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La poetica di Giovanni Pascoli, Appunti di Italiano

La poetica di Giovanni Pascoli, che rappresenta un momento di passaggio fra Ottocento e Novecento. La sua produzione presuppone una certa duplicità, con un linguaggio talvolta basso e dialettale unito al magistero dei classici. La poetica del fanciullino contraddistingue i lavori dell'autore, che sosteneva come la conoscenza dell'uomo avesse privato della sua ingenua spontaneità. anche la funzione sociale conservatrice della poesia e le tematiche affrontate da Pascoli, come la morte e la natura.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 05/10/2023

Giulia200222
Giulia200222 🇮🇹

12 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica La poetica di Giovanni Pascoli e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! 1 Giovanni Pascoli - La Poetica, fra fanciullino e simbolismo - Generalmente parlando, la produzione di Pascoli presuppone per sua natura una certa “duplicità”. Il poeta rappresenta un momento di passaggio necessario fra Ottocento e Novecento, tant’è vero che la critica suole considerarlo contemporaneamente l’ultimo dei classici (egli stesso si considerava “allievo” di Carducci e Virgilio) e il primo dei moderni italiani. Tale denominazione deriva dalla cosiddetta “democrazia linguistica” portata avanti dall’autore, ossia dal suo continuo riferimento al magistero dei classici unito ad un linguaggio talvolta basso e dialettale, che pur sempre presenta un qualcosa di ricercato. È da questo connubio di alto e basso, di privilegio ed umiltà, che al tempo scaturì la cosiddetta “poetica del fanciullino”, ovvero la poetica che contraddistingue i lavori dell’autore. Quella del fanciullino, in realtà, è una figura umile e infantile, presente nell’animo di ogni uomo e meglio descritta nella prosa “Il Fanciullino”, pubblicata nel 1897 sulla rivista fiorentina “Il Marzocco”. Pascoli sosteneva che il fanciullino, benché appunto almeno in principio si trovasse nell’animo di ogni uomo perché originato dalla coscienza comune della vita infantile, tendesse a scomparire con il sopraggiungere della maturità. Questo perché gli studi e il progresso scientifico erano da ritenersi colpevoli di aver accresciuto la conoscenza dell’uomo e dunque di averlo privato della sua ingenua spontaneità, della sua capacità di meravigliarsi dinnanzi anche alle cose più piccole, e contemporaneamente di essersi dimostrati incapaci di soddisfare i bisogni intimi e spirituale della coscienza. Il parziale carattere elitario della poetica di 2 Pascoli sopravvive se si nota come questo “fanciullino”, in realtà, sopravviva nell’animo del poeta, che è capace grazie a questi di scorgere il significato profondo di quelle piccole cose che l’adulto “normale” invece trascura, e dunque di pervenire ad una conoscenza profonda della realtà mediante un atteggiamento irrazionale. In altre parole, il poeta, che mantenendo vivo il fanciullino dentro di sé corrisponde ad esso, diviene in Pascoli “poeta veggente”, perché in grado di sottrarsi alla logica ordinaria per individuare accordi segreti tra le cose stabilendo tra di essi legami inediti ed inconsueti. Questa spontaneità tipica dell’infanzia che il poeta veggente riusciva a mantenere in vita, secondo Pascoli, era in buona parte sovrapponibile all’atteggiamento degli antichi. Questi, lontani dalla realtà oramai fattasi complessa e “banale” della modernità, avevano sperimentato la “giovinezza” del mondo con spontaneità e intuizione. Pascoli poi tiene a specificare come passato e presente siano sempre collegati: antichi e moderni sono infatti accomunati dallo sperimentare per la prima volta un mondo che, sebbene esista da molto tempo, si “ricrea” ogni volta perché venga sperimentato da un fanciullino. La poesia era il “luogo”, per l’autore, dove il fanciullino aveva modo di esprimere la sua voce; originando il fanciullino, come già detto, da una coscienza comune