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La ricerca sul campo in antropologia. Pennacini, Sintesi del corso di Antropologia

Riassunto del testo del libro della Pennacini dei capitoli "INTRODUZIONE" "PAROLE" "IMMAGINI" "EMOZIONI"

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022
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Scarica La ricerca sul campo in antropologia. Pennacini e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia solo su Docsity! LA RICERCA SUL CAMPO IN ANTROPOLOGIA OGGETTI E METODI Pennacini INTRODUZIONE “Magia del terreno” L’osservazione partecipante, condotta generalmente da soli attraverso una prolungata full immersion in un contesto culturalmente altro, costituisce il più delle volte un'esperienza, unica nell'ambito dei metodi utilizzati dalle scienze umane per costruire i propri saperi. Si tratta di una sfida cognitiva ed emozionale intensa, un investimento personale totalizzante che si sviluppa in genere nell'arco di diversi anni e molto spesso finisce con il plasmare la personalità stessa del ricercatore. Anche per questo può forse suscitare in chi la vive una sorta di pudore, che ne ostacola la pubblica rivelazione. Raramente il rapporto che un ricercatore istituisce con il suo terreno di ricerca risulta evidente e trasparente. Il ruolo esercitato in antropologia dal lavoro sul campo e le modalità con cui svolgerlo hanno subito numerose trasformazioni nel corso del tempo. Alla sua nascita e per molti decenni, l'antropologia di ispirazione positivista si propose di adottare un metodo scientifico ispirato alle scienze naturali, basato su un percorso di osservazione, documentazione, catalogazione dei dati, comparazione e generalizzazione. In esso si privilegiavano ovviamente la ricerca dell'oggettività e una descrizione neutrale di fatti e comportamenti in grado di produrre quel tipo di documentazione che si riteneva potesse conferire scientificità al lavoro etnografico. Le regole da seguire durante il lavoro di terreno furono esplicitate in alcuni manuali contenenti le “istruzioni per l'uso” dell'etnografo: in generale si insisteva sul fatto che l'esperienza del ricercatore avrebbe dovuto essere sistematicamente epurata da ogni elemento soggettivo, “raffreddata” attraverso una presa di distanza programmatica dagli "oggetti" che si andava osservando. In un certo senso il campo veniva sottoposto a un processo di disincarnazione che lo liberava degli aspetti personali, potenzialmente ambigui e contraddittori. A mano a mano che l'antropologia prendeva le distanze dallo spirito positivista che aveva segnato le sue prime fasi, il dubbio metodologico iniziava tuttavia a farsi strada. La cosiddetta “rivoluzione malinowskiana”, che introduceva il modello di un terreno prolungato, vissuto a stretto contatto con gli indigeni partecipando profondamente alla loro vita materiale, intellettuale ed emotiva, pose probabilmente le basi del cambiamento. Il metodo empirico fondato sulla semplice osservazione oggettiva e sulla classificazione dei dati fu presto considerato inadeguato per una disciplina che costruisce il suo sapere penetrando lentamente all'interno di contesti storico-culturali caratterizzati da una notevole complessità. Intorno agli anni Settanta del Novecento, poi, la svolta radicale prodotta dalla prospettiva ermeneutica comportò una ridefinizione del terreno di ricerca e della relazione che il ricercatore costruisce con esso. A questo punto non si trattava più di osservare fatti e raccogliere dati, ma di interpretare rappresentazioni culturali di varia natura costruite dagli attori sociali. La cultura stessa fu descritta come un "testo" o un insieme di testi scritti dai nativi, che l'etnografo tenta di leggere e comprendere posizionandosi dietro alle loro spalle. L'interpretazione è per sua natura un'operazione soggettiva, provvisoria e anche eventualmente confutabile. In quanto tale, essa presuppone la necessità di esplicitare il punto di vista dell'interprete e, nel caso dell'interpretazione di culture, di reintrodurre la presenza dell'etnografo sulla scena che si "recita" sul campo. L' interpretazione di un "testo" antropologico è infatti il frutto del lavoro di un etnografo particolare condotto in un contesto particolare. La svolta ermeneutica apre dunque la strada a proposte metodologiche nuove: lo sguardo e la stessa presenza del ricercatore non possono più essere occultati dietro al postulato dell'oggettività scientifica; egli si deve invece collocare in uno specifico contesto assumendo un suo particolare punto di vista, da cui osservare e documentare fenomeni prodotti a partire dalle scelte e dalle iniziative di altri soggetti. Diversi autori hanno quindi a vario titolo riconosciuto la dimensione fondamentalmente intersoggettiva della ricerca etnografica, lavorando sulle