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La Prima Guerra Mondiale, Dispense di Storia

La Prima Guerra Mondiale è stata un conflitto mondiale che ha coinvolto la maggior parte degli Stati indipendenti e delle loro colonie, estendendosi a tutti i continenti. La guerra ha prodotto una serie di profonde trasformazioni politiche, sociali e culturali, mobilitando non solo gli eserciti e gli apparati statali, ma anche la popolazione civile. La Grande Guerra ha avuto un impatto epocale sulla storia contemporanea, influenzando le ideologie politiche, i comportamenti sociali, l'economia e la cultura dell'Europa e del mondo, e soprattutto sugli equilibri internazionali.

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 12/02/2023

micheleeeec
micheleeeec 🇮🇹

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Scarica La Prima Guerra Mondiale e più Dispense in PDF di Storia solo su Docsity! LA PRIMA GUERRA MONDIALE Scoppiata al termine di una lunga fase di sviluppo e di progresso, nata dalle vecchie e nuove rivalità fra le grandi potenze europee, la prima guerra mondiale, nata come guerra lampo, si trasformò presto in un conflitto mondiale e in una guerra totale. Definita “Grande Guerra” per i fattori che la resero tanto diversa dalle guerre ottocentesche, per le dimensioni delle forze in campo e per le potenzialità distruttive degli strumenti bellici, il primo grande conflitto maturato e combattuto nell'epoca della seconda rivoluzione industriale e della nascente società di massa coinvolgeva eserciti numerosi come non mai, armamenti sempre più potenti e prodotti in grande serie e un vasto coinvolgimento delle popolazioni nello sforzo bellico. Durò più di quattro anni (dal 1914 al 1918) e coinvolse, sia pur in forme e in tempi diversi, la maggior parte degli Stati indipendenti e delle loro colonie, estendendosi a tutti i continenti. Inoltre, nei principali paesi belligeranti (e soprattutto in quelli che la combatterono sul proprio territorio), produsse una serie di profonde trasformazioni politiche, sociali e culturali, mobilitando non solo gli eserciti e gli apparati statali, ma anche la popolazione civile. Funzionò, insomma, come un laboratorio e un acceleratore di tutti i fenomeni legati alla nascente società di massa. Non stupisce dunque che, in sede di periodizzazione della storia contemporanea, si tenda oggi a indicarla come l'evento fondante di un secolo che di fatto coincide con la contemporaneità. Ciò che difficilmente può essere negato è la portata epocale della Grande Guerra, la sua incidenza sulle ideologie politiche e sui comportamenti sociali, sull'economia e sulla cultura dell'Europa e del mondo, e soprattutto sugli equilibri internazionali. Un ventennio, o quasi, di sviluppo della produzione industriale e degli scambi commerciali e di crescente integrazione fra le economie più sviluppate aveva alimentato l'aspettativa di un benessere diffuso. L'onda lunga della seconda rivoluzione industriale e delle nuove tecnologie aveva dato corpo all'idea, di matrice positivista, di un progresso indefinito di cui tutti, prima o poi, avrebbero finito col fruire. Evoluzioni politiche e progressi materiali non bastavano però a spegnere i conflitti sociali e a dissolvere le tensioni internazionali. Fra le grandi potenze europee, che non si combattevano fra loro da quasi mezzo secolo, erano vive le rivalità vecchie e nuove: - l'Austria contro la Russia per i Balcani (Polveriera Balcanica: il termine è un chiaro riferimento alla penisola dei Balcani, che, a partire dall'espansione in territorio europeo dell'Impero ottomano, è stata oggetto di continui disordini e ripartizioni tra i contendenti, tanto da essere infine marcata spregiativamente come "polveriera d'Europa". Dall'altro, vi erano gli interessi della Russia, Inghilterra, e dalla Francia. Russia si atteggiava a difesa dei popoli balcanici; Russia si atteggiava a difesa dei popoli balcanici); - la Francia contro la Germania per l'Alsazia-Lorena; - la Germania contro la Gran Bretagna per la supremazia sul mare. Inoltre, la corsa agli armamenti intrapresa dalle potenze maggiori e la forza distruttiva dei nuovi