiene la cattedra di letteratura italiana presso l'università della città. Rimane in Brasile fino al 1942. Nel 1939 muore il figlio Antonietto. Questo tragico evento è evidente in molte poesie delle raccolte Il Dolore (1947) e Un Grido e Paesaggi (1952). Muore nel 1970 a Milano, dopo che la sua opera era stata raccolta in un unico volume Vita di un uomo nella prima edizione della raccolta Meridiani della casa editrice Mondadori nel 1969. Ungaretti è uno dei nostri primi scrittori che nasce fuori dall'Italia; questa circostanza è importante perché ci dice come stiano cambiando le identità degli italiani e quelle degli scrittori. In questo caso si tratta di una famiglia di emigrati, di umili origini, della provincia di Lucca, una famiglia di lavoratori. La giovinezza in Egitto sarà una dimensione che Ungaretti rievocherà infinite volte come qualcosa che lo ha messo a contatto con una dimensione diversa rispetto a quella tipica del paesaggio italiano. Ritroviamo un riferimento esplicito al paesaggio desertico dell’Egitto in una raccolta di prose che Ungaretti chiamerà inizialmente Il deserto è dopo, come se tutto ciò che viene dopo l’esperienza in Egitto fosse condizionata da questa immagine, da questo fotogramma stampato alla memoria del deserto egiziano; questo paesaggio tornerà infinite volte nella sua poesia, anche quando si tratterà di assimilarlo, di paragonarlo a paesaggi più vicini, più consueti, legati alla quotidianità della vita italiana. Anche questa lontananza dall'Italia, questo imparare la stessa lingua italiana come se si trattasse di una lingua straniera fa eccezione nella storia della nostra poesia. Naturalmente ci saranno altri scrittori che nascono fuori dal territorio italiano: di pochi più anni anziano rispetto a Ungaretti è Filippo Tommaso Marinetti che nasce a sua volta ad Alessandria d'Egitto. Marinetti era di famiglia alto-borghese mentre Ungaretti di famiglia popolare, ma la cultura in cui crescono questi giovani italiani all’estero è una cultura fondamentalmente francese. Ad Alessandria Ungaretti conosce igrandi maestri del Simbolismo e del Decadentismo, igrandi scrittori di quegli anni. Legge, inoltre, le grandi riviste che avevano fatto conoscere le nuove traiettorie della poesia, dell’arte di quegli anni. Inevitabile quindi che il suo arrivo in Europa non sia tanto in Italia quanto a Parigi (1912); il viaggio a Parigi è un'esperienza fondamentale per Ungaretti poiché conosce i grandi protagonisti della cultura delle avanguardie di quegli anni. Nel 1914 si ritrova a Milano: essendo nato all’estero e avendo avuto una vita cosi travagliata, è ferocemente interventista. La discesa in guerra dopo il “maggio radioso” (1915), come lo chiamò D'Annunzio, lo vede entusiasta volontario. L'esperienza della guerra è un'esperienza tragica. Ungaretti si trova al fronte sul Carso, in Friuli-Venezia-Giulia: è un paesaggio lunare, desertico che Ungaretti ritrarrà nelle poesie del suo primo libro, Il porto sepolto, questa raccolta resterà sempre il nucleo originario della sua poesia, al centro delle successive metamorfosi editoriali; prima si intitolerà Allegria di naufragi e successivamente prenderà il titolo definitivo di L’Allegria: come recita uno dei componimenti ivi raccolti, l’idea è quella del lupo di mare che dopo le traversie, i naufragi e le sventure di cui la guerra è un perfetto esempio, ogni volta, quasi rispondendo a una sorta di slancio vitale irreprimibile, riprende il mare e riaffronta l'avventura. Nel 1922 sisposerà con Jeanne Dupoiz, una donna conosciuta nel periodo in cui prestava servizio militare in Francia (1918), e avrà due figli. Si impiega al Ministero degli esteri; è in contatto con il movimento fascista a un punto tale che la seconda edizione de Il porto sepolto, che uscirà in un'edizione di lusso a La Spezia nel 1923, si fregerà, cosa allora ambitissima, di una prefazione dello stesso Benito Mussolini. All'indomani della marcia su Roma, Mussolini trova il tempo di scrivere una breve prefazione per il poeta, intellettuale che aveva conosciuto ai tempi in cui Mussolini era giornalista a "Il popolo d’Italia". Tutta questa biografia porterebbe a pensare a un Ungaretti che diventa ilvate dell’Italia fascista, ma cosi non fu per sua fortuna, una fortuna che in quegli anni visse in realtà come profonda