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La-Procedura-penale - -Diritto-Di-Procedura-Penale, Appunti di Diritto Processuale Penale

riassunto, procedura, penale

Tipologia: Appunti

2012/2013

Caricato il 26/03/2013

valentina.sibillo.11
valentina.sibillo.11 🇮🇹

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Scarica La-Procedura-penale - -Diritto-Di-Procedura-Penale e più Appunti in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! PARTE I I CONCETTI DI BASE CAPITOLO I Introduzione allo studio del diritto processuale penale 1: La cultura della legalità e l'approccio allo studio del diritto processuale penale Negli ultimi anni, evoluzioni e involuzioni impreviste nei rapporti tra amministrazione, politica e magistratura hanno acuito ed esteso in maniera generalizzata il malessere generato dal ricorrente uso strumentale del procedimento penale, accompagnato dalla divulgazione mediatica delle "prove contro" (mettendo all'angolo la concezione più responsabile che vuole il processo come strumento neutrale di accertamento). In tale contesto si conferma ancora una volta che la procedura penale (intesa come complesso di regole da rispettare in vista del conseguimento di un verdetto non solo "persuasivo" ma anche appagante sotto il profilo della legalità) non costituisce un semplice meccanismo tecnico indipendente dai valori. Di conseguenza, lo studio delle regole procedurali della giustizia penale comporta inevitabili riflessioni etiche e il tema della verità non riguarda più solo la conoscenza del fatto controverso ma anche la condotta delle parti. Il contrasto tra le esigenze investigative e di informazione relative a vicende giudiziarie, anche di pubblico interesse, e il diritto dei singoli alla propria riservatezza e al rispetto delle regole hanno portato ad una sorta di messa al bando del diritto alla privacy con conseguente scadimento dello standard di legalità "Male captum, bene retentum" (sebbene illegale, la prova è utilizzata; tipico principio dei regimi totalitari) è un antico brocardo che molto spesso è servito in passato alla procedura inquisitoria di quanti furono chiamati ad amministrare la giustizia; in tempi recenti invece, è valso in maniera surrettizia ad ammantare di pseudo-legalità la condotta spregiudicata di alcuni settori della magistratura (non solo inquirente) palesemente interessati solo a conseguire in prospettiva giustizialista opinabili obiettivi apparentemente funzionali ad un'azione moralizzatrice, dimentica della separazione tra morale e diritto penale. Di qui la necessità e l'importanza di riflettere se non valga la pena di abbandonare ogni forma di politica giudiziaria di scopo, quando si tratta di tutelare le libertà fondamentali. Aspetto che oggi deve essere ancora e sempre di più sottolineato tenendo presente non solo malamente individuate aspettative di una indefinibile collettività, ma soprattutto i diritti dell'individuo. Intorno ad essi, infatti, si muovono interessi contrapposti (quello dello Stato ad un elevato livello di controllo del singolo cittadino e quello della singola persona ad un alto grado di autodeterminazione) per cui sarà inevitabile argomentare che è auspicabile, perchè necessaria, una determinazione positiva di scelte chiare che non siano foriere di equivoci esegetici, sul presupposto che i risultati della ricerca contano nella misura in cui sono osservate le regole preposte ai modi di produzione della verità. Occorre quindi accellerare il recupero della cultura della legalità sul piano dell'effettività del diritto vivente e ripristinare, perciò, il metodo della correttezza e del rispetto dei ruoli processuali secondo le linee assiologiche sottese ai diversi istituti processuali e in senso deontologicamente orientato; beni entrambi erosi in misura non marginale da prassi devianti settorialmente interessate. 2. Le norme di organizzazione e funzionamento Il processo penale incarna in un sistema di norme attraverso le quali lo Stato autolimita il proprio potere d'imperio dettando a se stesso le regole che sarà tenuto a rispettare al momento di perseguire i cittadini sospettati di aver commesso uno o più reati. Il che si risolve nel rispetto del principio di uguaglianza. Infatti, lo svolgimento del processo viene disciplinato in forza di leggi alla cui osservazione sono tenuti tutti i soggetti che vi partecipano; sia quelli portatori degli interessi in collisione (polizia giudiziaria, pm, parte civile, imputato) sia quelli investiti del potere di risolvere il contrasto stesso (giudici di merito e giudice di legittimità). Le norme processuali (e quelle ordinamentali) si concretano di regola nella prescrizione tecnica di condotte ovvero nell'imposizione di canoni di comportamento, da porre in essere in un certo modo, entro il limite stabilito, e nel rispetto della sfera di azione degli altri soggetti, se si vogliono conseguire le finalità assegnate. Queste norme sono, quindi, utili a predeterminare non solo il comportamento dei soggetti privati portatori degli interessi in conflitto, ma anche il comportamento di tutti i soggetti pubblici operanti nel processo penale, e quindi anche dei giudici. Il diritto processuale si articola, quindi, in norme definite anche di organizzazione e funzionamento. Posto, dunque, che i soggetti processuali vedono le loro situazioni di potere e di dovere prefigurate in schemi tipici, fuori dei quali sconfinano nell'arbitrio, è chiaro che tutto quanto loro non espressamente consentito è da ritenere precluso. Ma se, nel processo penale, i soggetti operanti possono compiere solo quelle attività alle quali risultano specificatamente autorizzati dalla legge, nell'ambito dei termini di tempo e luogo prestabiliti; cioè, se certi risultati utili possono essere conseguiti soltanto rispettando le regole prefissate, ne deriva che l'attività delle parti e del giudice, per essere giuridicamente rilevante deve, appunto, svolgersi sempre e costantemente nel rispetto della legge. E' questo il nucleo del c.d. "giusto processo", introdotto con riforma costituzionale tra il finire del 1999 e l'inizio del 2000 (L. Cost 23/11/99 n° 2; d.l. 7/01/2000 n°2 conv in L. 25/02/2000 n°35). Il processo penale è la serie delle attività compiute dall'autorità giudiziaria nei modi di legge e diretti alla verifica empirica dell'ipotesi dell'accusa attraverso una situazione fondata su un giudizio il quale, a sua volta, è in ogni parte processuale. In ipotesi di motivazione carente, potrebbe intervenire in funzione rettificante il giudice d'appello, mentre l'art 606. comma 1, impedirebbe al giudice di legittimità qualsiasi controllo effettivo sulla vicenda sottoposta al suo esame. 3. I profili costituzionali del processo penale L’art. 2 della legge delega per il codice di procedura penale specificava che "il codice di procedura penale deve attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale". Il sistema processuale penale in genere e la celebrazione di ogni singolo processo penale nello specifico, devono essere sempre in linea con il principio di uguaglianza, con il diritto alla libertà, al domicilio, alla corrispondenza, alla difesa, al giudice naturale precostituito per legge, con la presunzione di non colpevolezza, con il principio di tutela differenziata per i membri del Parlamento e per il Capo dello Stato, con il principio di indipendenza dei giudici, della disponibilità della polizia giudiziaria da parte dell'autorità giudiziaria e dell'obbligatorietà dell'azione penale. L’art. 3 Cost. proclama l'uguaglianza formale (comma 1) e sostanziale (comma 2) davanti alla legge di tutti cittadini indipendentemente dal sesso, dalla razza, dalla lingua. Correlativamente, situazioni affini vanno trattate in maniera omogenea. Es: posto che nelle nostre aule di giustizia deve obbligatoriamente essere utilizzata la lingua italiana (art 109; salvo il bilinguismo previsto per alcune province di confine), per non discriminare parti private di differente idioma, che non comprendono o non parlano la lingua italiana, è prevista l'assistenza di un interprete al fine di rendere intellegibile il contenuto degli atti e delle attività che si compiono nel processo. Per l'effetto, ogni eventuale differenziazione deve trovare legittimazione giustificativa nella peculiare specificità del fine ad essa sotteso. Così, se - per regola generale - la custodia cautelare costituisce l'extrema ratio, cioè la misura applicabile quando le altre non permettono di salvaguardare le esigenze cautelari, per particolari esigenze di contrato alla criminalità organizzata, nei confronti di chi sia sottoposto ad indagini per "fatti di mafia", e assimilati, l'adozione della misura coercitiva è la regola, in forza di una presunzione iuris tantum ("salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari", art 275, c3). L’art. 13 Cost. sta a salvaguardia del minimo etico inviolabile della libertà personale anche mediante "violenza fisica e morale" sulle persone già sottoposte alla restrizione della libertà personale. Ciò esclude forme di "tortura" nei confronti dei detenuti, e qualsiasi pressione o strumentalizzazione eterodossa degli strumenti processuali ordinari ad eruendam veritatem. Il diritto di libertà personale può essere sacrificato "nei soli casi e modi previsti dalla legge" (c.d. riserva di legge) e per "atto dell'autorità giudiziaria" (c.d. riserva di giurisdizione) che deve essere adeguatamente "motivato" (c.d. obbligo di motivazione). Allo stesso modo possono essere adottati "in casi eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla legge" da parte dell'autorità di pubblica sicurezza, provvedimenti provvisori (arresto e fermo) che necessitano di convalida da parte dell'autorità giudiziaria nel termine di 48 ore: in difetto "si intendono revocati e restano privi di effetti". A presidio della tutela della libertà personale, i provvedimenti di carcerazione preventiva patiscono dei limiti tassativamente indicati dal legislatore mediante l'istituto dei termini della custodia cautelare. L’art. 14 Cost. proclama l'inviolabilità del domicilio di fronte ad atti invasivi dell'autorità giudiziaria e di quella di pubblica sicurezza, quali ispezioni e perquisizioni, possibile solo di fronte alla duplice riserva di giurisdizione e di legge e all'obbligo di motivazione. Ad ulteriore tutela della privacy, anche per la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione (art. 15 Cost.) sono previste delle limitazioni nel rispetto della riserva di giurisdizione, della riserva di legge e dell'obbligo di motivazione. La garanzia apprestata vale in particolar modo per le intrusioni nelle comunicazioni telefoniche, ambientali e telematiche: le intercettazioni telefoniche, pur essendo un efficace strumento per contrastare le forme più gravi della criminalità organizzata, presuppongono una serie di cautele operative (artt 266-271), spesso eluse dalla prassi e questo ha portato la Corte Costituzionale e le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ad intervenire più volte. Il diritto di difesa, scandito dall' art 24 Cost, ma anche dall'art 111 comma3 Cost garantisce a tutti la possibilità di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, mediante l'inviolabilità della difesa in ogni stato e grado del procedimento. Tra i suoi corollari rientra l'istituto del gratuito patrocinio per i non abbienti, in funzione di assicurare i mezzi per agire e difendersi in giudizio. Rientrano nel novero del diritto di difesa anche le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari (comma 4) che trovano una disciplina specifica negli artt 643-647. I requisiti costituzionali del giudice naturale, precostituito per legge, terzo e imparziale sono enunciati nell’ art.25 comma 1 e all’art. 111 comma 2 Cost. L’art. 27 Cost., che proclama la presunzione di non colpevolezza, per cui l'imputato può essere considerato colpevole solo a fronte di una sentenza divenuta definitiva, costituisce una fondamentale regola di civiltà giuridica che influenza i criteri di valutazione delle prove. In un sistema processuale ove la decisione è il risultato di un complesso procedimento di verificazione e di falsificazione di un'ipotesi di accusa, nessun valore può essere attribuito all'imputazione, fino a quando tale procedimento di verificazione/falsificazione non si sia concluso. La c.d. Legge Pecorella (l. 46/06) ha rafforzato questo principio, nella misura in cui ha esplicitato che il giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio (art 533 cmma1). L’art. 68 comma 2 e 3 Cost. si pone a presidio di diritti garantiti dagli artt. 13 14 15 Cost. per impedire al potere giudiziario di prevaricare gli altri poteri. La richiesta di autorizzazione a procedere alla Camera di appartenenza non impedisce il compimento di indagini nei confronti di un membro del Parlamento, soltanto precludendo il compimento di atti particolarmente invasivi, quali ispezioni e perquisizioni personali e domiciliari, restrizione alla libertà personale, intercettazioni telefoniche e sequestro di corrispondenza. L’art. 79 Cost. prevede la possibilità di adottare atti di clemenza come amnistia e indulto. La legge di concessione deve specificare i connotati temporali di applicazione ed aventuali limiti (es per determinate categorie di reati). L’art. 101 Cost. garantisce alla magistratura la soggezione soltanto alla legge, id est quell'autonomia e indipendenza dagli altri poteri dello Stato che costituisce il requisito fondamentale per il retto esercizio della giustizia, senza condizionamenti e pressioni. Anche per questo l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria. Il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 Cost.) si trova periodicamente al centro di vivaci diatribe in quanto al chiaro tenore letterale ("il pm ha l'obbligo di esercitare l'azione penale") si contrappone l'altrettanto limpido significato degli att. 50, 358 e 405 che pongono una gerarchia nell'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero, esercitabile solo quando non deve richiedere l'archiviazione (art 405 comma 1). Il principio di obbligatorietà dell'azione penale non comporta l'obbligo, per il pubblico ministero, di esercitare l'azione ogni qualvolta venga raggiunto da una notizia di reato, ma va razionalmente contemperato con il fine di evitare l'instaurazione di un processo superfluo. Di conseguenza, il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale quando all'esito delle indagini emergono elementi antitetici a quelli previsti per la richiesta di archiviazione e cioè quando abbia raccolto elementi di prova tali da sostenere l'accusa in giudizio. All’art. 111 Cost. era previsto che tutti provvedimenti devono essere motivati e che le sentenze e tutti provvedimenti sulla libertà personale sono suscettibili di controllo, almeno per violazione di legge, da parte della Corte di Cassazione. Si tratta di esigenze che rispondono al bisogno di controlli effettivi del giudice su ogni atto del giudice e che si pongono tra i pilastri fondamentali del giusto processo. 4. L'adeguamento delle tecniche interpretative introdotto dalla riforma costituzionale sul giusto processo L'inserimento delle regole del giusto processo nell’art. 111 Cost. ha modificato il quadro di riferimento della giustizia italiana: i principi del giusto processo sono stati posti in posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto alle altre norme sul processo penale aventi forza di legge ordinaria. La costituzionalizzazione del principio del giusto processo ed in particolare dei connotati minimi irrinunciabili attinenti al giudice (inteso come superino il vaglio della manifesta superfluità o irrilevanza, senza che il pregiudizio sulla forza persuasiva di altri argomenti di prova possa indurlo a non avvalersi di elementi comunque idonei a ribaltare la decisione errata. • I principi della giurisdizione e del giusto processo impongono il rispetto scrupoloso della garanzia del contraddittorio e della parità delle armi tra accusa e difesa, del diritto alla prova ed alla prova contraria e del diritto di sottoporre ad un giudice superiore imparziale ogni decisione di merito. Una volta stabilito che la decisione finale non può scaturire che da un giusto processo, allora il metodo dell'oralità e del contraddittorio, il diritto alla prova e alla controprova, l'imparzialità del giudice e la possibilità di impugnare appaiono come strumenti, più appropriati, per il conseguimento di una verità giudiziale (possibilmente coincidente con la verità reale) che valga a scongiurare l'errore giudiziario. L'osservanza di un ortodosso metodo processuale vale a rendere accettabile il prodotto, costituito da una decisione non solo sostanzialmente esatta ma anche formalmente equa. Una volta che il giudizio penale è inteso come sede e il contraddittorio è il metodo privilegiato per la verifica, ad armi pari, dell'ipotesi affermata dal titolare della funzione d'accusa, e posto che non è più concepibile una conoscenza inparziale che ignori le opinioni altrui, la decisione equa presuppone che alle parti sia stato consentito di illustrare le rispettive argomentazioni. È fisiologico che la difesa abbia interesse a confutare l’addebito mossogli, attraverso la prospettazione di soluzioni contrastanti con quelle dell'accusa, ovvero tramite ipotesi e contro-ipotesi capaci di fornire soluzioni alternative compatibili con l'insieme dei dati raccolti. Di qui, la necessità che il convincimento del giudice non rimanga avulso dalla conoscenza di tutti quei fatti che possono risultare significativi nella ricostruzione della vicenda dedotta in giudizio. La decisione non può non poggiare sull'apprezzamento comparato e contestuale delle opposte argomentazioni, secondo le regole di alternanza connaturate all'operatività degli schemi tipici dell'interesse e dell'onere (della prova o di allegazione). 5. La revisione esegetica dei meccanismi codicistici a presidio dei requisiti costituzionali del giusto processo La riflessione imposta dall'epocale riforma dell’art. 111 Cost investe non già e non solo gli strumenti posti a presidio dell'individuazione del giudice del processo, ma, soprattutto, la revisione per via di esegesi adeguatrice del sistema di rimedi e di sanzioni, cui la violazione del diritto al giusto processo è collegata. L'operazione passa attraverso una rilettura, in chiave costituzionalmente orientata, delle norme e degli istituti codificati. La tradizionale impostazione non vale ad escludere una esegesi alternativa di ogni norma poi fedele al rinnovato assetto costituzionale; giova rammentare come in più occasioni la Corte Costituzionale abbia affermato che tra le diverse interpretazioni che il dato normativo appare suscettibile di suggerire va sempre privilegiata quella conforme alle norme fondamentali, ed ancora che una norma risulta incostituzionale non tanto quando di essa può fornirsi un'interpretazione in contrasto con il dettato costituzionale, ma quando non risulta possibile fornirne una ad esso conforme. I principi del novellato art 111 Cost. si pongono, rispetto alla legge ordinaria, non solo come parametri di legittimità, ma, prima ancora, come essenziali punti di riferimento dell'interpretazione conforme a costituzione della disciplina sottoposta a scrutinio di costituzionalità. I tempi e gli strumenti del processo penale risultano tuttora largamente insoddisfacenti rispetto all'effettiva realizzazione del processo giusto. Siffatto atteggiamento critico non è rivolto solo ai tempi e ai modi della fase di indagine e alle tecniche dibattimentali di elaborazione della prova, estendendosi, infatti, fino a comprendere l'assetto complessivo delle impugnazioni e l'adeguatezza degli ambiti del controllo tipico sulle decisioni giudiziali alla conclamata introduzione del sistema accusatorio nella celebrazione dei processi penali. Il regime codicistico della prova, delle sanzioni processuali e delle impugnazioni non è stato commisurato alle radicali trasformazioni della fase di indagine e del giudizio di primo grado, con correlativa moltiplicazione di delusioni nel momento decisorio. 