mezzi bellici rendevano più inquietante che mai lo scenario di un conflitto. Non trascurabili erano i fermenti nazionalistici nell’Impero austro-ungarico, composto da gruppi etnici disparati. Peso non minore hanno i nazionalismi all'interno della Francia (revanscismo) e della Germania (Associazione pangermanica), come le mobilitazioni e ultimatum precipitosi (conseguenza anche dei piani operativi militari). La guerra era dunque nell'aria. Ma non tutti la temevano come il peggiore dei flagelli. Se le minoranze pacifiste si mobilitavano per impedirne lo scoppio, se i socialisti di tutti i paesi la condannavano in nome degli ideali internazionalisti, settori non trascurabili delle classi dirigenti e delle opinioni pubbliche nazionali la valutavano come un'opzione praticabile nella logica del confronto fra le potenze, o la concepivano come un dovere patriottico, o addirittura la invocavano come un evento liberatorio. Per molti giovani la guerra si presentava come la grande occasione per uscire dagli orizzonti angusti di una mediocre realtà quotidiana. Solo la guerra avrebbe potuto risvegliare una società intorpidita da troppi anni di pace e di ricerca del benessere materiale, restituire alla vita una dimensione eroica, rilanciare l'ideale patriottico e l'etica del sacrificio. Nell'Europa del 1914 esistevano dunque tutte le premesse che rendevano possibile, anzi probabile, una guerra. Questo non significa però che i tempi e le modalità, le dimensioni e la durata del conflitto fossero predeterminati in partenza. Infatti la guerra nasce come guerra lampo per poi trasformarsi, come vedremo, in guerra di logoramento, di trincea, il che era tutto inaspettato: infatti, la catena di cause ed effetti che portò allo scoppio della guerra si articolò in una serie di circostanze accidentali. IL CASUS BELLI: L’ATTENTATO DI SARAJEVO Imprevedibile, proprio per questo motivo, fu la dinamica del casus belli, ovvero il pretesto per lo scatenamento del conflitto. Il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco di nome Gavrilo Princip uccise con due colpi di pistola il nipote dell'imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe, l'arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie, mentre attraversavano in auto scoperta le vie di Sarajevo, capitale della Bosnia. Tanto bastò per suscitare la reazione del governo austriaco, orientato a una definitiva resa dei conti con lo scomodo vicino, che però contava sull'appoggio della Russia. Il 23 luglio, tre settimane dopo l'attentato, alla Serbia fu inviato un durissimo ultimatum dall'Austria-Ungheria, che giudicò la risposta insufficiente perché il governo serbo non accettò la clausola che prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti dell'attentato. Dunque, il governo austriaco, il 28 luglio, dichiarò guerra alla Serbia. Questo passo suscitò una reazione a catena che, in poco più di una settimana, portò alla deflagrazione del conflitto.  II 29 luglio la Russia ordinò la mobilitazione delle forze armate per schierarle lungo tutto il confine occidentale, compreso quello con la Germania.  II 31 luglio la Germania, dopo un ultimatum senza risposta, dichiarò guerra alla Russia, e, subito dopo, alla Francia, anch'essa in mobilitazione.  II 4 agosto le truppe tedesche invadevano il neutrale Regno del Belgio per colpire l'area più debole dello schieramento francese e puntare direttamente su Parigi.  Lo stesso 4 agosto, in risposta, la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania. Fu dunque l'iniziativa del governo tedesco a far precipitare definitivamente la situazione. Ma come spiegare un impegno così deciso della Germania in una crisi che in fondo non toccava direttamente nessuno dei suoi interessi vitali? Innanzitutto la classe dirigente tedesca lamentava da tempo una condizione di isolamento del paese e non poteva tollerare un indebolimento del suo principale alleato, l'Impero asburgico. C'erano poi le motivazioni di ordine militare. La strategia dei generali tedeschi si basava infatti sulla rapidità e sulla sorpresa e costituiva dunque di per sé un fattore di accelerazione della crisi e un ostacolo al negoziato. Il piano elaborato già ai primi del 900, prevedeva in primo luogo un massiccio attacco contro la Francia, che doveva esser messa fuori combattimento in concessione dei pieni poteri al governo. La sera del 23 maggio l'Italia dichiarava guerra all'Austria; il giorno dopo ebbero inizio le operazioni militari. 