implicazioni e sulle conseguenze di tale caratteristica. Tuttavia, l'antropologia postmoderna, concentrandosi sulle vicissitudini del soggetto che osserva, ha imboccato in taluni casi un percorso riflessivo che ha finito con l'approdare a un eccesso opposto rispetto all'antropologia positivista. Se nella prima fase della storia dell’antropologia, l'angoscia derivante dall'incontro personale e spesso inquietante con l'alterità veniva rimossa grazie a un meccanismo difensivo che faceva ricorso al metodo scientifico, nelle derive maggiormente autoriflessive dell'antropologia postmoderna l'io dell'etnografo occidentale tende talvolta a prendere narcisisticamente il sopravvento. L'esito finale di questo processo è l 'oscuramento o la rimozione di una dimensione fondamentale del lavoro di terreno, quella relativa all'incontro reale e concreto con gli altri e alle infinite potenzialità conoscitive che esso ci può riservare. Ripensare al metodo Cruciale in questo ripensamento dei metodi di raccolta è il ruolo assunto dai soggetti che producono gli oggetti in questione, le cui "ragioni" sono ovviamente parte integrante della vita culturale che si sta tentando di comprendere. Riconoscere che la ricerca si svolge fondamentalmente all'interno di una dimensione intersoggettiva significa tener conto dell'insieme delle relazioni storiche e politiche che hanno determinato la storia delle popolazioni studiate dagli antropologi e dei loro rapporti con l'Occidente. In questo senso, la relazione che i succitati maestri dell'antropologia stabilivano con i loro "informatori" si inquadrava per lo più all'interno di situazioni coloniali, il che spiega almeno in parte la tendenza oggettivante. Anche in questo senso, dunque, l'esigenza di ridefinire il metodo etnografico nella direzione di una sua profonda “decolonizzazione” è divenuta improcrastinabile. L'ondata ermeneutica e le diverse manifestazioni dell'antropologia postmoderna hanno posto grande attenzione alla scrittura dell'etnografia, sottolineandone la natura letteraria e le retoriche più o meno dissimulate atte a persuadere il lettore. Si è suggerito di andare a rileggere i testi classici, per rinvenirvi tra le righe riferimenti impliciti alle particolari posizioni dell'autore e alla sua sensibilità. In effetti, la creatività tipica del lavoro etnografico lo rende per certi versi affine ai procedimenti artistici, e la divulgazione dei risultati si avvantaggia non poco di una scrittura suggestiva. Tuttavia, tornare a riflettere sulla fase che precede la scrittura e la presentazione dei risultati, ci consente di ribadire il vincolo originario che il materiale etnografico da noi raccolto mantiene con le realtà studiate. Tale vincolo costituisce garanzia indispensabile alla validazione dei risultati della ricerca nei confronti della comunità scientifica da un lato e delle comunità da noi studiate dall'altro. → In questo senso Flavia Cuturi (1997) ci descriveva qualche anno fa come "etnografi in libertà vigilata", un'immagine molto efficace della nostra condizione. La raccolta etnografica è il punto di partenza del percorso antropologico, la base su cui poggiano poi le operazioni di interpretazione, comparazione, astrazione, teorizzazione. Prima di giungere agli esiti e ai risultati più raffinati della ricerca occorre recarsi sul campo e raccogliere i propri materiali. L'esperienza personalmente vissuta del terreno risulta fondativa rispetto alle successive elaborazioni. Ciò non significa che i diversi oggetti raccolti siano utili solo per il raccoglitore stesso. In varie forme (articoli, monografie, saggi, film, dischi, progetti, archivi) la documentazione raccolta dovrà essere messa a disposizione della comunità scientifica, che necessita di poter comparare nel modo più ampio possibile diversi contesti etnografici, nonché delle comunità di origine, che a loro volta possono volerla utilizzare in diversi modi. Lo sviluppo delle scienze umane in ambito accademico incoraggia il dialogo interdisciplinare, mettendo a confronto le metodologie in uso nelle diverse discipline nonché i criteri riconosciuti per convalidarle. Le caratteristiche della ricerca etnografica la rendono, come si è visto, un'esperienza altamente personale e probabilmente in nessun modo standardizzabile. L'osservazione diretta dei fenomeni sociali e culturali, la raccolta di informazioni di prima mano, siano esse contenute in azioni, parole, immagini, suoni, documenti d'archivio o idee, sono i mattoni su cui l'antropologia fonda i suoi edifici teorici: dunque è essenziale poterne per così dire garantire la qualità. Nonostante un fieldwork nel senso tradizionale del termine, cioè un’osservazione partecipante condotta preferibilmente in un gruppo ristretto diverso da quello del ricercatore, sia divenuto sempre più difficile, esso rimane il marchio