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La Prima Guerra Mondiale: la Grande Guerra, Appunti di Storia Contemporanea

Appunti sulla Prima Guerra Mondiale. Cause che portarono allo scoppio della Prima Guerra Mondiale

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 24/01/2022

anita-gentile-1
anita-gentile-1 🇮🇹

4.5

(4)

10 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica La Prima Guerra Mondiale: la Grande Guerra e più Appunti in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! 8. LA GRANDE GUERRA 1. UNA PREMESSA Gli anni successivi alla Grande Guerra sono ricchi di studi dettagliati sugli eventi bellici; l’attenzione dei politici, dei giornalisti, degli studiosi e degli storici si è concentrata sulla ricostruzione degli eventi bellici. E’ stato compiuto uno sforzo analitico che ha portato/condotto ad un accumulo di fonti, documenti, informazioni che hanno reso la ricostruzione sempre più certa dei caratteri e dello svolgimento della guerra. 2. LE CAUSE DELLA GUERRA: FISCHER, RITTER, JOLL La ricostruzione dei fatti ha portato/comportato una elaborazione di interpretazioni diverse sulle cause e sulle responsabilità del conflitto. La discussione storiografica si è fatta intensa quando è stato pubblicato “Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra, 1914-1918”, un libro che lo storico tedesco Fritz Fischer ha dato alle stampe nel 1961. Fischer ha posto al centro della sua attenzione gli obiettivi perseguiti dai dirigenti politici e dai capi militari tedeschi/dell’impero tedesco al momento dell’ingresso della Germania in guerra. Dal punto di vista metodologico Fischer ha usato delle metodologie/tecniche già utilizzate da altri studiosi, i quali nei decenni precedenti si erano dedicati a recuperare e verificare numerosi documenti ritrovati negli archivi europei per ricostruire in dettaglio le modalità di svolgimento del conflitto. Per quanto riguarda l’interpretazione complessiva, Fischer ha ritenuto che la Germania era entrata in guerra per realizzare un piano di dominio europeo, così lo storico tedesco confermava la tesi sostenuta dai diplomatici delle potenze vincitrici a Versailles, tesi che aveva condotto alle condizioni di pace imposte alla Repubblica di Germania subito dopo la fine della guerra. Secondo Fischer, l’aggressività tedesca/l’orientamento aggressivo della Germania era dovuta sia alla sensazione di accerchiamento che aveva ossessionato i suoi politici e diplomatici già dalla formazione del sistema delle alleanze europee negli anni ‘70-’90 dell’800, sia da una visione conservatrice e autoritaria della politica interna, che veniva proiettata sul piano dei rapporti internazionali. Inoltre, Fischer sosteneva che l’“assalto al potere mondiale” della Germania guglielmina era il presupposto politico-culturale sulla base del quale interpretare la politica aggressiva ed espansionistica perseguita dalla Germania nazista dalla metà degli anni Trenta del XX secolo: tale politica della Germania nazista ha sviluppato fino alle estreme conseguenze, i piani di espansione messi in pratica dalle élites politico-militari della Germania guglielmina. La proposta di Fischer ha suscitato un forte dibattito/controversia/polemica, soprattutto in Germania, in cui vi era la questione della continuità della storia tedesca e dei rapporti tra il nazismo e i sistemi politici che lo avevano preceduto e seguito. La risposta storiografica più solida alla proposta di Fischer è quella di Gerhard Ritter, con il suo grande lavoro intitolato “I militari e la politica nella Germania moderna” (1954-1968), nel quale esamina i rapporti tra la componente/il fattore/la parte militare e la componente/il fattore/la parte civile della classe dirigente tedesca, dall’epoca di Federico il Grande di Prussia alla fine della Grande Guerra. Ritter ha criticato la tesi di Fischer, sostenendo che il peso/tormento/obbligo/importanza del militarismo nella vita politica di fine 800 e inizio 900 e l’elaborazione di piani politico-militari aggressivi non è una prerogativa tedesca, ma è una caratteristica di tutti i principali Stati dell’epoca: per questo sostenere che lo scoppio della Grande Guerra sia causato dalla classe dirigente tedesca