6. La successione delle norme procedurali nel tempo: tempus regit actum Il tema della cultura della legalità non può essere affrontato solo in rapporto a schemi teorici standardizzati e dalle pretese aspettative della collettività bensì tenendo in adeguata considerazione anche le esigenze garantistiche di trattamento non discriminante tra tutti gli imputati. Le questioni intertemporali concretamente più rilevanti sono quelle che, presupponendo modifiche normative intervenute in corso d'opera, investono il regime della prova, il trattamento dell'imputato in stato di limitazione della libertà personale in forza di misura cautelare e la competenza del giudice. • Intervenute con opportuna tempestività le Sezioni unite della Corte di Cassazione riconobbero l'applicabilità diretta delle norme nuove di garanzia, in tutti i processi in corso, rilevando, incisivamente, che in presenza di innovazioni legislative verificatesi nel corso del processo in materia di utilizzabilità o di inutilizzabilità della prova, il principio tempus regit actum deve essere riferito al momento della decisione e non a quello dell'acquisizione, atteso che il divieto di uso, colpendo proprio l'idoneità della prova a produrre risultati conoscitivi valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento, interviene allorché il procedimento probatorio non ha trovato ancora esaurimento, di modo che il divieto inibisce che i dati probatori, pur se acquisiti con l'osservanza delle forme previste dalle leggi previgenti, possano avere un qualsiasi peso sulla bilancia del giudizio; a siffatto canone avrebbe dovuto attenersi con chiarezza il legislatore ordinario; il definitivo regime di trapasso al nuovo metodo di formazione e valutazione della prova è stato scandito all’art.26 L. 63/2001, ma con una formulazione che ha subito dato luogo ai soliti disorientamenti giurisprudenziali, nonstante le indicazioni fornite dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione, in una notissima sentenza donde è dato apprendere che, proprio per effetto del comma 1 dell'art 26 l 63/2001, lo ius superveniens trova immediata applicazione con la conseguenza che, dopo l'entrata in vigore della nuova legge, un interrogatorio assunto ai sensi dell'art 64 c.p.p. nella formulazione anteriore all'intervento delle modifiche introdotte dalla legge 63 del 2001, è inutilizzabile sia nel successivo dibattimento sia nel corso delle indagini preliminari e nell'ambito delle decisioni de libertate. Va dato atto, perciò, che in tema di prova lo ius superveniens trova immediata applicazione nei procedimenti in corso all'epoca della sua entrata in vigore, con la conseguenza che l'interrogatorio già compiuto anteriormente, senza essere stato preceduto dal triplice avvertimento del nuovo art. 64, nell'ipotesi in cui non rincorra una delle circostanze eccettuative espressamente previste dai commi 3,4,5 dell'art 26 l 63/2001, è inutilizzabile. • Quanto alla successione nel tempo delle norme in materia di libertà personale l'approccio più garantista era stato ribaltato dal legislatore dell'emergenza, che aveva esplicitamente optato per l'applicabilità immediata dell'aumento di durata alle situazioni di custodia preventiva già in corso con l'avallo della Corte Costituzionale che aveva fatto riferimento espresso al particolare contesto storico e alla necessità di fronteggiare certe esigenze di emergenza rimarcando come essa legittima sì misure insolite, ma queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo. Se risulta esatta e condivisibile l'ipotesi ricostruttiva secondo cui le norme regolanti lo status custodiae dell'imputato hanno natura sostanziale, il problema potrebbe essere risolto secondo i principi regolatori la successione di leggi penali, e in particolare secondo quello dell'ultrattività della norma più favorevole (art 2 c.p.), senza neppur dover ricorrere all'inflazionato principio del favor rei. • Tra i problemi intertemporali sono di rilievo quelli sulla competenza del giudice, che investono una delle garanzie fondamentali del giusto processo. Il legislatore ha creduto di dover porre rimedio alla protratta e diffusa disattenzione sulla mutata competenza per materia quanto alle forme aggravate del delitto previsto dell’art. 416 bis c.p.: con disposizione transitoria, l'operatività della nuova competenza del tribunale ai procedimenti in corso, iniziati quando la competenza era ex lege della corte d'assise. Sta di fatto, però, che la disciplina nuova nulla ha disposto quanto agli atti compiuti dal giudice incompetente fino alla data di entrata in vigore del ius superveniens. misure allo scopo di ravvicinare ed armonizzare le legislazioni degli Stati membri nelle materie indicate dall'art 69, lett b del Trattato di Lisbona. Nella misura necessaria a facilitare l'applicazione del principio del mutuo riconoscimento e la cooperazione giudiziaria e di polizia, il Parlamento ed il Consiglio possono adottare strumenti procedurali comuni, il tutto cona la possibilità per i singoli Stati, di mantenere o introdurre un più alto livello di protezione dei diritti individuali. Rimane la possibilità, ex art 69 del Trattato di Lisbona, per il Prlamento europeo e per il Consiglio, di stabilire norme minime comuni relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in relazione a specifiche fattispecie delittuose gravi con dimensioni transnazionali. La cooperazione prevede adesso anche il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. A tal fine, la legge quadro potrà prevedere norme minime in tema di ammissibilità reciproca delle prove tra Stati, di diritti della presona nella procedura penale, di diritti delle vittime della criminalità. 4 Il "minimo comune denominatore europeo" del diritto processuale penale e i contenuti del Trattato di Lisbona Come minimo comune denominatore del diritto processaule penale europeo a livello di fonti scritte rilevano: la Carta di Nizza, la CEDU, la Convenzione europea di estradizione e la Convenzione europea per l'assistenza giudiziaria in materia penale. A livello di fonti non scritte rileva essenzialmente la giurisprudenza della delle Corti europee. CAPITOLO III I PROTAGONOSTI DEL PROCESSO 1 Processo e procedimento penale Il libro I del codice di procedura penale è dedicato ai soggetti chiamati a interagire nel processo. Il processo penale è una concatenazione di atti compiuti da determinati soggetti che tendenzialmente conduce all'atto finale rappresentato dalla sentenza. Una sequenza che prende avvio con la notizia di reato e termina con il passaggio in giudicato della sentenza irrevocabile, o meglio con l'esecuzione della sentenza definitiva posto che anche tale fase viene giustamente inclusa nell'ambito processuale. Il processo penale come serie legislativamente, logicamente e cronologicamente ordinata di atti mostra la natura schiettamente procedimentale del fenomeno. Per questo motivo, la nozione di processo e quella di procedimento finiscono per sovrapporsi. Il legislatore ha la necessità di precisare la portata della dicotomia procedimento/processo, ciò risponde a una concreta esigenza di chiarezza espositiva e di più agevole lettura delle disposizioni codicistiche. Quando l'analisi rimane confinata in sede di teoria generale, è possibile usare indifferentemente i due termini per descrivere l'intera sequenza di atti che va dalla notizia di reato fino al giudicato e all'esecuzione; quando si è chiamati all’ esegesi del dato normativo la suddivisione delle species procedimento/processo va ridefinita nei seguenti termini: • il procedimento (in senso stretto) è costituito dagli atti che precedono l'esercizio dell'azione penale • il processo abbraccia gli atti compiuti successivamente a tale momento coincidenti con l'intervento giurisdizionale tipico. La fase delle indagini preliminari coincide con il procedimento in senso stretto e precede l'azione penale, mentre le fasi processuali, che prendono avvio con l'esercizio dell'azione penale, sono rappresentate dall'udienza preliminare e dal giudizio. Con riferimento alla fase del giudizio si possono poi specificare ulteriormente i gradi del processo: • dibattimento di primo grado • giudizio d'appello • giudizio in cassazione. La serie degli atti che compongono il procedimento (in senso lato) è legislativamente disciplinata e ordinata, nel senso che il codice prevede i modelli legali degli atti processuali e la loro sequenza. La disciplina legale dell'atto riguarda anche il profilo soggettivo, ossia il rapporto fra l'atto e il soggetto autore o destinatario dello stesso, nonché la concatenazione degli atti e delle situazioni soggettive nell'ambito della progressione che conduce all’atto conclusivo. Le situazioni soggettive sono variamente indicate come diritti, a sua volta, poteri, oneri, doveri, anche se tutte possono essere ricondotte alla più stringente suddivisione fra poteri e doveri. I soggetti processuali operano nell'ambito del procedimento penale (in senso lato) da intendersi come costruzione normativa di una sequenza di atti e di corrispondenti situazioni soggettive di potere e di dovere. Il concetto di procedimento come concatenazione di atti e di situazioni soggettive, è puramente formale e non fornisce alcuna spiegazione sul risultato che si tende a realizzare, sul perché si celebra il processo penale. Il processo penale e il diritto penale sono due facce della stessa medaglia, concorrono in maniera paritetica alla realizzazione della giustizia penale. Il diritto penale si attua esclusivamente mediante l'applicazione processuale, ma il processo non può essere considerato solo per la funzione strumentale e servente alla realizzazione della potestà punitiva statuale. Il processo non persegue esclusivamente l'obiettivo di attuare la legge penale nel caso concreto, ma riveste una ben più alta funzione di tutela di tutti i valori e gli interessi in gioco, a partire dai diritti fondamentali dell'imputato. Il processo penale può anche essere descritto come la disciplina dei limiti imposti dalla legge (processuale) al potere statuale nell'amministrazione della giustizia penale per garantire il rispetto dei diritti pari o addirittura superiori al valore rappresentato dall'accertamento delle responsabilità e dalla conseguente punizione dei colpevoli. Il processo ricostruisce il fatto-reato e accerta l'eventuale responsabilità penale dell'imputato; inoltre ha la finalità di assicurare la tutela di interessi e diritti che potenzialmente entrano in conflitto con l'obiettivo della concreta repressione dei reati. La finalità cognitiva e l'accertamento delle responsabilità devono dunque essere contemperate alla garanzia dei diritti fondamentali, in primo luogo dell'imputato che direttamente e personalmente subisce la pretesa punitiva dello Stato. Nel nostro ordinamento il fine dell'attuazione del diritto penale può essere raggiunto solo attraverso un giusto processo regolato dalla legge (art 111 comma 1 Cost) che risulta tale quando è assiologicamente orientato alla garanzia di tutti valori costituzionalmente coinvolti. La funzione cognitiva del processo è volta alla verifica dell’ ipotesi accusatoria cristallizzata nell'imputazione, passando attraverso il rispetto di tutte le forme che la legge impone a garanzia di altri valori costituzionalmente rilevanti. Il fine è il raggiungimento di una verità giudiziaria che può scaturire solo dal rispetto delle regole del giusto processo. È il metodo di accertamento che condiziona il risultato. 2 Giusto processo e verità giudiziale Il conseguimento della verità assoluta e oggettiva è solo un'illusione, un'aspirazione che non trova alcun riscontro nella realtà scientifica, infatti, è da tempo dimostrato come uno dei più gravi fraintendimenti sia quello di ritenere che esista una verità sostanziale e assoluta. La verità oggettiva, nel processo come in ogni latro ambito della vita, rappresenta solo un irraggiungibile limite ideale. Questa relatività della verità è generalmente riconosciuta dalla cultura filosofico-scientifica contemporanea che ritiene che qualunque risultato di un'indagine fattuale, come quella processuale, è dipendente dal contesto in cui ques'ultima si svolge, dalla metodologia seguita e dagli obiettivi prefissati. Scartata la possibilità di raggiungere una conoscenza certa e incontrovertibile, il problema della obiettività del risultato cognitivo deve spostrsi sui fattori che possono condizionarlo (es incidenza degli strumenti impiegati per la raccolta degli elementi di prova. Bisogna poi prendere in considerazione che oggetto di indagine sono sempre accadimenti del passato non suscettibili di verificazione sperimentale diretta: la ricerca è condotta da soggetti, il giudice e prima ancora il pubblico ministero, condizionati dal proprio approccio soggettivo e dagli strumenti a disposizione, le prove, caratterizzata da un irriducibile margine di incertezza. Inoltre, vi è in fattore del tutto specifico rappresentato dal rispetto delle regole imposte all'accertamento processuale quale condizione di validità della conoscenza stessa. Le dimostrazioni offerte circa la fallacia del concetto di verità oggettiva o assoluta non impongono, però, di abbandonare del tutto la rappresentazione classica della verità come corrispondenza. E' possibile a colmare le apparenti lacune. A contrario, l'intervento giurisprudenziale assume sempre più di frequente ben altra connotazione, andando oltre l'ermeneutica per puntare alla sostituzione della disciplina codicistica, con una diversa ricostruzione che si presenta eversiva della littera legis e capace di snaturare gli istituti impiegati. La procedura penale vive in un sistema sempre più marcatamente di diritto giurisprudenziale con l'aggravante della mancanza di un principio che vincoli i giudici alle rispetto dei precedenti giurisprudenziali. All'incertezza di un diritto codificato integrato e spesso surrogato da interpretazioni devianti si aggiunge così l'ulteriore incognita della mancanza di stabilità e certezza delle affermazioni giurisprudenziali, suscettibili di essere modificate o comunque non osservate da giudici diversi oppure, come spesso accade all'interno della Cassazione fra le diverse sezioni, addirittura dallo stesso giudice. Il primato della legge in funzione di tutela dei diritti deve essere ribadito e rafforzato dalla considerazione che le garanzie processuali non sono assicurate solo dalla riserva di legge, ma trovano diretto fondamento in livelli normativi superiori, dalla Costituzione alla C.e.d.u., senza dimenticate il P.i.d.c.p. nonché il nuovo trattato di Lisbona dell'unione europea. Al di sopra delle disposizioni contenute nel codice e nelle leggi speciali, vi è una dettagliata disciplina costituzionale ed europea del processo penale la cui matrice garantistica risulta ancora più evidente proprio per la tipologia della fonte sovraordinata. Soprattutto affrontando il tema dei soggetti, sarà dunque doveroso fare costante riferimento ai principi costituzionali e internazionali che rappresentano l'inderogabile cornive di garanzia nella quale inquadrare la normativa di attuazione fornita dalla legge ordinaria. 4 La struttura triadica del processo. Parti e soggetti Il processo penale è, soprattutto nelle fasi giurisdizionali, un actus trium personarum. La forma triadica, o più precisamente triangolare, è scolpita nell'articolo 111 comma 2 della Costituzione: ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale. Accusa e difesa, in condizioni di parità, sono collocate idealmente agli estremi della base di un triangolo equilatero dinanzi al giudice che, per essere equidistante dalle parti, ossia terzo e imparziale, siede al vertice del triangolo. Questa raffigurazione del processo permette di comprendere come parti necessarie siano il pubblico ministero e l’imputato, mentre il giudice non è parte, dovendo anzi essere terzo e imparziale, ma solo soggetto (protagonista) della vicenda processuale. Il nucleo essenziale rappresentato da pubblico ministero, imputato (assistito dal difensore) e giudice, senza i quali non potrebbe celebrarsi un processo penale, è suscettibile di notevole incremento con la comparsa di soggetti e parti eventuali. E' opportuno, quindi, distinguere le parti dai soggetti processuali. Il concetto di parte è intimamente connesso a quello di azione, tanto sul versante attivo quanto sotto il profilo passivo. Parti, dunque, sono i soggetti che esercitano o che subiscono l'azione penale e l'azione civile (esercitata in sede penale). Da qui discende che le parti compaiono nella fase strettamente processuale, ossia in coincidenza con l'esercizio dell'azione penale o dell'azione civile. In tal modo, però, si rischia di trascurare il dato sistematico che vede le parti essenziali, pubblico ministero e persona nei cui confronti si procede penalmente, già presenti nella fase delle indagini preliminari (necessariamente il pubblico ministero ed eventualmente l'indagato qualora la notizia di reato sia attribuita ad autori noti). Si potrebbe perciò affermare che le parti essenziali siano immanenti in ogni fase del procedimento penale (in senso lato), eccettuata l'ipotesi delle indagini svolte nei confronti di ignoti, con l'ulteriore precisazione che l'imputato è tale solo dopo che sia stata esercitata l'azione penale, mentre in precedenza il suo status viene descritto con l'impiego della locuzione "persona sottoposta alle indagini" spesso sostituita con il termine indagato. Nel caso in cui il processo penale si svolga per l'accertamento della responsabilità amministrativa degli enti dipendente dal reato, ai sensi del sottosistema processuale delineato dal d. lgs 8/6/01 n° 231, alla figura dell'imputato deve essere assimilata quella dell'ente responsabile. Tale equiparazione è imposta dall'art 35 d lgs 231/01 secondo cui all'ente si applicano le disposizioni processuali relative all'imputato, in quanto compatibili. Diverso è il discorso per quanto riguarda le parti eventuali correlate all'esercizio dell'azione civile in sede penale che dipende da una scelta discrezionale del danneggiato dal reato di richiedere direttamente al giudice penale la condanna dell'imputato al risarcimento del danno. Si parla, perciò, di parti eventuali, posto che l'esercizio dell'azione civile in sede penale è solo eventuale. In seguito all'esercizio dell'azione civile nel processo penale compaiono la parte civile e il responsabile civile. La presenza di quest'ultimo è doppiamente eventuale, dipendendo dall'esercizio dell'azione civile e dalla ricorrenza delle circostanze in base alle quali la pretesa risarcitoria può rivolgersi verso un soggetto diverso dall'imputato, chiamato a rispondere civilmente del fatto di quest'ultimo. Altra parte eventuale è la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, che si affianca all'autore del reato per rispondere, in via sussidiaria, delle obbligazioni che sorgono dall'eventuale condanna. I soggetti, invece, sono coloro i quali hanno il potere/dovere di iniziativa nel compimento di atti processuali. Nella generale categoria rientrano le parti, ma anche altre figure che pur non essendo attori o destinatari dell'azione compaiono sulla scena processuale in quanto titolari dei suddetti poteri/doveri: si tratta della persona offesa dal reato e degli enti rappresentativi di interessi lesi dal reato, della polizia giudiziaria, ma anche del giudice che, come detto, non è una parte, e del difensore che si affianca alle parti o ai soggetti (con ovvia esclusione del giudice). Vi è, infine, la categoria residuale delle persone che partecipano al procedimento, la quale include ogni individuo che svolga un ruolo nel procedimento penale, ad esempio i testimoni, i periti, i consulenti tecnici. 5 La giurisdizione penale La giurisdizione è la funzione statuale del giudicare, ossia dello stabilire in modo vincolante quale sia la legge da applicare al caso concreto sottoposto a giudizio. Tale funzione è esercitata da organi giurisdizionali, i giudici, che la Costituzione vuole soggetti soltanto alla legge (art 101 comma 2) per garantire loro la massima indipendenza dagli altri poteri dello Stato e da qualunque altro soggetto. Il riferimento alla legge come unico elemento in grado di condizionare i giudici nel momento in cui esercitano la funzione giurisdizionale rafforza il citato principio di legalità processuale, nel senso che l'intero procedimento e, in particolare, il momento del giudizio devono svolgersi nel più rigoroso rispetto delle disposizioni di legge. La soggezione dei giudici alla legge è intesa e riferita alla legge costituzionalmente orientata, ossia immune da vizi di illegittimità, conforme ai principi espressi dalla Carta fondamentale. Resta quindi impregiudicato il potere/dovere dei giudici di valutare la legittimità delle leggi prima di applicarle al caso concreto ed eventualmente, nel caso in cui sorga un dibbio a riguardo, di sollevare la questione davanti alla Corte costituzionale, organo deputato a stabilire in via definitiva se la legge ordinaria sia o meno coerente con la Costituzione. La funzione giurisdizionale presenta l'ulteriore caratteristica di essere indeclinabile, sia nel senso che il giudice, una volta sollecitato attraverso l'esercizio dell'azione penale, non può rifiutarsi di emanare la decisione sia perché l'attuazione della legge penale, l'accertamento del dovere di punire, non può che avvenire attraverso le forme giurisdizionali (riserva di giurisdizione in materia penale) secondo il principio nullum crimen, nulla poena sine iudicio enucleabile dagli articoli 25 comma 2, 27 comma 2, 112 della Costituzione. L'accertamento giurisdizionale dei presupposti applicativi della legge penale deve anche rispettare i canoni dell'equità processuale. La giurisdizione è tale solo se viene esercitata assicurando all'imputato un giusto processo. È quindi evidente la stretta correlazione fra funzione giurisdizionale e giusto processo i cui elementi caratterizzanti nno solo quelli enunciati nell'art 111 Cost, ma rappresentano un catalogo aperto, come ha più volta sottolineato la Corte europea dei diritti dell'uomo con riguardo all'art 6 della C.e.d.u. La frainess (equità) processuale, tratto essenziale e irrinunciabile della giurisdizione, è dunque il portato dell'interazione di una serie di garanzie che vanno dall'uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, alla presunzione d'innocenza, al diritto di difesa, al rispetto della libertà personale, del domicilio, della riservatezza delle comunicazioni, a tutti i diritti inviolabili dell'uomo. Naturalità e precostituzione per legge sono associate nel richiamo operato dall'articolo 25 comma 1 della Costituzione, secondo cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. La precostituzione per legge è il portato del più generale principio di legalità processuale che si rivolge, anzitutto, all'organo giurisdizionale il quale dovrà essere individuato sulla base di criteri normativi predeterminati rispetto alla commissione del fatto da giudicare. La predeterminazione legislativa degli organi giurisdizionali riguarda tanto l'ufficio giudiziario quanto la persona fisica che in concreto è chiamata a svolgere l'attività decisoria nel singolo processo. La legge deve dettare criteri oggettivi in base ai quali si possa operare anche la scelta del soggetto che di volta in volta sarà investito della funzione giurisdizionale rispetto ai diversi processi. La determinazione dell'organo giurisdizionale a cui spetta la decisione avvenga in base a norme sulla competenza e sulla giurisdizione, vigenti al momento del compimento del fatto oggetto di imputazione. E' soprattutto la legge di ordinamento giudiziario a garantire il pieno rispetto del principio di precostituzione, disciplinando sia la formazione di apposite tabelle degli uffici giudiziari, in base alle quali vengono poi scelti i giudici, sia i criteri per l'assegnazione degli affari e la sostituzione