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La repubblica romana dalle origini ai Gracchi (509-134 a.C.), Dispense di Storia Romana

Riassunto dettagliato e completo di storia romana, che comprende il periodo che va dalle origini della repubblica ai Gracchi, basato sul manuale "Roma antica. Storia e documenti" di G. Cresci Marrone/F. Rohr Vio/L. Calvelli con integrazioni da "Modelli politici di Roma antica" di L. Fezzi. Sostituisce lo studio dei manuali.

Tipologia: Dispense

2020/2021

In vendita dal 28/01/2021

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Scarica La repubblica romana dalle origini ai Gracchi (509-134 a.C.) e più Dispense in PDF di Storia Romana solo su Docsity! La res publica dalle origini ai Gracchi (ca 509-134 a.C.) La transizione fra Monarchia e Repubblica Dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo l’aristocrazia gentilizia - secondo la tradizione, sotto la guida di Bruto - diede vita a un sistema di governo oligarchico, ideologicamente sostenuto dal rifiuto della monarchia. Si tende a pensare a una sostituzione del re con due capi eletti ogni anno, in una diarchia equilibrata: ciò avrebbe introdotto il concetto di magistratura, quale antitesi alla regalità. I due magistrati sono indicati nelle fonti con il nome di pretori e di consoli . 1 ❢ Il racconto tradizionale del passaggio da monarchia a repubblica, che attribuisce a un fatto privato la fine di una istituzione viva in Roma da oltre due secoli, è quello dello stupro della giovane Lucrezia da parte di Tarquinio il superbo, la cacciata del re e la creazione di un regime repubblicano perfetto. Con questo termine si intende non che tutte le magistrature nel 509 fossero già predisposte, ma che i primi due consoli avrebbero avuto tutte le caratteristiche delle magistrature ordinarie della repubblica romana ✳ . Sembrerebbe confermare la tradizione letteraria, la quale attesta la brusca scomparsa della monarchia e la precoce sostituzione dei re con i consoli, un documento epigrafico: i Fasti consolari. I Fasti sono sostanzialmente liste dei magistrati eponimi della Repubblica, di quei magistrati cioè che davano il nome all’anno in corso, secondo il computo cronologico dei Romani. L’elenco dei consoli fu redatto in tarda età augustea, ma non risulta perfettamente attendibile in merito agli anni precedenti il 390 a.C.; è infatti fondato sugli Annali, resoconti stilati annualmente dai pontefici e conservati nella Regia, distrutta nel corso dell’incursione gallica di Brenno. In pratica, dunque, una grande incertezza regna sulle magistrature supreme lungo un arco cronologico di più di 100 anni. Sulla nascita della collegialità consolare le ipotesi si sono susseguite le une alle altre, con numerose varianti, in linea di massima prodotte dall’incrocio di due principali ipotesi “cronologiche” con due principali ipotesi “istituzionali”: - ipotesi “cronologiche” sono il passaggio improvviso da monarchia a repubblica (come tramandato dalle fonti) oppure una lenta evoluzione. In base a questa seconda lettura, gli eventi del 509 - data quasi coincidente con il 510 della democrazia ateniese - sarebbero un’anticipazione, forse operata per 2 nascondere un fatto inammissibile: una dominazione straniera (con Porsenna) o un periodo di anarchia. La nascita della repubblica potrebbe quindi essere posticipata di qualche decennio, preparata da un lento emergere di altre figure (o degli stessi ausiliari del re). Con l’allargarsi della popolazione e il complicarsi della struttura sociale romana, i sovrani dell’ultimo periodo avevano infatti dovuto affidare porzioni di potere ad amici e collaboratori. Il senato stesso era diventato sempre più importante, ed era proprio questa assemblea a designare il nuovo sovrano. Quando con la fuga di Tarquinio si concluse l’età monarchica, quindi, gli istituti repubblicani, in un certo senso, erano già nell’ordine dei fatti e non rappresentavano una novità assoluta per la mentalità romana, specialmente per quell’aristocrazia terriera che si era sempre più rafforzata e che già da tempo avvertiva nel sovrano un ostacolo alla sua piena affermazione politica. L’allontanamento di Tarquinio il Superbo sembra dunque presentarsi non tanto come una vicenda privata interna alla dinastia etrusca, quanto piuttosto come la riacquisizione di potere in Roma da parte dell’elemento latino, e come una reazione delle famiglie aristocratiche, le quali detennero da quel momento in poi posizioni di vertice, monopolizzando le principali cariche. - le due ipotesi “istituzionali” sono invece riferite alla vera identità del successore del re, individuato nei pretori oppure nel dittatore. Nel caso dei pretori, il più serio argomento a favore di questa teoria è la cerimonia dell’infissione del chiodo nel tempio di Giove Capitolino a opera del praetor maximus. Nel caso del dittatore, bisognerebbe invece pensare che la diarchia sarebbe stata raggiunta solo attraverso il graduale emergere del comandante della cavalleria. Il quadro di fondo è, in ogni caso, quello di una repubblica oligarchica, nella quale al re si sostituirono magistrati annui scelti all’interno della cerchia patrizia; ciò fu alla base dei conflitti successivi. praetor probabilmente fu il titolo primitivo di quel magistrato che più tardi sarà noto come consul. 1 Molti studiosi hanno messo in luce una curiosa coincidenza cronologica tra la storia di Roma e quella di Atene: il 510 2 a.C. era anche l’anno in cui il tiranno Ippia, della famiglia dei Pisistratidi, era stato cacciato da Atene. Dal momento che si possono rintracciare altre analogie tra la fine dei Tarquini e quella dei Pisistratidi, il sospetto che la cronologia della caduta di Tarquinio il Superbo sia stata adattata per creare un parallelismo con le vicende della più celebre polis greca non è illegittimo. 1 ✳ Tutte le magistrature romane erano elettive, collegiali (cioè formate da due o più persone) e temporanee (cioè assegnate per un periodo di tempo limitato, generalmente un anno). Coloro che le ricoprivano erano così sottoposti ad un continuo controllo, sia da parte dei loro colleghi, sia da parte degli elettori. Disattese tali princìpi solo la carica di dittatore, che fu adottata, ma sporadicamente, in situazioni di emergenza quando un incombente pericolo bellico consigliava di unificare nelle mani di un solo soggetto la responsabilità del comando militare. In tali evenienze si produceva la sospensione del consolato e il dittatore, dotato di ampi poteri, nominava a sua scelta un capo della cavalleria (magister equitum) che lo coadiuvasse nello svolgimento delle sue mansioni; entrambi potevano rimanere in carica solo per sei mesi. Le assemblee popolari in età repubblicana Il sistema di governo della repubblica venne costruito nel corso del V e IV secolo a.C., con successivi aggiustamenti. Fin dall’inizio, l’ordinamento dello stato si basò su tre elementi costitutivi: 1. un articolato sistema di magistrature; 2. il senato; 3. le assemblee dei cittadini: • comizi curiati • comizi centuriati • comizi tributi • concilium plebis A Roma, a esercitare il diritto di voto erano i maschi adulti che avessero la cittadinanza, ovvero l’appartenenza - per nascita, naturalizzazione o manomissione - a Roma: • cittadino per nascita era il figlio generato da matrimonio regolare o, fuori dal matrimonio, da madre romana; • cittadino per naturalizzazione era sia lo straniero cui fosse stata data la cittadinanza sia il latino che, in base allo ius migrandi, avesse stabilito domicilio a Roma; • cittadino per manomissione era invece il liberto; a quest’ultima categoria era riconosciuto il diritto di voto nelle 4 tribù urbane, mentre i figli erano assegnati a tutte le tribù. Il cittadino maschio adulto, di qualsiasi estrazione sociale, poteva quindi, una volta all’anno, eleggere i magistrati e più volte esprimersi sulle cause capitali e sulle leggi. La riunione del corpo civico avveniva solo a Roma, in assemblee di vario tipo. Esse erano convocate da un magistrato nei giorni comiziali e confermate dagli auspici, consultati la notte precedente. Ognuna delle unità di voto o collegio in cui era ripartito l’elettorato (a seconda delle assemblee, curie, centurie, tribù) si esprimeva una volta raggiunta la maggioranza interna; la somma di tali maggioranze decideva quindi il verdetto. Poiché si votava a Roma, è possibile ipotizzare una prevalenza numerica dei residenti nell’Urbe sugli altri, meno accentuata nel caso delle assemblee elettorali, riunite in momenti precisi dell’anno. Il voto, fino alle riforme iniziate nel 139 a.C. (leggi tabellarie), era palese e non scritto, ciò che naturalmente innescava controlli e pressioni sull’elettore. Tutto il procedimento di voto, che avveniva dall’alba al tramonto, poteva essere interrotto dal veto magistratuale, da improvvisi segni celesti sfavorevoli o dalla dichiarazione che si stavano ancora osservando i segni del cielo. I comizi curiati Quella dei comizi