è un errore di valutazione, possibile solo se si tralascia completamente il più generale contesto politico internazionale. Il contributo di Ritter, mosso da una sua passione politica conservatrice e affine alle tradizioni della Germania imperiale, è servito a riequilibrare il quadro complessivo delle responsabilità dei vari paesi nello scoppio della Grande Guerra. James Joll, con il suo lavoro di sintesi che ha presentato il bilancio di una serie di studi (“Le origini della prima guerra mondiale”, 1984), riconosce nella politica di Guglielmo II la responsabilità nell’accelerare la guerra, ma sostiene anche che le ragioni dello scoppio della guerra sono state molteplici e non possono essere identificate, in una forma semplice monocausale, con il piano tedesco di “assalto al potere mondiale”. Al contrario le rivalità imperiali, la competizione economica, il sistema delle alleanze, una diffusa cultura militarista e bellicista sono stati aspetti/caratteri diffusi in tutte le società occidentali. Tutti questi elementi devono essere tenuti in considerazione, per offrire un quadro equilibrato delle cause dello scoppio della Grande Guerra. 3. LA CULTURA DELLA GUERRA: ISNENGHI, FUSSELL Nel libro di Joll un certo spazio è offerto/proposto anche all'analisi del ruolo esercitato dalla cultura e dalla mentalità nello spingere l’Europa verso la guerra. Ed è proprio questo l’ambito sul quale si sono concentrati gli studi più innovativi degli ultimi trent’anni, che hanno fatto della ricerca sulla Grande Guerra uno dei progetti/lavori storiografici più ricchi e interessanti, sia per le interpretazioni offerte sia per le elaborazioni metodologiche proposte. La prospettiva cambia/muta con uno storico italiano Mario Isnenghi, che nel 1970 ha pubblicato “Il mito della Grande Guerra da Marinetti a Malaparte”. La novità più significativa del libro sta nel punto di osservazione e nelle fonti scelte per esaminarlo. Il punto di osservazione di Isnenghi: non la ricostruzione minuziosa delle vicende diplomatiche, politiche o belliche, ma l’esame del rapporto tra intellettuali di varia estrazione e l’esperienza della guerra. Le fonti utilizzate sono: le opere letterarie, narrative o memorie/memorialistiche, pubblicate prima della guerra da parte di chi la auspicava e poi, pubblicate durante e dopo la guerra da chi aveva vissuto l’esperienza. Isnenghi dà spazio a intellettuali notevoli, come D’Annunzio, Marinetti o Malaparte e anche molti altri intellettuali di minor fama. Così facendo riesce a trasmettere il significato dell’immagine della guerra negli intellettuali italiani di prima guerra mondiale” (1979), un altro storico statunitense, Eric J. Leed, ripercorre i punti di vista studiati da Fussell, ma studiandoli sulla base di materiali tedeschi. Anche Leed, come Fussell, si concentra sulla disillusione prodotta dallo scontro tra le aspettative nutrite dai giovani delle classi medio-alte al momento dello scoppio della guerra e la terribile esperienza delle trincee che invece si verificò. Secondo Leed, questa disillusione/delusione è stata vissuta da coloro che hanno combattuto nella Grande Guerra come un momento di vera e propria discontinuità. Essi sono riusciti a dare un senso a questa esperienza/vicenda costruendo forti legami emotivi con i compagni combattenti. Questi legami diventavano forti quando la solidarietà tra i combattenti veniva rafforzata dal loro senso di estraneità nei confronti di ciò che accadeva lontano dal fronte./Legame che si rafforzava quando tutti si sentivano estranei da ciò che accadeva lontano dal fronte. I soldati si sentivano sfruttati o abbandonati/dimenticati dai politici, dai giornalisti e dai familiari e trovavano dunque un sollievo e compenso affettivo nei compagni/nella loro comunità combattente. Le comunità di trincea erano gruppi umani, che vivevano sottoposti a un forte stress; ed è proprio per questo aspetto che si può comprendere perché esse regredivano verso codici/norme/leggi comunicative basati su forme di pensiero fantastico, magico, mitico o irrazionale. Tutte queste osservazioni non aggiungono molto rispetto a quanto aveva già fatto notare Fussell. Però ci sono altri due aspetti nuovi, che sono discussi nella