dei giudici impediti. L'ambito in cui la garanzia in esame risulta esposta ai maggiori rischi è quello della successione di leggi nel tempo. L'uso del participio passato "precostituito" impone che la determinazione dell'organo giurisdizionale a cui spetta la decisione avvenga in base a norme sulla competenza e sulla giurisdizione, vigenti al momento del compimento del fatto oggetto di imputazione. Questa ricostruzione potrebbe però lasciare aperta la strada ad un'interpretazione che estenda il riferimento alla norma preesistente la commissione del reato, ma non più vigente in tale preciso momento. Per evitare il possibile equivoco, appare preferibile intendere la precostituzione come individuazione del giudice sulla base della normativa vigente al dies delicti. Bisogna ricordare come i costituenti si siano limitati a stabilire la precostituzione, senza spiegare a quale momento vada collegata l'anteriorità insita in questo stesso concetto. Nell'articolo 25 comma 1 della Costituzione, manca cioè l'esplicita individuazione del punto di riferimento temporale. Stando così le cose non sarebbe del tutto assurdo sostenere che il momento da considerare non sia quello del fatto penalmente illecito, ma quello iniziale del processo. In favore di questa soluzione sembra porsi la circostanza che solo attraverso il promovimento dell'azione penale si configura in capo al giudice un vero e proprio obbligo di ius dicere. Cristallizzare la normativa sulla competenza al momento dell'avvio del processo potrebbe, inoltre, evitare l'effetto di mantenere sine die la possibilità teorica di nuovi giudizi si celebrino davanti a giudici individuati sulla base delle norme anteriori. E', infatti, evidente che il numero dei processi pendenti sarebbe circoscritto e determinabile, a differenza di quello dei reati la cui stessa commissione può rimenere per lungo tempo sconosciuta. Non si può dimenticare che già in campo civile amministrativo la precostituzione non viene riferita al momento del fatto, ma quello della domanda o del ricorso. Quindi vi sarebbero ragioni convincenti per ritenere che l'art 25 comma 1 Cost, abbia voluto garantire l'immutabilità della disciplina della competenza e della giurisdizione solo a partire dal momento dell'esercizio dell'azione penale. Tuttavia, non vi è dubbio che permettendo fino all'avvio della fase strettamente processuale il mutamento del giudice si finirebbe per affievolire notevolmente la garanzia offerta dal principio. Differente sarebbe la conclusione se si potesse ritenere fissata la competenza al momento iniziale del procedimento, e cioè nell'istante dell'iscrizione della notitia criminis nell'apposito registro. Infatti, anche durante le indagini preliminari, e cioè prima del vero e proprio esercizio dell'azione penale, si realizza comunque una peculiare forma di intervento giurisdizionale, detto di garanzia, che non dovrebbe essere sottratto all'ambito applicativo del principio costituzionale. La dottrina prevalente, tuttavia, non si discosta dall'opinione tradizionale indirizzata nel ritenere che la precostituzione implichi la determinazione del giudice sulla base delle norme vigenti al momento della commissione del reato. Tale rigorosa ricostruzione del concetto di precostituzione ha trovato un preciso riscontro in una delle prime decisioni assunte sul tema dalla Corte costituzionale. In tale occasione era stato, infatti, precisato che il principio della precostituzione del giudice tutela nel cittadino il diritto a una previa e non dubbia conoscenza del giudice competente a decidere, o ancor più nettamente, il diritto alla certezza che a giudicare non sarà un giudice creato a posteriori in relazione a un fatto già verificatosi. Successivamente, l'orientamento della giurisprudenza costituzionale ha però subito un radicale mutamento fino al punto che, attualmente, si può dire sia quasi del tutto vanificato il significato stesso della enunciazione contenuta nell'articolo 25 comma 1 della Costituzione. L'illegittima sottrazione della regiudicanda al giudice naturale precostituito si verifica, perciò, tutte le volte in cui il giudice venga designato a posteriori in relazione ad una determinata controversia o direttamente dal legislatore in via di eccezione singolare alle regole generali. Il principio costituzionale viene rispettato, invece, quando la legge, sia pure con effetto anche sui processi in corso, modifica in generale i presupposti o i criteri in base ai quali deve essere individuato il giudice competente: in questo caso, infatti, lo spostamento della competenza dall'uno all'altro ufficio giudiziario non avviene in conseguenza di una deroga alla disciplina generale, che sia adottata in vista di una determinata o di determinate controversie, ma per effetto di un nuovo ordinamento (e della designazione di un nuovo giudice naturale) che il legislatore, nell'esercizio del suo potere di merito, sostituisce a quello vigente. La Corte Costituzionale ha ribadito che, nonostante per effetto delle modifiche sopravvenute il giudice finisca per essere designato in un momento successivo a quello della commissione del reato, il principio espresso dall'art 25 comma 1 Cost deve ritenersi rispettato allorchè l'organo decidente sia stato istituito dalla legge sulla base di criteri generali fissati non in vista di singole controversie. I principali riflessi dell'impostazione seguita dalla giurisprudenza costituzionale si sono registrati sull'attività del legislatore che, in caso di modifiche alla competenza, più che al canone della precostituzione, ha spesso preferito fare riferimento a un adattamento del principio della perpetuatio iurisdictionis o competentiae (Locuzione (propriamente p. ac competentiae) cheriassume il principio espresso dall’art. 5 c.p.c. Tale norma evita che il giudice munito di competenza e giurisdizione possa poi perdere il potere di decidere nel merito la controversia in forza di un fatto successivo o a causa di un sopravvenuto mutamento legislativo), lasciando proseguire secondo le vecchie norme solo quei processi in cui fosse già stata dichiarata l'apertura del dibattimento. Però un simile ridimensionamento della garanzia, svilita da pre- costituzione a semplice costituzione del giudice per legge, si ritrova anche negli orientamenti della giurisprudenza ordinaria per la quale le norme sulla competenza hanno carattere processuale e, in applicazione del principio d'ordine generale tempus regit actum, sono di immediata applicazione anche ai reati commessi in epoca antecedente alla data della loro entrata in vigore, salvo che il relativo processo sia già radicato legittimamente davanti ad altro giudice, competente secondo le norme previgenti, perché in tal caso, e solo in esso, opera la perpetuatio competentiae. Se la precostituzione è stata nel corso del tempo ridotta alla semplice costituzione per legge, la naturalità, secondo requisito sancito dall'art 25 comma 1 Cost, non ha mai goduto di autonoma considerazione, da sempre ritenuta mero sinonimo della precostituzione stessa. La naturalità andrebbe considerata una garanzia autonoma, originariamente fondata sul collegamento del giudice con il locus commissi delicti, mediante la quale si esprime l'esigenza che chi esercita la funzione giurisdizionale, per risultare realmente imparziale, debba essere in grado di cogliere e di comprendere tutti i valori socio-culturali coinvolti nel processo. Oggi la naturalità trae nuova linfa dalla sempre più pressante esigenza che il giudice sia attrezzato per comprendere ciò che deve giudicare, sotto il profilo culturale prima ancora che giuridico. Il principio della naturalità del giudice potrebbe perciò essere adeguatamente valorizzato sia per introdurre nel nostro ordinamento correttivi legati al riconoscimento della cultural defence, intesa come possibilità di valutare giuridicamente anche fattori culturali che possono aver inciso nella dinamica del reato, sia per ottimizzare la partecipazione diretta del popolo alla giustizia in forme rinnovate, attenti anche alla selezione dei giudici popolari in base alla loro formazione e provenienza. 7 Segue. Indipendenza, imparzialità e terzietà 8 L’attuazione dei principi costituzionali della precostituzione e della naturalità del giudice: la giurisdizione e le regole di competenza La Costituzione delinea la figura del giudice penale come soggetto precostituito, naturale, indipendente, terzo ed imparziale. Tutti questi connotati devono trovare effettiva attuazione nella legge ordinaria, in particolare nella normativa processuale penale. Il rispetto della precostituzione e della naturalità è garantito: • dalle regole che ripartiscono fra i diversi giudici la giurisdizione (penale e non) • da quelle che stabiliscono quale fra i giudici (penali) debba esercitare la funzione giurisdizionale penale nel singolo caso. Le prime sono le regole sulla giurisdizione, le seconde quelle sulla competenza. Entrambe devono essere fissate dalla legge ordinaria vigente al momento della commissione del fatto da giudicare, così da garantire la riserva di legge e la precostituzione del giudice. La giurisdizione penale, ossia il potere/dovere di applicare la legge penale sostanziale una volta accertati processualmente i presupposti, appartiene indistintamente a tutti i giudici penali. Però un solo giudice deve procedere a giudicare il singolo caso, mentre gli altri devono contestualmente astenersi dall'esercitare il potere giurisdizionale. Per regolare questa situazione, per stabilire chi debba effettivamente procedere all'esercizio della funzione giurisdizionale sono previste le regole di competenza (per materia, per territorio, per connessione, funzionale). La violazione delle norme di competenza, se non ritualmente rilevata, non impedisce la formazione del giudicato, ossia che la sentenza emessa dal giudice incompetente rimanga valida e divenga irrevocabile. Se, invece, all'incompetenza si accompagnasse un difetto di giurisdizione, la sentenza sarebbe emessa dal non giudice (da un soggetto non investito del potere giurisdizionale) e come tale sarebbe da considerarsi un atto inesistente e quindi insuscettibile di passare in giudicato. La giurisdizione spetta, dunque, ad ogni giudice penale per intero, mentre le regole di competenza servono solo per individuare il giudice che dovrà intervenire nel singolo caso, senza avere alcuna incidenza sul potere giurisdizionale. I giudici investiti della giurisdizione penale si dividono in ordinari e speciali. Sono giudici penali ordinari di primo grado: • il giudice di pace • il Tribunale in composizione monocratica o collegiale • la Corte d'assise • il Tribunale per i minorenni (giudice ordinario specializzato con competenza sui reati commessi dai minori di anni diciotto) Nel secondo grado giudicano: • la Corte d'appello • la Corte d'assise d'appello • la sezione della Corte d'appello per i minorenni Vi è infine la Corte di Cassazione, unica per tutto il territorio nazionale con sede in Roma. Sono giudici penali speciali, senza che ne possano essere istituiti di nuovi, stante il divieto posto dall'art 102 comma 2 Cost: • il Tribunale militare • la Corte d'appello militare per i reati militari commessi dagli appartenenti alle forze armate • la Corte costituzionale in composizione integrata per i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione commessi dal Presidente della Repubblica. La ripartizione dei procedimenti fra i giudici ordinari avviene, innanzitutto, sulla base della competenza per materia che è determinata dalla quantità della pena edittale, computata ai sensi dell'art 4, o dal titolo del reato per cui si procede. La Corte d'assise (articolo 5) è competente per i delitti più gravi (fatti di sangue e reati politici) per i quali si ritiene che il giudice naturale sia quello in composizione mista popolare e professionale. Bisogna infatti ricordare che la Corte d'assise realizza la partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia (art 102 comma 3 Cost), essendo composta da due giudici professionali e da sei giudici popolari. Tuttavia, il legislatore non nasconde la diffidenza verso questo giudice in composizione mista, con componente popolare numericamente maggioritaria, al quale viene sottratta la competenza a giudicare gravi delitti per i quali si ritiene sia necessaria una specifica preparazione tecnico-giuridica o comunque rispetto ai quali si teme che il giudice popolare risulti più esposto a indebiti condizionamenti esterni. Sotto il profilo quantitativo (art 5 comma 1 lett a), la Corte d'assise è competente a giudicare i delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a 24 anni, esclusi: • i delitti di tentato omicidio • di rapina • di estorsione • di associazioni di tipo mafioso anche straniere, comunque aggravati • di sequestro di persona a scopo di estorsione (a meno che non derivi la morte del sequestrato) • i delitti previsti dal testo unico sugli stupefacenti. In base al criterio qualitativo (art 5 comma lett b,c,d,) alla Corte d'assise è attribuita la competenza a giudicare: • l'omicidio del consenziente • l'istigazione o aiuto al suicidio • l'omicidio preterintenzionale. • Ha, inoltre, competenza su ogni delitto doloso se dal fatto è derivata la morte di una o più persone (esclusi i casi di morte o lesioni come conseguenza non voluta di altro delitto, rissa, omissione di soccorso) • Infine giudica i delitti di ricostituzione del partito fascista • di genocidio • contro la personalità dello Stato puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 10 anni • quelli consumati o tentati previsti dall'art 51 commi 3 bis e 3 quater, esclusi i delitti di associazione mafiosa, comunque aggravati, e i delitti commessi avvelendosi delle condizioni previste dall'art 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni mafiose (salvo che si tratti di ipotesi di reato specificamente attribuite alla competenza della Corte d'assise. Il giudice di pace ha una competenza per materia circoscritta ad alcune fattispecie di reato (criterio qualitativo) di minore gravità, perlopiù espressive di microcriminalità individuale, elencate nell'art 4 d lgs 274/00. Si possono ricordare: • le percosse • le lesioni volontarie procedibili a querela • lesioni colpose (sia pure con numerose eccezioni) • l'ingiuria • le ipotesi non aggravate di diffamazione • minaccia • danneggiamento. • Rientra nella competenza del giudice di pace anche il nuovo reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato. Il Tribunale (articolo 6) ha una competenza residuale per tutti i reati che non rientrano nella competenza della Corte d'assise e del giudice di pace, nonché del Tribunale per i minorenni. Così delineata, la competenza del Tribunale si suddivide ulteriormente in sub-competenze a seconda che proceda il Tribunale in composizione collegiale (tre componenti) o monocratica (un solo componente). Al Tribunale in composizione collegiale è attribuita in via generale, sotto il profilo quantitativo, la cognizione dei reati puniti con la pena detentiva superiore nel massimo a 10 anni, anche nell'ipotesi di tentativo, purchè non rientrino nella competenza della Corte d'assise. Il legislatore ha inoltre selezionato, sulla base del criterio qualitativo, una serie di fattispecie di reato da devolvere al collegio che vanno dalla criminalità organizzata ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, dai reati sessuali a quelli societari e fallimentari. Il Tribunale collegiale è anche competente a giudicare i reati commessi dei ministri nell'esercizio delle loro funzioni. Al tribunale in composizione monocratica è attribuita la cognizione per i delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di stupefacenti, purchè non sia contestata l'aggravante. Giudica tutti i reati puniti con pena detentiva fino a 10 anni (esclusi quelli rientranti nella competenza del giudice di pace) e reati la cui cognizione è espressamente attribuita al Tribunale Una particolare competenza per territorio è stabilita dall'articolo 11 quando un magistrato - giudice o pubblico ministero, anche onorario - assuma la qualità di indagato, imputato, persona offesa o danneggiata dal reato. • In tal caso, se competente fosse un ufficio giudiziario compreso nel distretto di Corte d'appello in cui il magistrato interessato svolge le sue funzioni o le svolgeva al momento del fatto, il procedimento verrà spostato dinanzi al giudice parimenti competente per materia che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di Corte d'appello determinato ai sensi dell'art 1 disp. att. e dell'allegata tabella A. • Lo stesso accade ai procedimenti connessi a quelli in cui è coinvolto il magistrato. • Se nel diverso distretto di Corte d'Appello determinato in base alla citata tabella il magistrato è venuto successivamente a esercitare le sue funzioni, la competenza verrà nuovamente spostata sempre in applicazione dei criteri della tabella. • Il meccanismo delineato dall'articolo 11 è finalizzato a garantire l'imparzialità dell'organo giudicante e, pur incidendo sulla determinazione della competenza, presenta numerose affinità con l'istituto della rimessione del processo. Pur trattandosi, all'evidenza, di una regola speciale di competenza territoriale, la giurisprudenza ritiene che la disciplina dell'articolo 11 rientri nel concetto di competenza funzionale, e non semplicemente territoriale, con conseguente rilevabilità, anche d'ufficio, del vizio in ogni stato e grado del procedimento. 10. Segue. La competenza per connessione, la riunione e la separazione dei procedimenti Il fenomeno processuale spesso presenta situazioni soggettivamente ed oggettivamente complesse. Il processo ideale, che si celebra a carico di un solo imputato per una sola imputazione priva di collegamenti con altri fatti penalmente rilevanti, nella realtà rappresenta un'ipotesi quasi marginale. Il legislatore, perciò, ha dovuto predisporre regole che tenessero conto anche della complessità e per questo ha stabilito un'autonoma disciplina della competenza per connessione. Si può parlare di connessione di procedimenti nei tre casi elencati dall'articolo 12: • quando il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso (per i reati dolosi, art 110 c.p.) o in cooperazione (per quelli colposi, art 113 c.p.) fra loro o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l'evento (es la morte causata dal ferimento e dall'errore del medico curante). Si tratta del caso di connessione plurisoggettiva. • Quando una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione (concorso formale), ovvero con più azioni od omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso (reato continuato). La connessione è di tipo monosoggettivo. • Quando si procede per più reati, se gli uni sono stati commessi per eseguire od occultare gli altri. Considerato il legame finalistico dei reati, si parla di connessione teleologica. In presenza di una causa di connessione, un solo giudice è competente a giudicare tutti gli imputati e tutti i reati connessi. • Per stabilire quale sia l'unico giudice competente fra più giudici aventi diversa competenza per materia, si applica il criterio dell'articolo 15 in base al quale i casi connessi vengono attribuiti al giudice di competenza superiore, ossia la Corte d'assise che giudicherà anche i reati di competenza del tribunale. • Se i giudici hanno pari competenza per materia, e quindi solo una diversa competenza territoriale, la connessione attribuisce la cognizione al giudice territorialmente competente per il reato più grave (articolo 16 comma 1) così valutato dai criteri stabiliti dall'art 16 comma 3 • In caso di pari gravità dei reati, prevale il giudice territorialmente competente per il reato commesso per primo (articolo 16 comma 1) • Qualora non sia noto il luogo di commissione del reato più grave (o del primo reato), secondo la giurisprudenza non può farsi immediato ricorso ai criteri suplettivi dell'art 9, dovendosi invece prima fare riferimento, in successione gradata, al reato più grave (o anteriore nel tempo) fra quelli residui • Solo quando risulti impossibile individuare il luogo di commissione per tutti i reati connessi, la competenza spetta al giudice competente per il reato più grave (o per il primo reato) individuato secondo i criteri suppletivi indicati dall'articolo 9 comma 2 e 3. • L'articolo 16 comma 2 (invertendo il criterio generale dell'art 8 comma 2) stabilisce che la competenza a giudicare l'evento morte determinato da condotte realizzate in luoghi diversi è del giudice dove si è verificato l'evento. La connessione può investire anche procedimenti spettanti a giudici ordinari e speciali (art 13). La Corte costituzionale attrae a sè tutti i procedimenti connessi, mentre la connessione non opera in favore dei Tribunali militari, essendo previsto solo che il giudice ordinario sia competente a giudicare anche il reato militare quando quello comune risulta più grave. E' altresì escluso che la connessione abbia effetto tra procedimenti concernenti imputati maggiorenni e procedimenti a carico di minorenni, anche quando lo stesso imputato abbia commesso i fatti connessi da minorenne e successivamente da maggiorenne (art 14) Sebbene la competenza per connessione sia naturalmente preordinata alla celebrazione del simultaneus processus, essa non comporta necessariamente la riunione dei procedimenti che rimane facoltativa e soprattutto condizionata ad alcune circostanze (articolo 17): • la pendenza dei procedimenti da riunire nello stesso stato e grado dinanzi al medesimo giudice • la convenienza, in termini di economia processuale, della trattazione cumulativa che quindi non deve determinare il ritardo nella definizione degli stessi. • In aggiunta alle ipotesi di connessione, la riunione dei procedimenti può avvenire anche in base a un semplice collegamento probatorio definito dall'articolo 371 comma 2 lett b • All'interno del Tribunale, se alcuni processi pendono dinanzi al giudice monocratico e altri dinanzi al collegiale, la riunione viene