curiati è la più antica assembla romana, costituita dalle tribù gentilizie organizzate per curie, e si fa risalire a Romolo. Essa si riuniva nel cosiddetto Comizio ed esercitava il potere di decidere provvedimenti in materia di diritto familiare, in particolare riguardo alle adozioni e ai testamenti. I comizi curiati avevano poteri anche in ambito religioso e avevano inoltre la facoltà di approvare o esprimere dissenso nei confronti delle proposte formulate dal re, ma non avevano il diritto di promuovere autonomamente alcuna iniziativa politica. Il loro compito più importante consisteva nell’emanazione della legge con cui ogni anno le curie investivano il re del comando militare (lex curiata de imperio) e con cui approvavano la designazione di un nuovo re dopo la morte del suo predecessore. Tale assemblea non verrà mai abolita, ma perderà progressivamente i suoi poteri: in età repubblicana, pur continuando a votare la lex curiata de imperio, si specializzerà sugli atti relativi allo stato di famiglia; in età tardorepubblicana le 30 curie si esprimeranno solo simbolicamente, rappresentate da 30 littori. I comizi centuriati Per garantire una corrispondenza tra l’impegno profuso da ciascuno nell’esercizio delle armi e il peso politico esercitato dal singolo, Servio Tullio, secondo la tradizione, provvide all’istituzione di una nuova 2 con gli antagonisti politici, essi si videro riconoscere il privilegio dell’inviolabilità, in base al quale chiunque avesse attentato all’incolumità di un tribuno poteva essere impunemente ucciso senza che il suo assassino fosse perseguibile. I tribuni della plebe per svolgere la loro opera godevano inoltre di due diritti: il ius auxilii, grazie al quale prestavano assistenza giudiziaria ai plebei contro gli abusi dei magistrati patrizi e il ius intercedendi (diritto di veto) per cui era sufficiente che un solo tribuno opponesse il veto alla deliberazione di un magistrato patrizio perché questa venisse subito annullata in quanto lesiva degli interessi della plebe. Nel 470 a.C. il concilium plebis divenne concilium plebis tributum perché si decise di non votare più per testa, ma di assumere come unità di voto la tribù, secondo la divisione della popolazione operata da Servio Tullio. Nell’occasione i tribuni della plebe passarono da due a quattro, il numero cioè delle tribù urbane. Si faceva nel frattempo prepotente all’interno della comunità plebea la richiesta di mettere per iscritto le leggi per un’imparziale amministrazione della giustizia, dal momento che i magistrati giudicanti erano esclusivamente patrizi. Tappa centrale del confronto tra patrizi e plebei fu la codificazione delle leggi delle XII Tavole. Un compromesso tra le fazioni avrebbe fatto sì che, sospese le principali magistrature, nel 451 fosse insediata una commissione di 10 membri, tutti patrizi (decemviri), con autorità dittatoriale, che avrebbero inviato ambasciatori in Magna Grecia e ad Atene per visionare le leggi locali. Essi furono incaricati non di emanare una nuova legislazione, ma di pubblicare le norme vigenti, nonché il calendario (decemviri legibus scribundis) Nel primo anno di attività, i decemviri avrebbero terminato la stesura di dieci tavole. Per completare il lavoro, essendo rimaste aperte alcune questioni, l’anno successivo, il 450 a.C., sarebbe stato eletto un secondo collegio decemvirale, per metà patrizio e per metà plebeo, sotto la guida del patrizio Appio Claudio. Il collegio pubblicò le ultime due tavole che contenevano disposizioni contrarie alla plebe (fatto abbastanza curioso, trovandosi questa volta tra i decemviri anche plebei), come il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei, annullato quattro anni più tardi, nel 445 a.C., con la legge Canuleia, in realtà un plebiscito che prende il nome dal tribuno della plebe che la propose. Secondo la tradizione, il decemvirato si trasformò in una tirannide per istigazione di Appio Claudio, il quale tentò di rendere sua schiava la figlia di un plebeo. Per reazione i plebei misero in atto una nuova secessione che pose fine all’esperienza decemvirale e comportò la restaurazione del consolato. - L’anno successivo alla legge Canuleia, cioè a partire dal 444 a.C., si decise di attribuire il potere consolare ad alcuni dei sei tribuni militari che costituivano gli ufficiali annualmente eletti a capo della legione, i tribuni militari con potere consolare. Tale collegio era composto da un numero variabile di membri (in alcuni anni 3, in altri anni 4, in altri anni tutti e 6), ma il dato rilevante era rappresentato dal fatto che potevano essere anche plebei. - Il decennio fra il 450 e il 440 a.C. vide l’istituzione di nuove magistrature: nel 447 a.C. vennero introdotti i questori, in numero di quattro; nel 443 a.C. i censori, in numero di due (carica aperta esclusivamente agli ex consoli). I primi erano eletti dalle tribù e collaboravano con i consoli in particolare per gli affari finanziari e per l’amministrazione dell’erario, cioè del tesoro pubblico. I censori, che restavano in carica diciotto mesi, avevano il compito di redigere ogni cinque anni la stima del patrimonio dei cittadini e di approntare la loro iscrizione nelle tribù territoriali in base alla residenza nonché nelle centurie appropriate in relazione al censo. Dopo breve tempo i censori furono preposti anche alla stesura e alla revisione delle liste dei senatori, dalle quali potevano espungere i membri deceduti o macchiatisi di condotta immorale. Nella seconda metà del V secolo Roma fu impegnata in una serie di guerre *⃣ e ciò probabilmente contribuì a far tacere le lotte tra patrizi e plebei. Esse ripresero però con rinnovato ardore nella prima metà del IV secolo, quando, dopo il saccheggio della città ad opera dei Galli, la situazione economica subì un notevole peggioramento. Il 367 a.C. fu l’anno della svolta nella strategia plebea, che passò dalla politica della separatezza a quella dell’integrazione. Questa nuova fase delle lotte tra patrizi e plebei si aprì con l’approvazione delle leggi dei tribuni della plebe Lucio Sestio e Gaio Licinio, chiamate dal nome dei proponenti leggi Licinie Sestie. In base ad esse si stabilirono forme di riduzione e rateizzazione dei debiti , si deliberò che nessun romano 3 potesse possedere, in merito alla spartizione dei bottini di guerra, più di 500 iugeri di ager publicus e si stabilì che uno dei due consoli dovesse essere plebeo. Nel 326 a.C. la legge Petelia Papiria stabilì l’abolizione della schiavitù per debiti; fu uno dei pochissimi casi nella 3 legislazione romana di abrogazione di una legge e per di più con valore retroattivo, perché i nexi vennero tutti messi in libertà. 5 Nel 366 vennero create due nuove cariche, inizialmente riservate ai soli patrizi e dunque considerate quasi come una sorta di compenso alla perdita del monopolio sul consolato: la carica di pretore, che aveva il compito di amministrare la giustizia tra i cittadini romani, e una carica gemella rispetto all’edilità plebea, quella degli edili curuli (così chiamati dalla sella curulis, il seggio dei magistrati patrizi, intarsiato di avorio, che ricordava il currus o carro reale di cui al tempo della monarchia facevano uso i re), cui inizialmente fu affidato l’allestimento dei giochi in occasione delle festività. Da tale momento vennero approvate numerose leggi che portarono alla parificazione dei plebei per quanto concerne l’elettorato passivo, cioè non solo la possibilità di votare ma anche di essere eletti: - 356 a.C. accesso alla dittatura - 351 a.C. accesso alla censura - 337 a.C. accesso alla pretura Un’altra tappa fondamentale nel cammino della plebe verso l’equiparazione fu rappresentata nel 312 a.C. dalla censura di Appio Claudio Cieco, che osò inserire per la prima volta nell’albo dei senatori alcuni plebei, procedendo anche all’abolizione della distinzione tra senatori ordinari (patres) e senatori aggiunti (conscripti). Con i fondi dell’erario si fece quindi promotore di un vasto programma di opere pubbliche nell’Urbe: costruì un nuovo acquedotto, l’Aqua Appia, per garantire un costante rifornimento idrico ai nuovi quartieri cittadini e provvide all’edificazione del tempio di Bellona, divinità che celebrava l’ideologia della guerra e della vittoria. Connessa alle guerre in atto fu anche la costruzione della strada che collegava Roma a Capua (città della Magna Grecia, nella Campania settentrionale), la via Appia. L’azione del censore Appio Claudio Cieco fu completata da Gneo Flavio, che, in qualità di scriba, nel 304 a.C. rese pubbliche le procedure processuali, ovvero le formule giuridiche che era necessario impiegare nei processi, contenute nei formulari custoditi dai pontefici. Tale provvedimento, detto ius Flavianum, insieme alla pubblicazione del calendario, assicurò un’imparziale amministrazione della giustizia per tutti i cittadini. Nel 300 a.C. venne promulgata la legge Valeria sulla provocatio, che stabiliva che ogni cittadino