parte finale del libro di Leed. Da un lato Leed mostra che i legami che si erano instaurati al fronte (quindi che collegavano i combattenti alle loro comunità di guerra) vennero conservati anche dopo la guerra/nel dopoguerra; cercando di riprodurre, anche dopo la fine della guerra, le condizioni e le esperienze vissute al fronte. Infatti, nel dopoguerra si verificò un fenomeno socio-politico: ovvero si crearono numerose formazioni paramilitari, soprattutto di destra, attraverso le quali gli ex combattenti cercarono di ottenere dalla società a cui appartenevano, dei riconoscimenti sociali e psicologici che sentivano di non aver mai ottenuto. Dall’altro Leed osserva che un’altra via di uscita dalla delusione e dalla brutalità della guerra fu il precipitare/il crollare nella nevrosi. Le biografie e le cartelle cliniche di molti combattenti dimostrano la grande diffusione tra i soldati di disturbi della personalità, che si manifestavano attraverso fobie/paure immotivate legate/verso ad oggetti, situazioni; oppure attraverso sensi di angoscia, forme di depressione o comportamenti ossessivi (cioè ripetitivi), direttamente causati dalla vita di guerra. Uno dei disturbi più frequenti, diagnosticato per la prima volta subito dopo la Prima Guerra Mondiale, fu il disturbo post-traumatico da stress, ovvero l’insorgere di sintomi nevrotici in soldati che erano stati esposti ai bombardamenti, all’attacco di una trincea e a un qualsiasi altro momento della vita di guerra che aveva prodotto nella loro psiche uno shock violento. Queste nevrosi rendevano i soldati temporaneamente incapaci di combattere, quindi le autorità e i medici militari si trovarono di fronte al problema di come interpretare i comportamenti (finzioni di codardi o effettive malattie nervose), e una volta riconosciuti come stati di malattia, i medici militari dovevano anche risolvere il problema di come curare i soldati velocemente per rimandarli al fronte. La questione delle malattie nervose e gli altri fattori elencati nel libro, consentono a Leed di sostenere il carattere violentemente traumatico della guerra, da un punto di vista sia personale, sia psicologico, sia culturale. Secondo Leed, le cerimonie commemorative (le varie cerimonie organizzate nel dopoguerra) non servirono per niente a lenire il dolore collettivo dei combattenti provocato dalla sofferenza e dal senso di morte: nessun “rito di riaggregazione” cancellò la memoria della totale impotenza di fronte all’autorità e alla tecnologia; nessuna conclusione cerimoniale della guerra restaurò/ripristinò la continuità cui essa aveva posto fine, o ridare vita a quegli “ideali” che erano andati smarriti nelle trincee. I lavori di Fussell e di Leed propongono un'interpretazione chiara e suggestiva, nel quale la guerra viene considerata come una “grande linea di separazione/grande spartiacque della coscienza europea” Secondo Antonio Gibelli la prima guerra mondiale ha rappresentato per gran parte delle popolazioni europee la rottura e il trauma da cui si è costruita/costituita una moderna memoria collettiva, un senso nuovo del rapporto tra vita individuale e grande storia, l’ingresso in un mondo nel quale erano in gran parte determinati/decisi i legami con il passato e in cui tale passato sprofondava in modo definitivo/irrevocabile/irreversibile. 5. IL MITO DELLA GUERRA: MOSSE Un autorevole/prestigioso/importante storico George Mosse nel 1990 ha pubblicato un libro (si intitola “Fallen Soldiers. Reshaping the Memory of the World Wars”-“Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti”) che presenta un quadro interpretativo differente rispetto a quello di altri studiosi come Fussell e Leed. Mosse affronta in questo libro un tema tipico dell’900, la prima Guerra Mondiale da una prospettiva di lungo periodo. Così come è stato fatto con il nazismo, il nazionalismo, il razzismo, anche la guerra/il bellicismo novecentesco, secondo Mosse, per essere spiegata/o è necessario che si ripercorrono le linee di continuità che hanno origine in fenomeni nati tra la fine del Settecento e l'inizio dell’Ottocento. Mosse ribalta la tesi secondo la quale l’esperienza della Grande Guerra abbia causato/prodotto una frattura nella cultura