della vita infantile e non razionale, la poesia rivestiva per l’uomo un valore consolatorio che lo spingeva alla bontà e alla solidarietà. Occorre sottolineare, tuttavia, come la poesia per Pascoli avesse anche una funzione sociale conservatrice, ovvero la funzione di garantire la stabilità dell’assetto sociale inibendo il desiderio del cambiamento. Questo perché la poesia, in quanto espressione di un sentimento puro, non aveva fini estrinseci o pratici, ma ugualmente si dimostrava in grado di 5 pascoliana. Questo, infatti, vuole essere un riferimento diretto contemporaneamente alla “poetica delle piccole cose” dell’autore e alla tradizione classica ancora particolarmente influente in Italia. “Myricae” , infatti, corrisponde sì, in latino, all’italiano “tamerici” (quindi a qualcosa già di per sé molto umile e piccolo), ma è anche ricavato da un luogo delle Bucoliche di Virgilio riportato da Pascoli nell’epigrafe del volume [Piacciono gli arbusti e le basse tamerici]. Per quanto concerne le tematiche affrontate dai componimenti, l’autore stesso ne offre una presentazione nella Prefazione aggiunta solo a partire dalla terza edizione della raccolta. La materia affrontata ruota per lo più attorno al motivo della morte invendicata del padre, connessa a varie sciagure familiari, e al motivo della natura, ora come grande consolatrice benefica ora come elemento inquietante e turbante. Particolare attenzione viene prestata dall’autore alla morte, grande protagonista della raccolta e meglio affrontata nel componimento “Il Giorno dei Morti”. In linea generale, l’autore riteneva che tutti i parenti venuti a mancare prematuramente, a partire dal padre, avessero formato nel cimitero un’unità familiare più profonda e e autentica di quella serbata dai superstiti. Costoro, fra i quali lo stesso Pascoli, si trovano sì in una condizione indifesa e minacciata, ma contemporaneamente vivono una sorta di senso di colpa, un “debito” nei confronti dei morti, con la quale desiderano riconciliarsi, sebbene questi con la loro presenza ricordino loro di non trovarsi più lì. Troviamo insomma in Pascoli, a proposito della morte, un mito riguardo la tragedia familiare come destino subito e riguardo la persecuzione funebre come punizione, come incubo mortuario. Questa ossessione funebre fa sentire i suoi effetti anche sul naturale che, come già detto prima, diviene a volte negativa e paurosa. 6 Da cosa dipendono, dunque, le diverse sfumature con la quale Pascoli discorre di questi macro temi? Occorre notare che, come già detto, già a partire dal titolo “Myricae” appare scissa fra tradizione e sperimentalismo. Al rispetto della tradizione rimandano le forme metriche chiuse e a volta desuete, nonché l’idea della poesia quale attività privilegiata di conoscenza e quale funzione sociale ancora prestigiosa; lo sperimentalismo, al contrario, emerge a pieno come prodotto della “poetica dell’oggetto” e delle “Piccole Case” e come figlio della tendenza impressionista portata avanti da Pascoli. C’è anche da dire che nonostante il tentativo dell’autore di rimanere vicino alla metrica tradizionale, è possibile notare una sorta di “sperimentalismo all’interno della tradizione”. Troviamo infatti un rapporto di tensione fra metrica e sintassi, nella misura in cui attraverso elementi come enjambements, figure retoriche varie (prime fra le quali la sinestesia e la metafora) e punteggiatura, l’autore supera completamente il ritmo imposto dalla metrica, che ora diviene frammentato quasi a voler emulare la “visione” frammentata dell’autore. “Lavandare” Il testo, composto fra il 1892 e il 1894, fa parte della sezione dell’opera intitolata “L’ultima passeggiata”. Metricamente parlando, troviamo qui l’impiego del madrigale nella sua forma più antica: due terzine seguite da una chiusa, per l’occasione formata da due distici. Il testo, una manifestazione evidente dell’impressionismo pascoliano, si apre in realtà con una descrizione piuttosto