di garanzia dell'antropologia socioculturale. Ma affinché la ricerca sul campo possa davvero essere un marchio di garanzia è necessario esplicitare i metodi oggi condivisibili per la raccolta dei dati e la ricerca empirica. Un'antropologia che aspira a diffondersi e a istituzionalizzarsi sempre di più nelle università, sul territorio e nelle agenzie di sviluppo, deve dunque cercare di accantonare il pudore che ancora avvolge il lavoro di terreno, a favore di un “disincanto” e di una maggiore trasparenza metodologica. Queste sono raggruppabili in due macro-paradigmi: • quelli che contemplano le parole in maniera decontestualizzata rispetto all’attività comunicativa, all’uso e alla meta pragmatica; • quelli invece che le considerano a partire dall’interno del contesto comunicativo, dell’uso e delle ideologie locali della parola e del parlato. = Dalla posizione che l’antropologo assume nei confronti della combinazione di tali teorie dipende il risultato della ricerca e il tipo di testualità che elaborerà. Nella storia della ricerca antropologica a un minor ruolo assegnato alla lingua, in termini sia comunicativi sia teorico-metodologici, hanno corrisposto determinati tipi di “resa/e conoscitiva/e” che hanno privilegiato prospettive nomotetiche, oggettivanti e modellizzanti dei dati. La conoscenza prodotta ha soddisfatto più le logiche categoriali della tradizione filosofico-antropologica dello studioso piuttosto che quelle dei “nativi”. Le etnografie hanno proposto, anche in termini testuali, rappresentazioni come se fossero punti di vista dogmatici e generalizzanti. Le società risultavano essere collettività “pensanti” e quindi reificate, mentre i singoli individui che la componevano (tra cui gli interlocutori dei ricercatori) venivano indagati e osservati come (s-)oggetti indistinti e passivi, fonti occultabili di un sapere standardizzato o standardizzabile. Ogni lingua-cultura ha numerosi mezzi e strategie per sfumare e differenziare le proprie affermazioni in un continuum che va dal microindividuale più assolutizzato al “generico” meno connotato in termini di determinatezza agentiva. L’intero arco di possibilità va “scoperto” e associato ai significati che ogni cultura gli attribuisce (e che potrebbe non corrispondere alla nostra esperienza). Il complesso delle rappresentazioni che sottende l’utilizzazione di tali strategie e strumenti determina sia i generi degli enunciati degli interlocutori, sia quelli di cui si avvale il ricercatore. Questi ultimi si esplicitano differenziandosi a seconda delle molteplici realtà a cui sono rivolti: sia quelle dei collaboratori nativi, sia quelle condivise dal ricercatore, seppure mediate dalla scrittura. In ogni momento il ricercatore deve essere in grado di riflettere su quale tipo di enunciato (oggettivante, prescrittivo, normativo, standardizzante, soggettivante ecc.), parlato o scritto, stia utilizzando per comunicare con il suo variegato pubblico in diversi contesti e occasioni. → Dovrà acquisire una capacità analitica nei confronti delle convenzioni comunicative dei suoi interlocutori, in generale, e di quelle che utilizzano rivolgendosi a lui, in particolare. Assumendo tale prospettiva, va da sé che fra le tante consapevolezze da acquisire, primaria è quella della non coincidenza fra le concezioni e i punti di vista nostri e altrui. Il ruolo, il peso specifico, l’efficacia attribuiti a ciascuna “parola” e a ciascun enunciato che la contiene non devono essere mai dati per scontati. Il ricercatore deve assumere quanto siano specifiche, proprie di una lunga storia di scrittura e di riflessione sul linguaggio, le concezioni che si porta con sé e quanto siano necessariamente “marcate” in termini comunicativi e sociolinguistici le parole che enuncia. Non può in alcun modo né aspettarsi di “mimetizzarsi” nelle forme locali di enunciazione né, forse ancor meno, sperare di captare presto e bene le concezioni locali dell’uso del linguaggio e delle “parole”. In primo luogo, deve essere guardingo sul suo stesso uso del linguaggio, sulle sue forme discorsive e sul come le accompagna gestualmente, con quale tono della voce le enuncia, facendo attenzione contemporaneamente a dove, su chi e come posa lo sguardo. La calibratura dell’enunciazione, associata ai comportamenti, alle espressioni facciali, ai gesti, allo sguardo, si conquista a poco a poco dopo l’arrivo sul luogo di ricerca. Deve dunque sapere che non necessariamente potrà conquistare la fiducia, o addirittura la simpatia, dei suoi interlocutori tanto meccanicamente o facilmente. Infatti, sempre e dovunque ogni enunciazione è “marcata” (cioè, non è “neutra”) nella percezione dell’interlocutore. I parametri di tale “marcatezza” sono dati dalle innumerevoli scalarità che sono parte della storia di ciascuna regione e di ciascuna popolazione: scale