sfortuna. Un’incapacità di Ungaretti di capitalizzare questa rendita di posizione, una litigiosità e anche una curiosità di attraversare paesaggi diversi da quello italiano, la sua irrequietezza di “girovago”, come si definiva, lo porta ad avere contatti continui, per esempio, con gli intellettuali francesi e questo non era molto ben visto nell'Italia della cultura fascista. In generale, Ungaretti è un uomo che non riesce a trarre giovamento dalle sue importanti frequentazioni. All’amico Soffici, che invece qualche vantaggio ne aveva tratto, scriverà una lettera nel 1926: “In materia d’arte, il Fascismo non solo non cambia nulla, ma accredita i peggiori”. Non a caso la metà degli anni ‘20 sono gli anni più tristi, più poveri dal punto di vista lavorativo: si deve trasferire fuori Roma, a Marino, in campagna, nei Castelli Romani, lontano dalla cultura. Dopo una sofferta conversione religiosa, negli anni ’30 Ungaretti va di nuovo oltre oceano, ancora una volta emigrante come erano stati i suoi genitori. Andrà a lavorare in Brasile, a San Paolo, dove insegnerà letteratura italiana a partire dal 1936. L'Italia imperiale, l'Italia dei trionfi del Fascismo lo vede lontano, fuori dai giochi. Di nuovo la sua incapacità, la sua non grande perizia nel rapportarsi alla vita e alle convenzioni della vita, lo porta a una scelta catastrofica. Nel 1942, quando tutto ormai sembra congiurare contro il Fascismo e contro lo sforzo militare italiano, decide di tornare in Italia, dove diventa accademico d’Italia e prende la cattedra di professore di letteratura italiana contemporanea alla Sapienza di Roma, dove verrà anche fotografato a fare lezione in camicia nera. Questo naturalmente, quando di li a poco cade il Fascismo, gliverrà aspramente rimproverato ed è probabile che questa improwida circostanza del 1942-43 costerà a Ungaretti non solo il ruolo e il prestigio che il suo grande rivale Montale poté vantare nel Dopoguerra come antifascista della prima ora, ma probabilmente gli costerà anche il premio Nobel. Gli anni ’30 sono segnati da ‘una sua supremazia in campo poetico: tanto la sua figura di intellettuale, di scrittore pubblico, di rendita sociale e letteraria era appannato, quanto il suo prestigio di poeta, anche grazie ai contatti internazionali, si afferma in Italia. La sua pronuncia poetica, che viene soprattutto dalla sua seconda grande raccolta Sentimento del tempo, diventa esemplare per i giovani poeti di quella generazione: i poeti ermetici. Seguiranno poi Il dolore (1947), che riflette sulle vicende dell’esilio in Brasile, ma anche sui bombardamenti in Italia della Seconda guerra mondiale, sulle catastrofi della guerra, e La terra promessa, il tentativo di un grande poema allegorico di cui riuscirà a pubblicare solo alcuni frammenti. Negli ultimi anni continuerà a girare il mondo sempre più vitalista, sempre più espansivo, sempre più pieno di vita; farà esperienze di tuttii tipi, in tuttii Paesi; pubblicherà altre piccole raccolte come Il taccuino del vecchio (1962) e morirà molto felicemente e molto dolcemente in una notte del 1970 a Milano, dopo che tutta la sua opera poetica è stata raccolta sotto il titolo Vita di un uomo, che già Ungaretti aveva dato a diversi capitoli della sua opera poetica, nel primo volume della prestigiosa collana de I meridiani del più grande editore italiano, Mondadori. LA POESIA DI UNGARETTI nasce da un senso di “avventura”, e da un senso di spaesamento, da un’adesione all’esperienza delle avanguardie e da una nostalgia per valori resistenti e costanti. Cerca una poesia sottile e ricca di sfumature che rechi le tracce di un’esistenza concreta, che si anche immagine della “vita d’un uomo”. Questa immagine di umanità deve però emergere dal silenzio e dal vuoto. Manca a questa ricerca autobiografica quella spinta polemica contro i valori sociali che caratterizza il vero e proprio espressionismo. Per Ungaretti la poesia è testimonianza umana assoluta, ha in sé qualcosa di sacro che resiste a tutte le distruzioni e violenze della storia: in questa sacralità, l'individuo si fa voce di tutto un “popolo” cercando però di ridurre la parola dell’essenziale, trovando, per sé e per quel popolo, un nuovo linguaggio concreto e scarnificato, un linguaggio “moderno” che non ha nulla a che fare con quello della retorica dannunziana. Tutta