politica europea; anzi, aggiunge che le forme di continuità culturale dominano anche dopo la Grande Guerra e si fanno strada/subentrano traumi, delusioni e sofferenze causate dal conflitto. Secondo Mosse, la Grande Guerra è stata un’esperienza che ha provocato grande sofferenza, nella quale la morte è stata la protagonista assoluta/ha predominato; ma il dolore della morte, dopo la fine della Grande Guerra, viene allontanato via dalla nobilitazione del sacrificio compiuto in guerra sia da coloro che sono morti e sia da coloro che sono tornati: Tra di loro vi è un sentimento di orgoglio che si mescolava spesso al lutto, il sentimento di aver avuto parte in una nobile causa, e di aver sofferto per essa. Nonostante non tutti cercavano consolazione in pensieri del genere, era molto diffuso l’impulso a trovare nell’esperienza della guerra un significato più alto, qualcosa che giustificava il sacrificio e la perdita irrimediabile. La memoria della guerra venne rimodellata in un’esperienza sacra, che dava/forniva alla nazione una nuova profondità di sentimento religioso, mettendo a sua disposizione nuovi santi e martiri, luoghi di culto, e un'eredità/patrimonio a cui ispirarsi/rifarsi. L’immagine del soldato caduto/morto tra le braccia di Cristo, così come durante e dopo la prima guerra mondiale, trasferiva la credenza tradizionale nel martirio e nella risurrezione alla nazione, facendone un onnicomprensiva/complessiva “religione civica”. Tutto questo processo non matura/cresce/si sviluppa entro il breve arco di tempo che racchiude la Grande Guerra. Le figure della santità bellica e del martirio eroico hanno una storia molto più lunga, che risale alla Rivoluzione francese e che si sviluppa con le guerre nazional-patriottiche dell’800; ed è solo guardando al passato si può quindi dedurre gli aspetti essenziali della Prima Guerra mondiale. Le figure simboliche della santità bellica e del martirio eroico traevano sostegno/stimolo/incentivo dal mito del volontariato militare che si era formato nel corso della Rivoluzione francese: le guerre della Rivoluzione francese e di Napoleone, e l’emergere di una nuova coscienza nazionale, servirono a trasformare la condizione del soldato in una professione da un lato alla portata di tutti, e dall’altro molto ammirata. I soldati erano ora cittadini in uniforme, cui si riconosceva uno stato diverso da quello dei loro predecessori, anche se provenivano in maggioranza dalle file delle cosiddette classi inferiori. Questi cambiamenti significarono che i volontari colti poterono vedersi come portavoce di tutti i soldati, creando miti e simboli che occultavano/nascondevano la dura realtà della morte e della battaglia. Andare a combattere volontariamente e per una giusta causa ben conosciuta e condivisa come quella nazional-patriottica, dava all’esperienza bellica un nuovo valore: l’entusiasmo politico del soldato volontario e il mito del combattente eroe caduto per difendere la patria divennero i temi principali di poesie e di opere liriche che, all’inizio dell’800, raccontavano l’esperienza della guerra. Queste nuove figure della nobiltà bellica non restarono racchiuse solo nei testi letterari “alti”, esse cominciarono ad essere diffuse anche dai testi di numerose canzoni popolari, stornelli, poesie in rima, pubblicate su giornali da pochi soldi o su fogli volanti. A partire dall’esaltazione del volontariato rivoluzionario e nazional-patriottico, nacque una formazione culturale più complessa, che Mosse definisce “il mito dell’esperienza di guerra”. In questo mito hanno un ruolo principale la fratellanza e la solidarietà tra i combattenti, il combattimento come celebrazione di virilità, la santificazione della guerra, l’esaltazione e il culto paese combattente belligerante si imposero vincoli entro i quali giornalisti e reporter dovevano muoversi. La “banalizzazione della guerra” serviva a far accettare la guerra a chi non l’aveva conosciuta. La “sacralizzazione” era, invece, un processo importante che serviva per chi in guerra aveva perso persone care. Molti di coloro i quali la guerra l’avevano combattuta per davvero, invece, quindi chi tornò dalla guerra, tornò a casa con l’idea che la morte o l’uccisione del