sempre disposta davanti al Tunale in composizione collegiale. Il giudizio cumulativo comporta indubbi vantaggi in termini di economia processuale e di completezza dell'accertamento, ma allo stesso tempo presenta anche non secondarie controindicazioni, in particolare sotto il profilo delle difficoltà che inevitabilmente incontrano tanto il giudice quanto le parti processuali nel governare l'elefantiasi rappresentata dal fenomeno dei maxi processi. Tuttavia, il legislatore ha più volte cercato di intervenire per ricalibrare le ipotesi di connessione e collegamento, senza però riuscire a trovare un soddisfacente punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze di economia delle attività di accertamento e di garanzia del giusto processo. I processi cumulativi possono essere anche fatti oggetto di un provvedimento di separazione che il giudice adotta discrezionalmente, con l'accordo delle parti, quando lo ritenga utile ai fini della speditezza del processo (articolo 18 comma 2). Tale possibilità è espressamente riferita dall'articolo 344 comma 4, al caso in cui ritardi l'autorizzazione a procedere nei confronti di uno o più imputati. La separazione diviene obbligatoria, a meno che la riunione non appaia assolutamente necessaria per l'accertamento dei fatti, nei seguenti casi: • nel corso dell'udienza preliminare la posizione di uno o più imputati ovvero una o più imputazioni sono immediatamente decidibili, mentre altre regiudicande richiedono un supplemento istruttorio • per uno o più imputati ovvero per una o più imputazioni è stata disposta la sospensione del procedimento • La mancata comparizione in dibattimento di uno o più imputati è dovuta a un vizio della vocatio in iudicium oppure a legittimo impedimento o a ignoranza incolpevole della citazione • La mancata comparizione in dibattimento di uno o più difensori per mancato avviso o legittimo impedimento • l'istruzione dibattimentale risulta conclusa per alcune delle regiudicande, mentre per le altre deve proseguire • i termini di durata della custodia cautelare sono prossimi alla scadenza in relazione ai delitti di cui all'articolo 407 comma 2 lett a, e sia necessario definire con urgenza lo stato o il grado del procedimento per evitare la scarcerazione automatica. senza udienza preliminare: deve quindi trasmettere gli atti al pubblico ministero affinché provveda a emettere il decreto di citazione a giudizio (33 sexies) • quando il Tribunale collegiale, in dibattimento, rilevi che il procedimento spetta al Tribunale monocratico e quindi gli trasmette gli atti (33 septies comma 1). La violazione per difetto si verifica quando il Tribunale monocratico, in dibattimento, stabilisce che il procedimento spetta al collegio al quale trasmette gli atti. Se il giudice monocratico, a dibattimento instaurato in seguito a citazione diretta, si avvede che per il reato è prevista l'udienza preliminare, trasmette gli atti al pubblico ministero per un nuovo esercizio dell'azione penale (33 septies comma 2). Le parti che hanno tempestivamente sollevato la questione, non accolta dal giudice, possono proporre appello sul punto in modo che il giudice di secondo grado, se riterrà la sub-competenza del giudice collegiale, annullerà la sentenza del Tribunale monocratico, trasmettendo gli atti al pubblico ministero. Se, invece, l'attribuzione fosse in eccesso, ossia ha giudicato il collegio un reato devoluto alla cognizione del monocratico, la Corte d'appello decide il merito senza regressione del procedimento (33 octies). Anche la Cassazione annulla la sentenza viziata dall'attribuzione in difetto al Tribunale monocratico, mentre resta irrilevante quella in eccesso del collegiale. L'articolo 33 nonies stabilisce che l'inosservanza delle citate regole di sub-competenza non determina l'invalidità degli atti del procedimento nè l'inutilizzabilità delle prove. Si tratta di un'eccezione al principio di immediatezza che dovrebbe essere meglio coordinata con quanto previsto dall'articolo 525. Per quanto concerne gli atti del procedimento, appare opportuno distinguere quelli compiuti dalle parti, che rimangono validi non mutando i contraddittori, da quelli del giudice dichiarato incompetente che ovviamente non possono sopravvivere dinanzi al nuovo organo giudicante. L'incompetenza per territorio è deducibile dalle parti, e rilevabile d'ufficio dal giudice, fino alla chiusura della discussione nell'udienza preliminare. Se manca questo snodo processuale, può essere dedotta o rilevata in dibattimento nel corso delle questioni preliminari (articolo 21). Chi avesse già dedotto l'incompetenza per territorio nel corso dell'udienza preliminare, senza che il giudice l'abbia dichiarata, deve riproporre la questione, a pena di decadenza, all'apertura del dibattimento, a meno che la questione non sorga ex novo per effetto di sopravvenienze istruttorie. L'incompetenza per connessione, determinata dalla violazione degli articoli 15 e 16, deve essere dedotta o rilevata entro gli stessi termini previsti per l'incompetenza territoriale (fino alla chiusura della discussione nell'udienza preliminare). Questa assimilazione dei rispettivi regimi è giustificata quando: • risultino violate le regole sulla competenza per territorio nei procedimenti connessi • quando l'errore determini la competenza per materia del giudice superiore • qualora, invece, dal mancato rispetto delle regole di competenza per connessione consegua un'incompetenza per materia in difetto dovrebbero essere applicate le regole più garantiste previste per tale vizio, con la conseguenza che la questione risulterebbe rilevabile anche d'ufficio in ogni grado e stato del procedimento. Nel corso delle indagini preliminari, le questioni di competenza si possono porre solo in occasione dell'intervento del giudice che in tale fase assume i connotati di una giurisdizione ad acta (ad esempio, provvedimenti sulle misure cautelari, in tema di incidente probatorio, in chiave di garanzia per determinate prove, come le intercettazioni, o in sede di archiviazione). Se il giudice sollecitato a intervenire si dichiara incompetente, restituisce gli atti al pubblico ministero con ordinanza, ma la questione rimane impregiudicata, posto che tale ordinanza produce effetti limitatamente al provvedimento richiesto. Qualora il pubblico ministero reiterasse la richiesta di provvedimento al giudice dichiaratosi incompetente, la situazione di stallo andrebbe risolta alla luce della disciplina dei conflitti analoghi. Successivamente all'esercizio dell'azione penale, le fasi processuali sono caratterizzate dalla piena giurisdizionalità e il giudice, che a questo punto è l'organo procedente, è tenuto a dichiarare con sentenza la propria incompetenza. Nelle fasi successive alla chiusura delle indagini preliminari (in particolare, l'udienza preliminare) e nel dibattimento, alla declaratoria di incompetenza segue la restituzione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente. La regressione alla fase delle indagini preliminari avviene anche nel dibattimento di primo grado, dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato per due volte illegittimo l'articolo 23 comma 1 nella parte in cui prevedeva la trasmissione degli atti al giudice ritenuto competente, anziché la restituzione al pubblico ministero. Nel corso del giudizio d'appello, la decisione negativa della competenza implica l'annullamento della decisione impugnata, e la restituzione degli atti al pubblico ministero presso il giudice di primo grado ritenuto competente, quando si tratti di incompetenza per materia in difetto, ma anche per territorio o per connessione, a patto che la questione fosse stata tempestivamente dedotta. Nel caso di incompetenza per materia in eccesso, il giudice d'appello, invece, decide il merito e non annulla la sentenza impugnata a patto che quest'ultima fosse appellabile. In caso contrario, potrebbe trovare applicazione la norma in tema di trasmissione degli atti alla Cassazione (art 568 comma 5). La Cassazione decide sulla competenza (e sulla giurisdizione) in modo vincolante nel corso del processo, salvo che risultino fatti nuovi dai quali derivi la competenza per materia di un giudice superiore o un diverso assetto della giurisdizione. In presenza di una declaratoria di incompetenza, le prove già acquisite rimangono efficaci, ma le dichiarazioni ripetibili assunte dal giudice incompetente per materia sono utilizzabili esclusivamente nell'udienza preliminare (compresi abbreviato e patteggiamento che ivi si celebrano) e per le contestazioni. Tale limite non vige nella disciplina del difetto di attribuzioni fra i due Tribunali, monocratico e collegiale. Anche le misure cautelari disposte dal giudice che si sia contestualmente o successivamente dichiarato incompetente mantengono efficacia provvisoria nei 20 giorni successivi alla trasmissione degli atti al giudice competente, il quale, entro tale termine, deve provvedere all'adozione di un nuovo provvedimento cautelare. La stessa regola vale nel caso in cui si dichiari incompetente il giudice dell'impugnazione cautelare. Le questioni di competenza possono determinare conflitti fra i diversi giudici penali ordinari mentre quelle di giurisdizione fra giudici ordinari e giudici speciali. Il conflitto sorge: • in qualsiasi stato e grado del processo quando due o più giudici contemporaneamente (in due o più procedimenti che pendono contemporaneamente in sedi diverse) prendono cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona, affermando la propria competenza o giurisdizione (conflitto positivo) • oppure quando due o più giudici rifiutano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona, sostenendo entrambi la propria incompetenza o mancanza di giurisdizione (conflitto negativo). Il conflitto negativo, in realtà, nasce quando il giudice, al quale l'organo dichiaratosi incompetente (o privo di giurisdizione) ha trasmesso gli atti, ritiene che sia invece competente (o avente giurisdizione) proprio chi si è spogliato del procedimento in suo favore. La disciplina dei conflitti non riguarda i rapporti fra giudice dell'udienza preliminare e giudice del dibattimento essendo stabilito (art 28 comma 2) che prevalga sempre la decisione di quest'ultimo (giudice del dibattimento) purché si risolva in provvedimenti previsti e consentiti dall'ordinamento. In caso contrario il conflitto rimarrebbe possibile. Nel corso delle indagini preliminari non sono ammessi conflitti positivi fondati sulla competenza per territorio derivasnte da connessione. Il conflitto è rilevato da uno dei giudici interessati mediante ordinanza con la quale vengono trasmessi alla Corte di cassazione anche gli atti partecipare al giudizio (inteso come qualsiasi decisione di merito fonadata sull'esame delle prove e compreso il giudizio abbreviato): 1. il soggetto che ha pronunciato la sentenza in un precedente grado, 2. ha emesso il provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare, 3. ha adottato il decreto penale di condanna, 4. ha disposto il giudizio immediato, 5. ha deciso sull'impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere. La Corte costituzionale ha poi stabilito che non può svolgere la funzione di giudice: • chi ha rigettato la richiesta di patteggiamento prima dell'apertura del dibattimento; • chi, in un precedente dibattimento per il medesimo fatto a carico dello stesso imputato, ha disposto la trasmissione degli atti al pubblico miistero perchè il fatto era diverso da quello contestato • chi ha rigettato la domanda di oblazione ritenendo il fatto diverso • chi, in qualità di componente del Tribunale del riesame o dell'appello, si è pronunciato sul merito di ordinanze in tema di misure cautelari personali • chi ha già valutato la responsabilità dell'imputato nel pronunciare o nel concorrere a pronunciare una precedente sentenza a carico di altri soggetti • chi ha pronunciato sentenza nei confronti dello stesso imputato per il medesimo fatto realizzato in concorso formale con quello da giudicare successivamente. L'art 34 comma 2 bis, stabilisce che chi ha svolto funzioni di giudice per le indagini preliminari non può, nel medesimo procedimento, emettere il decreto penale di condanna nè tenere l'udienza preliminare o partecipare al giudizio successivo, a meno che non si sia limitato a compiere atti che non implicano un pre-giudizio sul merito della regiudicanda, indicati tassativamente dai commi 2 ter e 2 quater dello stesso art 34: es l'assunzione dell'incidente probatorio, i permessi per i detenuti, la restituzione nel termine (ex art 175), la dichiarazione di latitanza (ai sensi dell'art 296). Il sistema delle incompatibilità, inizialmente calibrato sulla fase dibattimentale, deve ormai investire anche l'udienza preliminare. Considerata la rilevanza sistematica di questa fase (deputata ad una precisa valutazione di merito sulla consistenza dell'accusa), le decisioni che ne costituiscono l'esito devono essere annoverate tra quei giudizi idonei a pregiudicarne altri ulteriori e a essere a loro volta pregiudicati da altri anteriori, con la conseguenza che, per assicurare la protezione dell'imparzialità del giudice, l'udienza preliminare deve essere ricompresa nel raggio d'azione dell'istituto dell'incompatibilità, disciplinato dall'art 34. Si è così stabilito che non può svolgere l'udienza preliminare il giudice che: • abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza, poi annullata, nei confronti del medesimo imputato per lo stesso fatto • oppure che abbia emesso il decreto di rinvio a giudizio poi annullato • o che abbia disposto, in un precedente dibattimento per la medesima regiudicanda, la trasmissione degli atti al pubblico ministero (a norma dell'art 521 comma 2). • Sia pure con riferimento al procedimento a carico di imputati minorenni, il giudice delle leggi ha introdotto l'incompatibilità alla funzione di giudice dell'udienza preliminare di chi, in qualità di componente del Tribunale del riesame o dell'appello, si è pronunciato sul merito dell'ordinanza in tema di misure cautelari personali. Tale previsione dovrebbe ragionevolmente investire anche il procedimento a carico di imputati maggiorenni. A maggior ragione l'incompatibilità deve valere per i giudizi speciali che si radicano all'interno dell'udienza preliminare: • non può dunque pronunciarsi sulla richiesta di patteggiamento il giudice che nel medesimo procedimento, in qualità di componente del Tribunale del riesame o dell'appello, si sia già espresso sul merito dell'ordinanza in tema di misure cautelari personali • non può partecipare al giudizio abbreviato il giudice dell'udienza preliminare che abbia rigettato la richiesta di applicazione di pena concordata di cui all'art 444. Il patteggiamento potrebbe però celebrarsi anticipatamente già nella fase delle indagini preliminari, con la conseguenza che sarebbe incompatibile a tale decisione il giudice per le indagini preliminari che avesse assunto provvedimenti in tema di misure cautelari personali, tanto positivi (applicazione, modifica, sostituzione e revoca) quanto negativi (rigetto della richiesta di applicazione, modifica, sostituzione e revoca). L'incompatibilità non può invece essere determinata da atti compiuti all'interno della medesima fase, destinati a essere assorbiti nella pronuncia conclusiva: la Corte costituzionale ha enunciato il principio secondo cui l'imparzialità del giudice non può ritenersi intaccata da una valutazione, anche di merito, compiuta all'interno della medesima fase del processo, intesa quale ordinata sequenza di atti, ciascuno dei quali legittima, prepara e condiziona quello successivo; poiché, infatti, ogni provvedimento ordinatorio o istruttorio implica o può implicare una delibazione del merito, ove si dovesse ritenere altrimenti, ne deriverebbe un'assurda frammentazione del procedimento con l'attribuzione di ciascun segmento di esso ad un giudice diverso. Tale principio ha trovato attuazione soprattutto in materia di provvedimenti sulla libertà personale che, nel corso del dibattimento, sono devoluti alla cognizione dell'organo procedente. La Corte costituzionale ha precisato che non può attribuirsi alle parti la potestà di determinare (ad es mediante la presentazione di un'istanza di scarcerazione) l'incompatibilità nel corso di un giudizio del quale il giudice è già investito con la conseguenza che lo stesso giudice verrebbe spogliato di tale giudizio in ragione di un atto processuale cui è tenuto a saguito di un'istanza di parte; esito irragionevole e in contrasto con il principio del giudice naturale precostituito per legge, dovendosi perciò escludere che alla scelta processuale di una parte possa essere rimessa la permanenza della titolarità del giudizio in capo al giudice che ne è investito. Versando in una situazione di incompatibilità, il giudice deve astenersi (art 36 comma 1 lett g) e le parti hanno il potere di ricusarlo (art 37 comma 1 lett a). L'astensione si può fondare anche nelle ulteriori ragioni indicate nell'articolo 36: • in cui il giudice presenta legami con le parti, • un interesse nel procedimento • ovvero ha dato consigli o manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento stesso al di fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie • Il giudice ha inoltre il dovere di astenersi quando esistono altre gravi ragioni di convenienza. La Corte costituzionale ha chiarito che "la formula altre gravi ragioni di convenienza impone in definitiva una valutazione caso per caso e si deve, perciò, escludere che il pregiudizio, nelle ipotesi di assoggettamento dei concorrenti a procedimenti distinti davanti allo stesso giudice, sussista sempre e necessariamente, sicchè alla fattispecie plurisoggettiva del concorso di presone nel reato debba corrispondere sul piano processuale l'onere di realizzare il processo simultaneo (o cumulativo) nei confronti di tutti i concorrenti. Qualora, però, l'imparzialità sia concretamente minata, "la formulazione dell'art 36 comma 1 lett h, ha una sfera di applicazione sufficentemente ampia da comprendere anche le ipotesi in cui il pregiudizio alla terzietà del giudice derivi da funzioni esercitate in un diverso procedimento. Pertanto, se il giudice avesse già valutato nel separato procedimento la responsabilità dell'imputato che deve giudicare si ricadrebbe in una situazione di incompatibilità. La dichiarazione di astensione è presentata al presidente dell'organo giudiziario (Tribunale o Corte) al quale appartiene il magistrato. Il presidente decide con decreto de plano, senza formalità, ma è opportuno ricordare che non si tratta di una mera presa d'atto, bensì di una decisione volta a verificare la sussistenza dei presupposti dell'astensione. Se si astiene il presidente del Tribunale, decide il presidente della Corte d'appello, mentre se si astiene il presidente della Corte d'appello decide presidente della Corte di Cassazione. Pur non essendo espressamente previsto, il presidente della corte di Cassazione si astiene motu proprio. Il decreto che accoglie l'astensione dichiara se, e in quale parte, conservino efficacia gli atti precedentemente compiuti dall'astenuto. Dopo risultando irrilevante la grave situazione locale coeva alla fase procedimentale o addirittura anteriore ad essa, in quanto, in quel momento, il processo da rimettere eventualmente ad altra sede non esisteva ancora; radicati e circoscritti nella sede giudiziaria naturale, perchè se fossero diffusi su tutto il territorio nazionale lo spostamento sarebbe inefficace; non altrimenti eliminabili, nel senso che altri accorgimenti (es più rigide misure di ordine pubblico o il procedere a porte chiuse) sarebbero insufficienti; connotati dal requisito della gravità, ossia della concretezza e della obiettiva potenzialità condizionante; in grado di alterare il corretto svolgimento processuale sotto almeno uno dei tre profili in cui si specifica la previsione dell'art 45, vale a dire la sicurezza e l'incolumità pubblica, la libera determinazione delle persone che partecipano al processo, il legittimo sospetto. E' quindi chiaro che anche i motivi di legittimo sospetto possono configurarsi solo in presenza di questa grave situazione locale e come conseguenza di essa. Quanto al significato delle espressioni impiegate dall'art 45, per la giurisprudenza è netta la differenza fra libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo e legittimo sospetto. Il pregiudizio della libertà di determinazione dei partecipanti al processo è il condizionamento che questi subiscono, in quanto soggetti passivi di una vera e propria coartazione fisica o psichica che, incidendo sulla libertà morale, impone loro una determinata scelta, quella della parzialità o della non serenità, precludendone altre di segno contrario. Il legittimo sospetto è, invece, il ragionevole dubbio che la gravità della situazione locale possa portare il giudice a non essere, comunque, imparziale o sereno, dovendo intendersi per imparzialità la neutralità, la indifferenza, del giudice rispetto al risultato, rispetto all'esito del processo. La formula legittimo sospetto appare, quindi, più ampia della formula libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo, ponendo l'accento sull'effetto potenziale, cioè sul pericolo concreto che possano risultare pregiudicate l'imparzialità o la serenità del giudizio. In sintesi, i motivi di legittimo sospetto sono configurabili quando si è in presenza di una grave ed oggettiva situazione locale, idonea a giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice, inteso questo come l'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito. In entrambi i casi - legittimo sospetto e pregiudizio per la libertà di determinazione - il contesto ambientale extra giudiziario rappresenta la causa pregiudicante e solo successivamente riverbera i suoi effetti all'interno della peculiare vicenda processuale. Ciò significa che la Corte di cassazione, investita della decisione sull'istanza di rimessione, deve prima eccertare se sussista la grave situazione locale/ territoriale, prescindendo dalla dialettica processuale interna. Qualora la grave situazione locale/territoriale obbiettivamente non sussista, ciò che accade nel processo non può essere riflesso una inesistente grave situazione locale e non può, quindi, avere alcuna rilevanza ai fini della rimessione. Soltanto quando sia accertata la sussistenza della citata situazione locale potranno essere presi in considerazione i provvedimenti e i comportamenti del giudice per valutare se, per le loro caratteristiche oggettive, siano sicuramente sintomatici della mancanza di imparzialità dell'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo medesimo. Per quanto riguarda il contegno del pubblico ministero, i suoi atti, quando censurabili, possono costituire presupposto per la rimessione del processo solo nella misura in cui assurgano al rango, abnorme e patologico, di grave situazione locale in grado di pregiudicare la libera determinazione dei partecipanti al processo ovvero di dar causa a motivi di legittimo sospetto sull'imparzialità dell'ufficio giudiziario. Competente a giudicare la richiesta di rimessione del processo presentata dall'imputato o dal pubblico ministero (presso il giudice procedente o procuratore generale persso la Corte d'appello) è la Corte di cassazione. L'articolo 45 circoscrivere l'ambito applicativo della rimessione ad ogni stato e grado del processo di merito, ossia alle fasi successive all'imputazione, con esclusione delle indagini preliminari. La giurisprudenza, tuttavia, consente opportunamente che la rimessione operi non solo rispetto a quelle attività processuali riconducibili nella categoria del processo vero e proprio, ma anche in tutti i casi nei quali la legge processuale affida al giudice il compito di emettere decisioni corrispondenti all'esercizio della funzione giurisdizionale, sebbene non sia stata ancora promossa l'azione penale. Ad esempio, è stata ritenuta ammissibile la richiesta di rimessione proposta nella fase di chiusura delle indagini preliminari quando, a seguito della richiesta del pubblico ministero, il giudice è chiamato a decidere se disporre o meno l'archiviazione. Nelle more della decisione della Cassazione la sospensione del processo è oggetto dell'articolata disciplina dell'articolo 47 che tenta di scongiurare abusi dell'istituto volti alla paralisi del processo. La Cassazione decide con rito camerale dopo aver assunto, se necessario, le opportune informazioni. In caso di accoglimento, l'ordinanza viene comunicata al giudice procedente e a quello designato, mentre il processo viene trasferito al giudice avente pari competenza per materia e sede presso il capoluogo del distretto della Corte d'appello individuata sulla base dell'art 11. Il nuovo giudice designato procede alla rinnovazione degli atti compiuti anteriormente alla rimessione su una parte lo richiede e se non si tratta di atti di cui è divenuta impossibile la ripetizione. 