romano condannato a morte avesse il diritto di appellarsi all’assemblea popolare. L’istituzione della provocatio ad populum viene fatta risalire dalla tradizione a una legge Valeria di P. Valerio Publicola, promulgata nel primo anno della Repubblica, anche se è probabile che questo provvedimento sia una semplice duplicazione della legge Valeria del 300 a.C. (la “terza” legge Valeria sulla provocatio, ma, a differenza di quelle del 509 e del 449 a.C., di sicura esistenza) Nel 287 a.C. in seguito all’ultima secessione della plebe venne promulgata la legge Ortensia che stabilì che i plebisciti fossero vincolanti anche per i patrizi. Da allora gran parte della legislazione romana sarebbe stata votata, su proposta tribunizia, dal concilium plebis. A seguito di tale secolare conflitto politico, si ebbe, dal 366 fino alla crisi della repubblica, la cosiddetta epoca della nobilitas patrizio-plebea. Con l’ingresso della plebe al consolato, la classe dirigente non coincise più con i patrizi, ma con i nobili, ovvero tutti coloro che avessero rivestito una qualche magistratura curule (censura, dittatura, consolato, pretura, edilità curule) e i loro prossimi discendenti. Per coloro che non potevano contare su predecessori che avessero già ricoperto le cariche (i cosiddetti homines novi) era estremamente difficile farsi strada. *⃣ L’espansione nel Lazio (la politica estera del V secolo a.C.) Il V secolo fu caratterizzato da uno stato permanente di guerriglia, che i Romani condussero a nord contro la città etrusca di Veio e a sud-est contro i Volsci e gli Equi, che intendevano stanziarsi nella pianura laziale. Roma sostenne inoltre uno scontro decisivo contro una coalizione di città latine, che approfittarono delle travagliate vicende che seguirono alla cacciata dei Tarquini per dimostrare sempre maggiore insofferenza nei confronti dell’egemonia esercitata dai romani. Roma, la quale intendeva conservare la supremazia nel Lazio, non poté sottrarsi allo scontro con la Lega latina, che affrontò in una battaglia campale presso il Lago Regillo nel 496 a.C.. Il trattato di pace sottoscritto dai Romani e dai Latini nel 493 a.C. prende il nome di foedus Cassianum perché fu siglato, secondo le fonti, dal console Spurio Cassio. Esso prevedeva una pace perpetua tra i contraenti e l’impegno di reciproco aiuto in caso di un attacco esterno. Questa ultima preoccupazione non era una pura ipotesi per i Romani, perché durante tutto il V secolo popolazioni di montagna stanziate sull’Appennino Laziale, come gli Equi e i Volsci, esercitarono una forte pressione sul Lazio, operando scorrerie annuali a danno degli insediamenti di pianura, solitamente dopo il raccolto. Contro queste popolazioni si registrarono numerosi episodi bellici con cadenza quasi annuale che videro l’alternarsi di vittorie e sconfitte, senza che si arrivasse a uno scontro campale risolutivo. A causa di tali minacce tra il 490 e il 470 a.C. Roma si sarebbe dotata di mura difensive che vennero attribuite a Servio Tullio, ma un 6 punto di svolta nel conflitto fu rappresentato dal patto di alleanza stretto nel 486 a.C. con il popolo degli Ernici che, situati a est rispetto a Roma, si sentivano anch’essi minacciati dagli Equi. Nel 431 a.C. Roma sconfisse presso il Monte Algido Equi e Volsci e in tale contesto si segnalò la figura di Cincinnato. Il V secolo a.C. fu contraddistinto per Roma anche dal confronto bellico con Veio, la potente città-stato etrusca situata a nord di Roma, in una posizione strategia eccellente su un’altura quasi imprendibile. La causa contingente del conflitto fu rappresentata dal controllo della cittadina di Fidene, la cui posizione sulla via Salaria ne faceva la chiave strategica per lo smercio dei prodotti verso il centro-Italia ed era contesa, perciò, da entrambe le città. La guerra iniziò intorno al 480 a.C. e si articolò in tre fasi nella prima delle quali (480-477 a.C.) l’esercito romano, costituito secondo la tradizione dal clan dei Fabi, fu sterminato presso il fiume Cremera; dopo una lunga tregua lo scontro si riaccese (437-426 a.C.) e registrò la conquista romana di Fidene, ma il confronto si concluse solo con l’espugnazione di Veio da parte dei Romani dopo un assedio decennale (406-396 a.C.). L’eroe romano dell’ultima fase della guerra contro la città etrusca fu Marco Furio Camillo. La politica estera nel IV secolo a.C. Con la vittoria contro Veio, all’inizio del IV secolo a.C., Roma aveva riconquistato una posizione di preminenza indiscussa nei confronti sia dei Latini sia di tutti gli altri popoli confinanti, e il primato commerciale sul basso Tevere. Ma questa ripresa sembrò subito compromessa dalla minaccia dei Galli: nel 390 a.C., infatti, la città venne occupata da un contingente di Galli Sènoni al seguito del capo Brenno. I Galli erano popolazioni indoeuropee celtiche, che si erano da molto tempo stanziate nell’Europa centrale. Nel V secolo, attraverso i passi alpini, si erano infiltrati nella pianura padana occupando prevalentemente le zone controllate dagli Etruschi. Quando la notizia dell’incursione giunse a Roma l’esercito uscì ad affrontare il nemico ma fu sbaragliato presso il fiume Allia in un giorno, il 18 luglio, che verrà per sempre segnato sul calendario romano come ricorrenza luttuosa (il dies alliensis). Gli abitanti di Roma furono evacuati per lo più a Veio e tutta la città, ad eccezione del Campidoglio, fu saccheggiata e data alle fiamme. E’ possibile tuttavia inserire l’episodio del primo sacco di Roma all’interno di più complesse vicende di ordine internazionale. I Galli figuravano infatti come alleati del tiranno greco di Siracusa Dionigi I, per il quale svolgevano, secondo la tradizione, la funzione di mercenari. Conseguenza immediata della sconfitta dell’esercito romano presso il fiume Allia e dell’occupazione di Roma da parte dei Galli fu la crisi dell’alleanza tra i Romani e i Latini, i quali si erano astenuti dall’intervenire, disattendendo la prima clausola del foedus Cassianum. I contrasti fra Roma e i Latini sfociarono, nel 340 a.C., in una ribellione generale delle città alleate. Fra il 340 e il 338 a.C. Roma affrontò una nuova grande guerra latina al fine di recuperare l’egemonia sul Lazio, indebolita dagli esiti disastrosi dell’incursione gallica; all’Urbe si oppose una coalizione che riuniva le città della Lega latina e tre popoli appenninici, i Volsci, gli Aurunci e i Sidicini. La battaglia decisiva si svolse presso Suessa Aurunca e si concluse con la vittoria dell’esercito romano e con lo scioglimento della Lega latina. Roma estese così il suo controllo su di un territorio chiamato “Lazio aggiunto”, comprensivo cioè non solo del Lazio antico ma anche dell’Etruria meridionale e della Campania settentrionale. Fallito il foedus Cassianum, Roma non siglò più un unico trattato con tutte le popolazioni soggette, ma strinse rapporti diplomatici individuali e differenziati per ogni singola comunità. Nacque allora quella che per convenzione viene chiamata dai moderni Confederazione Italica, anche se le fonti nominano sempre “Roma e i suoi alleati”. Le comunità del “Lazio aggiunto” - come tutte quelle che vennero vinte dai Romani fino al termine della prima guerra punica, in seguito alla quale la politica adottata da Roma nei confronti dei popoli sottomessi 7 principi e uno di triari. La legione poteva quindi suddividersi in articolazioni autonome, capaci di fronteggiare la guerriglia in montagna; i segnali trasmessi dalla tromba indicavano se il combattimento doveva svolgersi in linea, per coorti o per manipoli. I consoli detenevano il comando su tutte le legioni in servizio, spesso guidandone due ciascuno. L’ufficialità era rappresentata dai tribuni dei soldati (tribuni militum), 6 per legione, eletti ogni anno dai comizi centuriati; uno di essi, giovane alle prime armi, era di rango senatorio e fungeva da assistente del comandante, mentre gli altri cinque vantavano una notevole esperienza e mantenevano l’ordine nel campo. Erano coadiuvati dai centurioni, figure che rivestivano una posizione intermedia tra ufficiali e sottufficiali, il cui numero in età medio repubblicana corrispose a 10, uno per ogni coorte. Il centurione della prima coorte era detto primipilo ed era il capo dei centurioni. A fianco delle legioni combattevano le truppe ausiliarie, fornite dalle colonie latine e dagli alleati italici. ✳ Fino alla metà del III secolo a.C. i soldati dell’esercito romano erano suddivisi in 4 legioni di 4.500 uomini ciascuna, ognuna delle quali era articolata in sezioni orizzontali che svolgevano un ruolo diversificato: - sulla fronte dello schieramento erano allineati 1.200 astati, truppe scelte con armamento completo, che avevano il compito di sostenere il primo urto dell’esercito nemico; - seguivano 1.200 principi, truppe di rincalzo che combattevano a falange, sostenendo il maggior urto dello scontro e determinando spesso l’esito della battaglia; - alle spalle erano collocati 600 