di avvicinamento a, o controllo di una lingua nazionale standard, presenze più o meno pesanti di una o più lingue di eredità coloniale, non solo quelle di diretta importazione europea, ma anche quelle riflesso di modi diversi di indirect rule, o di politiche di “lingue generali”, e nazionali. Un’idea “semplice” o ingenua che il ricercatore potrebbe portare con sé, ma che è bene invece allontanare subito, è quella della consapevolezza metalinguistica che potrebbe attribuire ai suoi interlocutori, considerandoli “pronti”, o disponibili a rispondere a domande del tipo “Come si dice…?”, “Che cosa vuol dire…?” e simili. L’elaborazione di risposte “aperte”, e per di più di tipo metalinguistico, può costituire una sfida alla “faccia” dell’interlocutore / “informante” locale, ed è bene sondare tali capacità durante un certo periodo. In molte tradizioni comunicative, infatti, come a breve vedremo, alle domande aperte sono preferite di gran lunga le domande “chiuse” che prevedono risposte del tipo “sì/no/non lo so”. Anzi, in taluni casi la preferenza persiste anche quando la lingua locale sia stata abbandonata e sostituita da una lingua coloniale come è il caso di alcune popolazioni aborigene dell’Australia. Le capacità che ci consentono di riflettere, ma soprattutto di parlare, sulla nostra lingua, emergono da una lenta sedimentazione socio storica di contatti linguistici, di affermazione di forme di scrittura. Una volta “incorporata” tale prospettiva, è ovvio che il ruolo della lingua locale e delle sue “parole” va ben al di là di quanto scritto nei taccuini del ricercatore e del “controllo” dell’interazione, magari mediato dall’uso di una lingua di eredità coloniale, dal filtro della scrittura. La voce locale diventerà strabordante sopra quella del ricercatore e se egli sarà in grado di ascoltarla, magari via via sempre di più attraverso il tempo, con la crescita delle sue competenze, le parole del luogo diverranno sempre più importanti. Le questioni teoriche si intrecciano con quelle metodologiche. → Il rischio di fraintendimento o “errore” dovuto al mancato interesse per le analisi formali di una lingua è dunque alto. Non sembra che ci siano molte alternative allo studio approfondito di una lingua: ciò consentirà tra l’altro di individuare i limiti morfologici degli aspetti lessicali, di giungere a esporre una descrizione chiara, che «aiuterà a evitare etimologie poco professionali». Per una storia della raccolta delle parole degli altri Il lento cammino dell’interesse verso le lingue non è disgiunto da condizioni storiche ambivalenti, che hanno legato per molti secoli la raccolta delle parole tanto all’impresa coloniale e missionaria, alla sua legittimazione, quanto al suo contenimento e parziale storico “superamento”. Il ricercatore dovrebbe realizzare il proprio piano di ricerca a partire dalla conoscenza della storia della realtà linguistica culturale che gli si può presentare. Tale conoscenza si fonda su due dimensioni che possono interferire o interagire con il progetto di ricerca: 1. la storia dell’interesse per l’azione comunicativa 2. la storia del territorio della ricerca in relazione alle politiche linguistiche del passato e del presente. Le differenti forme assunte dalla “storia coloniale” pesano ovunque sul presente e possono attivamente condizionare l’intero operato della ricerca, pretendere specifiche modalità di interazione che vanno tenute in conto e suggerire tematiche di indagine. A seconda del quadro storico di ciascun terreno, lo studioso sarà in grado, inoltre, di individuare la documentazione esistente sulla società e sulla lingua: si tratti di raccolte di parole in lemmari o dizionari, di grammatiche, di narrazioni, di testi religiosi e autobiografici, di storie locali, manoscritte o stampate, dovrà comunque ricondurle tanto al piano paradigmatico (da non confondersi con quello disciplinare in senso stretto) quanto al piano della microstoria locale. Bisogna essere fortemente consapevoli del fatto che, nel passato come nel presente, la sorte di una lingua-cultura, spesso minoritaria e in una posizione marginale, non dipenda solo dai parlanti, ma sia anche affidata all’esistenza di una documentazione scritta o registrata, alla cui raccolta il ricercatore può attivamente contribuire. Come è avvenuto centinaia di volte nel corso della storia, l’assenza di una raccolta di dati linguistici ed extralinguistici, della loro conservazione, della loro fruibilità da parte dei parlanti, può sempre diventare uno strumento “complice” dell’abbandono dell’uso di una lingua e con essa della scomparsa di una cultura tout court. !!! Sebbene oggi nessuno studioso consapevole avanzi dubbi sull’inconsistenza di gerarchizzare le lingue secondo criteri di qualità ed efficienza comunicativa, permane il pregiudizio che riconosce lingue “superiori” e