15. Il pubblico ministero e l'azione penale (art. 50) Il pubblico ministero è la parte pubblica alla quale è affidato principalmente il compito di esercitare l'azione penale ossia di formulare al giudice la domanda sulla quale quest'ultimo dovrà pronunciarsi. Per garantire l'imparzialità e la terzietà del giudice è, infatti, indispensabile che un diverso soggetto ponga il tema che sarà oggetto di accertamento. Il dovere di definire l'ambito decisorio del giudice penale è imposto dalla Costituzione al pubblico ministero (art 112 Cost) Nel sistema processuale l'esercizio dell'azione penale corrisponde alla formulazione dell'imputazione (articolo 50) attraverso la quale il pubblico ministero cristallizza l'addebito mosso a carico dell'imputato. L'imputazione contiene il profilo soggettivo (l'individuazione dell'imputato) e quello oggettivo (dettagliata descrizione, comprese le coordinate spazio temporali) del fatto, la sua qualificazione giuridica in termini di reato e l'indicazione degli elementi accidentali (circostanze aggravanti). Una volta formulata, l'imputazione rimane tendenzialmente stabile e può essere corretta o ampliata solo con le forme garantite delle nuove contestazioni (artt 423 e 516 ss). Il promovimento dell'azione penale rappresenta lo spartiacque fra la fase delle indagini preliminari (procedimento in senso stretto) e quella processuale (udienza preliminare e dibattimento) caratterizzata dalla piena giurisdizionalità. Si può quindi affermare che l'esercizio dell'azione penale coincida con la formulazione dell'imputazione e con gli atti di instaurazione del processo, che rappresentano un numero chiuso tassativamente indicato dall'articolo 405 comma 1. I caratteri distintivi dell'azione penale sono l'obbligatorietà, le irretrattabilità, l'indivisibilità, la pubblicità e l'officialità. Si è già detto che l'art 112 Cost affida al pubblico ministero il ruolo di attore pubblico sotto forma di obbligo. L'obbligatorietà nella persecuzione penale è il portato del più generale principio di legalità e di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, ponendosi in alternativa al principio della discrezionalità e opportunità. Il pubblico ministero non può, dunque, operare scelte diverse dal rigoroso rispetto della legge che, tuttavia, impone l'esercizio dell'azione penale non in astratto, a fronte di una semplice notizia di reato, bensì in concreto, ossia quando tale notitia , all'esito delle indagini preliminari, non appaia infondata. In altri termini, limite implicito alla stessa obbligatorietà è che il processo non debba essere instaurato quando si appalesi oggettivamente superfluo: regola questa che vale tanto più nel nuovo sistema, che pone le indagini preliminari fuori dall'ambito del processo, stabilendo che, al loro esito, l'obbligo di esercitare l'azione penale sorge solo se sia stata verificata la mancanza dei presupposti che rendono doverosa l'archiviazione, che è, appunto, il non-esercizio dell'azione penale (art 50) All'esito delle indagini preliminari il pubblico ministero dovrà sciogliere l'alternativa fra esercizio dell'azione penale e richiesta di archiviazione (inazione) esclusivamente sulla base di una valutazione oggettiva della fondatezza o meno della notizia di reato. Per rendere effettivo il principio dell'obbligatorietà dell'azione occorre apprestare adeguati meccanismi di controllo anche sulla legalità dell'inazione. Il fondamento del sistema di legalità, tanto nell'azione quanto nell'inazione, è il principio di completezza, almeno tendenziale, delle indagini preliminari. La completa individuazione degli elementi e delle fonti di prova in sede elementi d'accusa, il mantenimento dell’opinio delicti già manifestata nell'elevare l'imputazione, situazioni che, valorizzando i dati reali più che quelli normativi astratti, andrebbero correttamente inquadrate nella sporting theory del processo penale statunitense. Sarebbe, comunque, fuori luogo invocare a giustificazione dell'accanimento accusatorio un canone di coerenza comportamentale nella prosecuzione dell'azione che finirebbe per confliggere con i precisi doveri imposti dalla disciplina ordinamentale. Tale canone non è invocabile, a maggior ragione, con riferimento alle imputazioni che non rientrano nel concetto di esercizio o di prosecuzione dell'azione penale. Per convincersi dell'assunto basta considerare che il pubblico ministero è abilitato dalla legge processuale a fare acquiescenza alla sentenza di primo grado, quali che siano state le sue conclusioni e quale che sia stato il contenuto della sentenza (art 570 comma 1), nonché a rinunciare all'impugnazione proposta senza dover motivare tale scelta (art 589). L'azione penale è caratterizzata anche dall'indivisibilità, nel senso che deve riguardare tutti coloro che hanno commesso il reato per cui si procede (espressione di tale principio è, ad esempio, l'art 123 c.p. in tema di estensione ex lege della querela nei confronti di tutti i concorrenti); dalla pubblicità, essendo titolare un organo pubblico che agisce nell'interesse generale della collettività alla repressione dei reati; dalla officialità, poiché il pubblico ministero, esercitando l'azione, adempie alla sua specifica funzione i cui limiti sono previsti dalla legge (ad esempio attraverso le condizioni di procedibilità). Non è invece stabilita l'esclusività in capo al pubblico ministero L'articolo 112 della Costituzione si limita a sancire il principio per cui il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale, con ciò sottintendendo che non potrebbe essere privato del relativo potere/ dovere, ma non sancisce l'esclusiva titolarità dell'azione in suo favore. Il legislatore potrebbe quindi consentire ad altri soggetti azioni penali concorrenti o sussidiarie, fermo comunque l'obbligo di agire del pubblico ministero, ampliando in tal modo la partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia. L'opzione espressa con la riforma del 1989 è stata, tuttavia, di segno opposto, avendo l'art 231 norme coord. espunto dall'ordinamento le ipotesi allora vigenti di azioni penali non esercitate dal pubblico ministero. Nell'attuale sistema processuale, l'azione penale segna il passaggio dalla fase delle indagini preliminari a quelle processuali e pienamente giurisdizionali. Si registrano, tuttavia, significativi interventi del giudice anche prima dell'esercizio dell'azione penale o dopo la formazione del giudicato, ossia in ambiti non coperti dalla domanda del pubblico ministero rivolta all'accertamento del dovere di punire. Tali interventi sono parimenti sollecitati alla giurisdizione dall'organo dell'accusa: si pensi all'adozione di misure cautelari o all'attuazione della sentenza definitiva. Sarebbe allora più corretto configurare, accanto al concetto di azione penale principale, un'azione penale cautelare e un'azione penale esecutiva che permettano di inquadrare correttamente la domanda che l'attore pubblico rivolge al giudice prima e dopo le fasi strettamente processuali. 16. La struttura degli uffici del pubblico ministero Il pubblico ministero è strutturato in una serie di uffici collegati agli organi giurisdizionali dinanzi ai quali esercitano le funzioni. • La procura della Repubblica presso il Tribunale svolge le funzioni di pubblico ministero in tutti i giudizi di primo grado: quindi non solo per i reati di competenza del Tribunale, ma anche della Corte d'assise e del giudice di pace. • Vi è poi un apposito ufficio della procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni che si occupa dei procedimenti di competenza del giudice specializzato. Nel grado d'appello le funzioni d'accusa sono svolte dalla procura generale presso la Corte d'appello. Lo stesso accade in Cassazione dove è istituita la procura generale presso la Corte di cassazione. Anche presso il giudice speciale militare esistono tre distinti uffici di procura collegati ai diversi gradi di giudizio. Nei procedimenti per i reati del Presidente della Repubblica le funzioni di pubblico ministero sono invece svolte da uno o più commissari nominati dal Parlamento dopo che è stata deliberata la messa in stato d'accusa. Gli uffici della procura della Repubblica sono strutturati al loro interno su base gerarchica, sia pure attenuata, al cui vertice si colloca il procuratore della Repubblica. La materia è specificamente disciplinata dal d lgs 106/2006, così come modificato dalla l. 269/2006. Il procuratore della Repubblica è titolare esclusivo dell'azione penale e le esercita personalmente o mediante assegnazione a uno o più magistrati dell'ufficio (aggiunti o sostituti). Con l'atto di assegnazione il procuratore può stabilire i criteri (in via generale o con riferimento al singolo procedimento) ai quali il magistrato assegnatario deve attenersi. Particolari criteri possono essere previsti per l'impiego della polizia giudiziaria e delle risorse finanziarie e tecnologiche. Se i criteri non sono rispettati o se si verifica un contrasto col procuratore, quest'ultimo può revocare l'assegnazione con provvedimento motivato. La dipendenza del delegato si attenua quando il magistrato si trova in udienza dove esercita le funzioni con piena autonomia. In tal caso, l'eventuale sostituzione può avvenire solo con il consenso dello stesso magistrato ovvero in presenza di grave impedimento, di rilevanti esigenze di servizio, o di una causa di incompatibilità determinata dall'interesse nel procedimento. In quest'ultima eventualità, se il procuratore non provvede, interviene il procuratore generale presso la Corte d'appello (avocazione) nominando un magistrato appartenente al suo ufficio. Lo stesso accade nel corso delle indagini (art 372 comma 1 lett a e b. Il rapporto gerarchico si palesa anche nella richiesta delle misure cautelari (personali e reali) che deve essere previamente assentita per iscritto dal procuratore, così come l'adozione di un provvedimento di fermo. L'assenso scritto non è previsto quando la misura è richiesta in occasione della convalida dell'arresto, del fermo o del sequestro preventivo d'urgenza. La giurisprudenza ha comunque stabilito che l'ammissibilità della richiesta di applicazione di misure cautelari personali, presentata dal magistrato assegnatario del procedimento, non implica l'assenso scritto del procuratore della Repubblica, che, pertanto, non è condizione di validità della conseguente ordinanza cautelare del giudice. Di conseguenza, la mancanza dell'assenso scritto rileva solo sul piano disciplinare e non incide sulla validità dell'atto processuale. Il d. lgs 106/2006 ha regolamentato anche i rapporti con gli organi di informazione che sono mantenuti personalmente dal procuratore oppure tramite un magistrato appositamente delegato. Ogni notizia dovrebbe essere attribuita all'ufficio impersonalmente senza riferimento agli assegnatari, ma si tratta di una previsione regolarmente disattesa. Ai singoli magistrati è fatto divieto di rendere dichiarazioni o di fornire informazioni sull'attività in corso ed eventuali violazioni di tale precetto devono essere segnalate dal procuratore al consiglio giudiziario per avvalersi del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, il cui esercizio è prerogativa del Ministro della giustizia e del procuratore generale presso la Cassazione. La gerarchia attenuata presente all'interno delle procure non trova corrispondenza nei rapporti fra i diversi uffici. • La procura generale presso la Cassazione interviene solo per risolvere i contrasti positivi o negativi fra procure collocate in diversi distretti di Corte d'appello. • La procura generale presso la Corte d'appello mantiene una funzione di vigilanza che si manifesta nel potere di assumere dati e informazioni per verificare il corretto e uniforme esercizio dell'azione penale, il rispetto delle norme sul giusto processo e l'organizzazione interna. • Ben più penetranti sono i potere di risoluzione dei contrasti fra procure appartenenti al distretto e, soprattutto, quelli di avocazione del procedimento, nei casi tassativamente previsti dal codice, che consentono all'organo superiore di sostituirsi a quello inferiore. • Nonostante il potere di avocazione, i rapporti fra procura generale presso la Corte d'appello e procura presso il Tribunale non possono essere considerati di tipo gerarchico. Quando si procede per: • delitti di criminalità organizzata • per delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo • per delitti di pedopornografia autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale. Il discrimine fra polizia di sicurezza e giudiziaria è dunque rappresentato dalla notizia di reato. Tutto ciò che avviene in occasione dell'acquisizione della notitia criminis e nei momenti successivi riguarda il procedimento penale e la funzione di polizia giudiziaria, mentre le attività precedenti sono di carattere amministrativo e le forze di polizia (di sicurezza e di prevenzione) non godono dei poteri coercitivi tipici della funzione giudiziaria. Gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria hanno una duplice dipendenza: • organica dal corpo di polizia di appartenenza • funzionale dal pubblico ministero che dirige e coordina l'attività di indagine. • La dipendenza funzionale è più stretta per gli appartenenti alle sezioni di polizia giudiziaria che sono istituite presso le procure della Repubblica, hanno composizione interforze, provenendo gli ufficiali e gli agenti dai Carabinieri, dalla Polizia di Stato e dalla Guardia di Finanza, e si occupano esclusivamente dell'attività investigativa alle dipendenze del procuratore. • Meno stringente è la dipendenza dei servizi di polizia giudiziaria che sono invece incardinati presso i corpi di appartenenza e si rapportano al pubblico ministero tramite il loro dirigente. • Ancor più labile è il rapporto con gli altri uffici di polizia giudiziaria e con tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine che, in seguito alla notizia di reato, assumono le funzioni di polizia giudiziaria. • Anche questi ultimi sono però tenuti ad eseguire i compiti affidati dal pubblico ministero, così che non viene mai meno la subordinazione funzionale della polizia giudiziaria all'organo inquirente. Per qunato riguarda le indagini di criminalità organizzata, la funzione di polizia giudiziaria è svolta da un organo centrale interforze denominato direzione investigativa antimafia, posto sotto la sorveglianza del procuratore nazionale antimafia e operativo nelle indagini condotte dalle direzioni distrettuali antimafia. È agevole rilevare l'ambiguità di fondo di una funzione, quella di polizia giudiziaria, ancillare rispetto al potere giudiziario, ma non affidata a un organismo a sé, dipendente dalla magistratura, bensì distribuita in capo a tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine, come tali organicamente dipendenti dal potere esecutivo. Ambiguità foriera di potenziali sovrapposizioni fra poteri dello Stato e capace di incidere profondamente nel rispetto di altri principi costituzionali: si pensi ad esempio alla concreta eventualità che la polizia giudiziaria funga da filtro per le notizie di reato che raccoglie e che dovrebbe poi trasmettere al pubblico ministero, con sostanziale elusione del principio di obbligatorietà nell'azione penale e di legalità processuale. La scelta di compromesso, con tutti gli accennati risvolti negativi, va fatta risalire alla stessa formulazione dell'articolo 109 della Costituzione. Come dimostrano i lavori preparatori della Costituzione, si è registrata una precisa volontà politica di mantenere il doppio vincolo di dipendenza, organica dall'esecutivo e funzionale dalla magistratura. In quel dibattito si sono levate autorevoli voci favorevoli alla piena dipendenza della polizia giudiziaria dalla magistratura, al punto che, anche allora, si doveva constatare come l'autorità giudiziaria spessissimo si trovasse in condizioni di assoluta impotenza di fronte agli organi di polizia. L'Assemblea costituente approvò, così, un emendamento inteso a sostituire l'inciso "dipende direttamente" con quello "dispone direttamente", ricordando che "dire dipende non è solo stabilire una dipendenza funzionale, ma anche gerarchica", invece, con il termine dispone "vi è la dipendenza funzionale ma non la dipendenza gerarchica". 19. L’imputato parte necessaria e fonte di prova Alla distinzione fra procedimento (in senso stretto) e processo, corrisponde quella fra indagato e imputato, ossia fra la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini preliminari e il soggetto a carico del quale è stata formulata l'imputazione. La qualità di imputato, acquisita con l'esercizio dell'azione penale, viene conservata fino a che il processo non si chiuda con una sentenza definitiva e la si riacquista nel caso in cui il processo si riapra in seguito a revisione o a revoca della sentenza di non luogo a procedere (art 60). Anche la morte dell'imputato ne determina la perdita dello status, dovendo essere immediatamente pronunciata sentenza con cui si dichiara estinto il reato. Tale pronuncia, tuttavia, non preclude un nuovo esercizio dell'azione penale per il medesimo fatto a carico della stessa persona qualora si accerti successivamente che la morte dell'imputato era stata dichiarata erroneamente (art 69). La dicotomia indagato/imputato non assume particolare rilevanza sotto il profilo dei diritti fondamentali riconosciuti indistintamente al soggetto nei confronti del quale si procede. Di ciò prende atto l'articolo 61 comma 1, nel riconoscere espressamente che i diritti e le garanzie dell'imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini. In questa sede si impiegherà indifferentemente il termine imputato anche per far riferimento all'indagato. L'imputato, al pari del pubblico ministero, è protagonista del contraddittorio processuale. La contesa ad armi pari che si svolge dinanzi al giudice non può prescindere dalle due parti necessarie: accusa e difesa. Il participio "imputato" potrebbe far pensare ad una posizione passiva, quella di chi subisce l'imputazione, mentre il termine difesa rende meglio l'idea della contrapposizione all'accusa sostenuta dal pubblico ministero. La figura dell'imputato è dunque inscindibilmente connessa ai diritti fondamentali che in ragione del suo status gli sono riconosciuti, primo fra tutti il diritto di difesa. Il terreno d'elezione per l'esercizio dei diritti difensivi è rappresentato dall'eventualità che l'imputato diventa fonte di prova nel suo processo. La ricostruzione fattuale operata in giudizio ruota da sempre attorno all'esigenza di raccogliere il contributo conoscitivo dell'accusato. La procedura di stampo inquisitorio colloca al centro dell'attività istruttoria l'imputato, il quale, colpevole o innocente che sia, viene considerato il depositario di una verità da ottenere a qualunque costo. Non vi sono garanzie per chi deve raccontare tutto ciò che si presume sia a sua conoscenza e, ogni strumento, dalle pressioni psicologiche alla tortura fisica trova una precisa giustificazione nel fine superiore della ricerca di un'illusoria verità materiale. Il processo è ridotto alla contesa tra accusatore-giudice e inquisito, con un esito peraltro scontato in favore delle tesi del primo. E ciò grazie all'ingresso sulla scena giudiziaria della tortura. Completamente diverso è il clima che si respira nei processi modellati sui canoni accusatori. Giudice e inquisitore sono soggetti distinti; la colpevolezza deve essere dimostrata, al di là di ogni ragionevole dubbio, sulla base di elementi addotti dall'organo dell'accusa. Cambia, in particolare, la considerazione dell'imputato: non più solo potenziale fonte di prova, ma titolare di precisi diritti e garanzie, tra cui spicca la facoltà di non collaborare in alcun modo alla propria condanna. Il rifiuto della tortura e il riconoscimento del carattere contro natura delle dichiarazioni confessorie divengono patrimonio comune della cultura garantista che troverà formale consacrazione solo nel XX secolo, in coincidenza con l'adozione delle Carte Internazionali dei diritti dell'uomo. Anche il nostro sistema processuale, pur ispirato alla tradizione accusatoria, non ha rinunciato alla possibilità che sia l'imputato stesso a fornire elementi conoscitivi utili alla ricostruzione fattuale. Il retaggio storico e la valorizzazione in chiave autodifensiva dell'istituto, hanno indotto il legislatore repubblicano a confermare la scelta dell'interrogatorio quale strumento d'elezione per l'acquisizione processuale del contributo narrativo dell'accusato. Non si tratta, però, dell'unico istituto rivolto a tale finalità. Accanto all'interrogatorio, che si colloca temporalmente nelle fasi delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare, è stato, infatti, disciplinato l'esame dibattimentale, direttamente influenzato dalle diverse regole di acquisizione probatoria che governano il giudizio di primo grado. La disciplina dell'interrogatorio, non a caso collocata nel Titolo IV del Libro I, costituisce perciò il miglior punto di osservazione per condurre l'analisi dei diritti fondamentali dell'imputato. 