triari, truppe di riserva, che non sempre combattevano, ma intervenivano solitamente nelle fasi conclusive del combattimento, lanciandosi all’inseguimento dei nemici in fuga; - erano presenti con funzione di supporto anche 1.200 véliti, truppe di fanteria armate alla leggera, reclutate nelle classi censitarie più basse; - a sinistra e a destra dello schieramento erano disposte le formazioni di cavalleria: 300 cavalieri divisi in due squadroni. Il III secolo a.C.: l’imperialismo romano Il termine “imperialismo” è di uso recente ed è stato attribuito allo Stato romano per indicare la sua politica espansionistica fra la fine del III secolo a.C. e i primi decenni del II secolo a.C, quella che l’aveva indotta prima ad uscire dai ristretti confini del Lazio, poi a estendere la propria egemonia sulla penisola e su tutto il mediterraneo con la vittoria nella guerra annibalica. Come conseguenza diretta della sua politica imperialistica, Roma si trovò a vivere un profondo rivolgimento interno, prima di tutto sociale ed economico, poi culturale, che modificò la tipologia del cittadino romano tradizionale, la sua mentalità, i suoi valori. La storiografia ha dato letture diverse dell’imperialismo romano, proprio per la complessità del fenomeno. Alcuni storici hanno sostenuto la tesi dell’imperialismo difensivo, a sottolineare che le azioni belliche furono il risultato di molti fattori e non di una scelta politica aggressiva. Altri, soprattutto nell’Ottocento, hanno sostenuto la tesi opposta, ovvero hanno considerato l’imperialismo come il risultato di una politica volutamente aggressiva e depredatoria. Recentemente alcuni studiosi hanno posto l’accento sull’importanza dei fattori economici e hanno ritenuto che furono i gruppi finanziari e i loro sostenitori, numerosi anche nell’aristocrazia senatoria, a premere per una politica espansionistica a Roma , considerando la guerra come primario strumento di ricchezza e sfruttamento. Dopo aver posto fine alle guerre sannitiche Roma combatte una breve guerra contro gli Etruschi (284-282 a.C.). Il console plebeo Manio Curio Dentato promosse una rapida campagna vittoriosa e la battaglia decisiva si combatte nel 283 a.C. presso il lago Vadimone. Fu la fine dell’indipendenza etrusca. Nel 286 a.C. Roma provvide a insediare la colonia di Rimini per presidiare militarmente i nuovi territori. Dal 282 al 275 a.C. Roma fu impegnata nella guerra contro Taranto, la più potente città magnogreca d’Italia, che da tempo si prodigava per salvaguardare non solo la propria indipendenza contro le pressioni delle popolazioni indigene dell’interno (Sanniti e Lucani) ma anche il proprio ruolo egemonico sulle altre città italiote (cioè le colonie greche d’Italia). Nel 302 a.C., in funzione anti-sannitica, aveva stipulato con Roma un accordo in base al quale era vietato alle navi romane di oltrepassare il Capo Lacinio, cioè di entrare nel golfo di Taranto. A rompere l’equilibrio fra i due contraenti fu la colonia greca di Turi, situata sul Golfo, che, minacciata dai Lucani e dai Bruzzi, invocò l’aiuto di Roma. L’invio di soldati fu interpretato dai Tarantini come un’indebita ingerenza nella propria sfera egemonica ma la situazione precipitò quando nel 284 a.C., in aperta violazione del trattato, dieci navi romane provenienti da Turi comparvero nel porto di Taranto. L’affondamento di una parte delle navi e l’aggressione tarentina a Turi innescarono il conflitto. La decisione dei Tarentini di impegnarsi nella guerra, nonostante la loro inferiorità, era dovuta al fatto che nel frattempo si erano assicurati l’appoggio di Pirro, re dell’Epiro, uno dei sovrani ellenistici che desiderava 10 emulare in Occidente le imprese del grande Alessandro. Pirro sbarcò in Italia con un esercito di 30.000 uomini, del quale facevano parte anche 20 elefanti, animali che i Romani non avevano mai visto e che seminarono tra essi il terrore nei primi combattimenti. I Romani subirono nel primo scontro una grave sconfitta ad Eraclea (280 a.C.). La vittoria, però, era costata forti perdite allo stesso esercito di Pirro e costui, anziché marciare alla conquista dei territori, propose la pace in cambio della liberazione delle città greche dal dominio romano, ma il senato, soprattutto per l’intervento dell’anziano console Appio Claudio Cieco, rifiutò l’offerta. L’anno successivo una nuova disfatta romana si registrò ad Ascoli Satriano. Pesarono però sulla decisione di continuare la lotta alcune considerazioni, tra cui l’elevato numero di caduti che Pirro aveva dovuto subire nelle due battaglie pur vittoriose (tanto che si dice comunemente “vittoria di Pirro” per indicare un successo ottenuto a caro prezzo) e la pressione esercitata da Cartagine. Non a caso una flotta punica si presentò davanti alla costa laziale nel momento delle trattative e il patto tra le due città venne rinnovato per l’ultima volta (279 a.C.), confermando la solidarietà che le aveva fino ad allora accomunate in funzione anti-greca. Pirro, consapevole del fatto che non sarebbe riuscito a vincere la guerra, anche perché non poteva disporre di un vero ed efficace appoggio delle altre città greche, decise di portare la guerra in Sicilia, accogliendo le richieste di aiuto che gli venivano da Siracusa: la città, a causa dei dissensi interni, non era infatti più in grado di sostenere da sola la lotta, ormai secolare, con i Cartaginesi per il dominio della Sicilia. Pirro ritenne che il possesso di quella grande e ricchissima isola avrebbe accresciuto di molto la sua potenza, consentendogli di imprimere una svolta decisiva anche alla guerra contro Roma. In Sicilia Pirro passò di vittoria in vittoria, costringendo i Cartaginesi a chiudersi a Lilibeo (Marsala), all’estremità occidentale dell’isola: l’assedio di questa fortezza si rivelò tuttavia infruttuoso, dal momento che Lilibeo poteva essere costantemente rifornita via mare, dove i Cartaginesi godevano di un’assoluta superiorità. Pirro immaginò di sbloccare la situazione invadendo l’Africa, ma il progetto fallì. Pirro decise allora di lasciare incompiuta la sua impresa siciliana (non appena lasciò l’isola i Cartaginesi la riconquistarono quasi per intero) e di ritornare in Italia. Lo scontro decisivo con le flotte romane avvenne nel 275 a.C. nei pressi della località di Malevento, che qualche anno più tardi cambiò il nome in Benevento. Al termine del conflitto Roma aveva inglobato tutta l’Italia meridionale fino a Reggio. All’inizio del III secolo tutta la penisola italiana a sud della pianura padana si trovava così sotto il dominio di Roma. Dopo la partenza di Pirro dalla Sicilia, dove il re dell’Epiro, durante la cosiddetta guerra tarentina, aveva cercato di portare il conflitto, i Cartaginesi riconquistarono rapidamente gran parte dell’isola. Al tempo stesso il tiranno di Siracusa, Ierone II, avviò una campagna contro Messina. La città era allora nelle mani dei Mamertini, mercenari campani di stirpe sannitica, che avevano combattuto per Siracusa contro Cartagine, ingaggiati dal greco Agatocle, ma erano poi passati al soldo dei Cartaginesi al tempo della guerra contro Pirro e si erano impadroniti con un colpo di mano della città sullo stretto. Sotto la minaccia di Siracusa, i Mamertini avevano in un primo tempo chiesto aiuto a Cartagine, che aveva inviato una flotta a presidiare Messina; successivamente, per liberarsi dell’ingombrante presenza cartaginese chiesero aiuto a Roma. Con la conquista dell’Italia meridionale Roma era diventata una potenza mediterranea e si trovò perciò nella necessità di chiarire i suoi rapporti con le altre potenze mediterranee. Di esse la più importante era senza dubbio Cartagine, il cui impero coloniale comprendeva le coste dell’Africa settentrionale e una serie di basi e di possedimenti nella Spagna meridionale, in Sardegna, in Corsica e nella Sicilia Occidentale. Nel passato i rapporti fra Roma e Cartagine erano stati buoni ed erano regolati da un trattato, rinnovato più volte, che fissava le rispettive sfere di influenza commerciale. Ora però che le città greche dell’Italia meridionale erano entrate a far parte della Repubblica romana, i termini del trattato apparivano superati. La prima guerra punica (264-241 a.C.) fu il prodotto di una deliberata scelta della comunità romana; il senato lasciò infatti all’assemblea popolare il compito di decidere se accogliere o meno la richiesta di aiuto di Messina. Gli storici che più tardi descrissero la guerra, come Polibio, giustificano l’intervento romano come una risposta a una concreta minaccia. In verità, prevalse in quell’occasione la volontà di chi vedeva 11 nell’espansione in Sicilia la possibilità di conquistare terre fertili e di trasformare definitivamente Roma in una potenza mediterranea. Nel 264 a.C. il console Appio Claudio entrò con il suo esercito a Messina e ne cacciò il presidio punico. Immediatamente i due nemici di sempre, Cartagine e Siracusa, si allearono per respingere il pericolo comune. Siracusa fu