lingue “inferiori”. Tale pregiudizio deriva da atteggiamenti e politiche discriminatorie (proibizione del loro uso, assenza di scuole bilingui) e da azioni di declassamento (a volte le lingue minoritarie sono definite “dialetti”). In contesti plurilingui è possibile che le lingue dichiarate ufficiali in tante nazioni con un passato coloniale o fondate su una politica repressiva nei confronti delle minoranze linguistiche generino una rappresentazione negativa delle lingue minoritarie, portando a scoraggiarne l’uso, se non a volte il progressivo abbandono. Questi aspetti possono influire direttamente sull’attività del ricercatore, che potrebbe trovarsi di fronte a diversificati atteggiamenti dei suoi interlocutori nei confronti della loro lingua: negare di parlarla e di capirla, vergognarsi di utilizzarla, occultarla per utilizzarla come lingua segreta o per sottrarsi allo scambio comunicativo con il ricercatore. È al contrario possibile incontrare atteggiamenti che la supervalutano per rivendicazione identitaria, per indurre lo studioso a sentirsi ciò che è, ossia un estraneo, per metterlo di fronte ai suoi limiti e alla consapevolezza della sua ignoranza. Spesso, mostrare invece un serio e attivo interesse verso l’apprendimento della lingua è un prerequisito eticamente necessario che crea una premessa di eguaglianza, una condizione in cui gli interlocutori si sentano garantiti di poter mostrare apertamente qual è la propria posizione nei confronti della loro lingua, gratificati e riconosciuti in termini identitari. Liste di parole, glossari, dizionari: ponti tra le parole del ricercatore e quelle degli altri Le “parole”, come unità isolabili dal discorso, sono frutto della nostra più recente tradizione oggettivista legata in larga parte alla realizzazione scritta della parola, come strumento di reificazione della parola stessa e del significato che esprime. Questa visione condiziona sia le nostre vite fin dai primissimi momenti della socializzazione, sia la nostra formazione come persone, sia molta parte del pensiero filosofico, politico e religioso dell’Occidente. I primi dizionari delle lingue extraeuropee e agrafe erano compilati da missionari, non certo per valorizzare le lingue e culture delle popolazioni con cui erano entrati in contatto, ma per facilitare l’opera evangelizzatrice, attraverso la quale poi si imponeva non solo una nuova religione ma anche il nuovo ordine del mondo secolare. A tutt’oggi la gran parte delle lingue minoritarie del mondo è descritta in grammatiche e dizionari compilati da linguisti missionari. → Molti antropologi hanno espresso parole dure sull’uso dei dizionari. Dalle critiche di Malinowski alle odierne accuse di Haviland (2007) dirette soprattutto ai loro autori, queste mettono in luce la scarsa qualità delle traduzioni condizionate dalle ideologie e dalle idiosincrasie dei missionari che li hanno realizzati: nei dizionari sono assenti parole ed espressioni relative a molti aspetti della cultura e della religione locale; altri sono svuotati e neutralizzati da possibili connotazioni culturalmente salienti per i nativi, tanto da diventare poco utilizzabili e svianti sia per i nativi sia per i ricercatori. Nella più recente letteratura dedicata al riscatto e alla valorizzazione delle lingue-culture minoritarie, la discussione sui metodi con cui sono stati redatti e si stanno redigendo i dizionari è critica: Haviland (2007) avanza critiche oculate nei confronti di tale tradizione, che sembra continui a rivolgersi al ristretto circuito accademico, producendo opere anche di grande valore ma difficilmente utilizzabili ad esempio dalle comunità dei parlanti, e forse anche dagli studiosi che si avvicinano per la prima volta a quelle lingue. Le condizioni di raccolta si fanno spesso molto difficili soprattutto in quelle comunità dove la lingua è a rischio di estinzione, come avviene per le lingue degli aborigeni australiani. Al di là dell’utilizzo che gli antropologi ne possono fare, dizionari, glossari o liste di parole in genere rappresentano spesso per le società tendenzialmente agrafe un elemento importante per il proprio riconoscimento e sono fonte di complesse politiche della rivalutazione, sortendo effetti anche nei confronti delle politiche identitarie e scolastiche odierne. Questi lavori sono di grande importanza per un ricercatore, costituiscono uno spaccato della politica e della gestione del sé comunitario, del posizionamento di ciascuna società nei confronti della realtà regionale, nazionale o internazionale. Le inquietudini identitarie, le lotte contro la marginalizzazione di queste comunità si proiettano e concretizzano in opere dove alla lingua, perfino alla creazione di “nuove parole” è affidato il ruolo lungimirante di difendere la cultura e di proiettarla nella modernità. Teorie e metodi