precisa, quasi a voler emulare una soluzione verista, di una scena contadina. Il lettore si imbatte innanzitutto nella descrizione di un campo parzialmente arato dove a fare capolino è un aratro “dimenticato”, un qualcosa che suggerisce l’idea di incompletezza e di abbandono a sé stessi. Il fatto che il campo, poi, sia 7 immerso nella nebbia suggerisce un voler tagliare fuori ciò che è lontano per focalizzarsi su quello che è vicino, non avvolto dal mistero, e dunque rassicurante. Chiusasi questa prima terzina incentrata sulle immagine visive, l’autore procede focalizzando l’attenzione sugli aspetti uditivi. Per la campagna, infatti, risuona il canto triste e malinconico delle lavandaie, unito al rumore sordo dei panni battuti nell’acqua. A livello metrico, questa attenzione alla musicalità si traduce nell’uso di una rima interna (v.5 sciabordare/lavandare), nelle parole onomatopeiche “sciabordare” e “tonfi”, ed in generale nell’impiego di parole lunghe e ricche di a. L’effetto voluto dall’autore è quello di un ritmo estremamente lento e pesante unito a delle parole estremamente gravi. La terza strofa si apre evocando l’autunno: i forti colpi di vento, infatti, fanno sì che le foglie vengano strappate via dagli alberi e cadano al suolo come neve. Occorre notare, tuttavia, come “nevica la frasca” sia una costruzione particolare cui merito è quello di anticipare un’analogia, figura retorica che nel Novecento divenne particolarmente popolare. Non si può infatti pensare che l’autore abbia voluto intendere l’immagine in senso proprio: il campo è infatti “mezzo grigio e mezzo nero”, non bianco, e comunque non è usanza lavorare i campi d’inverno. Questa quartina conclusiva, contenente le parole le parole del canto delle lavandaie, trasporta all’improvviso la realtà oggettiva della descrizione delle precedenti due strofe dentro l’interiorità di un soggetto che la guarda e la interpreta alla luce della propria condizione esistenziale di infelicità e solitudine. Questo scambio tra oggettività e soggettività è suggellato dal ritorno dell’aratro, non più mero attrezzo da lavoro, bensì simbolo di un’anima dimenticata e sola, chiamata contemporaneamente a rappresentare la condizione dell’uomo. “X Agosto” 10 “L’Assiuolo” Pubblicata per la prima volta nel 1897 e poi compresa nella quarta edizione dell’opera, “L’Assiuolo” rappresenta un’unione esemplare di impressionismo e simbolismo. Metricamente parlando, il lettore si imbatte in un componimento composto da tre strofe di novenari, seguita ognuna dall’onomatopea “Chiù”. Il componimento si apre con la descrizione di un paesaggio lunare. Troviamo immediatamente un’invocazione alla luna, che stende la sua luce opaca su un indeterminato paesaggio notturno. Fin da subito, quindi, appare chiaro che la natura protagonista di “L’Assiuolo” non è una natura benefica e consolatrice, un’interlocutrice con cui confrontarsi come la intendevano i romantici, bensì è una natura inquietante e indifferente. Proprio perché non più, almeno rispetto all’animo dell’autore, madre consolatrice, l’autore i chiede dove sia la luna. Il pulviscolo di sensazioni negative suggerite dalla notte lunare, fra l’altro, è reso ancora più angosciante dalla nebbia presente; questa, di norma, viene connotata come qualcosa di buono, che nasconde il lontano e ci fa focalizzare sul vicino, mentre qui crea un senso di incertezza facendo sì che l’autore non abbia una chiara idea di cosa lo circondi. Già a partire da questa prima strofa, troviamo le figure tipiche della poesia pascoliana - figure a partire dalla quale l’autore costruisce i propri simboli. Già a partire dal v.2, troviamo la prima espressione analogica, ossia “alba di perla”: si tratta di un’espressione sulla quale soffermarsi perché illustra al lettore uno degli espedienti più frequenti di Pascoli, ovvero la sostituzione di un aggettivo (qui avrebbe dovuto essere “perlacea”) con un complemento di specificazione. In questo caso, l’alba