l’esperienza di Ungaretti è dominata da una poetica dell’analogia che non subisce reali modificazioni, ma si definisce in due momenti: un primo momento è caratterizzato da un’assoluta concentrazione linguistica, che riduce al minimo la parola e spezza all'estremo il ritmo del verso, fino a una insistente sillabazione: si hanno componenti brevissimi, versi essenziali che sconvolgono ogni continuità metrico- sintattica. Sparisce la punteggiatura e la parola lirica si isola. Un secondo momento è caratterizzato da un'espressione più ampia e distesa, che recupera le forme più eleganti, preziose, oscure della tradizione, ritorna in parte alla metrica tradizionale, guarda a supremi modelli di perfezione stilistica come Leopardi e soprattutto Petrarca. Il linguaggio non tende più a ridursi al minimo, ma si avvolge in complessi intrecci. Questo secondo momento porta Ungaretti alla scoperta del Barocco e a un uso barocco della tradizione e del linguaggio. Il lavoro del poeta è il risultato di una interminabile manipolazione magica e sacrale delle forme che pullulano in quel campo immenso e prestigioso: è un’inchiesta su nuovi possibili segreti da scovare nei rapporti che legano le parole, che alludono a una realtà profonda e inconoscibile. Vasta fu anche l’attività critica di Ungaretti, testimoniata da numerosissimi saggi, articoli, conferenze, e degli stessi testi dei suoi corsi universitari L'ALLEGRIA DI NAUFRAGI è la raccolta di poesie più conosciuta e nota di Ungaretti e viene pubblicata a Firenze, dall’editore Vallecchi, nel 1919. Qui il pocta sviluppa il nucleo originario dei testi pubblicati ne Il porto sepolto nel 1916, in una rarissima edizione di sole ottanta copie, fatta stampare durante un congedo dal fronte. Una terza edizione del testo, con modifiche e varianti nei testi, è del 1923 quando l’autore recupera il titolo de Il porto sepolto. Ulteriori modifiche ci sono nell'edizione del 1931, il cui titolo è solo L’Allegria: da questo momento Ungaretti non smette mai di rimaneggiare e modificare il volume, editandolo nuovamente nel 1931 (con il titolo L’Allegrià, nel 1936 e nel 1942 (all’interno della raccolta Vita d'un uomo), fino ad arrivare alla versione del 1969, anno precedente a quello della morte del poeta. L'allegria è un'opera abbastanza varia a livello tematico. Riunisce, infatti, al suo interno versi legati all'esperienza diretta della Prima Guerra Mondiale a poesie che ricordano alcuni momenti della vita privata dell'autore. Il titolo dell'opera esprime la gioia che l'animo umano prova nell'attimo in cui si rende conto di aver scongiurato la morte, drammaticamente contrapposto al dolore per essere uno dei pochi sopravvissuti al "naufragio": questo sentimento si esprime con particolare intensità durante il periodo al fronte, ma attraversa tutta la raccolta e si concretizza nell'ossimoro del titolo. Una delle caratteristiche della poesia ‘ungarettiana è quella del vitalismo, dell'ansia di vita che si manifesta anche e soprattutto nelle condizioni più difficili ed estreme, quali una notte in trincea accanto al cadavere di un compagno (come in Veglia), la percezione della precarietà della vita (si veda la celebre Fratelli) o il dolore indicibile per i lutti della guerra (San Martino del Carso). Altrove, la tensione vitalistica emerge nella riflessione su di sé e sul senso della propria esistenza (come I fiumi), nella malinconia dei pochi istanti di pace (come in Stasera) o nella riflessione sulla morte (Sono una creatura). L’Allegria obbedisce così ad un proposito di poetica molto importante per Ungaretti: la ricerca, anche attraverso il dolore, del nucleo originario e assoluto dell'identità umana, attraverso cui riscoprire e ricostruire una fratellanza al di là della sofferenza. Metafora di questa ricerca si fa il “porto sepolto”, ovvero un fantomatico porto antico della città di Alessandria che per Ungaretti rappresenta “ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile”. L'elemento comune a tutti i componimenti è soprattutto quello autobiografico: Ungaretti stesso definiva L'allegria un diario. Prova ne è la scansione in capitoli dell’opera (rispettivamente: Ultime, Il porto sepolto, Naufragi, Girovago, Prime), come a narrare un romanzo in versi dell’autore dalle prime prove poetiche fino all'esperienza della guerra, che caratterizza