20. L’interrogatorio e i diritti fondamentali: la libertà morale Le regole generali per lo svolgimento dell'interrogatorio sono concentrate negli articoli 64 e 65. Il legislatore si è preoccupato, anzitutto, di ricordare che la persona sottoposta alle indagini, anche se soggetta a provvedimento Si pensi all'interrogatorio detto di terzo grado, costituito dal complesso di pratiche violente e brutali dirette a ottenere confessioni o rivelazioni attraverso il disfacimento o la dissociazione dell'equilibrio psichico, con l'accortezza di impiegare mezzi di natura tale da non lasciare traccia sul corpo dell'interrogato, ovvero all'interrogatorio stringente, espressione pur sempre di un metodo coercitivo, sicuramente meno violento, consistente nel proseguire l'interrogatorio per molte ore del giorno e anche di notte, mediante l'alternarsi di diversi interroganti, oppure nel cominciare l'interrogatorio di sera, quando l'interrogando è stanco, magari svegliandolo bruscamente e a più riprese durante il riposo notturno. 21. Segue. Il diritto di autodifesa, la presunzione d'innocenza e il nemo tenetur se detegere Nel rapporto che si instaura fra autorità procedente e interrogato trova la massima espressione il diritto costituzionale di difesa che caratterizza la posizione stessa dell'imputato all'interno del processo penale. Alla persona interrogata è consentito avvalersi del diritto di autodifesa che va considerato come una incoercibile manifestazione dell'istinto di libertà e, in quanto tale, non assoggettabile a vincoli giuridico-morali, trovando al contrario pieno riconoscimento il principio generale nemo tenetur se detegere traducibile con l'affermazione per cui nessuno può essere costretto ad autoaccusarsi. L'autodifesa può ulteriormente distinguersi sia in quell'aspetto attivo rappresentato dalla facoltà per l'imputato di interloquire nel processo per discolparsi, sia in un profilo passivo inteso come facoltà di difendersi tacendo o come facoltà di non fornire elementi in proprio danno. Il contegno non collaborativo dell'interrogato non è però solo il corollario del diritto fondamentale di autodifesa, fondandosi con altrettanta robustezza, sulla presunzione costituzionale di innocenza (articolo 27 comma 2 Cost.). E ciò per un duplice ordine di ragioni: • In primo luogo, la presunzione d'innocenza opera quale regola di giudizio e di distribuzione dell'onere probatorio in capo alle parti. Nell'imporre all'accusa l'onere della prova, nel senso che il pubblico ministero è tenuto a dimostrare tutti gli elementi della fattispecie al di là di ogni ragionevole dubbio, esclude la sussistenza, sotto qualsiasi forma, di un onere di difesa. L'imputato ha così la più ampia libertà di scegliere se fornire o meno prove a discarico, se cercare di confutare l'addebito o invece limitarsi alla negativa e la scelta dipenderà dalla concreta situazione processuale e dall'entià delle prove a carico. Si può, quindi, correttamente parlare di onere della prova, con conseguente rischio della mancata prova, anche quando, come nel nostro processo, sono previsti interventi d'ufficio del giudice volti all'assunzione delle prove (es art 507). Si tratta di un onere imperfetto, dal cui mancato assolvimento non deriva automaticamente la soccombenza, posto che l'inerzia o l'incapacità dell'organo dell'accusa potrebbe essere compensata dai poteri istruttori ex officio del giudice; e se l'imputazione rimanesse sprovvista di adeguato supporto probatorio, il pubblico ministero correrebbe il rischio dell'assoluzione dell'imputato. • In secondo luogo, il precetto costituzionale, quale regola di trattamento, impone di guardare all'indagato come un presunto non colpevole e, cioè, come alla persona meno informata dei fatti oggetto di imputazione. Sarebbe inammissibile pretendere da tale soggetto un contributo conoscitivo in ordine a circostanze che si devono ritenere da lui non conosciute, in quanto, appunto, presunto innocente. L'unica soluzione rispettosa della presunzione di non colpevolezza è, dunque, quella di escludere ogni obbligo di collaborazione a carico dell'interrogato e di vietare all'autorità procedente di coltivare anche solo un'aspettativa di collaborazione. La regola di trattamento imposta dalla presunzione d'innocenza trova applicazione soprattutto sul terreno delle misure restrittive della libertà personale che devono essere previste solo per il soddisfacimento di esigenze processuali e non possono essere adottate per finalità di anticipazione della pena. L'autodifesa passiva può articolarsi secondo distinte modalità. Sulla scorta di quanto avviene negli ordinamenti di common law, si possono ricavare diverse facoltà: • quella di non autoincriminarsi • quella di rimanere in silenzio di fronte alle singole domande • o di rifiutare complessivamente il dialogo • e quella di non essere interrogato dal giudice o dalle parti. Sebbene queste facoltà siano tutte espressione del diritto fondamentale di autodifesa, quasi ma risultano sincronicamente esercitabili da parte dell'inquisito e il carattere diacronico delle garanzie è accentuato dalla circostanza che la disciplina codicistica articola diversamente la scelta del silenzio in funzione della fase in cui si trova il procedimento. Per quanto riguarda le indagini preliminari, a fronte dell'iniziativa del pubblico ministero, l'indagato ha solo la possibilità di non rispondere alle singole domande, ovvero di trincerarsi dietro un silenzio totale che sfocia nel rifiuto complessivo del dialogo con l'interrogante. L'inquisito, pur potendo vanificare l'utilità probatoria dell'interrogatorio attraverso la recusatio respondendi integrale, non può invece avvalersi della più ampia facoltà di impedire lo stesso instaurarsi dell'atto processuale deciso dall'autorità procedente. Quest'ultima facoltà è invece riconosciuta in sede di esame dibattimentale alla cui assunzione si procede solo per scelta dell'imputato. Una considerazione a parte merita la facoltà di non autoincriminarsi. A chiunque non rivesta la qualità di indagato o di imputato, in occasione del compimento di un atto processuale, è riconosciuta la garanzia di non essere costretto a fornire risposte che potrebbero aprire la via alla propria incriminazione. Trattandosi di una previsione di ordine generale, sul piano teorico è chiaro che la stessa garanzia spetti pure alla persona già sottoposta a procedimento penale quando le domande rivoltegli vertano su addebiti ulteriori ripetto a quelli contestati. L'articolo 63 comma 1 amplia la garanzia contro le autoincriminazioni, prevedendo che, quando dinanzi all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata o non indagata - e quindi non solo chi abbia assunto la veste formale di testimone, ma anche, ad esempio, le persone informate sui fatti - renda dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l'autorità procedente ne debba interrompere l'esame, avvertendo che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini. Le dichiarazioni indizianti precedenti l'avvertimento non possono essere utilizzate a carico di chi le ha rese. Il comma 2 dell'articolo 63 rende inutilizzabili erga omes, quindi anche nei confronti dei terzi, le dichiarazioni rilasciate da chi fin dall'inizio doveva essere sentito in qualità di imputato o indagato. Secondo la giurisprudenza, tale inutilizzabilità estesa erga omnes presuppone che le dichiarazioni provengano da soggetto a carico del quale già sussistevano indizi in ordine al medesimo reato ovvero a reato connesso o collegato con quello attribuito al terzo, per cui tali dichiarazioni egli avrebbe avuto il diritto di non rendere se fosse stato sentito come indagato o imputato; restano invece al di fuori della sanzione di inutilizzabilità comminata dal comma 2 dell'art 63 le dichiarazioni riguardanti persone coinvolte dal dichiarante in reati diversi, non connessi o collegati con quello o quelli in ordine ai quali esistevano fin dall'inizio indizi a suo carico, poiché rispetto a questi egli si trova in una posizione di estraneità ed assume la veste di testimone; restano escluse, altresì, dalla sanzione di inutilizzabilità, alla stregua della ratio della disposizione, ispirata alla tutela del diritto di difesa, le dichiarazioni favorevoli al soggetto che le ha rese ed a terzi, chiunque essi siano, non essendovi ragione alcuna di escludere dal materiale probatorio elementi che con quel diritto non collidono. La determinazione della veste del dichiarante, da cui dipende l'operatività delle garanzie sancite dall'art 63, spetta al giudice il quale ha il potere di verificare in termini sostanziali, e quindi al di là del riscontro di indici formali, come l'eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato, l’attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni vengano rese. Per giungere alla declaratoria di inutilizzabilità ex art 63 comma 2, occorre, tuttavia, dimostrare che a carico dell'interessato erano già acquisiti, prima dell'escussione, indizi non equivoci di reità, come tali conosciuti dall'autorità procedente, non rilevando a tale proposito eventuali sospetti o intuizioni personali dell'interrogante. Sul versante attivo dell'autodifesa, una delle più rilevanti manifestazioni è costituita dalla facoltà offerta all'inquisito di fornire il proprio Il punto di emersione di questa tematica è rappresentato dai delitti di calunnia e di autocalunnia integrati dalle menzogne dell'interrogato. Sulla punibilità di tali comportamenti si scontrano, da un lato, il diritto di (auto)difesa e, dall'altro, l'interesse, sempre costituzionalmente protetto, al celere e corretto svolgimento della giurisdizione penale, nonchè quello di eventuali terzi coinvolti a non vedere offesa la propria onorabilità e innocenza. Tenendo conto del fatto che il diritto di difesa è un diritto fondamentale, espressamente definito inviolabile dall'art 24 comma 2 Cost, e che quindi occupa una posizione di assoluto rilievo nella gerarchia dei valori costituzionalmente tutelati, dal necessario bilanciamento di interessi sembra risultare prevalente quello al mendacio difensivo. Si può tranquillamente ipotizzare un'apprezzabile utilità difensiva per l'interrogato sia dell'autocalunnia, quando la confessione di un reato non commesso serva a simulare un alibi utile per difendersi da altre accuse più gravi, sia della calunnia, quando la falsa dichiarazione che ne rappresenta l'elemento materiale sia inscindibilmente collegata alla negazione dei fatti addebitati (es testimoni d'accusa tacciati di falsità). In simili eventualità, il contegno mendace dovrebbe essere scriminato dalla prevalenza del diritto di difesa. Il problema dei limiti esterni finisce, quindi, per ripiegarsi su quello dei limiti interni: le condotte astrattamente punibili devono considerarsi scriminate nella misura in cui, in concreto, perseguano un'apprezzabile finalità difensiva, prevalente sugli altri interessi costituzionalmente protetti. 22. La disciplina dell'interrogatorio: i preliminari (art 66) La disciplina dell'interrogatorio non contempla più la formale distinzione fra preliminari e merito che invece caratterizzava il corrispondente istituto del codice previgente, anche se la tradizionale bipartizione mantiene ancora oggi efficacia sotto il profilo descrittivo. Qualora l'interrogatorio sia il primo atto del procedimento al quale partecipa l'indagato, i preliminari si aprono necessariamente, secondo quanto previsto dall'articolo 66 comma 1, con l'invito rivolto al prevenuto dall'autorità procedente a dichiarare le proprie generalità e quant'altro può valere a identificarlo, ammonendolo circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false. Le informazioni ulteriori rispetto alle strette generalità sono tassativamente indicate all'articolo 21 disp. att. laddove si prevede che all'interrogato vada anche chiesto se ha un soprannome o uno pseudonimo, se ha beni patrimoniali e quali sono le sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale, se è sottoposto ad altri processi penali, se ha riportato condanne in Italia o all'estero e, quando ne è il caso, esercita o ha esercitato uffici o servizi pubblici o servizi di pubblica necessità e se ricopre o ha ricoperto cariche pubbliche. Il contenuto di tali domande evidenzia la caratterizzazione dell'interrogatorio anche come mezzo di identificazione. Dalla disciplina codicistica dell'attività di identificazione sembra emergere la precisa volontà di imporre all'interrogato l'obbligo di cooperare in questo frangente con l'autorità procedente, sul presupposto che le dichiarazioni concernenti le generalità non implicherebbero l'esercizio di un diritto di difesa. Del resto è proprio questo il significato attribuibile alla disposizione contenuta nell'art 66 comma 1, dove è prevista l'ammonizione circa le conseguenze penali delle false dichiarazioni sulla propria identità. Rimangono, però, serie perplessità che sconsigliano di aderira acriticamente alla regolamentazione legislativa. Anche tenendo ben distinte le tisposte concernenti le strette generalità (nome, cognome, data e luogo di nascita), da quelle riguardanti le altre informazioni utili all'identificazione, non si può escludere che in alcuni casi il mendacio o anche il silenzio già sulle strette generalità possano concretamente assumere una precisa rilevanza difensiva. È quindi preferibile ritenere che l'imputato, pur dovendo in linea di massima fornire un'attestazione veritiera circa i propri stretti indici di identificazione, possa anche impunemente astenersi dal farlo ovvero mentire qualora tali contegni risultino direttamente funzionali all'esercizio del diritto di difesa e perciò scriminanti ai sensi dell'art 51 c.p.. A maggior ragione, la possibilità di tacere o di mentire deve essere riconosciuta rispetto a tutte le ulteriori domande indicate nell'articolo 21 disp. att., vertendo su argomenti che, per un verso, non contribuiscono direttamente all'identificazione in senso stretto, mentre, per altro verso, sono facilmente riconducibili ai fatti oggetto di addebito o comunque potenzialmente pregiudizievoli per la posizione processuale dell'interrogato, come, ad esempio, nel caso delle domande riguardanti i precedenti penali. Comunque, va detto che l'autorità procedente ha a disposizione tutti gli strumenti per verificare autonomamente i precedenti penali e i procedimenti pendenti (art 66 bis) senza dover dipendere dalle eventuali risposte dell'imputato che potrebbe anche non essere al corrente del quadro aggiornato della sua situazione. Da questa impostazione dovrebbe discendere, sul piano procedurale, la necessità di far precedere le domande riguardanti l'identificazione dall'avvertimento della facoltà di non rispondere che, dunque, diverrebbe in assoluto il primo incombente dell'interrogatorio. Tuttavia, proprio l'articolo 64 comma 3, lett b, sembra escludere espressamente dalla sfera di operatività della facoltà di rimanere in silenzio le risposte riguardanti l'identificazione alle quali potrebbe tuttavia corrispondere un preciso interesse difensivo a non fornirle o a mentire. Un punto di equilibrio fra la tutela dell'autodifesa passiva e l'esigenza processuale di identificare correttamente il soggetto nei cui confronti si procede potrebbe essere raggiunto accettando pragmaticamente che l'avviso circa la facoltà di non rispondere venga posticipato al momento che precede le domande indicate dall'articolo 21. Quanto detto finora riguarda la verifica dell'identità anagrafica dell'imputato, ossia l'attribuzione alla persona fisica sottoposta a procedimento delle esatte generalità. Tale attività non è comunque indispensabile per lo sviluppo del procedimento, essendo sufficiente che la persona nei cui confronti si procede sia esattamente individuata nel capo d'imputazione (identità fisica) a prescindere quindi dalla correttezza o meno dell'identità anagrafica. L'identità fisica può essere accertata, ad esempio, mediante le impronte digitali, il test del DNA, la descrizione offerta da un testimone oculare. L'eventuale errore nell'attribuzione delle generalità viene rettificato mediante la procedura ex art 130 (art 66 comma3), e nelle indagini preliminari, con un provvedimento del pubblico ministero. L'errore di persona (errore sull'identità fisica, art 68), invece, si compie quando il procedimento è rivolto nei confronti di un soggetto diverso da quello individuato nell'imputazione. Al vero imputato viene sostituita una persona diversa. In una simile evenienza, l'errore sull'identità fisica dell'imputato integra una causa di improcedibilità, ossia una causa ostativa alla decisione di merito, che va dichiarata in ogni stato e grado del processo ai sensi dell'art 129. L'imputato apparente non viene dunque prosciolto nel merito, non essendo lui l’effettivo destinatario dell'azione penale, ma solo estromesso dal processo. Nel corso delle indagini preliminari, sarà il pubblico ministero a richiedere l'archiviazione del procedimento svolto per errore di persona, senza peraltro che vi sia la possibilità di distinguere nella formula di archiviazione trasmissione di merito e questione di rito. L'esatta identità anagrafica è invece rilevante quando si tratti di stabilire se l'imputato, al momento della commissione del fatto, fosse minorenne. Da ciò dipende, infatti, la competenza del giudice specializzato per i minorenni. In caso di incertezza, gli atti devono essere trasmessi al procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni (art 67). I preliminari dell'interrogatorio si completano con la nomina di un difensore di fiducia e, in caso negativo, con il compimento da parte dell'autorità procedente delle attività necessarie per assicurare l'assistenza da parte di un difensore d'ufficio. L'ultimo atto della scansione dei preliminari è rappresentato dall'invito rivolto all'indagato affinché dichiari uno dei luoghi indicati nell'articolo 157 comma 1, ovvero elegga domicilio per le notificazioni, accompagnato dall'avvertimento di cui all'articolo 161 comma 1. Volendo porre in ordine cronologico tutte le attività preliminari dell'interrogatorio, si può ipotizzare il succedersi: 1. dell'identificazione - limitatamente alle strette generalità e salva comunque la possibilità per l'indagato di esercitare il diritto di autodifesa -, 2. della nomina del difensore 3. e della indicazione del domicilio ai fini delle notificazioni 4. una volta concluse queste incombenze, e prima di procedere all'eventuale assunzione delle ulteriori notizie previste dall'art 21 decidere istintivamente di far presente al pubblico ministero la sua intenzione di avvalersi integralmente della facoltà di non rispondere, rfiutando così, in toto, l'interrogatorio. L'indagato potrebbe, inoltre, giustificare tale scelta, spiegando i motivi che lo spingono a rifiutare il dialogo con l'autorità procedente. In questa ipotesi ci si troverebbe di fronte a dichiarazioni spontanee precedenti l'interrogatorio, come tali da verbalizzare e utilizzare quale eventuale elemento di prova (es imputato che, accusato di reati di terrorismo, si dichiari prigioniero politico). Gli avvertimenti disciplinati dall'articolo 64 comma 3 lett a e b, non contengono alcun riferimento alla facoltà di mentire o, quanto meno, all'assenza di un dovere di verità in capo all'imputato che scelga di rispondere alle domande. La facoltà di mentire rappresenta un aspetto rilevante del diritto di autodifesa attiva. Trattandosi, dunque, di una prerogativa che, al pari della facoltà di non rispondere, caratterizza la posizione dell'indagato nei confronti dell'autorità procedente, non si comprende il motivo per cui anche la recente revisione normativa dell'articolo 64 abbia ignorato l'esigenza di completare il quadro informativo delle facoltà esercitabili in sede di interrogatorio. 