è perlacea a causa del velo bianco steso dalla nebbia. Un meccanismo simile viene a crearsi anche per quanto riguarda la sinestesia “soffi di lampi” al v.5 e la 11 metonimia “nero di nubi” al v.6. Il fatto, poi, che l’autore non parli semplicemente di alberi, ma al contrario ci tenga a specificare si trattino di un melo e di un mandorlo, ben testimonia l’attenzione al frammento, al particolare prestata da Pascoli. Specificare il nome di qualcosa, infatti, significa portare in scena una realtà conosciuta, e dunque rassicurante. A chiudere questa prima sezione è una “voce dai campi”, ossia il canto dell’assiuolo; in questa prima parte, il canto del volatile sembra essere, anche grazie all’onomatopea “Chiù” , chiaro esempio di linguaggio pre-grammaticale pascoliano, un semplice calco realistico. Con la seconda strofa, vediamo come a partire tanto dalle voci misteriose della natura quanto dalla propria interiorità in cui risorge l’eco di un passato drammatico, la campagna, nota e abituale, divenga per l’autore fonte di un progressivo turbamento. Aldilà della metafora introduttiva “nebbia di latte”, che analogamente a quanto accaduto con “alba di perla” rappresenta un espediente tipico della poesia di pascoli, troviamo fra il v.11 e il v. 14 una triplice anafora data dalla ripetizione del verbo “sentivo”. Occorre notare, tuttavia, come il verbo in un primo momento sia paragonabile ad un “udivo” e in un secondo momento ad un “avvertivo”. Nel bel mezzo di queste anafore, troviamo l’ennesima onomatopea, ossia il “fru fru”, che fra le altre cose non solo allittera con “fratte”e “tra”, ma concorre anche alla resa del tipico effetto fonosimbolico. A chiudere la strofa troviamo un “sussulto” nel cuore dell’autore, paragonato ad un “grido che fu”: la voce che l’autore avvertiva provenire dai campi, ossia il canto dell’assiuolo, assume ora un valore misterioso ed allusivo, giacché non si tratta più di una voce indefinita e 12 neutrale, bensì di un eco di sofferenza e di pianto. La strofa finale rappresenta il culmine del climax originato già a partire della prima strofa: è qui infatti che troviamo il trionfo della sofferenza e della angoscia del nulla e della morte. Quest’ultima sezione si apre con una personificazione del vento, che sospira quasi fosse affranto dalla nostalgia e dalla mancanza. Viene poi fatto riferimento ad alcuni “sistri”, ovvero a degli strumenti musicali di origine egizia che in passato venivano suonati in occasioni di riti funebri come promessa di resurrezione dopo la morte. Si noti bene come si tenti di rendere il suono di questi oggetti per mezzo dell’ampio uso della lettera S. La promessa di resurrezione dopo la morte dei sistri, tuttavia, non viene mantenuta, perché l’autore ritiene la possibilità irrealizzabile; per questo, le “invisibili porte della morte non s’aprono più”. A concludere l’intero componimento è il “pianto di morte” che è ora il chiù, non più la neutrale “voce dei campi” della prima strofa o il “singulto”. “Novembre” Dopo essere stato pubblicato al principio sulla rivista “Vita Nuova” nel 1891, il testo “Novembre” fu inserito all’interno della raccolta “Myricae” fin dalla sua prima edizione. In quanto alla metrica, si tratta di un componimento formato da tre strofe saffiche, ovvero da quartine realizzate a partire da tre endecasillabi e un quinario in clausola. Appare evidentissimo nella poesia il carattere spezzato della frase e del ritmo dei versi, cosa che aumenta la sensazione psicologica di inquietudine e disarmonia man mano che i prosegue nella lettura. L’effetto è reso da una punteggiatura fortemente espressiva, che crea ad esempio sospensioni e fratture del ritmo, e dal grande uso di enjambements. 