della raccolta di parole I metodi e le riflessioni della ricerca etnografica sono stati recepiti dai linguisti, e sono diventati costitutivi di ciò che noi oggi denominiamo “antropologia del linguaggio” o “etnolinguistica”; le potenzialità tematiche, le prospettive teoriche ed epistemologiche sono state ampliate negli ultimi vent’anni tanto da doversi considerare a loro volta fondamentali per qualsiasi ricerca antropologica tout court. Nel caso si volesse guardare alle parole dal punto di vista “pratico” rispetto alle intenzioni riservate alla ricerca sul campo, queste si intersecano con qualsiasi aspetto della società-cultura studiata, espletando numerose funzioni al medesimo tempo: le parole sono il mezzo principale per la comunicazione tra un antropologo e i suoi collaboratori, ma il loro scambio, che avviene sempre in una o più cornici di generi discorsivi, costituisce in primo luogo il fulcro della vita comunicativa all’interno della società che il ricercatore studia. Le parole a cui il ricercatore avrà “accesso” nel corso del tempo sono solo parzialmente la base per giungere ad “avere informazioni”, attraverso chiacchiere informali, partecipando agli scambi nel quotidiano che avvengono tra i nativi o a scambi formali, assistendo a rituali, cerimonie, oppure intervistando. Le “informazioni”, seppure nella loro parzialità, non sono desunte solo dalle parole “consapevolmente” scambiate con l’antropologo, o tra i membri della società studiata, ma sono anche sottese nella loro morfologia, nella sintassi, negli elementi fonologici, prosodici. Il genere discorsivo e le specifiche occasioni comunicative, comprese quelle generate dallo scambio con lo studioso stesso, le determinano e le plasmano. Il problema risiede nell’idea stessa di “informazioni”, quelle di cui va a caccia lo studioso, spesso pillole di contenuti assunti senza gustare tanti aspetti. Se le parole di per sé sono parte essenziale di una prospettiva metodologica della ricerca antropologica, sia per la conoscenza della società studiata sia per come essa costruisce, si rappresenta e agisce su sé stessa nei minimi aspetti dell’esistenza, potremmo definire la prima prospettiva (la lingua come fonte di “informazione”) come «codice, costituito da un repertorio di simboli che rimandano a dei significati», Esempi: In alcune società si sono sviluppate differenziazioni linguistiche tra uomini e donne, come tra i Chiquitanos (Bolivia orientale), percepiti quasi come un ostacolo all’intercomprensione. Si riconosce l’esistenza di una “lingua delle donne”. per i Lakota sioux e nel giapponese, che si connota come ideologia di genere per usare certe strategie fonologiche e morfologiche rivelatrici di atteggiamenti conoscitivi e affettivi del parlante. Tra i gruppi tukano del Nord-Ovest dell’Amazzonia (tra Brasile e Colombia) specifiche pratiche matrimoniali, conosciute come “esogamia linguistica”, creano unità residenziali multilingui dove i generi (l’età e la parentela) si contrappongono fortemente a seconda dell’appartenenza linguistica. =Le differenze nelle rappresentazioni di genere presenti in qualsiasi contesto di ricerca si proietteranno in maniera fluida sui ricercatori, donne e uomini, e si attiveranno o disattiveranno a seconda di come questi verranno man mano percepiti. Ogni scambio comunicativo prevede più di un partecipante e più di una “voce”. Il parlante attinge alle convenzioni legate agli eventi in corso per consentirne la comprensione e la partecipazione reciproca o la loro negoziazione con l’audience. Chi parla di fatto sta attuando, facendo ricorso alle proprie, sta “mettendo in scena” le parole che usa: parlare, quale che sia il genere, è un’arte che non prescinde da un’audience reale o fittizia e a partire da essa, a seconda del genere, dell’età, dello status di chi ascolta misura le proprie abilità oratorie. Il richiamo all’arte è quanto mai evocativo di una prospettiva in cui l’atto del parlare è inscindibilmente legato agli aspetti extra verbali, come le posture del corpo e l’uso della voce. Figure molto note delle società dell’Africa occidentale possono essere paradigmaticamente esemplificative della nozione di arte verbale: i griot e le griottes, poeti e poetesse, cantori della tradizione orale, e i portavoce di un capo o di un re. In molte società l’abilità di condurre e controllare un determinato evento comunicativo può essere un requisito richiesto a tutti, uomini e donne, e può incidere sul prestigio sociale. È il caso dell’abilità oratoria e gestuale, tutta da dimostrare, “richiesta” agli uomini adulti shuar e achuar (alta Amazzonia, Ecuador) durante le visite cerimoniali, attività centrali delle relazioni sociali. → Tali visite si avviano con un dialogo cerimoniale che può durare dai 10 ai 50 minuti. Il prestigio del visitatore si misura proprio a partire