24. Segue. Le conseguenze dell'omesso o insufficiente avvertimento della facoltà di non rispondere L'avvertimento della facoltà di non rispondere è sempre stato oggetto di interpretazioni giurisprudenziali dirette a limitarne la portata garantistica. All'introduzione nel nostro ordinamento dell'obbligo di tale avvertimento (1969) non è seguito il necessario adeguamento dei costumi giudiziari. La magistratura si è subito mostrata poco incline ad adempiere ai nuovi doveri e ha quindi elaborato un indirizzo giurisprudenziale, divenuto col tempo nettamente prevalente, diretto a ricondurre nell'ambito della mera irregolarità l'omissione dell'avvertimento della facoltà di non rispondere. Il ragionamento posto a base di questa interpretazione riduttiva appare ancor oggi poco condivibile: poichè all'imputato è nota la facoltà riconosciutagli dalla legge di astenersi dal rispondere alle domande rivoltegli durante l'interrogatorio, egli può avvalersi di tale facoltà indipendentemente dall'avvertimento del giudice, la cui omissione, pertanto, costituisce, in'irregolarità formale non colpita da sanzione di nullità. La dottrina, invece, ha giustamente fatto notare che, proprio partendo da una nozione di intervento non limitata alla mera presenza fisica dell'interrogato, ma estesa alla possibilità concreta di esercitare consapevolmente e liberamente i diritti e le facoltà previste dalla legge, era consequenziale ritenere l'omesso avviso della facoltà di non rispondere direttamente incidente sull'intervento e dunque integrante una nullità intermedia. Con l'attuale codice di rito si auspicava l'abbandono delle passate deviazioni giurisprudenziali, ma la Cassazione ha disatteso ogni aspettativa, ribadendo immutato il proprio orientamento secondo cui l'omissione dell'avvertimento della facoltà di non rispondere alla persona sottoposta all'interrogatorio non costituisce causa di nullità. E ciò sia perchè l'art 64 comma 3 non prescrive che l'inosservanza della disposizione causi una nullità, sia perchè la predetta inosservanza non rientra neppure nelle nullità di ordine generale di cui all'art 178, non riguardando l'intervento, l'aasistenza e la rappresentanza dell'imputato. Per superare le resistenze giurisprudenziali, la riforma del 2001, in tema di attuazine dei principi del giusto processo (L. n° 63/01), ha stabilito espressamente che l'inosservanza delle disposizioni di cui all'art 64 comma 3 lett a e b, rende inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona interrogata. La codificazione dell'inutilizzabilità lascia, però, risolti molti problemi interpretativi. In primo luogo, la dizione impiegata dall'art 64 comma 3 bis, sembra imporre l'inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni rese dall'interrogato, sia dal punto di vista soggettivo sia da quello oggettivo. Tali dichiarazioni sarebbero, allora, da ritenersi inutilizzabili nei confronti di chiunque, per qualunque tipo di decisione e a prescindere dal loro tenore, quindi anche nel caso in cui fossero di segno favorevole al dichiarante. Del resto, quando il legislatore ha inteso limitare l'inutilizzabilità all'impiego delle dichiarazioni in malam parte (sfavorevoli all'interrogato) lo ha detto espressamente come, ad esempio, nel caso dell'art 63 comma 1. Tuttavia, questa forma assoluta di inutilizzabilità porta con sè aspetti di rigidità eccessivi che rischiano di ritorcesi contro l'interesse dello stesso indagato e che segnano una netta involuzione rispetto al passato. Occorre ricordare, infatti, che prima della riforma, qualora le dichiarazioni raccolte fossero risultate favorevoli all'interrogato, si sarebbe potuta ritenere sanata ex art 183 comma 1 lett a, l'eventuale nullità intermedia derivante dall'omesso avvertimento circa la facoltà di non rispondere. Per evitare queste conseguenze bisognerebbe riuscire a dimostrare, sul piano interpretativo, che l'inutilizzabilità circoscritta in malam partem dall'art 63 comma 1 funga da regola generale estensibile anche a diverse ipotesi di invalidità, come quella che si ricava dalla violazione dell'art 64 comma 3 lett a e b. Una questione non dissimile, che chiama in causa sia l'estensione oggettiva sia quella soggettiva dell'inutilizzabilità, potrebbe porsi a fronte di dichiarazioni dell'indagato impiegabili nel processo in favore di altri soggetti, ma non precedute dagli avvertimenti in esame. Ancora una volta, per superare la portata apparentemente assoluta dell'inutilizzabilità, sarebbe necessario fare ricorso all'interpretazione analogica dell'art 63. 25. Segue. L’avvertimento circa i possibili obblighi testimoniali sul fatto altrui L'ultimo degli avvertimenti che devono essere rivolti all'interrogato costituisce la più rilevante novità introdotta in materia dalla L. 63/01. Ai sensi dell'art 64 comma 3 lett c, l'indagato viene informato che eventuali risposte su fatti concernenti la responsabilità altrui potranno avere per lui come conseguenza l'assunzione del dovere testimoniale rispetto a tali fatti. L'avvertimento in parola è, dunque, funzionale alla possibile trasformazione dell'imputato in testimone sul fatto altrui. L'attuale regolamentazione fa dipendere l'assunzione dello status testimoniale dal contegno serbato dinanzi alle domande dell'autorità procedente. Considerato che tale riforma viene a limitare notevolmente le prerogative autodifensive dell'imputato quando questi decida di parlare sul fatto altrui, era inevitabile che un passaggio così netto e delicato fra la qualifica di accusato, che può sempre avvalersi della facoltà di non rispondere o di mentire, e quella di testimone, che, invece, ha l'obbligo di rispondere secondo verità, salvo quanto previsto dagli art 197 bis comma 4 e 198 comma 2, dovesse necessariamente essere preceduto da un avvertimento formale che rendesse consapevole l'interessato della gravità delle conseguenze collegate legislativamente alla scelta di rendere dichiarazioni riferibili alla responsabilità di altri. Il meccanismo delineato dall'articolo 64 comma 3 lett c, non opera nel caso in cui le dichiarazioni si riferiscano alla responsabilità di futuri o attuali coimputati del medesimo reato nello stesso procedimento o in procedimenti connessi. L'interrogato non potrà perciò assumere la qualifica di testimone quando le sue dichiarazioni, pur riferibili anche alla responsabilità altrui, riguardino però: • gli stessi fatti che gli vengono addebitati a titolo di concorso nel medesimo reato, • cooperazione nel delitto colposo • o determinazione dell'evento mediante condotte indipendenti. In tutti questi casi, essendo inscindibili le dichiarazioni sul fatto proprio da quelle sul fatto altrui, poiché tutti i protagonisti sono chiamati a rispondere del medesimo reato, si è preferito dare la precedenza alle garanzie tipiche dello status di imputato. Tale incompatibilità alla testimonianza assistita cade solo, entro i limiti dettati dall'art 197 bis commi 1 e 4, quando il dichiarante, ormai non più tecnicamente imputato, sia già stato prosciolto o condannato con sentenza irrevocabile, compresa quella di applicazione della pena su richiesta. La sfera di operatività delle conseguenze descritte dall'avvertimento di cui all'art 64 comma 3 lett c è, quindi, circoscritta ai casi di connessione debole contemplati dall'art 12 comma 1 lett c e a quelli di collegamento previsti dall'art 371 comma 2 lett b. Nei limiti appena descritti, l'interrogato che, previamente avverito delle conseguenze della sua condotta, fornisca risposte riguardanti la responsabilità d'altri soggetti assume automaticamente l'ufficio di testimone assistito. L'apparente automatismo dell'articolo 64 comma 3 lett c, nasconde difficoltà ricostruttive. Ci si potrebbe chiedere cosa debba intendersi esattamente per "fatti che concernono la responsabilità di altri". La formula legislativa sembra presupporre la narrazione di accadimenti che si presentino immediatamente come integranti una condotta criminosa altrui. Questa lettura restrittiva appare la più adeguata per garantire al contesto in cui si inseriscono. La precisione richiede l'esposizione integrale dei dati raccolti sino a quel momento idonei a descrivere il fatto-reato sotto ogni profilo, dalla condotta all'elemento soggettivo e all'evento, dai mezzi esecutivi alle circostanze spaziotemporali. La chiarezza e la precisione della contestazione sono imposte anche dall'articolo 6 par. 3 C.e.d.u. che prevede in favore di ogni accusato, e quindi anche di chi è sottoposto a interrogatorio, il diritto di essere informato in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico. L'articolo 111 comma 3 Cost non richiede, al contrario, che l'informazione circa i motivi dell'accusa sia dettagliata, limitandosi ad affermare che la stessa debba essere inviata nel più breve tempo possibile e in modo riservato. Questa omissione si spiega con il fatto che in sede di riforma dell'art 111 Cost si è avuta di mira solo la costituzionalizzazione dello specifico istituto processuale dell'informazione di garanzia e non, come invece sarebbe stato auspicabile, della contastazione dell'accusa nei suoi aspetti generali. In base alla formulazione dell'art 65 comma 1, la descrizione del fatto non deve necessariamente essere accompagnata da una precisa contestazione del titolo di reato, benché l'articolo 111 comma 3 Cost e l'art 6 C.e.d.u., riferiscano il diritto alla conoscenza degli addebiti tanto agli aspetti in diritto (natura) quanto a quelli in fatto (motivi). La lacuna legislativa, oggi anche costituzionalmente censurabile, è stata probabilmente determinata dall'erronea considerazione che, durante la fase preliminare, per l'esercizio consapevole delle facoltà autodifensive ciò che conta è la conoscenza dei fatti per cui si procede, anche a prescindere dalla loro qualificazione giuridica. Oggetto della contestazione sono anche gli elementi di prova esistenti contro la persona sottoposta alle indagini, nonché le relative fonti, a condizione che il venir meno della riservatezza sotto quest'ultimo profilo non pregiudichi la prosecuzione delle indagini. L'interrogante non ha il potere di selezionare gli elementi di prova, dovendo evidenziare tutti i risultati delle investigazioni che abbiano valore di elementi a carico. Non è però prevista la comunicazione obbligatoria degli elementi a discarico eventualmente raccolti nel corso delle indagini ai sensi dell'art 358. Pur considerando l'esercizio del diritto di difesa fondato principalmente sulla conoscenza del materiale posto a sostegno dell'accusa, si può ritenere che un'esatta e completa percezione del quadro probatorio, comprensiva anche della consapevolezza degli accertamenti favorevoli eventualmente compiuti, consentirebbe una migliore valutazione delle strategie difensive da adottare. La volontà legislativa di imporre l'obbligo di comunicazione solo con riferimento alle risultanze aventi valore di elementi a carico può giustificarsi con l'esigenza di evitare che l'imputato modelli le sue dichiarazioni su ciò che altri hanno affermato in suo favore (es i testimoni a discarico). La facoltà di non svelare le fonti di prova, attribuita all'autorità interrogante, deve essere intesa in senso restrittivo, limitatamente ai casi limite in cui sussistano fondati e concreti motivi per ritenere probabile che, a seguito dell'atto, l'indagato possa inquinare concretamente le prove, tramite indebite pressioni sulle fonti (es i testimoni a carico). Trattandosi, però, di una scelta che non deve essere motivata, appare arduo ricostruire un efficace controllo del corretto impiego di tale potere discrezionale. L'obbligo della contestazione non può essere aggirato dall'autorità procedente facendo: • riferimento per relationem ad atti dai quali si potrebbe trarre il medesimo contenuto informativo, come nel caso del rinvio al testo dell'ordinanza cautelare nella quale siano esposti i fatti, gli elementi di prova e le fonti, • nè, tantomeno, può ritenersi già adempiuto quando, in precedenza, l'indagato abbia avuto conoscenza di un siffatto provvedimento. • La contestazione dell'addebito riveste, comunque, una non minore importanza sotto il profilo della correttezza dei rapporti fra interrogante e interrogato. Il peso dell'atto esige una contestazione completa e precisa che elimini ogni possibile dubbio circa l'esatta comprensione delle accuse e che palesi all'indagato il fair play con cui il pubblico ministero intende giocare questa cruciale partita. Tuttavia, qualora si proceda a una serie di interrogatori in un lasso di tempo ristretto, per esigenze di ragionevole durata dell'atto si potrebbe forse considerare sufficiente ripetere solo la contestazione chiara e precisa del fatto, ammettendo che l'indicazione degli elementi e delle fonti di prova avvenga attraverso un rinvio per relationem a quanto esposto nel primo interrogatorio. La contestazione del fatto in apertura dell'interrogatorio nel merito costituisce un obbligo indefettibile per l'autorità procedente anche quando in precedenza l'interrogato abbia impropriamente risposto all'avvertimento circa la facoltà di non rispondere, comunicando l'intenzione di avvalersi in toto del diritto al silenzio. La natura difensiva dell'interrogatorio presuppone, infatti, che l'inquisito venga comunque reso edotto dell'addebito mosso nei suoi confronti, degli elementi di prova che lo sostengono ed, eventualmente, delle relative fonti, poiché solo a seguito di tali informazioni si creano le condizioni indispensabili per operare coscientemente ogni scelta autodifensiva, compresa quella di non accettare il dialogo con l'interrogante. L'indagato, ricevuto l'avvertimento di cui all'art 64 comma 3 lett b, è perciò libero di decidere se rispondere o meno a fronte di ogni singola domanda, mentre non gli viene preclusa nemmeno la possibilità, una volta entrati nel merito dell'interrogatorio, e quindi dopo essere stato informato dell'addebito e degli elemnti di prova a carico, di avvalersi integralmente della facoltà di non rispondere; solo in quest'ultima ipotesi, e a partire da questo momento, sarebbe pregiudicato ogni successivo svolgimento dell'atto. Nell'ottica del pubblico ministero si può quindi concludere che, non essendo, di norma, obbligato a procedere all'interrogatorio, l'organo dell'accusa possa mantenere segreti gli elementi raccolti fino alla necessaria discovery segnata dall'avviso di conclusione delle indagini preliminari (art 415 bis), ma se ritenesse opportuno acquisire anche il contributo conoscitivo dell'inquisito, dovrebbe valutare l'incidenza sul prosieguo delle investigazioni del dovere di svelare comunque in sede di interrogatorio i risultati fino a quel momento conseguiti, anche a fronte dell'eventualità di non ottenere in cambio alcuna collaborazione dall'interrogato che decidesse di avvalersi totalmente della facoltà di non rispondere. L'omessa contestazione ovvero la contestazione erronea, insufficiente o lacunosa, anche solo per mancata indicazione degli elementi o delle fonti di prova, rappresentano patologie che incidono sull'intervento dell'indagato e quindi sulla validità dell'interrogatorio che risulterebbe affetto da nullità intermedia ai sensi dell'art 178 comma 1 lett c. 27. Segue. L’interrogatorio nel merito Attraverso la litis contestatio (contestazione dell'addabito) l'interrogato acquisisce la piena conoscenza del fatto, condizione logica necessaria per passare alla fase successiva in cui gli viene data la parola affinché disponga quanto ritiene utile per la sua difesa (articolo 65 comma 2). Si introduce in tal modo uno spazio in cui l'indagato, se vuole, può liberamente esplicare l'autodifesa attiva, non necessariamente discolpandosi, ma anche solo fornendo nuovi spunti per le indagini attraverso l'indicazione di fatti e circostanze a proprio favore, su cui poi il pubblico ministero dovrà ex art 358 svolgere adeguati accertamenti, ferma restando la possibilità di avvalersi della facoltà di non fornire alcun elemento conoscitivo. L'autorità procedente potrà di seguito porre direttamente le domande, dando inizio al vero e proprio interrogatorio in senso stretto, sebbene spesso accade che il pubblico ministero interloquisca, per avere ulteriori chiarimenti, già nel momento della narrazione spontanea. Sarebbe comunque preferibile che l'autorità procedente si attenesse scrupolosamente alla sequenza delineata dal legislatore: • contestazione e discovery • versione difensiva dell'indagato • domande da parte di chi conduce l'interrogatorio. Assolutamente inderogabile è l'anteriorità logico-cronologica della contestazione. Da ciò consegue che non è consentito procedere a una contestazione parziale, con riserva di completarla nel corso dell'interrogatorio mano a mano che si succedano le dichiarazioni dell'interrogato. L'interrogatorio in contropiede è vietato Per il compimento degli atti riservati alla parte (atti personali, ad esempio, remissione della querela, richiesta di patteggiamento o di giudizio abbreviato) il difensore deve munirsi di apposita procura speciale, nelle forme dell'art 122, che gli consente di agire in nome e per conto del rappresentato. Vi sono poi atti personalissimi per i quali non è prevista la rappresentanza volontaria, ma solo l'assistenza del difensore: es l'interrogatorio. Il difensore ha poi il diritto/dovere di assistere al compimento di alcuni atti d'indagine ovvero di partecipare alle udienze delle fasi processuali. Ma al di là delle singole prerogative, il compito del difensore è di portata ben più ampia, investendo in generale le strategie difensive che possono essere correttamente impostate solo su consiglio di un tecnico del diritto, basti pensare allo svolgimento di investigazioni difensive, alla scelta dei riti speciali premiali, alla proposizione delle impugnazioni. L'imputato ha diritto di farsi assistere da non più di due difensori di sua scelta che vengono definiti difensori di fiducia (articolo 96 comma 1). In realtà è possibile farsi assistere anche da un numero superiore di difensori che, tuttavia, non potranno comparire nella scena processuale se non in qualità di sostituti di quelli formalmente nominati (art 102). La nomina è un atto a forma libera che consiste in una dichiarazione orale o scritta indirizzata o consegnata all'autorità procedente dallo stesso imputato o dal difensore. Finché l'interessato si trovi in stato di privazione della libertà (arresto, fermo, custodia cautelare) e non abbia provveduto personalmente, la nomina del difensore di fiducia può essere effettuata anche da un prossimo congiunto. Il difensore di fiducia può rifiutare la nomina, comunicandolo all'interessato, ma la mancata accettazione ha effetto solo da quando viene portata a conoscenza dell'autorità procedente. Il difensore di fiducia può anche rinunciare al mandato dopo averlo accettato. Anche la rinuncia deve essere comunicata tempestivamente all'interessato e all'autorità procedente, ma non produce effetti finché l'imputato non sia assistito da un nuovo difensore e non sia decorso il termine a difesa, non inferiore a sette giorni, eventualmente concesso a quest'ultimo. Le condizioni di efficacia della rinuncia si applicano anche alla revoca operata dall'imputato. Queste previsioni servono a garantire la continuità nell'assistenza difensiva. Come detto, l'imputato non può optare per l'autodifesa esclusiva: per tanto, in mancanza della nomina di un difensore di fiducia, l'autorità procedente provvede alla designazione di un difensore d'ufficio (articolo 97) sulla base degli elenchi predisposti dal consiglio dell'ordine degli avvocati e dei relativi turni di reperibilità. L'iscrizione degli avvocati in tali elenchi avviene su base volontaria. Il difensore d'ufficio ha le stesse prerogative di quello di fiducia, compreso il diritto alla retribuzione da parte del suo assistito. A differenza di quello di fiducia, si trova però vincolato dalla designazione, non potendo rinunciare o rifiutare l'incarico, a meno che non ricorra un giustificato motivo per la sua sostituzione (es una grave infermità). Anche dopo la designazione del difensore d'ufficio, l'imputato ha sempre la possibilità di modificare la sua iniziale inerzia e di nominare un difensore di fiducia, con la conseguenza di far cessare automaticamente il difensore d'ufficio dalle sue funzioni. Sotto la vigenza del codice del 1930, la giurisprudenza europea aveva evidenziato come gli apetti problematici della disciplina della difesa d'ufficio fossero quelli relativi alla mancanza di una disciplina che obbligasse l'autorità procedente a intervenire direttamente a fronte di carenze manifestate dal legale nello svolgimento del mandato difensivo. Le maggiori innovazioni introdotte dal nuovo codice hanno, invece, riguardato il procedimento di individuazione del difensore d'ufficio, cercando di scongiurare scelte discrezionali soprattutto da parte del pubblico ministero che rappresenta l'antagonista naturale dell'imputato, l'obbligatorietà del patrocinio d'ufficio e la retribuzione di tale attività. Il nostro sistema continua a non conoscere forme normativamente stabilite di controllo sulle concrete modalità di esecuzione del mandato da parte del difensore d'ufficio. Se tale impostazione può forse giustificarsi per la difesa di fiducia con l'esigenza di non interferire nei rapporti tra imputato e difensore e di non attentare all'indipendenza dell'avvocatura, non altrettanto può dirsi per la difesa d'ufficio. In questo caso, infatti, nell'inerzia dell'interessato è l'autorità procedente a dover incaricare un soggetto qualificato dello svolgimento della difesa tecnica. Il conferimento dell'incarico è già di per sé un'interferenza necessitata nelle dinamiche interne alla difesa e non può non avere ulteriori conseguenze. Il legale prescelto, sia pure in base di cirteri oggettivi e non discrezionali, compare sulla scena processuale per volontà dell'autorità giudiziaria. Questa anomalia, unitamente al difetto di un pregresso rapporto fiduciario fra difensore e assistito e alle difficoltà di instaurarlo dopo la nomina, rischia di condizionare negativamente l'intero svolgimento del mandato. Spetta, dunque, a chi ha compiuto la designazione del difensore vigilare affinché quest'ultimo operi secondo scienza e coscienza, offrendo un'assistenza legale effettiva e concreta. La Corte europea ha avuto modo di dettare le linee guida dell'onere di intervento imposto all'autorità procedente. Le carenze della difesa d'ufficio devono risultare manifeste ovvero devono essere state segnalate al giudice, magari dallo stesso imputato. La responsabilità dell'autorità giudiziaria e il conseguente onere di intervento sorgono solo a fronte di una deficienza grave, capace di incidere negativamente sulla regolarità dello sviluppo processuale, come tale rilevabile direttamente dal giudice. Oppure deve trattarsi di una carenza che non è di immediata evidenza, ma che l'imputato può avere interesse a far rilevare affinchè vengano adottati provvedimenti idonei a sanarla. L’ineffettività della difesa d'ufficio risulta accentuata dall'ingresso nel processo del sostituto del difensore d'ufficio. La mancata presenza del difensore designato e non impedito obbliga, infatti, il giudice a nominare un sostituto che sia prontamente reperibile per permettere il compimento dell'atto o lo svolgimento dell'udienza. Questo adempimento testimonia normalmente la forma più grave di disinteresse del difensore d'ufficio che, pur avendo il dovere di assicurare l'assistenza dell'imputato, non si presenta senza addurre un legittimo impedimento. Il suo sostituto risulta ancor meno preparato per lo svolgimento del mandato e, nonostante ciò, spesso non si oppone a che la sua presenza sia ridotta a mera condizione formale di prosecuzione del procedimento. Si innesca così un meccanismo che accentua i difetti congeniti della difesa d'ufficio al punto che non è fuori luogo parlare di una difesa tecnica solo apparente. Emblematica in tal senso è la vicenda che ha condotto alla più recente condanna dell'Italia per l’ineffettività della difesa d'ufficio. Lo svolgimento dell'udienza alla presenza del sostituto del difensore d'ufficio finisce per essere una patologia nella patologia della difesa d'ufficio. Gli stimoli del sostituto sono ancora meno di quelli che caratterizzano la posizione del titolare della difesa. Bisogna però ammettere che un sostituto che volesse rispettare il suo ruolo e che richiedesse un congruo termine per studiare gli atti del procedimento verrebbe sopportato con malcelata insofferenza dal giudice. Tale iniziativa finirebbe per scontrarsi con un consolidato indirizzo giurisprudenziale che non attribuisce al sostituto la facoltà di chiedere un termine a difesa. Pur senza generalizzare, la scelta del sostituto di imbastire una qualche forma di difesa effettiva sarebbe considerata nella prassi un'anomalia da osteggiare più che assecondare. Al fine di assicurare la difesa tecnica (di fiducia o d'ufficio) anche ai soggetti non abbienti, è istituito il patrocinio a spese dello Stato che non riguarda, però, i procedimenti per i reati tributari. L'ammissione al gratuito patrocinio è decisa dal giudice procedente (nel corso delle indagini, dal giudice per le indagini preliminari) e comporta che il pagamento delle spese e degli onorari del difensore sia posto a carico dello Stato in base al provvedimento giurisdizionale di liquidazione, adottato in modo tale da non superare i valori medi delle tariffe professionali. 