15 momento di silenzio, l’ossimoro “tacito tumulto” appunto, illumina il contesto circostante. Il paragone che fa capolino negli ultimi due versi, cioè quello che avvicina la fugacità del lampo alla velocità con la quale un occhio”largo, esterrefatto si chiude nella notte nera”, indica al lettore il vero significato del poema. Il lampo protagonista di questa ballata è infatti quello della fucilata che trafisse il padre dell’autore: ciò che viene descritto qui è dunque ciò che l’occhio del morente vide prima di spegnersi per sempre. A questa poesia occorre riconoscere il merito di cancellare il dato materiale della realtà affinché questa possa ridursi a dato simbolico. - Canti di Castelvecchio- I “Canti di Castelvecchio” sono poemi facenti parte di una raccolta di testi pubblicata dall’autore per la prima volta a Bologna nel 1903. Come accaduto per “Myricae”, anche in questo caso si succedettero diverse versioni, grazie al quale vennero aggiunti alcuni testi. L’edizione finale si ebbe solo nel 1912, poco tempo dopo la morte dell’autore. L’opera, generalmente, viene ritenuta strettamente collegata a “Myricae”, quasi fosse un suo completamento. Questo criterio di continuità venne in effetti già segnalato dall’autore, che ripropose l’epigrafe in riferimento a Virgilio adoperata in “Myricae” a spiegazione del titolo. Anche i temi, in linea generale gli stessi, creano una certa relazioni fra le due raccolte. Ancora una volta, ad essere trattati qui sono il motivo naturalistico e quello familiare. Spesse volte, però, questi due motivi finiscono con l’intrecciarsi: il ritmo delle stagioni allude ad un ordine naturale e alla segreta armonia dell’alternanza di vita e morte, di fine e rinascita; l’uccisione del padre, al contrario, rappresenta una perdita irreparabile segnata dalla cattiveria umana e quindi estranea al ritmo naturale dell’esistenza. Non essendo la morte del padre parte del meccanismo naturale, questa non può essere in alcun modo riscattata. Si noti, però, 16 come la poesia trova giustificazione in quanto risarcimento contro il destino crudele che ha infierito sulla famiglia del poeta; scrivere dei familiari defunti equivale a richiamarli in vita. Il titolo evoca però una discontinuità rispetto a “Myricae”, richiamando la tradizione lirica italiana, più quella che bucolica. Ne “I Canti di Castelvecchio”, effettivamente, l’autore, che si ispira soprattutto ai “Canti” leopardiani, ricerca una musicalità più complessa e varia, cosa che lo spinge a recuperare, ad esempio, versi meno popolari della tradizione lirica italiana come il novenario, nonché ad alternare metri parisillabi e parisillabi. Tra le maggiori novità rispetto a Myricae osserviamo nei Canti una componente folclorica legata a mestieri e abitudini della gente di Garfagnana (dove si trova Castelvecchio), nonché a detti e credenze romagnole; il poeta infatti va ora cercando nella cultura popolare di zone periferiche, custodi di una sapienza naturale, le stesse verità esistenziali che nella precedente raccolta il fanciullino aveva colto solo nelle voci della natura. Compito ulteriore del poeta diviene quello di preservare le antiche tradizioni, prima che vengano cancellate dal progresso e dalla modernizzazione. Per le medesime ragioni il linguaggio post-grammaticale di Pascoli si arricchisce ora di inflessioni vernacolari e di termini tecnici ascrivibili all’ambito delle arti e dei mestieri della tradizione romagnola e garfagnina. “Il Gelsomino Notturno” In senso proprio, la poesia, pubblicata nel luglio del 190021, può essere definita una poesia d’occasione: venne infatti composta dall’autore in occasione delle nozze di Gabriele Briganti, un suo amico intimo. Occorre notare, tuttavia, come il tema d’occasione venga trasfigurato dalla poetica simbolica pascoliana, così che i dati biografici concreti possano solo essere decifrati dalla trama simbolica intessuta. In altri termini, “Il Gelsomino Notturno” è un chiaro esempio di come Pascoli usasse radicare i propri testi in episodi 17 della realtà, per poi tradurli in un linguaggio simbolico atto a rendere sfumato e “universalizzato” il tema prescelto. Dal punto di vista metrico, il componimento è costituito da sei quartine di