nemico fosse del tutto normale. I volontari erano entrati in guerra devoti all’ideale del sacrificio, ma ne erano usciti persuasi/convinti dello scarso valore della vita umana. Questo processo spiega un tratto/una caratteristica inquietante/preoccupante delle società post-belliche, ovvero la “brutalizzazione della politica”. Ancora più di prima il lessico bellico si applicò alla dialettica politica, i termini mutarono: il “confronto” diventò/si trasformò in uno “scontro”; l’“avversario” diventò il “nemico”; e se era un nemico si poteva prendere in considerazione l’idea di ucciderlo, proprio come i nemici in guerra. Questo tipo di approccio alla politica, evidente soprattutto nella cultura e nell’ideologia dei movimenti politici di destra, che spesso dopo la fine della guerra si dotarono di formazioni paramilitari (Che si ispira a schemi militari sul piano istituzionale od organizzativo), ci fa comprendere/spiega la diffusione della violenza politica e delle guerre civili che caratterizzano la storia europea dei vent’anni successivi alla guerra. Ma col passare del tempo la ripetizione della violenza bellica anche nella vita civile, fece nascere in molte persone dubbi sulla ragionevolezza/fondatezza/buon senso/bontà del “mito dell’esperienza di guerra”. Così una parte dell’opinione pubblica europea, allo scoppio della seconda guerra mondiale non aveva più l’entusiasmo manifestato nell’agosto del 1914; questo perché era troppa la tensione e la stanchezza; e avevano ormai troppa consapevolezza delle sofferenze che sarebbero arrivate (e che quindi si prospettavano di nuovo all’orizzonte). Mosse sostiene che la devastazione della seconda guerra mondiale imposta all’Europa e a molte altre parti del mondo, fece sì che i miti della nazione, della guerra patriottica, dell’eroismo sacrale, in nome dei quali era stato provocato il nuovo conflitto, entrarono in una crisi definitiva. Nel secondo dopoguerra (1945 in poi) la retorica bellica e l’ideologia nazional-patriottica non esercitò più fascino. 6. IL CONSENSO ALLA GUERRA: AUDOIN-ROUZEAU, BECKER Due specialisti francesi della Grande Guerra, Stéphane Audoin-Rouzeau e Annette Becker, in un loro libro del 2000, intitolato “La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento”, hanno esplorato “la questione del consenso alla guerra di molti europei e occidentali tra il 1914 e il 1918”. Per capire questo aspetto della guerra, secondo i due autori, è necessario assumere uno sguardo antropologicamente (L'antropologia, nata come disciplina interna alla biologia, studia l'essere umano sotto diversi punti di vista: sociale, culturale, morfologico, psicoevolutivo, artistico-espressivo, filosofico-religioso e in genere dal punto di vista dei suoi vari comportamenti all'interno di una società) lontano/distante dall’esperienza dei combattenti; la posizione da assumere deve fondarsi sul riconoscimento dell’alterità (il mondo esterno/l’oggettività/il non-io) del loro modo di pensare la guerra rispetto a quello diffuso. “Il senso di obbligatorietà, di evidenza del sacrificio, di cui la maggioranza dei contemporanei fu allora a lungo pervasa e senza il quale la guerra non avrebbe avuto né la durata né l’accanimento/l’ostinazione/l’ossessione/l’insistenza/la spietatezza/la tenacia e neanche la crudeltà che la caratterizzarono/contraddistinsero, ai giorni nostri è inaccettabile”. Ma è proprio questa distanza che la riflessione storiografica deve colmare/ridurre, per consentire di comprendere meglio le ragioni della cultura della guerra. Partendo dalle osservazioni di Mosse, Audoin-Rouzeau e Becker hanno sviluppato due formazioni culturali che hanno aiutato a consolidare il consenso della guerra: - “la santificazione della guerra”: il primo conflitto mondiale, guerra santa e guerra di santi, i suoi combattenti imitano i santi, anzi la santità. La guerra è santa perché è “grande”, lunga, accettata come una prova della finalità/dei destini finali dell’umanità ed è destinata a non risolversi in se stessa. A seconda delle varie appartenenze spirituali, essa si declina in imitazione di Cristo, dei santi, della Madonna/Vergine, della patria. A completare il quadro ci sarà la certezza che la “giusta pace” riscatterà