contenuti e stile della prima stagione ungarettiana, contrapposta alle scelte più misurate e “classiche” del Sentimento del tempo. Protagonista principale e indiscussa è sempre la parola, considerata dal poeta un veicolo fondamentale nella riscoperta dell'io. Per riconoscerle autonomia e libertà, Ungaretti sceglie di comporre sempre liriche molto brevi e “scarne”, inframmezzate da pause che tendono a focalizzare l'attenzione sul singolo vocabolo, per sottolinearne l'impatto semantico e la forza comunicativa; il superfluo viene costantemente accantonato. La preferenza per la “parola nuda” ! spiega così l'abolizione radicale della punteggiatura e il ricorso insistito allo spazio bianco sulla pagina, che isola i versi e spezza le misure strofiche classiche. L'uso del verso libero smonta dall'interno le strutture metriche tradizionali, modellando l’espressione poetica sull’urgenza comunicativa dell'io; questa urgenza poi fa spesso ricorso alla figura retorica dell’analogia per consegnare sulla pagina immagini particolarmente icastiche e pregnanti. Si tratta di tecniche che Ungaretti mutua ampiamente dal Simbolismo francese (in particolare da Paul Valery e da Stephane Mallarmé) ma che costituiscono anche una importante novità nella lirica italiana e che quindi influenzeranno in maniera significativa la poesia dei decenni successivi. SENTIMENTO DEL TEMPO L’opera viene pubblicata una prima volta nel 1933 e poi successivamente (con varianti e correzioni) nel 1936 e nel 1943, quando il Sentimento del tempo diviene un volume della raccolta complessiva Vita d'un uomo. Dal punto di vista poetico e stilistico, il Sentimento del tempo inaugura una nuova fase della poesia ungarettiana rispetto al verso libero e alla “parola nuda” di poesie celebri quali Fratellio Mattina, questa svolta, contenutistica e stilistica, sarà un modello di riferimento molto importante per la corrente dell’Ermetismo. Come per L’Allegria, anche il Sentimento del tempo è suddiviso in capitoli (Prime; La fine di Crono, sezione incentrata sul senso del trascorrere del tempo; Sogni e accordi, Leggende; Inni; La morte meditata, L'Amore). Il tema principale è quello della percezione dello scorrere del tempo tra passato e presente e delrapporto tra la finitezza dell’uomo e il senso dell’assoluto, su cui si innesta la riflessione sulla condizione dell’essere umano e la malinconia per la perdita di affetti e persone, con toni quasi esistenzialisti. A ciò si aggiunge, a livello biografico, la riscoperta della fede da parte del poeta nel 1928, che in alcuni testi (come La madre, del 1930) modifica la visione della realtà del poeta. Inoltre, rispetto ai versi scritti nelle trincee del primo conflitto mondiale e negli anni immediatamente successivi, si può notare che le vicende biografiche del poeta hanno minor peso (come si vede soprattutto nelle poesie della sezione Leggende). A tutto ciò si affianca un'importante evoluzione stilistica della poesia ungarettiana, che va nella direzione della ripresa della lezione dei classici della tradizione lirica (quindi soprattutto Leopardi e Petrarca) e del recupero dei versi e delle misure metriche più convenzionali. La rilettura dei classici e il “ritorno all’ordine” - sostenuto nel corso degli anni Venti dall’importante rivista «La Ronda», di indirizzo classicistico - spinge Ungaretti a scegliere una sintassi più elaborata, ripristinare gli endecasillabi e i settenari , recuperare forme strofiche (come quella dell’inno) e reintrodurre la punteggiatura. La sintassi paratattica e nominale (‘assoluta per usare il lessico ungarettiano) delle poesie de Il porto sepolto e de L’Allegriasi dilata e si estende in un’architettura di frase più complessa e variegata. Nel saggio Ragioni d'una poesia l’autore chiarisce cosa vuole trovare con questo recupero delle misure e dello stile “classico”: Non era l’endecasillabo del tale, non il novenario, non il settenario del talaltro che cercavo: era l’endecasillabo, era il novenario, era il settenario, era il canto italiano, era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza attraverso i secoli [...]: era il battio del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di una terra disperatamente amata. Lo stile si avvicina così a quelle che saranno le caratteristiche di base vivere" montaliano si riflettono