novenari, dove questi sono sempre divisi in due coppie ma collegati da rime alternate. Si noti poi, come la trama dell’intera poesia sia costruita sull’alternanza: si alternano immagini visive, sensazioni uditive e olfattive, così come luoghi aperti e chiusi. A troneggiare è infine un parallelismo fra fecondazione dei fiori nella campagna notturna e consumazione della prima notte di nozze degli sposi nella loro dimora. I tre nuclei fondamentali della poesia sono la sessualità, la morte e l’esclusione. Sebbene quello principale sia quello della fecondazione della sposa, il componimento si apre in realtà con la descrizione di un crepuscolo, l’ora del giorno più adatta al raccoglimento durante il quale l’autore pensa ai propri cari defunti. L’ipotesi che Pascoli voglia ritrarsi in un momento di riflessione sembra essere avvalorata dall’incipit, “E”, come appunto se l’autore stesse dando voce alla propria meditazione. Ù Il poeta prosegue descrivendo la sera, che suole portare con sé il silenzio ed il riposo; i “gridi”, cioè i versi degli uccellini, infatti tacciono. Solo nella casa degli sposi, impegnati nella loro notte di matrimonio, si avvertono ancora dei bisbigli e delle voci, come testimoniato dalla metonimia aggiunta dall’autore. Il luogo chiuso, come testimonia l’ennesimo riferimento al “Nido”, riveste ancora una volta qui un’importanza grandissima, in quanto luogo di protezione, benessere e affetto. Nella terza strofa troviamo una contrapposizione fra quanto, calata la sera avviene nella natura, ovvero la fecondazione dei gigli che, aprendosi, rilasciano un dolce odore di fragole, e quanto sta avvenendo nella casa, ovvero al prima notte di nozze degli sposi. Si viene qui a creare, dunque, una certa corrispondenza fra la fecondità naturale e la fecondità domestica. 20 insormontabili, come “nuvole nere”, bensì si sono trasformati e ora appaiono come “nuvole rosa”. Nella quarta strofa vi è un tentativo di tornare alla natura - tentativo perché, comunque, l’autore non può fare a meno di tornare alla propria dimensione esistenziale. Viene qui operato il parallelismo con i rondinini che non hanno potuto ricevere una porzione adeguata di cibo a causa del temporale: anche l’autore, da bambino, ha vissuto un’infanzia diversa da come avrebbe dovuto essere, a causa dei lutti subiti. Nuovamente, con l’esclamazione “mia limpida sera!” Pascoli torna a ribadire come, in vecchiaia, egli si senta più sereno nonostante le varie vicissitudini negative della vita. Nella strofa finale, il suono delle campane, evocato dall’onomatopea “Don..don...don”, riporta il poeta all’età infantile; costui si segue il consiglio di quelle voci di tenebra azzurra (un’analogia sinestetica) e si lascia cullare dai ricordi per dimenticare gli affanni che hanno caratterizzato la sua esistenza. Attraverso gli ultimi due versi del componimento emerge una particolare concezione dell’autore circa la vecchiaia e la morte. Avendo una visione ciclica della vita, Pascoli riteneva che, avvicinandosi alla morte, l’uomo in realtà si stesse avvicinando alla sua rinascita; egli infatti dal nulla proviene e al nulla ritorna. Proprio perché oramai prossimo alla morte, sull’ultimo, l’autore afferma di udire il canto di sua madre mentre lo culla. “Nebbia” Composta nel 1899 e pubblicata in un primo momento sulla rivista “Flegrea” prima di fluire ne “I Canti di Castelvecchio”, la poesia consta di cinque strofe composte ognuna da 3 novenari, un ternario, un novenario e un senario. La peculiarità del testo risiede nel fatto che ogni stanza è aperta dall’invocazione “nascondi”, rivolta alla nebbia, interlocutrice per l’occasione. A questo elemento naturale personificato l’autore si rivolge affinché nasconda ciò che è lontano nel tempo (le cose passate) e nello spazio (le cose 21 lontane), poiché fonte unicamente di nostalgia e dolore. Appare evidente fin da subbio come la nebbia non venga descritta oggettivamente, ma al contrario assuma un forte