rapidamente costretta alla resa e nel 262 a.C. passò dalla parte di Roma. Dopo un durissimo assedio la base cartaginese di Agrigento cadde nelle mani romane e fu devastata. Nonostante i primi successi ottenuti nell’isola, fu presto chiaro che la Repubblica dovesse dotarsi di una flotta, che fu costruita sul modello delle navi da guerra cartaginesi. I Romani tuttavia apportarono un’innovazione: idearono i “corvi”, passerelle mobili dotate di arpioni che agganciavano saldamente le navi nemiche e consentivano il combattimento corpo a corpo. Grazie a questo espediente la flotta cartaginese fu vinta a Milazzo nel 260 a.C. e Roma celebrò il suo primo trionfo navale. Dopo alterne vicende, nel tentativo di fiaccare la resistenza cartaginese in Sicilia, il console Attilio Regolo decise nel 256 a.C. di aprire un nuovo fronte, trasferendo le truppe romane sul suolo nemico; la campagna in Africa si tradusse però in una grave sconfitta. Nonostante ciò le legioni romane riuscirono a conquistare Palermo e la battaglia decisiva venne combattuta nel 241 a.C. sul mare, grazie a una nuova flotta, da Lutazio Catulo presso le isole Egadi, dove i Cartaginesi subirono una clamorosa sconfitta. In seguito alla prima guerra punica, la Sicilia, con l’eccezione di Siracusa, che conservò la propria indipendenza sotto il tiranno Ierone II, obbligato all’alleanza con i Romani, passò sotto la dominazione romana. Verso la Sicilia i Romani adottarono un trattamento assai diverso da quello che avevano riservato alle popolazioni italiche e alle città greche della penisola. La Sicilia fu infatti la prima provincia romana; ad essa seguirono la Sardegna e la Corsica, che i Romani sottrassero ai Cartaginesi nel 227 a.C.. L’ordinamento provinciale Al termine della prima guerra punica la politica adottata dai Roma nei confronti dei popoli sottomessi subì una radicale trasformazione. Fino ad allora le città vinte erano entrate a far parte della confederazione romano-italica ed avevano conservato i propri ordinamenti locali e le proprie magistrature. Con la conquista della Sicilia, Roma si trovò per la prima volta ad amministrare un territorio extraitalico e adottò quello che sarà definito l’ordinamento della provincia. Dal III secolo a.C. tale termine - originariamente usato per indicare la sfera di competenza di un magistrato - fu impiegato per designare il territorio nemico che avesse fatto atto di resa a un generale romano e i cui abitanti fossero entrati nella categoria di “sudditi che si sono arresi” (peregrini dediticii), privi cioè di diritti politici. Finalizzato alla costituzione di una provincia era l’invio di una commissione di dieci delegati scelti dal senato con l’incarico di definire i nuovi confini e individuare un capoluogo; si procedeva poi a definire i diritti e i privilegi delle entità che si fossero dimostrate favorevoli a Roma nel corso della conquista. Nella provincia conviveva, di conseguenza, una molteplicità di ordinamenti: città alleate, città che dovevano pagare un tributo, città che erano autonome ed esentate dai pagamenti. Si procedeva infine a delimitare l’ager publicus, cioè la terra che andava a costituire la proprietà demaniale della Repubblica, e a fissare l’entità del tributo che doveva essere corrisposto o in denaro o in grano (come stabilito, ad esempio, per la Sicilia, che divenne in breve il granaio di Roma). Era evidente la necessità di inviare nelle province magistrati con pieno imperium, in grado di condurre un esercito; i primi candidati, per Sicilia e poi Sardegna e Corsica, Spagna Citeriore e Spagna Ulteriore furono i pretori, il cui numero, proprio per tale ragione, aumentò a 6. Con la creazione delle province successive - Macedonia e Africa - si affermò invece il sistema della prorogatio imperii (proroga della magistratura, poiché i territori transmarini comportavano tempo per essere raggiunti e perché l’amministrazione necessitava di un minimo di continuità), e la scelta, rispettivamente, di un proconsole e un propretore. In linea teorica, una provincia poteva essere di volta in volta dichiarata dal senato consolare, quando a prevalere erano le necessità militari, o pretoria, quando a prevalere erano quelle amministrative. Il governatore, accompagnato da un questore e da alcuni legati nominati dal senato fra esponenti di rango senatorio, aveva la responsabilità della sicurezza militare della provincia, ma non poteva autonomamente decidere di dichiarare guerra. Rientrava fra le sue competenze l’invio a Roma del tributo; tuttavia il suo principale compito risiedeva nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. 12 controversie tra il suo regno, da una parte, e Pergamo e Rodi dall’altra. Si trattò in realtà di una mossa di carattere puramente propagandistico per presentare Roma come protettrice della Grecia, dal momento che i comizi centuriati avevano già deciso per la guerra e il senato non sarebbe tornato sui suoi passi anche se 6 Filippo ne avesse accolto le richieste. Ad ogni modo Filippo ignorò l’ultimatum, così nel 200 a.C. fu dichiarata la guerra. Alla fine del 200 a.C. i Romani varcarono l’Adriatico, ma i primi due anni di guerra trascorsero senza che vi fossero azioni decisive; ciononostante la Lega etolica decise comunque di aggiungersi alla coalizione antimacedone. Una svolta venne impressa nel 198 a.C. dal nuovo comandante delle forze romane, il giovane console Tito Quinzio Flaminino: la sua azione sul campo si rivelò efficace, ma sopratutto egli fu artefice di una gestione propagandistica del conflitto che determinò notevoli vantaggi per Roma: Flaminino, avviando trattative di pace, chiese a Filippo la liberazione della Tessaglia, una regione che era sotto il dominio della monarchia macedone dai tempi di Filippo II, padre di Alessandro. La richiesta venne respinta, ma destò comunque grande impressione: uno a uno, gli stati della Grecia si schierarono dalla parte dei “liberatori”, persino la Lega Achea che da decenni era alleata della Macedonia. Alla fine del 198 a.C. Filippo, ormai isolato, decise di intavolare serie trattative di pace, ma Flaminino, quando seppe che il suo comando in Grecia era stato prorogato anche per il 197 a.C., perseguì l’obiettivo anche di una decisiva vittoria sul campo: nel 197 a.C. nella battaglia di Cinocefale in Tessaglia l’esercito romano sbaragliò le truppe macedoni. La Macedonia, che manteneva la sua autonomia, dovette rinunciare alla sua flotta, ritirarsi dall’intera Grecia e pagare una consistente indennità di guerra. Nel 196 a.C. a Corinto, nel corso dei Giochi Istmici, Flaminino proclamò la libertà della Grecia; impose alle comunità greche il pagamento di un tributo e stabilì che guarnigioni romane presidiassero i territori che erano stati sottoposti alla Macedonia, ma dimostrò che Roma non aveva interesse, per il momento, a instaurare un controllo diretto sulla Grecia. I nuovi equilibri che facevano seguito alla seconda guerra macedonica lasciavano insoddisfatta la Lega Etolica, scontenta che la Macedonia non fosse stata distrutta, delusa nelle sue speranze di ingrandimento territoriale e conscia che la libertà largita alla Grecia equivaleva ad una semplice sostituzione dell’egemonia romana all’egemonia macedone. Per questa ragione gli Etòli raggiunsero un accordo con il re di Siria Antioco III, che contestava l’ingerenza dell’Urbe in un’area come l’Asia Minore, che riteneva di sua competenza, e forte dell’appoggio etolico nel 192 a.C. mosse guerra contro Roma: si apriva la guerra siriaca (192-189 a.C.). Antioco decise di passare con un piccolo esercito in Tessaglia, sopravvalutando il sostegno di cui avrebbe potuto godere: in realtà gli unici aiuti concreti gli vennero dagli Etoli, mentre Atene, la Lega Achea, Pergamo, Rodi e lo stesso Filippo V di Macedonia si allearono con Roma. In grave inferiorità numerica, il re di Siria venne duramente battuto nel 191 a.C. alle Termopili dai Romani e dovette fuggire in Asia Minore. Dopo numerosi scontri vittoriosi per terra e per mare, i Romani, al comando del console Lucio Cornelio Scipione, accompagnato dal più famoso fratello Publio Cornelio Scipione Africano, incalzarono il nemico in Asia. La battaglia decisiva ebbe luogo a Magnesia sul Sipilo nel 189 a.C.. La pace venne conclusa ad Apamea nel 188 a.C. a condizioni assai gravi: furono imposti la distruzione della flotta siriaca e il pagamento di una consistente indennità di guerra; fu stabilito al Tauro il confine del regno di Siria e furono divisi tra il regno di Pergamo e la repubblica di Rodi i territori sgombrati nell’Asia Minore; fu fatto obbligo al re vinto di ridurre gli armamenti e di consegnare i principali nemici di Roma, fra cui Annibale, che aveva dovuto lasciare Cartagine su ordine di Roma nel 196 a.C. e aveva trovato rifugio presso Antioco. Ancora una volta perdente, il generale cartaginese dovette fuggire per evitare di essere consegnato ai Romani e trovò riparo in Bitinia, dove si tolse la vita nel 183 a.C.. A Roma, dopo un acceso dibattito, le voci contrarie a una nuova guerra appena due anni dopo la conclusione del 6 conflitto con Cartagine furono alla fine superate dal partito, capeggiato dall’Africano, che, esaltato dalla vittoria, vedeva nell’Oriente un campo immenso di gloria militare, di ricchezza e di potenza, e nella guerra l’occasione opportuna per prostrare l’antico alleato di Annibale. 