1915-16. LO STALLO L'intervento italiano non servì, come molti avevano sperato, a decidere le sorti del conflitto. Le forze austroungariche si schierarono sulle posizioni difensive più favorevoli, lungo il corso dell'Isonzo e sulle alture del Carso. Contro queste linee le truppe comandate dal generale Luigi Cadorna sferrarono, nel corso del 1915, quattro sanguinose offensive senza cogliere alcun successo. Nel giugno 1916 furono gli austriaci a lanciare un improvviso attacco (che fu chiamato significativamente Strafexpedition, ossia 'spedizione punitiva' contro l'antico alleato ritenuto colpevole di tradimento), tentando di penetrare dal Trentino nella pianura veneta e di spezzare in due lo schieramento nemico. Il governo Salandra, per il contraccolpo psicologico suscitato nel paese, fu costretto alle dimissioni e sostituito da un governo di coalizione nazionale presieduto da un anziano politico di orientamento conservatore, Paolo Boselli. Il cambio di ministero, però, non comportò alcun mutamento nella conduzione militare della guerra. Una situazione analoga, su scala ancora più ampia, si era creata sul fronte francese. Anche qui gli schieramenti rimasero pressoché immobili per tutto il 1915. All'inizio del 1916 i tedeschi sferrarono un attacco in forze contro la piazzaforte francese di Verdun con lo scopo principale di logorare le forze nemiche. La battaglia, durata quattro mesi, risultò troppo costosa anche per gli attaccanti: complessivamente i due schieramenti registrarono oltre 600 mila perdite. E la carneficina proseguì nei mesi successivi, quando gli inglesi tentarono una controffensiva sul fiume Somme: qui, in sei mesi, il numero delle perdite arrivò a quasi un milione. In realtà, fra il 1915 e il 1916, i soli successi militari di qualche importanza furono conseguiti dagli Imperi centrali e i pochi spostamenti rilevanti del fronte si verificarono in Europa orientale. Fra la primavera e l'estate del 15 una spedizione navale britannica attaccò lo stretto dei Dardanelli e riuscì a far sbarcare un contingente sulle coste turche, primo e fortissimo alleato degli Imperi Centrali. Ma l'impresa, contrastata con efficacia, si risolse in un sanguinoso fallimento. Questi risultati non bastarono a riequilibrare la situazione a favore degli Imperi centrali, che subivano le conseguenze del blocco navale attuato dagli inglesi nel Mare del Nord. Invano, nel maggio 1916, la flotta tedesca aveva tentato un attacco, fallimentare, contro quella inglese in prossimità della penisola dello Jutland. LA VITA IN GUERRA Dal punto di vista tecnico, la vera protagonista della guerra fu la trincea, ossia la più semplice e primitiva tra le fortificazioni difensive. Concepite all'inizio come rifugi provvisori per le truppe in attesa del balzo decisivo, divennero, una volta stabilizzatesi le posizioni, la sede permanente dei reparti di prima linea. Col passare del tempo, vennero allargate, dotate di ripari, protette da reticolati di filo spinato e da "nidi" di mitragliatrici. La vita nelle trincee era monotona e rischiosa al tempo stesso. Soldati e ufficiali vivevano in condizioni igieniche deplorevoli, esposti al caldo, al freddo e alle intemperie, oltre che ai periodici bombardamenti dell'artiglieria avversaria. Non uscivano dai loro ricoveri se non per compiere qualche pericolosa azione notturna di sabotaggio nelle linee nemiche o per lanciarsi all'attacco, quando scattava un'offensiva. Gli assalti, che iniziavano di regola nelle prime ore del mattino, erano preceduti da un intenso tiro di artiglieria («fuoco di preparazione») che in teoria avrebbe dovuto scompaginare le difese avversarie ma in pratica aveva come risultato principale quello di eliminare ogni effetto sorpresa. Bastarono i primi mesi di guerra nelle trincee a far svanire l'entusiasmo patriottico con cui molti combattenti