significato simbolico. La nebbia diviene qui una barriera difensiva che il poeta erge tra sé e il mondo esterno, affinché lo protegga dall’ignoto e dalla morte, lasciandogli vedere solo ciò che è vicino, le poche e umili cose all’interno del “nido”. Dopo averci “presentato” nella prima strofa una nebbia che si solleva in aria sul far dell’alba dopo una notte di tempesta, l’autore prosegue nella seconda strofa chiedendo che dalla sua vista venga celato tutto quello che è morto. L’autore qui sostiene di volere che la sua vista riesca soltanto a raggiungere la siepe del suo orto, ossia il confine fra il suo nido e il mondo esterno, e il muro cui crepe sono invase dalla valeriana. Si noti come venga menzionata la valeriana per via delle sue proprietà rilassanti e calmanti. Nella strofa, l’autore chiede alla nebbia di far sì che egli possa raggiungere con lo sguardo solo i suoi due peschi e i suoi due meli - cui nome, come solito per Pascoli, viene specificato proprio per sottolineare la familiarità del poeta con il suo nido. L’autore nutre tanto affetto per quegli alberi, e di riflesso in generale per il suo nido, da giungere a sostenere come solo i loro frutti riescano ad addolcire la sua vita disperata (il suo “pane nero”). La quarta strofa si apre con il poeta che chiede ancora una volta alla nebbia che nasconda le “cose lontane”, perché fonte di riflessione sugli affetti perduti e sui sentimenti di un tempo, e dunque in generale di dolore. Pascoli vuole che il suo sguardo possa raggiungere solo la strada bianca di selciato (qui portata in scena con il tipico espediente pascoliano di sostituzione dell’aggettivo in favore di un complemento di specificazione, “bianco di strada”) che un giorno, ormai venuto a mancare, dovrà percorrere all’interno della sua bara. - I Poemetti- 22 La prima edizione della raccolta vide la luce nel 1897, a pochi mesi di distanza dalla quarta edizione di “Myricae”. Seguì una seconda edizione nel 1900 ed infine una definitiva nel 1904, riportante come titolo “Primi Poemetti”. Effettivamente, l’autore diede vide pochi anni dopo ad una raccolta di testi affini denominata “Nuovi Poemetti”. In linea generale, comunque, questa antologia di testi raccoglie un secondo filone della ricerca poetica pascoliana, tutto incentrato sul tentativo di abbandonare il frammentismo tipico di “Myricae” in favore di disegni più costruiti e di un tessuto ideologico più spesso. A tal fine, Pascoli si orientò verso una tendenza narrativa, tanto da produrre testi eccezionalmente lunghi con, talvolta, la partecipazione di più figure umane dialoganti fra loro. Per quanto ancora concerne le caratteristiche formali, troviamo in “Primi Poemetti” non solo l’impiego della terzina dantesca, ma anche uno sperimentalismo linguistico che si concretizza nell’uso di termini dialettali e di un italiano dialettale americanizzato dagli emigrati negli USA. Rispetto ai temi, invece, domina in questa raccolta l’umanismo populistico di Pascoli, ovvero la tendenza dell’autore a rappresentare il mondo popolare nella sua dignitosa sofferenza e sollevando pesante denunce sociali. All’aggressività e alla negatività della società di massa, Pascoli contrappone i miti della bontà naturale e della poesia. La bontà naturale si esprime nella vita umile e semplice del mondo contadino, cui realtà semplice è portata in vita dalla poesia, ritenuta rifugio dei valori cancellati dalla civiltà industriale. In quest’ottica di poesia come rifugio idilliaco in contrapposizione con la violenta società moderna, il ruolo del poeta diviene quello di creare il mondo di bellezza e armonia della poesia. Anche ne “I Poemetti”, tuttavia, il fascino naturale sembra spesso alludere piuttosto ad una minaccia di morte e di rovina. 