nello stile prevalente delle poesie di Ossi di seppia, scritte all'insegna di un linguaggio antilirico e quotidiano, che privilegia un lessico non aulico, ‘una sintassi tendenzialmente prosastica resa vivida da un'accurata ricerca fonico-simbolica sui termini prevalentemente usati. Il recupero e la profonda rielaborazione formale e contenutistica della tradizione letteraria italiana fanno si che la prima raccolta montaliana - come dimostrano emblematicamente alcuni testi, tra cui I limoni, Non chiederci la parola, Meriggiare pallido e assorto - sia un punto fermo tra i più noti e penetranti della nostra poesia novecentesca. L'importanza di Eugenio Montale per la storia letteraria novecentesca è probabilmente senza pari, considerando i risultati altissimi dei lavori poetici e l'intensa carriera di intellettuale e pubblicista. Ciò è sicuramente dovuto alla raffinatezza dello stile, alla forza della sua visione del mondo che pervade ogni zona della sua produzione e alla tenacia militante con cui il poeta affrontò il lavoro culturale. La grande fama di Montale ha però un’altra radice, spesso più in ombra, ma egualmente determinante: fin dagli esordi, Montale seppe muoversi negli ambienti intellettuali con estrema dimestichezza. In ogni fase della sua lunga carriera il poeta ha dimostrato infatti una non comune capacità di amministrare socialmente il proprio “talento” poetico: potremmo definire Montale come un abile stratega di se stesso, sottolineando cosi l’abilità del poeta nel comprendere attivamente il proprio contesto intellettuale. Questo aspetto diventa lampante negli anni Venti, con l'uscita di alcuni componimenti in rivista (e altri interventi di critica letteraria su Sbarbaro e Cecchi), e poi con gli Ossi di seppia, pubblicati nel 1925 a Torino da Piero Gobetti, importante intellettuale antifascista. È interessante allora notare come, ancor prima dell'uscita del libro, Montale si sia legato all'ambiente culturale torinese: collabora con le riviste letterarie vicine all'ambiente gobettiano, come «Primo Tempo» e soprattutto «Il Baretti»; conosce i maggiori critici e letterati che ruotano intorno a questa specie di scuola di pensiero, come Emilio Cecchi, Sergio Solmi, Giacomo Debenedetti. L'orientamento comune è quello in favore di una letteratura sul valore della classicità e della tradizione, che sia però stimolo e modello di resistenza etica, in un frangente storico in cui il regime fascista minacciava sempre più le libertà fondamentali. Da qui il rifiuto della sterile nostalgia per il passato - anche sul piano letterario - e, contemporancamente, il rigetto dell’estremismo delle avanguardie storiche (come il Futurismo, ormai istituzionalizzatosi come “scuola”), privilegiando un decoro formale che fosse anche una scelta di vita, personale e civile. Oltre a questa spiccata tensione morale, la “scuola” di Gobetti era intenzionata a superare il provincialismo radicato ed endemico della cultura italiana, aprendosi alle più aggiornate tendenze europee (determinante, anche per la futura poesia di Montale, è allora la conoscenza della grande letteratura curopea da Proust a Kafka, passando per Musil c per Italo Svevo, altro autore della “crisi delle certezze” novecentesca). Il 1925 è allora un anno cruciale per Montale: oltre alla pubblicazione degli Ossi, Montale firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, al cui pensiero filosofico e critico si richiama - anche se in modo originale e poco ortodosso - l’intero gruppo dei letterati vicini a Gobetti. Sempre nel 1925 Montale pubblica sul «Baretti» Stile e tradizione, un breve saggio in cui il pensiero gobettiano viene rielaborato in modo personale e acuto, esposto con la “sprezzatura” tutta tipica del poeta, che farà della pulizia del pensiero la cifra distintiva della sua vita artistica. Nell'articolo è infatti abbastanza netta la presa di distanza dai modelli poetici più eminenti (nell’ordine: Carducci, D'Annunzio e Pascoli), alle cui “bacature” si contrappone lo “stile” (e cioè l’attenzione scrupolosa alla forma poetica e alla sua originalità personale) e il “buon costume” (ovvero, la sostanza etico-morale con cui connotare il contenuto della propria poesia): Lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell'ultima illustre triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianesimo e altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che del rifar la gente. In tempi che sembrano contrassegnati dall’immediata utilizzazione della cultura, del polemismo e delle diatribe, la salute è forse nel lavoro inutile e inosservato: lo stile ci verrà dal buon costume. Se fu detto che il genio è una lunga pazienza, noi vorremmo aggiungere ch’esso è ancora coscienza e onestà !. È questa un'ottima sintesi di quella che è la poetica degli Ossi di seppia, che si rifanno all’ideale della “salvezza nello stile” formulato da Piero Gobetti, c una proficua linea di lettura per alcuni dei testi più celebri della raccolta (tra gli altri I limoni, Meriggiare pallido e assorto, Non chiederci la parola. Tuttavia, lo spunto iniziale della riflessione montaliana è anche d’indole pratica, e strettamente legata al proprio gruppo culturale di riferimento: nella prima edizione degli Ossi, molte poesie sono dedicate esplicitamente a critici e intellettuali amici, come appunto Sergio Solmi e Giacomo Debenedetti. Gli stessi dedicatari saranno poi recensori degli Ossi di seppia, e a loro volta verranno recensiti da Montale nel vivace circuito di riviste che condividevano collaboratori e orientamenti culturali. Pietro Cataldi, un importante studioso montaliano, ha appunto rilevato “l’esistenza di un contesto filomontaliano ben definito fin dagli esordi” 2; e si può dunque ipotizzare una specie di comunanza di prospettive, sia formali sia contenutistiche, tra la poesia di Montale e il gruppo di lettori e critici cui essa è inizialmente destinata. In tal senso gli Ossi di seppiasi presentano come una raccolta caratterizzata da un'originale mescolanza di sperimentalismo e tradizione. Con un occhio al Simbolismo francese (Baudelaire, Mallarmé, Valery), Montale combina il meglio dei modelli italiani, dal binomio Pascoli-D'Annunzio (pure censurati in Stile e tradizione...) al crepuscolarismo di Corazzini e Gozzano, dalla poesia “ligure” di Camillo Sbarbaro (uno dei primi punti di riferimento per l’autore) fino al linguaggio dei libretti d'opera (che Montale conosceva direttamente, avendo studiato canto lirico con buoni risultati). Nonostante l'ampiezza dei modelli e la disponibilità sperimentale, gli Ossi di seppia rimangono un libro compatto, unificato dall’interno da una spinta etica coerente: dal crepuscolarismo stinto di Corno inglese al modernismo “esistenziale” di Arsenio, la tensione etico-conoscitiva che innerva lo stile - la stessa che si interroga sulla “parola” che può definire il nostro stare al mondo - rimane la stessa. Il rigore ideologico del primo Montale, combinato alla capacità di dialogare attivamente col proprio pubblico di riferimento, permette una felice sintesi dei modelli e la creazione di uno stile poetico originale ed efficace (e dall’influsso determinante su buona parte della poesia italiana del Novecento, al pari forse solo di Ungaretti). Montale combina allora “talento individuale” e “tradizione”, intesa non come “un morto peso di schemi, di leggi estrinseche e di consuetudini - ma un intimo spirito, un genio di razza, una consonanza con gli spiriti più costanti espressi dalla nostra terra” 3. E le successive grandi raccolte (come Le occasioni e La bufera e altro) confermeranno lo status dell'autore tra i più grandi poeti europei dell'ultimo secolo. LE OCCASIONI Pubblicato nel 1939 da Finaudi, la seconda raccolta di Montale include i versi scritti fra il 1928 e il 1939 (cinque liriche erano state anticipate nel libriccino La casa dei doganieri e altri versi, edito da Vallecchi nel 1932). Con Le occasioni la poesia montaliana cambia linguaggio e contenuti rispetto a Ossi di seppia. Così dichiarò l'autore nell'intervista immaginaria del 1946: Non pensai a una lirica pura nel senso ch'essa ebbe poi anche da noi, a un gioco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, senza spiattellarli. Tra l'occasione e l'opera oggetto bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione spinta. Riflettiamo su questa dichiarazione. Nel momento in cui si avvicinava all'Ermetismo, Montale ne prende anche le distanze. Dice infatti di non voler attuare, nei suoi versi, un gioco formale o musicale; intende invece mantenere uno stretto legame con l'oggetto, con la realtà. Però dichiara di voler riassorbire le intenzioni nei risultati