avevano affrontato il conflitto. Gran parte dei soldati semplici non aveva idee precise sui motivi per cui si combatteva la guerra e la considerava come una specie di flagello naturale da accettare con fatalistica sopportazione. Né il senso del dovere né la minaccia del plotone di esecuzione poterono impedire, tuttavia, che la paura o l'avversione alla guerra si traducessero talora in forme di rifiuto. Le più diffuse erano quelle individuali, che andavano dalla renitenza alla leva alla diserzione o alla pratica dell'autolesionismo, consistente nell'infliggersi volontariamente ferite e mutilazioni per essere dispensati dal servizio al fronte. Nella ricerca spasmodica di un risultato decisivo sul campo, gli eserciti belligeranti fecero ricorso a tutte le risorse messe a disposizione dai progressi della scienza e della tecnologia. Nel corso del primo conflitto mondiale furono sperimentati per la prima volta nuovi mezzi bellici. Già nel 1915 fecero la loro comparsa le armi chimiche, proiettili che sprigionavano gas venefici e venivano sparati sulle trincee nemiche provocando la morte per soffocamento di chi li respirava. Nel corso del conflitto conobbe un fortissimo incremento la produzione di aerei da guerra, usati sia per la ricognizione, sia per il bombardamento di obiettivi nemici. Si passò, nel 1916, ai carri armati, veicoli dotati di cingoli e dunque capaci di muoversi anche su terreni accidentati. Fra le nuove macchine belliche sperimentate in questi anni, una sola influì in modo significativo sul corso della guerra: il sottomarino. Furono soprattutto i tedeschi a intuire le possibilità del nuovo mezzo e a servirsene sia per attaccare le navi da guerra nemiche, sia per affondare senza preavviso le navi mercantili, anche di paesi neutrali, che portavano rifornimenti verso i porti dell'Intesa. Nonostante il numero limitato dei mezzi disponibili, la guerra sottomarina si rivelò subito un'arma molto efficace. II "FRONTE INTERNO" Per tutti i paesi che vi parteciparono, e in particolare per quelli che la combatterono sul proprio territorio, la Grande Guerra costituì un laboratorio, un campo di sperimentazione e anche un acceleratore di tutti i fenomeni legati alla società di massa. Circa 65 milioni di uomini furono strappati alle loro occupazioni abituali, alle famiglie e ai mondi chiusi in cui la maggior parte di loro viveva, per essere coinvolti in una gigantesca esperienza collettiva. Si abituavano forzatamente alla vita in comune e alla disciplina, ma anche alla violenza e alla quotidiana familiarità con la morte. I più colpiti furono naturalmente gli abitanti delle zone in cui si combatteva, costretti a lasciare le loro case e le loro terre. C'era poi il problema di chi risiedeva in un paese diverso dalla propria patria d'origine e che poteva trovarsi improvvisamente nella condizione di nemico: soggetto quindi alla confisca dei beni e a una serie di restrizioni personali che potevano arrivare all'internamento. Un caso limite, a questo proposito, fu quello degli armeni. Questa antica popolazione di religione cristiana abitava prevalentemente in una regione del Caucaso divisa fra l'Impero ottomano e quello russo. Nella primavera-estate del 1915, mentre Russia e Turchia si combattevano nel Caucaso, gli armeni che vivevano nella parte turca di quella regione, sospettati di intesa col nemico russo, furono sottoposti a una brutale deportazione nelle zone interne dell'Anatolia che, per la maggior parte di loro, si trasformò in sterminio. Al di là dei lutti e delle sofferenze legate, direttamente o indirettamente, alle operazioni militari, la guerra produsse una serie di profonde e durature trasformazioni in tutti i paesi che vi furono coinvolti. I mutamenti più vistosi furono quelli che interessarono il mondo dell'economia e in particolare il settore industriale, chiamato ad alimentare la macchina gigantesca degli eserciti al fronte. Strumento essenziale per la mobilitazione dei cittadini era la propaganda. I governi di tutti i paesi profusero un impegno senza precedenti per stampare manifesti murali, organizzare manifestazioni di solidarietà ai combattenti, incoraggiare la