il male della guerra e del nemico che l’ha voluta; - “la forza di questa sacralizzazione” derivava dal fatto che essa era prodotta dal pensiero nazionale-patriottico”, che contribuiva a stabilire il senso di appartenenza alla propria comunità nazionale e il senso di alterità nei confronti degli altri, i nemici. La diversità degli “altri” assunse caratteri razziali: non era più necessario un colore diverso di pelle/non serviva più la differenza del colore della pelle a distinguere una radicale distanza dagli “altri”, ma bastava provenire da un’altra nazione per essere di “razza diversa”/la loro appartenenza a una nazione diversa per alcuni era sufficiente a stabilirne l’appartenenza a una “razza” diversa. Uno sviluppo di questo genere favorì un percorso mentale che era largamente diffuso e incentivato dalle autorità: quello della demonizzazione del nemico. Gli avversari dovevano essere considerati dei mostri, degli esseri infernali che andavano uccisi. Questi aspetti della cultura di guerra non si persero né di fronte alla morte e né nel dopoguerra. L’elaborazione collettiva del lutto avvenne attraverso dei rituali che volevano dare un senso superiore a quelle morti. Ciò fu possibile perché la sovravalorizzazione dei morti della Grande Guerra, investendo/conferendo alla loro scomparsa una dimensione eroica e santificante, trovava le proprie radici in quella cultura di guerra che nel conflitto trasformò i morti in “martiri volontari di una grande crociata”. La prospettiva proposta da Audoin-Rouzeau e da Becker ha suscitato in Francia reazioni critiche da parte di altri studiosi, in particolare di altri storici francesi come Rémy Cazals e Fréderic Rousseau, i quali hanno sostenuto che il consenso alla guerra/di coloro che hanno sostenuto la guerra non è stato spontaneamente sentito dalle masse dei soldati semplici, ma è stato forzato dalle autorità politiche e militari. Questi storici hanno rimproverato ad Audoin-Rouzeau e Becker di aver usato fonti prodotte da combattenti che appartenevano alle classi medie e superiori, mentre se avessero trovato più fonti di lettere o di diari scritti da soldati provenienti dalle classi popolari avrebbero trovato una visione della guerra priva di entusiasmo e carica, invece, di sofferente/triste rassegnazione. Però Audoin-Rouzeau e Becker non ignorano che molti soldati hanno vissuto in modo passivo la loro esperienza di guerra; il punto di forza della loro tesi è che questi soldati non hanno trovato il modo di esprimere collettivamente la loro contrarietà alla guerra, finendo quindi per subire l’esperienza stessa del conflitto e l’insieme/il sistema di valori nazionali-patriottici che lo alimentò. Quindi, in definitiva non si può negare che il senso complessivo attribuito alla guerra è stato quello elaborato dalle élites patriottiche delle classi medie e superiori, descritto da Audoin-Rouzeau e Becker, ma anche da Mosse. Se è vero che molti uomini e donne vissero la guerra come un’imposizione, soprattutto quando era diventato impossibile ignorare cosa fosse realmente quella guerra, è anche vero che le manifestazioni di insofferenza o di ribellione non portarono mai a un definitivo ed efficace “sciopero delle armi” (ovvero ad un ritiro dalle armi di tutto l’esercito, in modo da trovare un altro modo per risolvere la questione). Ad eccezione della Russia, tutto ciò nelle altre zone di guerra, non avvenne. La vicenda dei partiti socialisti conclude la polemica: gli unici che avrebbero potuto offrire una visione diversa/alternativa della guerra erano gli organismi politici ma invece si mostrarono succubi dei valori nazional-patriottici. (Molti militanti o dirigenti socialisti condivise la stessa esperienza vissuta dal socialdemocratico tedesco Konrad Haenisch: come ricorda Eric Leed nel suo “Terra di nessuno”, all’inizio Haenisch si sentì combattuto tra la sua militanza/attivismo/impegno/partecipazione attiva internazionalista (esponente, fautore, seguace dell’internazionalismo come movimento politico con tendenze, concezioni e ideologie internazionaliste) e il forte desiderio di entrare a far parte della forte/potente corrente del nazionalismo).
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