29. Le prerogative del difensore Il difensore dell'imputato non è solo titolare di diritti da esercitare all'interno del processo. La sua posizione prevede anche precisi doveri, oltre a specifiche garanzie per il libero esercizio dell'attività difensiva. Il difensore può assistere più imputati, purché le diverse posizioni non siano fra loro incompatibili (art 106 comma 1). E' quindi imposto al difensore comune il dovere di evitare situazioni di incompatibilità che si verificano quando un imputato abbia l'interesse a sostenere una tesi difensiva sfavorevole o inconciliabile con quella di un altro. Non è sufficiente ad integrare l'incompatibilità del difensore la semplice diversità di situazioni giuridiche o di linee di difesa tra più imputati, ma occorre che la versione difensiva di uno di essi sia assolutamente inconciliabile con la versione fornita dagli altri assistiti, così all'oggetto della difesa, rinvenuti presso il difensore o i suoi ausiliari (investigatore privato, consulente tecnico) salvo che costituiscano corpo di reato. I limiti imposti a perquisizioni e ispezioni dovrebbero valere anche quando gli atti probatori fossero compiuti presso gli uffici dell'investigatore o del consulente tecnico incaricati di coadiuvare il difensore. Inoltre, il sequestro dei documenti attinenti alla difesa, non costituenti corpo di reato, dovrebbe essere vietato in qualunque luogo, e non solo negli uffici del difensore e degli ausiliari. Sarebbe assurdo ipotizzare la sequestrabilità di una memoria difensiva in mano all'imputato o al suo legale. In tal senso si è espressa anche la Cassazione sottolineando come, mentre per le ispezioni e per le perquisizioni la garanzia prevista dall'art 103 è collegata ai locali dell'ufficio, per i sequestri (così come avviene anche per le intercettazioni e per il controllo della corrispondenza) la lettera del secondo comma, con le parole iniziali (presso i difensori), mostra che la garanzia è collegata direttamente alle persone (difensori e consulenti tecnici) sicchè il divieto opera anche quando l'attività diretta al sequestro si svolge in luogo diverso dall'ufficio. Anche così interpretato l'art 103 comma2, sembrerebbe non tutelare l'imputato che detenga documenti attinenti alla difesa. Sebbene una siffatta esclusione non abbia fondamento, la giurisprudenza valorizza il dato letterale nell'affermare la legittimità del sequestro di documenti in bozza rinvenuti i luoghi in uso all'imputato e non già presso il difensore, ricordando che i limiti imposti dall'art 103 non possono riguardare documenti nella sfera di pertinenza esclusiva dell'imputato, privi di una finalizzazione attuale all'espletamento delle funzioni del difensore. Quando possibili, ispezioni, perquisizioni e sequestri sono sottoposti a garanzie rinforzate: • possono essere disposti solo dall'autorità giudiziaria • non sono delegabili alla polizia giudiziaria e devono quindi essere eseguiti dal pubblico ministero o dal giudice • a pena di nullità, deve essere avvisato il competente consiglio dell'ordine degli avvocati in modo tale da consentire al presidente o a un suo delegato di assistere al compimento dell'atto. Non si tratta però di un preavviso in senso stretto, potendo l'inquirente avvertire l'ordine quando già si trova sul posto e ha congelato il luogo in attesa dell'arrivo del presidente o del suo delegato. L'art 103 comma 5, vieta le intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni intercorrenti fra difensori, investigatori, consulenti tecnici e i loro ausiliari ovvero fra questi soggetti e gli assistiti. Il testo della disposizione deve essere interpretato nel senso che non è riconosciuta un'immunità assoluta rispetto alle intercettazioni, ma solo con riferimento ai dialoghi riguardanti l'attività difensiva (lecita). Ciò significa che anche i difensori e i loro ausiliari possono essere sottoposti a intercettazioni, ma che le conversazioni che si scoprissero, dopo l'ascolto, attinenti alla difesa non sarebbero utilizzabili. Bisogna precisare comunque che l'attività difensiva protetta anche dalle intercettazioni è solo quella lecita: se il difensore travalicasse i limiti della sua funzione e, ad esempio, si accordasse con l'imputato per organizzare la fuga o occultare la refurtiva, tali conversazioni sarebbero ovviamente intercettabili. Analoga protezione vale per la corrispondenza fra difensore e imputato che non soggiace a controlli e sequestri in quanto recante sulla busta gli indici di riconoscimento prescritti, a meno che l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato. Ancora una volta si tratta di un'immunità relativa. La violazione delle prescrizioni contenute nell'art 103 è sanzionata dalla inutilizzabilità assoluta dei risultati probatori eventualmente ottenuti. L'autorità giudiziaria non può, infine, impedire i colloqui tra difensore e imputato, nemmeno quando quest'ultimo sia privato della libertà personale. L'art 104 commi 1 e 2, riconosce, infatti, all'arrestato, al fermato o al sottoposto a custodia cautelare il diritto di conferire con il difensore subito dopo l'esecuzione del provvedimento restrittivo. Tuttavia, nel corso delle indagini preliminari, quando sussistano specifiche ed eccezionali ragioni di cautela, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può dilazionare i colloqui difensivi per un tempo non superiore a cinque giorni attraverso un apposito decreto motivato. In caso di arresto e di fermo, questo potere viene attribuito direttamente al pubblico ministero fino a che il soggetto non sia posto a disposizione del giudice, e quindi per un massimo di 48 ore dalla privazione della libertà. La previsione del differimento dei colloqui per ragioni di cautela sembra insanabilmente in contrasto con l'articolo 24 comma 2 Cost. Leggendo in trasparenza l'art 104 comma 3, non è difficile scorgere il timore che il difensore possa concorrere in un eventuale disegno di inquinamento probatorio. Si tratta di una presunzione legislativa che non dovrebbe avere diritto di cittadinanza in un ordinamento, come il nostro, dove la difesa tecnica è tutelata livello costituzionale quale aspetto di un più ampio diritto fondamentale. Non bisogna poi farsi troppe illusioni circa il fatto che l'obbligo di motivare il decreto di differimento serva a limitare a casi davvero eccezionali la scelta di vietare i colloqui con il difensore. Il provvedimento in parola, poi, è considerato inoppugnabile. La violazione del diritto di difesa appare ancor più manifesta quando il differimento dei colloqui venga posto in relazione con lo svolgimento: • dell'interrogatorio di garanzia della persona sottoposta a custodia cautelare, • dell'interrogatorio dell'arrestato e del fermato da parte del pubblico ministero • o dell'interrogatorio che si compie nell'udienza di convalida delle misure precautelari In tutte queste ipotei, la dilazione dei colloqui difensivi per cinque giorni permette al pubblico ministero rispetto all'arrestato e al fermato, e al giudice in ogni altro caso, di interrogare la persona privata della libertà senza che questa abbia potuto preventivamente consultarsi con il difensore. Infatti, bisogna ricordare che il termine massimo di cinque giorni previsto per il differimento dei colloqui corrisponde esattamente a quello entro cui deve compiersi l'interrogatorio della persona sottoposta a custodia cautelare ed è superiore a quello di 96 ore stabilito per l'udienza di convalida dell'arresto e del fermo. Anche da questo punto di vista l'art 104 comma 3, si ispira ad una logica che contraddice apertamente il rispetto del diritto di difesa: si vuole impedire che il detenuto parli con il difensore prima dell'interrogatorio perché, così facendo, si evita il rischio di un esercizio consapevole della facoltà di non rispondere e si lascia maggiore spazio a un contegno collaborativo. Oltre a essere fondatamente sospettata di illegittimità costituzionale, la normativa in esame potrebbe esporre il nostro Paese ha una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo. Il giudice di Strasburgo ha infatti ricordato che il differimento dei colloqui fra persona privata della libertà e difensore alla scadenza delle 24 ore successive all'arresto rischia di pregiudicare gravemente indiziato, che si trova a dover operare una scelta rilevante, come quella dell'esercizio o meno del diritto al silenzio, senza potersi avvalere della consulenza del proprio legale. Secondo la Corte europea, nel rispetto del processo equo, il prevenuto deve poter beneficiare dell'assistenza difensiva prima che abbiano inizio gli interrogatori. 30. La capacità dell'imputato L'esercizio di tutti i diritti e le facoltà riconosciuti all'imputato, in particolare l'autodifesa, presuppone la sua capacità di partecipare consapevolmente al procedimento. Non si tratta della capacità di intendere e volere che deve essere accertata con riferimento al momento della commissione del fatto per stabilire l'imputabilità, bensì dell'idoneità psichica dell'accusato a comprendere compiutamente il significato degli atti che si compiono nel processo a suo carico. La giurisprudenza non si mostra particolarmente sensibile all'esigenza di un intervento dell'imputato pienamente consapevole, ritenendo che per escludere il requisito della sua cosciente partecipazione non è sufficiente la presenza di una patologia psichiatrica, anche grave, ma è necessario che il soggetto nei cui confronti si procede risulti in condizioni tali da non comprendere quanto avviene e da non potersi difendere. Questa impostazione restrittiva viene giustificata con la considerazione che, altrimenti, sarebbe impossibile procedere al giudizio nei confronti di soggetti infermi o seminfermi di mente. La ricostruzione più corretta del problema dovrebbe però considerare anche il caso in cui la capacità dell'imputato di stare consapevolmente in giudizio sia ridotta dalla presenza di un vizio di mente e non solo l'ipotesi estrema della totale incapacità. Per partecipare coscientemente al processo occorre una piena capacità di intendere e di volere, mentre un vizio di mente, anche solo parziale, potrebbe ridurre notevolmente la capacità di autodifesa, con inaccettabile del lucro cessante, inteso come perdita di un potenziale guadagno); sia il danno non patrimoniale (art 2059 c.c. detto anche danno morale, rappresentato dalle sofferenze psichiche patite in conseguenza della commissione del reato, il quale per sua natura sfugge a ogni valutazione in termini di esatta quantificazione economica). Il danno (patrimoniale e non) deve derivare direttamente dalla condotta del soggetto attivo del reato e incidere su una situazione personale classificabile come diritto soggettivo, con esclusione di situazioni di mero interesse o di interesse legittimo. Non dovrebbe, pertanto, essere risarcibile nemmeno l'asserita lesione di interessi generali o diffusi, che non potrebbero trovare tutela, in quanto tali, attraverso la costituzione di parte civile, sebbene la giurisprudenza sul punto appaia alquanto permissiva. Se il danno patrimoniale può essere risarcito per equivalente, attraverso la corresponsione di una somma di denaro appunto pari all'entità del danno subito, quello morale è risarcibile solo in via satisfattiva con l'attribuzione di una pecunia doloris, una somma che, pur non potendo dare ristoro per il torto subito, sarà proporzionata alla gravità del reato e all'entità del turbamento patito a causa dello stesso. Il risarcimento del danno patrimoniale può avvenire anche per mezzo della restituzione che si riferisce proprio all'oggetto del reato e può realizzarsi con la riconsegna del maltolto o più in generale con la restitutio in integrum. La persona offesa, in quanto tale, non può avanzare pretese risarcitorie che sono, invece, di esclusiva spettanza del danneggiato. Normalmente, le due figure tendono a coincidere, posto che dal reato nasce quantomeno il diritto al risarcimento dei danni morali, tuttavia vi possono essere casi di danneggiato che non rivesta la qualifica di offeso dal reato, si pensi, ad esempio, agli eredi (danneggiati) della persona uccisa (offesa dal reato). Alle due figure sono attribuiti dall'attuale sistema codicistico ruoli distinti da svolgere in contesti diversi. La persona offesa agisce nella fase delle indagini preliminari in qualità di soggetto (quindi non di parte) che si affianca al pubblico ministero per stimolarne e controllarne l'attività, coltivando l'interesse al rinvio a giudizio dell'imputato. Per svolgere efficacemente questo ruolo, all'offeso è riconosciuto • il potere di partecipare a determinati atti del procedimento (ad esempio, gli accertamenti tecnici non ripetibili o l'incidente probatorio), • di presentare memorie e indicare elementi di prova, • di essere informato della pendenza del procedimento, dello svolgimento dell'udienza preliminare e del decreto che dispone il giudizio, • di controllare l'operato dell'organo inquirente (in occasione della richiesta di proroga delle indagini e di archiviazione, nonchè mediante presentazione dell'istanza di avocazione). • Nella fase procedimentale la situazione soggettiva del danneggiato non viene invece considerata dal legislatore, sul presupposto che la pretesa risarcitoria non potrebbe essere fatta valere in tale momento, essendo ammessa la costituzione di parte civile solo dopo l'esercizio dell'azione penale. Nella fase processuale la situazione risulta rovesciata, la persona offesa può solo continuare a presentare memorie e indicare elementi di prova, senza però poter partecipare attivamente all'udienza preliminare e al dibattimento, mentre al danneggiato è riconosciuta la possibilità di costituirsi parte civile e come tale di esercitare tutti i diritti spettanti alla parte processuale. Il disegno del legislatore appare chiaro: sul presupposto della tendenziale convergenza in capo al medesimo soggetto degli status di danneggiato e offeso dal reato, la pretesa risarcitoria viene tutelata anticipatamente nel corso delle indagini attraverso la figura della persona offesa, alla quale sono riconosciute prerogative che le consentono di interagire con il pubblico ministero al fine di ottenere il rinvio a giudizio dell'imputato, ossia il presupposto per l'esercizio dell'azione civile in sede penale, mentre nel processo l'intervento è subordinato all'onere di costituzione di parte civile. 32. La costituzione di parte civile Dopo l'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero, più precisamente in vista dell'udienza preliminare, nel momento di apertura della stessa o in limine al dibattimento, il danneggiato può a sua volta esercitare l'azione per il risarcimento del danno o le restituzioni, costituendosi parte civile nel processo penale. La costituzione di parte civile, prevista anche nel procedimento penale militare in seguito all'intervento della Corte costituzionale, non è ammessa nel processo penale a carico di imputati minorenni e rimane tuttora di dubbia praticabilità nel processo a carico degli enti. La legittimazione alla costituzione di parte civile non riguarda solo le persone fisiche, ma anche enti o associazioni dotati o privi di personalità giuridica che abbiano subito un danno dal reato. Vanno aggiunti anche i successori universali del danneggiato e una serie di soggetti che trovano legittimazione in apposite disposizioni di leggi speciali. La capacità di agire della parte civile è disciplinata dall'art 77 che prevede anche le modalità di costituzione dell'incapace, compreso l'intervento d'urgenza in via provvisoria del pubblico ministero. L'azione risarcitoria o restitutoria viene esercitata mediante l'atto di costituzione di parte civile che consiste in una dichiarazione scritta, resa anche a mezzo di procuratore speciale, che segue le forme civilistiche imposte dall'art 78. In particolare, deve contenere: • le generalità del soggetto che si costituisce, • le generalità dell'imputato nei cui confronti l'azione viene esercitata, • le ragioni che giustificano la domanda, • l'indicazione del difensore, munito di procura ad litem, che dovrà anche sottoscrivere l'atto. La parte civile, infatti, sta in giudizio non personalmente, ma a mezzo del difensore che è munito di procura speciale per rappresentare processualmente la parte e compiere gli atti processuali necessari, primo fra tutti quello di costituzione/esercizio dell'azione. Il difensore ha anche il potere di autenticare la sottoscrizione della procura che la parte gli ha conferito. Occorre però tenere distinta la procura ad litem che la parte civile conferisce al difensore per la rappresentanza processuale dalla procura speciale che il danneggiato può rilasciare a un soggetto (eventualmente anche il difensore) affinché provveda a rendere la dichiarazione di costituzione di parte civile. La prima è il mandato alle liti e di per sé non implica il potere di esercitare o disporre del diritto né di quello di compiere atti processuali riservati espressamente al rappresentato (es la revoca della costituzione di parte civile o la rinuncia all'impugnazione), la seconda comporta invece una piena rappresentanza del danneggiato nella titolarità del diritto. La costituzione di parte civile può avvenire: • all'apertura dell'udienza, sia preliminare sia dibattimentale, con atto presentato direttamente al giudice, • oppure fuori dell'udienza, mediante deposito presso la cancelleria del giudice competente per la fase e notifica all'imputato e al pubblico ministero (art 78). • Il primo momento utile è "per l'udienza preliminare", ossia dopo la comunicazione della fissazione dell'udienza e prima dell'apertura della stessa, mentre nella fase delle indagini preliminari non è consentita la costituzione di parte civile nemmeno quando si celebri l'udienza a seguito della richiesta di applicazione della pena. I termini imposti per la costituzione sono previsti a pena di decadenza (art 79 commi 1 e 2), sebbene chi non fosse riuscito a costituirsi per l'udienza preliminare potrebbe farlo fino agli atti introduttivi del dibattimento (art 484). • Tuttavia, se la costituzione avviene dopo che è spirato il termine previsto dall'articolo 468 (sette giorni liberi prima della data fissata per il dibattimento), la parte civile non può avvalersi della facoltà di presentare la lista dei testimoni, periti o consulenti tecnici, con le ulteriori conseguenze in tema di diritto alla prova sancite dagli articoli 468 e 493. • La giurisprudenza supera, di fatto, anche questo limite, ritenendo che il deposito della lista testi intervenuto tempestivamente, ancorchè prima della costituzione di parte civile, sia da considerarsi un atto validamente compiuto dalla persona offesa, in quanto
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