nascita di comitati e associazioni «per la resistenza interna». LA SVOLTA DEL 1917 Nei primi mesi del 1917 due novità intervennero a mutare il corso della guerra e dell'intera storia europea e mondiale. All'inizio di marzo (fine febbraio secondo il calendario russo) uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado si trasformò in un'imponente manifestazione politica contro il regime zarista. La sorte della monarchia fu segnata: lo zar abdicò il 15 marzo e pochi giorni dopo venne arrestato con l'intera famiglia reale. Si metteva in moto, così, un processo che avrebbe portato in breve tempo al collasso militare della Russia e alla firma dell'armistizio. Il 6 aprile gli Stati Uniti dichiaravano guerra alla Germania che aveva ripreso la guerra sottomarina indiscriminata, in precedenza sospesa proprio per le proteste americane. L'intervento americano sarebbe risultato decisivo sia sul piano militare sia su quello economico, tanto da compensare il gravissimo colpo subito dall'Intesa con l'uscita di scena della Russia. Nell'immediato, infatti, gli avvenimenti russi incisero negativamente sul morale delle truppe. Particolarmente delicata era, all'inizio del '17, la posizione dell'Impero austro-ungarico, dove prendevano forza le aspirazioni indipendentiste delle «nazionalità oppresse» (polacchi, cechi, slavi del Sud). Consapevole del pericolo di disgregazione cui era esposto l'Impero, il nuovo imperatore Carlo I (Francesco Giuseppe era morto nel novembre del '16 dopo quasi settant'anni di regno) avviò tra il febbraio e l'aprile del 17 negoziati segreti in vista di una pace separata. Ma le sue proposte furono respinte dall'Intesa. Non ebbe miglior fortuna una iniziativa promossa in agosto dal papa Benedetto XV che invitò i governi a por fine all' «inutile strage» e a prendere in considerazione l'ipotesi di una pace senza annessioni. Tanto più cresceva il carico di sofferenze imposto dalla guerra, tanto meno i responsabili degli Stati belligeranti erano disposti ad ammettere che tutto ciò potesse essere considerato «inutile» e ad accontentarsi di altro che della vittoria finale. Anche per l'Italia il 1917 fu l'anno più difficile della guerra. Fra maggio e settembre il generale Cadorna ordinò una nuova serie di offensive sull'Isonzo, con risultati modesti e costi umani ancora più pesanti che in passato. In questa situazione, i comandi austro-tedeschi decisero di profittare della disponibilità di truppe provenienti dal fronte russo per infliggere un colpo decisivo all'Italia. Il 24 ottobre 1917, un'armata austriaca rinforzata da sette divisioni tedesche attaccò le linee italiane sull'alto Isonzo e le sfondò nei pressi del villaggio di Caporetto. La manovra fu così efficace e inattesa che le truppe italiane, per evitare di essere accerchiate, dovettero abbandonare precipitosamente le posizioni che tenevano dall'inizio della guerra. Solo dopo due settimane un esercito praticamente dimezzato riusciva ad attestarsi sulla nuova linea difensiva del Piave. La ritirata sul Piave consentì un notevole accorciamento del fronte e quindi un minor logorio dei reparti combattenti. I soldati si trovarono inoltre a combattere una guerra difensiva, contro un nemico che occupava una parte del territorio nazionale: ciò contribuì a rendere più comprensibili gli scopi del conflitto e ad aumentare il senso di coesione patriottica. Prima di essere rimosso dal comando supremo, dove fu sostituito da Armando Diaz, il generale Cadorna gettò le colpe della disfatta sui suoi stessi soldati, accusando i reparti investiti dall'offensiva di essersi arresi senza combattere. Fu costituito un nuovo governo di coalizione nazionale dell'operazione fu Trotzkij che costruì una potente macchina da guerra, fondata su una ferrea disciplina. La creazione di un esercito efficiente, decisiva per la vittoria nella guerra civile, avrebbe consentito anche in seguito alla Russia sovietica di sopravvivere allo scontro con i suoi numerosi nemici, interni ed esterni. Nasceva così un nuovo modello di Stato a partito unico dai tratti spietatamente autoritari. 