25 conquista della Libia, possono restare sul suolo della patria, perché le colonie non sono che un prolungamento della terra natia; mentre prima, in paesi stranieri, erano sfruttati, disprezzati e umiliati come degli schiavi, ora invece potranno coltivare la loro proprietà e così facendo elevare la condizione di quei territori. Questa spedizione civilizzatrice Pascoli riteneva fosse il mezzo attraverso la quale l’Italia neonata, che in 50 anni ancora non si era mossa affinché si costruisse una nazione veramente forte, avrebbe potuto risollevare le proprie disastrose sorti. Pascoli prosegue il suo discorso proiettandosi a spedizione conclusa, con le legioni italiani presenti e ben sistematesi sul suono libico. Egli immagina come, portata a termine l’occupazione, l’onore italiano si risollevi, soprattutto grazie all’esercito, particolarmente lodato. L’ambiente militare viene esaltato come luogo di comunione e incontro di uomini provenienti da tutta Italia, uniti da gesta gloriose a tal punto da veder crollare anche le distinzioni di classe: a dividere i soldati è solo la velocità con la quale si raggiunge il nemico. A dire la verità, la distinzione di classe, a detta dell’autore, non ha ragione di esistere né all’interno dei ranghi militari né all’interno della società civile: l’unica lotta che s’instaura è infatti l’emulazione per compiere eroicamente il proprio dovere. L’ideale di Pascoli è una società senza conflitti, in cui permangano le divisioni tra i vari ceti sociali, ma in cui ciascuno resti al suo posto, contento di quello che ha, senza contrapporsi a chi sta al di sopra di lui, per scalzarlo. Il concetto marxista di «classe», quale era propugnato allora dai socialisti, viene addirittura negato: non possono essere definite classi, per Pascoli, quelle che non hanno confini rigidi, quelle in cui si può entrare e da cui si può uscire liberamente. Il discorso termina con un’esaltazione del popolo italiano, che sì sparge sangue e va in guerra, ma solo “per coltivare, non per inselvatichire e corrompere ma per umanare e incivilire, non per asservire ma per 26 liberare”. La guerra che l’Italia vorrebbe portare avanti, a detta di Pascoli, non è una guerra “offensiva” ma “difensiva”, nel senso in cui i soldati italiani si votano alla difesa degli uomini e del diritto degli uomini a godere dei frutti della propria terra e del proprio lavoro, contrapposti ai libici, che a detta dell’autore sequestrano soltanto. - I Poemi Conviviali- L’ultima raccolta di testi redatta dall’autore fu “Poemi Conviviali”, pubblicata nel 1904. Il titolo dell’opera vuole essere un riferimento diretto alla rivista decadente italiana “Il Convito”, fra l’altro ispirata da d’Annunzio, con la quale l’autore collaborò proprio nei primissimi anni del nuovo secolo. Il motto posto ad apertura richiama ancora una volta, come accaduto in “Myricae” e “Canti di Castelvecchio”, le bucoliche di Virgilio. Si tratta di un richiamo, però, “al rovescio”: [Non a tutti piacciono le piante basse]. Il verso latino riportato, in altre parole, vuole essere una dichiarazione di poetica: la poetica dell’umile viene abbandonata e pertanto il tono dell’opera viene innalzato. A questo innalzamento tematico corrisponde anche uno formale: l’autore si avvicina ad esempio all’alessandrismo, ossia un tipo di poesia nata durante il periodo ellenistico che dava origine a componimenti abbastanza brevi ma molto ricercati ed eleganti, tendenti al preziosismo stilistico. Questa ritrovata cura per l’aspetto formale emerge anche dall’utilizzo del verso endecasillabo. Ciò che colpisce dei testi di questa raccolta è il fatto che, sebbene le ambientazioni siano prevalentemente quelle del mondo classico e del mondo orientale, sul mondo antico vengano proiettate le ansie e la sensibilità moderne, così che lo spazio divenga solo un mezzo per creare atmosfere misteriose e sognanti. Tematica principale della raccolta è la vanità di tutte le cose, soprattutto dell’azione e della storia: non solo ogni progresso è impossibile, ma l’evoluzione stessa e 27 il senso della vita e della razionalità appaiono revocati in dubbio.
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