oggettivi: tacerà il sentimento all'origine della poesia, non rivelerà lo stato d'animo (la spinta) da cui il singolo componimento è nato, e si limiterà a indicare, a evocare fulmineamente l'oggetto che adesso, per lui, incarna il sentimento. Si tratta di oggetti fortemente simbolici, emblematici. Sono animali, cose, qualunque, semplici parole: per esempio il nome di Buffalo che agisce e salva il poeta nell'omonima lirica; oppure il nuotatore che emerge dall'acqua a indicare misteriosamente il ponte in faccia. il topo bianco che letteralmente fa esistere Dora Markus nella sua poesia; e così via. Tali oggetti sono equivalenti di stati d'animo e fungono come simboli o emblemi; sono cioè correlativi di un'emozione che il poeta, per pudore, tace, lasciando che trapeli solo per brevi istanti lirici. Al di là di ogni effusione dell'io: Incentrandosi sugli oggetti emblematici, la poesia delle Occasioni mette tra parentesi le tante descrizioni e dichiarazioni, le sentenze e i ragionamenti di Ossi di seppia. Montale scava ora sulla singola parola, cercando una liricità frammentaria che può disorientare i lettori. Chi legge, infatti, s'imbatte quasi soltanto in oggetti che, a prima vista, dicono poco: per decifrare il loro significato bisogna conoscere il valore che essi assumono nel mondo sentimentale e psicologico dell'autore. Con tutto ciò superiamo definitivamente ogni residuo di poesia tradizionale o ottocentesca. La lirica esclude da sé qualsiasi emozione o confessione, di cui erano così prodighi i poeti dell'Ottocento. Nessuna effusione dell'io o soggettivismo, ancora così presenti in Pascoli e nei crepuscolari. Con Montale il Decadentismo è finito per sempre e si è aperta la stagione di una poesia pienamente, e consapevolmente, novecentesca. Il valore del ricordo: Protagonista delle Occasioni non è più l'ambiente esterno (il mare, le Cinque Terre liguri), ma la vita interiore del poeta, l'io suggestivo (pur se, come si accennava, non effuso o blandito, ma solo pudicamente alluso nei simboli). Ambito privilegiato di questa vita soggettiva sono i ricordi. Il poeta cerca nella memoria il senso delle cose e delle sue esperienze personali; in tal modo, grazie ai ricordi, cose e situazioni anche umili possono trasfigurarsi, fino a divenire segni (simboli) di una realtà oltre le cose. Tuttavia, in Montale, il ricordo appare costantemente minacciato; è difficilissimo riattingere il passato. Come disse (1933) il critico Gianfranco Contini, Montale è una specie di Proust alla rovescia: se il grande romanziere francese narra il riemergere del passato, attraverso improvvise folgorazioni, invece Montale canta l'improbabilità o l'estrema difficoltà di tale riemersione. E' cosi la sezione più famosa delle Occasioni, costituita dalle brevi liriche chiamata Mottetti, testimonia sia il tentativo del poeta, un tentativo compiuto per emblemi e per forza di poesia, di riappropriarsi del passato, cogliendolo in continuità con il presente, sia l'implacabile devastazione operata dal tempo su ogni cosa, ricordi inclusi. Clizia e le altre: Accanto alla difficile memoria del passato, l'altra grande tematica del secondo Montale è quella della donna. I due temi sono direttamente collegati tra loro: infatti, è la speranza del poeta, la donna forse può contribuire a salvare le cose dalla distruzione del tempo, dando a esse una forma stabile, duratura. L'assidua presenza nelle Occasioni di figure femminili costituisce una chiara novità rispetto a Ossi di seppia. Superando il tu generico della prima raccolta, il poeta si rivolge a diverse interlocutrici e in primo luogo a colei che egli chiama Clizia, pseudonimo di una giovane ebrea americana, Irma Brandeis, amata negli anni trascorsi a Firenze. Altri pseudonimi alludono ad altre donne conosciute o amate da Montale. Sono tutti nomi fittizi alla maniera dei poeti medievali. D'agli stilnovisti Montale riprende l'idea che la donna può svolgere un'opera essenziale, anche se forse neppure lei è la salvatrice dell'io e del mondo. Clizia e con lei le altre figure femminili che abitano Le occasioni, è infatti una creatura, idealizzata si, ma pur sempre creatura. Assomiglia alla Laura in carne e ossa di Petrarca, più che alle donne-angelo (quasi entità soprannaturali di Dante o degli altri stilnovisti del Duecento. Ecco cosi nuovamente