15 Filippo V, ridotto alla condizione di alleato, aveva prestato un aiuto prezioso ai Romani nella guerra siriaca. Nel 179 Filippo morì e gli succedette il figlio Perseo. Questi era animato da una volontà di rivalsa nei confronti di Roma, che dopo la guerra siriaca non aveva soddisfatto le ambizioni espansionistiche della Macedonia. Perseo si adoperò al fine di sottrarre a Roma il ruolo di garante della libertà della Grecia e molte città greche cominciarono a vedere in lui un protettore contro la pesante egemonia romana. Roma, vedendo che la sua egemonia in Oriente era minacciata e ricevendo urgenti sollecitazioni da Eumene di Pergamo, che intendeva tutelare gli interessi del suo regno, colse un futile pretesto e nel 171 a.C. dichiarò guerra: ebbe così inizio la terza guerra macedonica. Dopo una serie di operazioni militari di scarsa efficacia per entrambi i contendenti, nel 168 a.C. si ebbe a Pidna lo scontro decisivo che vide trionfare il console Lucio Emilio Paolo (figlio del console morto a Canne). Ebbe fine il regno di Macedonia. Il territorio che esso occupava in precedenza venne diviso in quattro distretti indipendenti, ciascuno dei quali fu tenuto a versare un contributo alla Repubblica. Perseo fu condotto prigioniero a Roma; la Lega Achea, che aveva sostenuto la causa della Macedonia, dovette consegnare mille esponenti politici sgraditi ai Romani per le loro responsabilità nel conflitto, che furono condotti in Italia; tra essi vi era Polibio. Pergamo e Rodi, che avano tenuto nella guerra una condotta ambigua, ebbero un trattamento severo. Rodi in particolare fu rovinata economicamente quando i Romani fecero della vicina isola di Delo un porto franco, ove i traffici commerciali non erano soggetti a dazio, e che quindi concentrò rapidamente il commercio del mondo ellenistico e divenne il maggior mercato degli schiavi del Mediterraneo. Sottomissione della Macedonia e della Grecia: • Nel 148 a.C., venti anni dopo la vittoria dei Romani a Pidna, con la quale si era conclusa la terza guerra macedonica, Andrisco, figlio di Perseo, si fece promotore di una riunificazione della Macedonia sotto il suo comando, ma fu vinto da Lucio Emilio Paolo ➞ la Macedonia fu trasformata in provincia. • Nel 146 a.C. anche la Lega Achea mosse guerra a Roma, subendo una rapida e definitiva sconfitta ➞ Corinto, la più importante città della Lega, venne rasa al suolo dalle truppe di Lucio Mummio; nello stesso anno fu quindi istituita la provincia di Macedonia e Acaia. Nello stesso anno della distruzione di Corinto si concluse un’ultima feroce guerra contro Cartagine. A Roma molti continuavano a vedere la rinnovata prosperità di Cartagine come un pericolo. In particolare Marco Porcio Catone non cessava di sostenere che Cartagine andava distrutta. L’attivismo della nemica storica di Roma e la sua relativa vicinanza all’Urbe indussero a decidere per la guerra i comizi, peraltro ben consci dei vantaggi che sarebbero derivati al popolo dall’acquisizione di un territorio produttore di grano. Il casus belli di questo nuovo conflitto furono le tensioni maturate tra Cartagine e il regno di Numidia, il cui re, il vecchio Massinissa, appoggiato dai Romani, minacciava i confini dello stato cartaginese e gli stessi commercianti punici. Quando Cartagine reagì, violando il trattato che impediva di dichiarare guerra senza il consenso romano, Roma ebbe l’occasione di punire la città nemica. L’assedio di Cartagine durò tre anni (terza guerra punica, 149-146 a.C.) e fu condotto da Publio Cornelio Scipione Emiliano, figlio del vincitore di Pidna Lucio Emilio Paolo e in seguito adottato da Scipione Africano. Nel 146 a.C. Cartagine cedette al lungo assedio, venne saccheggiata e rasa al suolo. Il suo territorio fu acquisito dallo stato romano e trasformato nella provincia d’Africa. L’annientamento di Cartagine segnò una svolta nella storia romana: ebbe fine il cosiddetto metus hostilis, la paura del nemico. Dal 146 a.C., secondo una visione acquisita da gran parte della storiografia romana, prese avvio quel degrado morale che avrebbe portato alla crisi della repubblica: non esisteva più un comune nemico esterno che inducesse i Romani a tenere un comportamento corretto, adeguato a renderli sempre pronti all’azione in caso di attacco nemico. Durante la seconda guerra punica era risultata evidente l’importanza della penisola iberica, dal punto di vista sia economico sia strategico. Per questo nel 197 a.C. il territorio venne organizzato in due province, la Spagna Citeriore e la Spagna Ulteriore, i cui territori corrispondevano rispettivamente alla costa orientale e alla costa meridionale della Spagna. Esse furono affidate all’amministrazione di due pretori. L’interno della penisola iberica, però, rimase a lungo terreno di scontri, spesso a causa delle vessazioni dei governatori romani. Le difficoltà per l’esercito romano scaturivano dall’organizzazione delle popolazioni iberiche, che si raggruppavano in tribù indipendenti e che quindi, promuovendo ciascuna azioni ostili a Roma in tempi diversi, non consentivano all’esercito invasore alcuna pausa nell’azione militare. Solo nel 178 a.C. il pretore Tiberio Gracco sistemò le province spagnole, stipulando un trattato che per qualche tempo stabilizzò le relazioni fra Roma e queste bellicose popolazioni. Ma nei decenni successivi la guerriglia riprese e gli eserciti romani furono spesso in difficoltà (la tribù dei Lusitani, ad esempio, impegnò le legioni per quasi un decennio, tra il 147 e il 139 a.C., così come quella dei Celtiberi). Vi furono, durante le campagne in Spagna, diversi episodi di violenza. Il più drammatico fu l’assedio e la distruzione di Numanzia (nel nord della penisola), ultima roccaforte della resistenza celtibera, attuata nel 16 133 a.C. da Scipione Emiliano , alla fine di un conflitto che si protraeva da vent’anni e dopo numerosi 7 tentativi di assedio. La città aveva infatti difeso per anni la propria indipendenza e i Romani consideravano la sua distruzione come una punizione esemplare di un nemico barbaro. ➤ Poco dopo la metà del II secolo a.C. Roma dominava un vasto impero territoriale, dalla Spagna all’Africa settentrionale, alla Grecia. Nel 133 a.C. i territori romani si ampliarono ancora: in quell’anno morì l’ultimo re della dinastia attalide, Attalo III, lasciando il regno di Pergamo in eredità al popolo romano. La regione fu trasformata nella provincia d’Asia. ➤ Nel 133 a.C. Aristonico, figlio naturale di Eumene II di Pergamo e quindi fratellastro di Attalo III, sobillò il popolo alla rivolta, vantando il diritto a subentrare come re al fratellastro defunto, che aveva invece lasciato il suo regno in eredità ai Romani. La ribellione venne soffocata nel sangue nel 129 a.C. e Aristonico fu giustiziato dopo aver sfilato nel trionfo a Roma. Mentre era impegnata nelle guerre in Oriente, nel II secolo a.C. Roma riprese il vecchio progetto di conquista della pianura Padana e della fascia costiera ligure, che era stato interrotto dalla guerra annibalica. Questa espansione ebbe un significato sociale molto importante, perché rese possibile un consistente travaso di popolazione verso il nord, con la fondazione, nel corso del II secolo a.C., di nuove colonie: Parma, Modena (183 a.C.), Bologna (189 a.C.). Al confine orientale del territorio dei Veneti fu costruita la colonia latina di Aquileia e nel 177 a.C. fu assoggettata l’Istria; una ventina di anni dopo fu la volta della Dalmazia. La conquista fu consolidata con la costruzione di alcune importanti strade militari: la via Flaminia, da Arezzo a Bologna, la Via Emilia (che prende il nome dal console Marco Emilio Lepido) da Rimini a Piacenza. Più tardi fu aperta un’altra via di comunicazione fra l’Etruria e la valle Padana, la via Cassia. Infine, nel 148 a.C. fu costruita la via Postumia da Piacenza ad Aquileia. La pianura Padana, grazie a queste infrastrutture, andò rapidamente romanizzandosi. Roma non si limitò a consolidare la propria egemonia nel settentrione della penisola ma inviò i propri eserciti anche nella Francia meridionale, dove venne a contatto col territorio della repubblica di Marsiglia, sua alleata, e a conflitto con le popolazioni celtiche della Provenza. Ultimata la conquista, nel 121 a.C. venne istituita la provincia di Gallia Transalpina, rinominata Gallia Narbonense nel 118 a. C. in conseguenza della deduzione della colonia di Narbo Martius (Narbonne) che ne divenne la capitale. Gli sviluppi della società romana legati alle grandi conquiste Il repentino ampliamento degli orizzonti di Roma a seguito delle