1918. LA SCONFITTA DEGLI IMPERI CENTRALI Gli Stati dell'Intesa accentuarono, nella fase finale della guerra, il carattere ideologico dello scontro, presentandolo come una difesa della libertà dei popoli contro i disegni egemonici dell'imperialismo tedesco. Questa concezione della guerra trovò il suo interprete più autorevole nel presidente americano Woodrow Wilson, il quale, nel gennaio 1918, precisò le linee ispiratrici della sua politica in un programma di pace in quattordici punti, con il quale proponeva l'abolizione della diplomazia segreta, il ripristino della libertà di navigazione, la soppressione delle barriere doganali, la riduzione degli armamenti. Nell'ultimo punto si proponeva infine l'istituzione di un nuovo organismo internazionale, la Società delle nazioni, per assicurare il mutuo rispetto delle norme di convivenza fra i popoli. Sul fronte bellico all'inizio del 1918 la partita decisiva continuava a giocarsi sul fronte francese. Fu qui che la Germania tentò la sua ultima e disperata scommessa impegnando tutte le forze rese disponibili dalla firma della pace con la Russia. In giugno l'esercito tedesco era di nuovo sulla Marna e Parigi era sotto il tiro dei cannoni a lunga gittata. Alla fine di luglio le forze dell'Intesa, ormai superiori in uomini e mezzi grazie al massiccio apporto degli Stati Uniti, passarono al contrattacco. - Alla fine di ottobre si consumò la crisi finale dell'Austria-Ungheria. Cecoslovacchi e slavi del Sud proclamarono l'indipendenza, mentre i soldati abbandonavano il fronte in numero sempre maggiore. Quando, il 24 ottobre, gli italiani lanciarono un'offensiva sul Piave, l'Impero era ormai in piena crisi. Sconfitti sul campo nella battaglia di Vittorio Veneto, gli austriaci il 3 novembre firmarono a Villa Giusti, presso Padova, l'armistizio con l'Italia che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo. - La situazione precipitava anche in Germania: fra l'8 e l'11 agosto, nella grande battaglia di Amiens, i tedeschi subirono la prima grave sconfitta sul fronte occidentale. Da quel momento cominciarono ad arretrare lentamente, mentre fra le loro truppe si facevano più evidenti i segni di stanchezza. Ai primi di novembre i marinai di Kiel, dov'era concentrato il grosso della flotta tedesca, si ammutinarono e diedero vita, assieme agli operai della città, a consigli rivoluzionari ispirati all'esempio russo. Il 9 novembre a Berlino un socialdemocratico, Friedrich Ebert, fu proclamato capo del governo, mentre Guglielmo II era costretto a fuggire in Olanda e veniva proclamata la Repubblica. L'11 novembre i delegati del governo provvisorio tedesco firmavano l'armistizio nel villaggio francese di Rethondes. La Germania perdeva così una guerra che più degli altri aveva contribuito a far scoppiare. Gli Stati dell'Intesa, vincitori, uscivano dal conflitto scossi e provati per l'immane sforzo sostenuto. La guerra si chiudeva non solo con un tragico bilancio di perdite umane (8 milioni e mezzo di morti, oltre 20 milioni di feriti gravi e mutilati), ma anche con un drastico ridimensionamento del peso politico del vecchio continente sulla scena internazionale. VINCITORI E VINTI Il 18 gennaio 1919, nella reggia di Versailles, presso Parigi, si aprirono i lavori della conferenza della pace. Vi parteciparono i rappresentanti di trentadue paesi dei cinque continenti. Tutte le materie più importanti vennero in realtà riservate ai cosiddetti "quattro grandi", ossia ai capi di governo delle principali potenze vincitrici: l'americano Wilson, il francese Clemenceau, l'inglese Lloyd George e l'italiano Orlando. I leader delle potenze vincitrici avevano il compito di ridisegnare la carta politica del vecchio continente, sconvolta dal crollo contemporaneo di quattro imperi (russo, austroungarico, tedesco e turco). Il nuovo equilibrio voleva tener conto anche della realizzazione del programma di Wilson che si rivelò, però, assai problematica: i principi wilsoniani non sempre erano compatibili con l'esigenza di punire in qualche modo gli sconfitti e di premiare i vincitori. Il contrasto risultò evidente soprattutto quando furono discusse le condizioni da imporre alla Germania. Il trattato, che venne firmato a Versailles il 