confermata tutta la laicità dello sguardo di Montale. LA BUFERA E ALTRO Il terzo volume di Montale, La bufera e altro, pubblicato nel 1956, comprende un primo nucleo di liriche (Finisterre) concepite quale completamento delle Occasioni; a esse si aggiunge in seguito un gruppo di testi più vario per tempi di stesura e tematiche. La novità del libro è che Montale introduce ora, nella sua poesia, accanto ai consueti richiami alle vicende personali, anche nuove tematiche storiche. liriche confluite nella raccolta furono infatti concepite negli anni della guerra: la bufera che dà il titolo alla prima lirica del libro e quindi all'intera raccolta è infatti la guerra, tregenda (tragedia) collettiva da cui nulla sembra salvarsi. Soprattutto nelle prime poesie del libro, quella della sezione Finisterre, pubblicate nel 1943, i versi sembrano prendere vita in mezzo al fremere della battaglia, or che la lotta /dei viventi più infuria (A mia madre), nell'ora della tortura e dei lamenti /che s'abbattè sul mondo (L'orto), mentre ronzano elitre fuori, ronza il folle /mortorio e sa che due vite non contano (Gli orecchini). La realtà come mitologia: La storia incalza con i suoi orrori, ma nel libro l'attualità è sempre indiretta, trasfigurata sullo sfondo di immagini allegoriche, di non semplice decifrazione. Gli episodi allusi, infatti, non sono mai direttamente descritti; inoltre sono presentati come drammi sia collettivi sia personali, in un groviglio inestricabile. Scrisse Montale nel 1951: L'argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo. Non nego che il fascismo dapprima, la guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia, esistevano in me le ragioni di infelicità che andavano molto al di là e al di fuori di questi fenomeni. Perciò, se questo terzo libro di Montale segna un suo deciso avvicinamento alla storia e alla realtà, resta però la sede di una realtà in forma di mito, cioè di una realtà cosmica, universale, da leggersi in senso esistenziale, non immediatamente storico o cronachistico. Un altro tema tipico della Bufera è il dialogo con i propri cari scomparsi. Il padre e la madre defunti sono protagonisti di alcune liriche molto toccanti (L'arca, proda di Versilia, Voce giunta con le folaghe). Ebbene, il poeta intrattiene con loro un colloquio a distanza, che ci ricorda certe liriche di Pascoli, anche perché è dai defunti che il poeta cerca il senso dell'umana esistenza. Ma appunto, il dialogo con loro è molto difficile; i defunti sono simili a ombre (certe atmosfere ricordano imancanti abbracci di Dante con alcune anime dell'oltretomba nella Divina Commedia) e non hanno messaggi da consegnare al poeta, se non la dolcezza dei ricordi e il rimpianto di un passato che non può tornare. Il ruolo dominante della donna: L'unica a incarnare una speranza di salvezza, in questo modo cupo e ferito dall'odio, rimane la donna. La figura femminile in particolare colei che il poeta chiama Clizia, riveste un ruolo dominante nella raccolta; quasi tutte le poesie della Bufera sembrano dettate al poeta (o meglio, alla sua memoria innamorata) da questo visiting angel (l'espressione è del critico Angelo Marchese). Clizia funge da dolce-lontano messaggero che si rende presente al poeta, di quando in quando, con i suoi messaggi suggestivi, anche se oscuri. Clizia sembra svolgere, in certi passaggi del libro, un ruolo salvifico (portare la salvezza agli uomini) simile a quello di altre famose ispiratrici, come la Beatrice di Dante e la Laura di Petrarca. In liriche come Iride e La primavera hitleriana, Clizia pare incarnare, in chiave religiosa, la salvezza da lei stessa annunciata: la sua opera sembra continuare il sacrificio supremo, quello di Cristo. In realtà, però, nessuna salvezza può giungere neppure da Clizia: il dolore dell'esistenza non può essere redento né da lei né dalle sue sorelle, chiamate con i nomi di Mandetta o Volpe. Montale rimane un poeta laico, anche se certamente la dimensione religiosa non lo lascia indifferente. La donna è una figura luminosa, sì, ma irrimediabilmente lontana dall'uomo; in alcune liriche sembra patire personalmente le conseguenze terribili della guerra e in ogni caso non è in grado di portare al poeta, né tanto meno all'umanità, alcuna compiuta salvezza.
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