grandi vittorie tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. non poteva che portare una ventata di cambiamento anche nell’assetto politico e sociale interno. Nel III secolo a.C. la società romana prevedeva una stratificazione piramidale che individuava il suo vertice nella nobiltà senatoria e la sua base negli schiavi. Tale gerarchia era il risultato di svariati fattori: privilegi di nascita, capacità personale, consistenza patrimoniale. Di molti benefici si giovava l’aristocrazia patrizio- blebea, all’interno della quale si costituiva di fatto un gruppo più ristretto, la nobilitas patrizio-plebea (che contava una ventina di famiglie) che riusciva a monopolizzare i vertici delle magistrature, ricoprendo le cariche più prestigiose. Durante il III secolo a.C. si produsse un’apertura del senato in due direzioni: vennero ammessi elementi appartenenti a famiglie provenienti da città di area tirrenica e si assistette anche a un’apertura verso il basso, ovvero alla possibilità di ascesa di figure come Gaio Flaminio e Marco Porcio Catone che potevano definirsi homines novi poiché avevano raggiunto il consolato senza che la loro famiglia appartenesse all’ordine senatorio e avesse quindi già dato magistrati alla Repubblica. Due erano i requisiti imprescindibili per una simile ascesa: il legame con esponenti di famiglie aristocratiche e la disponibilità di un cospicuo patrimonio. L’accesso alle magistrature era infatti nella pratica un privilegio dell’aristocrazia per una serie di ragioni, tutte fondamentalmente di carattere economico: per ambire a una carica si doveva poter finanziare la campagna elettorale e solo gli aristocratici possedevano un patrimonio adeguato; era necessario poi disporre di masse di clienti, sul cui voto poter far conto; si doveva infine poter accettare magistrature che non erano retribuite e anzi spesso presupponevano obblighi finanziari. Nel 134 a.C. viene richiamato in Hispania Publio Cornelio Scipione Emiliano, console per la seconda volta, 7 nonostante non siano ancora passati i dieci anni prescritti dalla normativa romana per poter essere nuovamente eleggibile. Lo accompagnano Gaio Mario, allora ventitreenne, il principe numida Giugurta che porta con sé dodici elefanti e si distingue per il proprio valore, e il massimo storico del tempo, il greco Polibio, consigliere e amico personale del vincitore di Cartagine. Scipione Emiliano si rende conto che Numanzia rappresenta il perno del sistema difensivo celtibero e va espugnata con tutte le forze disponibili. 17 Dopo questa fase di apprendistato iniziava il cursus honorum vero e proprio: • il primo incarico era rappresentato dalla questura, magistratura non collegiale, che aveva durata annuale e per la quale era richiesta l’età minima di 25 anni. Nati forse già nel 509 a.C., i questori successivamente iniziarono ad essere eletti dai comizi tributi e solo nel 409 a.C. furono ammessi nel collegio anche i plebei. Tale incarico di natura amministrativo-finanziaria veniva esercitato presso il senato o nelle province. I due questori più importanti entravano in carica il 5 dicembre, dovevano amministrare il tesoro dello stato e svolgevano anche le funzioni di archivisti. Gli altri questori collaboravano con i magistrati superiori per tutto ciò che riguardava l’amministrazione finanziaria fuori Roma. L’accesso alla questura garantiva l’apertura delle porte del senato; per la cooptazione, e quindi per entrare a far parte dell’ordine senatorio, era necessario, infatti, aver ricoperto almeno questa prima carica. • dopo la questura era possibile candidarsi al tribunato della plebe o all’edilità; era necessario aver compiuto 27 anni di età e aver ricoperto da almeno due anni la questura: - i tribuni erano originariamente due, ma il loro numero venne presto portato a dieci. Il collegio, ordinario e permanente, era eletto ogni anno dal concilium plebis. Si trattava di una magistratura esclusivamente plebea e i patrizi che intendevano assumerla dovevano compiere il passaggio dal patriziato alla plebe. La nascita di questa carica è connessa ad un evento rivoluzionario: la prima secessione, che portò la plebe a darsi propri rappresentanti. Essendo esposti in prima linea nel contrasto con gli antagonisti politici, i tribuni della plebe si videro riconoscere il privilegio dell’inviolabilità, in base al quale chiunque avesse attentato all’incolumità di un tribuno poteva essere impunemente ucciso senza che il suo assassino fosse perseguibile. I tribuni della plebe per svolgere la loro opera godevano inoltre di due diritti: il ius auxilii, grazie al quale prestavano assistenza giudiziaria ai plebei contro gli abusi dei magistrati patrizi e il ius intercedendi (diritto di veto) per cui era sufficiente che un solo tribuno opponesse il veto alla deliberazione di un magistrato patrizio perché questa venisse subito annullata in quanto lesiva degli interessi della plebe. - la terza per importanza, tra le magistrature ordinarie e permanenti, senza imperium, era composta da due magistrature distinte, che tra loro non formarono mai un collegio. L’edilità plebea, in subordine al tribunato, aveva il compito di sorvegliare i templi della plebe, amministrarne le finanze e, probabilmente, contribuire a esercitare funzioni giudiziarie. Forse già in numero di due, tali magistrati erano eletti nel concilium plebis, presieduto dai tribuni. Nel 367 a.C., ai due edili plebei se ne aggiunsero altri due, curuli e patrizi, eletti dai comizi tributi, presieduti dai magistrati maggiori. Gradualmente anche questa carica fu aperta ai plebei. Dalla media età repubblicana le funzioni delle due magistrature furono in parte assimilate. Compito comune era sorvegliare la città, i mercati, i commerci e assicurare gli approvvigionamenti granari, funzione sempre più delicata e strategica. Gli edili si occupavano anche della cura e della costruzione degli edifici pubblici, nonché della prevenzione e della tutela dagli incendi. Presiedevano inoltre all’organizzazione dei giochi in onore delle divinità, le cui spese risultavano in buona parte a loro carico; la loro buona conduzione era un trampolino di lancio per la successiva carriera politica. 20 • il gradino successivo era rappresentato dalla pretura, seconda carica per importanza tra quelle ordinarie e permanenti. Per accedervi era necessario che il candidato avesse compiuto almeno 30 anni e che fossero trascorsi almeno 3 anni dal tribunato o dall’edilità. I pretori, che entravano in carica il 1° gennaio, crebbero di numero negli anni, fino a raggiungere il numero di 16 nel 44 a.C.. I pretori, che detenevano l’imperium, potevano guidare una o più legioni e avevano anche la facoltà di convocare il senato e i comizi, presentare proprie proposte di legge, nonché, in assenza dei consoli, presiedere addirittura il senato. La loro principale occupazione era rappresentata però dall’amministrazione della giustizia: il pretore detto urbano amministrava la giustizia tra cittadini, quello detto peregrino tra cittadini e stranieri o tra stranieri. I pretori potevano presiedere un tribunale straordinario (quaestio) per giudicare i processi penali. Gli incarichi maggiori per la pretura - a partire dal principato di Augusto - furono il governo delle province imperiali di rango pretorio (legatus Augusti pro praetore), il governo delle province senatorie (proconsul) e la legatura di legione (legatus Augusti legionis). • la tappa successiva era costituita dal consolato, per assumere il quale si doveva aver raggiunto almeno 33 anni e aver ricoperto da due la pretura. Continuava a rappresentare la magistratura più importante dello stato romano e la sua assunzione consentiva l’accesso alla nobiltà senatoria. Tale carica non conobbe aumenti numerici rispetto all’iniziale numero di due perché venne trattata dall’alta aristocrazia alla stregua di una proprietà privata e l’ingerenza di un “uomo nuovo” era considerata quasi una profanazione. I consoli, che erano eletti ogni anno dai comizi centuriati ed entravano in carica il 1° gennaio, esercitavano il comando militare supremo e governavano la città per tutto ciò che riguardava le questioni civili, mentre, sotto il controllo del senato, gestivano la conduzione della guerra, avevano facoltà di arruolare truppe e imporre contributi per le esigenze militari. In città convocavano e presiedevano il senato, i comizi centuriati e tributi; potevano proporre leggi ed erano limitati solo dall’azione del loro collega o dai tribuni della plebe. Amministravano l’erario e svolgevano anche funzioni di polizia. Il loro potere collegiale, quindi con diritto di veto reciproco, si compendiava nei termini di potestas (la capacità di esprimere con la propria volontà quella dello Stato) e di imperium (la supremazia nello stato). Gli incarichi maggiori per il consolato - a partire dal principato di Augusto - furono il governo delle provincie senatorie di rango consolare (Africa Proconsularis e Asia), il governo