28 giugno 1919, fu in realtà un'imposizione - un Diktat, ovvero un "dettato". Dal punto di vista territoriale era previsto, oltre alla restituzione alla Francia dell'Alsazia-Lorena, annessa nel 1871, il passaggio alla ricostituita Polonia di alcune regioni orientali abitate solo in parte da tedeschi: l'Alta Slesia, la Posnania, più una striscia della Pomerania, per consentire alla Polonia di affacciarsi sul Baltico e accedere al porto di Danzica. Questa città, abitata in prevalenza da tedeschi, veniva anch'essa tolta alla Germania e trasformata in «città libera». La Germania venne privata anche delle sue colonie in Africa e in Oceania, spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone. Ma la parte più pesante del Diktat era costituita dalle clausole economiche e militari. La Germania dovette impegnarsi a rifondere ai vincitori, a titolo di riparazione, i danni subiti in conseguenza del conflitto. Fu inoltre costretta ad abolire il servizio di leva, a rinunciare alla marina da guerra, a ridurre la consistenza del proprio esercito entro il limite di 100 mila uomini e a lasciare «smilitarizzata» (priva cioè di reparti armati e di fortificazioni) l'intera valle del Reno, che sarebbe stata presidiata per quindici anni da truppe inglesi, francesi e belghe. Erano condizioni umilianti, tali da ferire profondamente l'orgoglio nazionale tedesco. Un problema completamente diverso era costituito dal riconoscimento delle nuove realtà nazionali emerse dalla dissoluzione dell'Impero asburgico. La nuova Repubblica di Austria si trovò ridotta entro un territorio di appena 85 mila km2 (più o meno quello che occupa attualmente), abitato da sei milioni e mezzo di cittadini di lingua tedesca. Un trattamento severo toccò anche all'Ungheria che perse non solo le regioni slave (Slovacchia, Croazia) fin allora dipendenti da Budapest, ma anche alcuni territori abitati in prevalenza da popolazioni magiare. A trarre vantaggio dal crollo dell'Impero asburgico, oltre all'Italia, furono soprattutto i popoli slavi. I polacchi della Galizia si unirono alla nuova Polonia, formata da territori già appartenenti agli imperi russo e tedesco. I cechi e gli slovacchi confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia, uno Stato federale che comprendeva anche una minoranza di tre milioni di tedeschi (i sudeti). Gli slavi del Sud - cioè gli abitanti della Croazia, della Slovenia e della Bosnia-Erzegovina - si unirono alla Serbia e al Montenegro per dar vita alla Jugoslavia. Il nuovo assetto balcanico era completato dalla quasi completa estromissione dall'Europa dell'Impero ottomano, del quale restava ormai solo un involucro formale, che mascherava il tentativo delle potenze vincitrici di spartire il paese in zone di influenza a loro riservate. Restava aperto il problema dei rapporti con la Russia rivoluzionaria. Gli Stati vincitori non riconobbero la Repubblica socialista, mentre furono riconosciute e protette, proprio in funzione antisovietica, le nuove repubbliche indipendenti che si erano formate nei territori baltici persi dalla Russia con il trattato di Brest-Litovsk: la Finlandia, l'Estonia, la Lettonia e la Lituania. L'Europa uscita dalla conferenza di Parigi contava dunque ben otto nuovi Stati. A essi si sarebbe aggiunto nel 1921 lo Stato libero d'Irlanda, cui la Gran Bretagna si risolse a concedere l'indipendenza. Ad assicurare il rispetto dei trattati e la salvaguardia della pace avrebbe dovuto provvedere la Società delle nazioni. Il nuovo organismo prevedeva nel suo statuto la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti e l'adozione di sanzioni economiche nei confronti degli Stati aggressori. Ma nasceva minato in partenza da profonde contraddizioni, tra cui la più grave era l'esclusione iniziale dei paesi sconfitti e della Russia. Il colpo più duro alla Società delle nazioni, però, arrivò proprio dagli Stati Uniti, cioè dal paese che più di ogni altro ne aveva voluto la nascita: nel marzo 1920, infatti, il Senato statunitense rifiutò di ratificare i trattati di Versailles, che includevano l'adesione al nuovo organismo.
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