dalla sua abilità di esecuzione di tale dialogo, tanto temuto dai giovani quando sono ancora inesperti: dalle sue capacità dipende l’esito della visita che è un momento centrale della vita di relazione, per gli scambi commerciali, per mantenere o stabilire alleanze. Le conseguenze del fallimento ricadono soprattutto sul prestigio del visitatore che, oltre a essere interrotto e a non poter portare a termine la sua performance, viene deriso dagli uomini e soprattutto dalle donne della casa. Dunque, in un lasso di tempo relativamente breve l’uomo in visita deve essere in grado di dimostrare ciò che vale attraverso la rapidità metrica degli enunciati, il tono della voce, lo sguardo, la prosodia, il ritmo incalzante, che si incrocia con quello di uno o due degli uomini residenti (Gnerre, 1996). Oltre la raccolta dei termini della parentela L’interesse per le terminologie della parentela attraversa tutta la storia della ricerca antropologica fin dalla sua nascita. Tale attenzione non ha coinciso con altrettante riflessioni sui metodi della raccolta dei termini. Rivers (1900) fu probabilmente il primo ricercatore sul campo che indicò un metodo per la raccolta della terminologia della parentela definito metodo “concreto”, e conosciuto come “genealogico”. Egli suggeriva di ricavare i termini a partire dalla ricostruzione della genealogia del proprio interlocutore, raccogliendo sia i nomi propri dei suoi parenti, i termini di indirizzo e di riferimento corrispondenti, sia informazioni sulle relazioni matrimoniali dei loro genitori, fratelli e via via parenti più lontani. Dagli anni in cui Rivers proponeva il suo metodo ad oggi, gli antropologi hanno dedicato alla parentela probabilmente il maggior numero di pagine e di sforzi teorico-analitici, ma hanno riservato poche considerazioni agli aspetti metodologici della ricerca. Un esempio dettagliato di problemi di individuazione dei termini di parentela e del loro significato ci viene invece da una ricerca svolta dai linguisti Vaux e Cooper (1999) sul gujarati (India nord-occidentale), condotta principalmente in inglese e segnata dalle diseguali competenze comunicative degli interlocutori. L’elicitazione, secondo gli autori, è un metodo che ha molte limitazioni. Le difficoltà, gli errori e le ingenuità riportate hanno l’apposito compito di segnalare che alla base dei problemi di resa semantica ci sono disattenzioni nei confronti delle convenzioni interattive, dei rischi del fraintendimento legato alla diversa interpretazione attribuita al genere di dialogo imbastito dagli studiosi e la sottostima del ruolo del collaboratore. *Con il verbo “elicitare” si fa riferimento a una modalità di ricerca linguistica e antropologica di campo che prevede un ruolo forte, o dominante, del ricercatore, che “guida” il suo collaboratore attraverso domande specifiche per ottenere le informazioni che ritiene rilevanti. Infatti, Vaux e Cooper hanno rivolto inutilmente domande per determinare la corrispondenza con l’inglese di ciascun termine gujarati presente in un albero genealogico. Le risposte cadevano nel vuoto perché molti dei termini di parentela sono utilizzati a seconda di chi parla e non solo per riferirsi a qualcuno in particolare. Entrambi i punti di vista si modificano nel corso della vita di una persona. È il caso della terminologia che una donna utilizza per indirizzarsi ai parenti acquisiti attraverso il matrimonio, ad esempio, cambiando il proprio orizzonte terminologico. giovani di sua moglie o la moglie del fratello maggiore. Nonostante ciò, nel caso si volesse partire proprio dalla composizione dell’albero genealogico del proprio interlocutore, vanno tenuti presenti alcuni limiti intrinseci a tale metodo e alcune cautele da osservare. Segnare, vergare le genealogie su un foglio, innanzitutto intercetta le rappresentazioni dei nomi in relazione ai loro portatori e quindi può generare timori; può essere percepito come pericoloso per le persone vedere il proprio o altrui nome, spesso insieme a quello di persone defunte, scritto o comunque associato a un simbolo a lui sconosciuto. Quale potrebbe essere la sorte di quei nomi o simboli, corrispondenti a persone reali, in mano a un estraneo? Prendere in seria considerazione le rappresentazioni dei nomi, delle parole e le relative forme di proibizioni locali, non corrisponde a un atteggiamento “caritatevole” o cinicamente rispettoso delle convenzioni di enunciazione locali, ma ci rende consapevoli di come tali rappresentazioni condizionino la proiezione di tali nomi nel mondo della realizzazione grafica e della scrittura, secondo convenzioni sconosciute all’interlocutore. Prestare attenzione all’impatto che le nostre tecniche di rilevamento suscitano nei nostri collaboratori può di per sé essere fonte di conoscenza anche della nozione locale di persona. L’attribuzione