delle provincie imperiali di rango consolare (legatus Augusti pro praetore) e la prefettura urbana (praefectus Urbi ➔ tutti i prefetti erano cavalieri, ad eccezione del praefectus Urbi che era invece un senatore). • dopo il consolato si poteva concorrere per la censura, magistratura ordinaria ma non permanente, per la quale la legge Villia non fissava alcun termine di età o limite temporale, così come non prevedeva nemmeno la possibilità di iterare le cariche. La censura nacque secondo la tradizione nel 443 a.C.; sua principale funzione era quella di tenere il censo di Roma. Con il tempo l’importanza di tale magistratura crebbe, fino a rappresentare il grado supremo della carriera di un magistrato, tanto che veniva conferita esclusivamente ad ex-consoli, che, in numero di due, venivano eletti dai comizi centuriati. I censori, procedendo al censimento, operavano la revisione delle liste (lectio) del senato e delle liste dei cavalieri; avendo la responsabilità della tutela dei costumi, potevano radiare un senatore dall’assemblea o un cavaliere dall’albo. Tale magistratura non era soggetta a veto. Nella media e tarda repubblica si affermò lentamente la pratica della proroga del comando, che andò a interessare i consoli e i pretori. La proroga era in genere sancita da un plebiscito, successivo a senatoconsulto, ma, poiché il senato si impose sull’assemblea popolare, dalla fine del II secolo era sufficiente il solo senatoconsulto. Con la riorganizzazione delle province i promagistrati, cioè proconsoli e propretori, andarono a governarle, sostituendo i magistrati annualmente eletti. Il senato nell’Urbe era l’unico consesso che raccogliesse l’insieme dei personaggi politicamente autorevoli. Nato in età monarchica come assemblea dei patrizi, in età repubblicana andò via via acquistando importanza, soprattutto grazie al ruolo di guida assunto nel corso delle prime due guerre puniche. Il numero canonico di 300 membri, stabilito in età regia, si mantenne fino a Silla. Se inizialmente, per entrarvi, valeva la designazione - sia regia sia magistratuale -, a partire dalla fine del V secolo il consiglio era ormai composto dagli ex magistrati curuli. Il senato finì quindi per raccogliere tutti coloro che erano stati eletti, in una magistratura, dal popolo romano. Al suo interno presentava una struttura gerarchica, in base alla magistratura di più alto grado rivestita. Il più anziano del rango maggiore era il princeps. Per accedere al senato era previsto un requisito patrimoniale: un censo minimo di 100.000 denari (pari a 400.000 sesterzi), conteggiato esclusivamente sulla base della proprietà fondiaria, requisito richiesto dalla legge Claudia, che aveva impedito ai senatori l’esercizio della mercatura. L’assemblea poteva essere convocata dal dittatore, dal magister equitum, dai consoli, dai pretori, dai tribuni. Presidente della seduta era il magistrato che la convocava; il parere del senato, il senatoconsulto, non vincolante legalmente ma obbligante politicamente, era in genere votato - dopo che i singoli componenti, a scendere per rango dopo il princeps, si erano espressi - per divisione, vale a dire raccogliendosi in due gruppi. 21 Le trasformazioni economico-sociali: il nuovo ordine equestre Le trasformazioni dell’economia romana, determinate dalle grandi conquiste dei secoli III e II a.C., furono così rilevanti dal punto di vista quantitativo e qualitativo che nel loro complesso potrebbero essere definite come una sorta di rivoluzione. Gli elementi essenziali del rinnovamento economico sono da individuare: 1. nell’aumentato peso del capitale mobile, commerciale e finanziario, cui corrispose l’accresciuta importanza della classe dei cavalieri che lo monopolizzarono; 2. nella crisi della piccola azienda agricola, col conseguente declassamento di molti ex piccoli proprietari alla condizione di proletariato rurale o di sottoproletariato urbano; 3. nell’enorme accrescimento numerico degli schiavi, che finirono coll’ammontare ad alcuni milioni e che con la loro crescente pressione introdussero nella società romana un elemento di precarietà sempre più minaccioso, destinato ad esplodere ripetutamente in sanguinose rivolte (guerre servili). In seguito alle conquiste realizzate nel Mediterraneo con la seconda guerra punica e nel corso del II secolo a.C. Roma divenne la più ricca città dell’intero bacino del Mediterraneo. Le prede realizzate in guerra e le indennità pagate dai popoli sconfitti fecero infatti affluire a Roma delle grandissime somme di denaro. Naturalmente non tutti i cittadini romani profittarono egualmente di questo afflusso di ricchezze. La grande maggioranza non ne trasse anzi alcun beneficio diretto e fu solo una minoranza di privilegiati che realmente si avvantaggiò. A questa minoranza appartenevano naturalmente le famiglie dell’aristocrazia senatoria, sia quelle di antica origine patrizia sia quelle di origine plebea che erano riuscite ad avere accesso alle cariche pubbliche, in tutto non più di qualche decina di famiglie. Esisteva però una legge che proibiva ai senatori di investire il proprio denaro nel commercio, cosa che del resto era abbastanza estranea alla loro mentalità e alle loro consuetudini. Si comprende perciò come essi avessero meno possibilità di accumulare grandi ricchezze rispetto a coloro che potevano dedicarsi senza alcun ostacolo al grande commercio internazionale e alla speculazione. Per tale ragione nel II secolo a.C. si andò consolidando in Italia un ceto imprenditoriale di forte peso; molte famiglie si erano infatti arricchite con il commercio e con altre attività collegate alle guerre di espansione. Soprattutto, per supplire alle carenze di uno stato che non disponeva ancora di un apparato burocratico in grado di adempiere alle funzioni amministrative di un ormai esteso dominio territoriale ✳ , si erano andate costituendo le cosiddette società di pubblicani (societates publicanorum); si trattava di consorzi di privati cittadini che concorrevano alle gare d’appalto annualmente bandite dallo stato per la realizzazione di opere pubbliche e l’esazione delle imposte e dei dazi nelle province. Roma delegava ai privati tali funzioni gestionali nei territori extraitalici senza regolamenti vincolanti. Gli appalti avevano generalmente durata quinquennale e consentivano ai pubblicani di arricchirsi enormemente. Costoro adottavano infatti metodi estorsivi violando la legge, spesso con la connivenza di governatori provinciali corrotti, cui devolvevano parte dei profitti illegali. Per quanto riguarda l’esazione delle imposte, ad esempio, lo stato romano fissava la quota contributiva che doveva ricevere da ogni singola provincia, ma non si curava di quanto i pubblicani potessero arbitrariamente prelevare con sistemi coercitivi; tali entrate aggiuntive rimanevano alle società preposte all’esazione. Grazie a tali molteplici attività numerosi imprenditori erano divenuti in alcuni casi addirittura più facoltosi dei senatori, ma non potevano dedicarsi alla carriera politica perché i loro patrimoni erano costituiti da ricchezze mobiliari. I cittadini romani non appartenenti alla nobiltà che riuscirono ad arricchirsi con questi sistemi furono detti cavalieri, perché erano i cittadini provvisti del più alto censo, i quali potevano procurarsi a proprie spese il costoso armamento equestre e fornivano, secondo il sistema di reclutamento dell’esercito romano, 18 centurie di cavalleria. A partire dal III secolo il termine, perdendo progressivamente l’originario significato militare, designò una nuova classe economico-sociale che si era venuta formando tra la classe dei grandi latifondisti e quella dei piccoli proprietari, cioè fu usato per indicare coloro che, pur godendo di un elevato censo, non appartenevano alla nobilitas senatoria, e non erano perciò vincolati dal divieto di attendere ai traffici o al commercio del denaro. Coloro tra i cavalieri che si erano arricchiti con gli appalti delle tasse nelle province furono detti appunto pubblicani, un termine che divenne ben presto l’equivalente di persona corrotta e corruttrice. ➤ Nella seconda metà del II secolo a.C. emersero in tutta la loro gravità i problemi scaturiti dall’amministrazione delle province, che dopo l’esperienza pilota della Sicilia rappresentarono il sistema tradizionale di gestione dei territori extraitalici acquisiti da Roma. In non pochi casi i governatori romani, di rango senatorio, depredavano i territori sottoposti alla loro giurisdizione; analogamente le società di pubblicani, nelle mani del ceto equestre, vincitrici delle gare d’appalto per numerosi servizi nelle province, si rendevano colpevoli di estorsioni ai danni delle popolazioni locali. Nello sfruttamento sistematico delle province si commisero tali eccessi che nel 149 a.C. fu varata la lex Calpurnia, la quale istituiva un tribunale permanente per giudicare i reati di concussione, la quaestio 22
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