di significati alle parole Strettamente connessi sono i temi dell’attribuzione del significato e dell’interpretazione semantica, a partire dalle parole apparentemente più semplici, come i pronomi personali indipendenti (“parole a sé stanti”). cosa vogliono dire tutti quei pronomi per “io” in giapponese, e xike, nello huave di San Mateo del Mar. L’uso delle lingue intermedie necessariamente banalizza la traduzione e l’interpretazione, e la consapevolezza di questo deve essere presente nel ricercatore, quasi ossessiva, fin dal primo giorno di lavoro sul terreno. La “chiave” di cui si può credere di disporre può aprire in realtà solo qualche spiraglio di un mondo semantico, lasciando chiuso e inaccessibile tutto il resto. Raccogliere “parole” dal punto di vista di un etnografo, vuol dire in primo luogo attribuire significati a dei significanti, e questa è una sfida notevole, sempre e dovunque, anche nel caso in cui il ricercatore sia un parlante nativo della lingua della comunità linguistico-culturale in cui attua la sua indagine. Questo è un caso limite (che chiameremo caso 1 perché richiede un avvicinamento problematico specifico). I casi più frequenti sono di altri due tipi: quelli in cui il ricercatore (caso 2) ha appreso la lingua usata nella comunità linguistico-culturale a cui dedica i propri interessi di ricerca, oppure (caso 3) usa una lingua intermedia, che per lo meno una parte delle persone con cui svolge la propria ricerca è in grado di usare. Molti etnografi hanno affrontato e affrontano forme di comunicazione, linguistica ed extralinguistica, su cui hanno attuato pressioni di poteri coloniali, statali o religiosi. Ciascuno di questi poteri ha agito, in modi diversi e con gradi differenti di elaborazione, per la costruzione di “condizioni di traducibilità” fra lingue locali e lingue di maggiore diffusione, o addirittura lingue di portata istituzionale nel contesto coloniale. È in tale gioco di attribuzioni di significati che l’etnografo si inserisce. Ciò è vero sia nel caso 1, visto che il ricercatore sarà passato attraverso forme di “addomesticamento” conoscitivo e metalinguistico che lo avranno distanziato dalla pienezza dell’enunciazione “locale”; sia nel caso 2, perché la versione della lingua locale che avrà acquisito sarà stata filtrata attraverso consapevolezze metalinguistiche, grammaticalizzazioni e “dizionarizzazioni” spesso costruite a partire da una lingua intermedia. Il caso 3, forse il più frequente, è poi il più problematico, visto che la conoscenza e l’uso di una lingua intermedia da parte del ricercatore potrà essere alquanto divergente, proprio per quello che qui più ci interessa, l’attribuzione dei significati, dalla conoscenza e dall’uso che ne fanno i suoi interlocutori locali. Spesso i collaboratori vivono con maggiore consuetudine il bilinguismo o il multilinguismo in genere. L’ambito di ricerca rivolto alla raccolta delle classificazioni tassonomiche o legate a quella che viene definita “visione del mondo” (etnobotanica ed etnozoologia) e alla percezione sensibile (colori, odori, sapori, suoni, forme ecc.) presenta per certi versi un nodo problematico molto stretto tra metodo della raccolta dei dati e attribuzione di significato dei termini raccolti. Per molto tempo hanno prevalso prospettive basate sulla ricerca di tratti oppositivi e definitori propri delle tassonomie. I criteri classificatori che abbiamo in testa potrebbero non corrispondere a quelli che hanno i nostri interlocutori. Questo procedimento non sempre è stato efficace anche per ragioni metodologiche: spesso è stato condotto postulando che si possa giungere all’esperienza conoscitiva al di fuori del contesto e dell’uso di una lingua-cultura. ES: Ricerche sulle terminologie dei colori condotte da Berlin e Kay (1969) → gli stimoli erano stati provocati mostrando agli interlocutori l’asettica tavola di Munsell, hanno cominciato a presentare degli scricchiolii proprio quando i termini sono stati raccolti a partire dalla tinta delle stoffe, dalle foglie, dalla pelle degli animali ecc., cioè da “oggetti impuri”, parte del quotidiano degli intervistati. ! Il tipo di approccio “universalistico” escludeva, ad esempio, la raccolta di termini dei sapori, proprio per la mancanza di “ingredienti” che fossero “prototipici” di ciascuno dei sapori fondamentali. → Cuturi: Ricerca sui sapori percepiti dagli Huave/Ikoots, proprio partendo dall’esperienza delle pietanze preparate dalle donne del villaggio. Ovviamente i termini sono risultati molto più numerosi, i criteri sono legati a un variegato sistema di “classificazione” degli alimenti, delle azioni del mangiare, della percezione tattile nella cavità orale e di altre ancora. ES: Classificazioni etnozoologiche → Maranhão (1977, p. 119) ha criticato le tassonomie come modelli sottostanti l’organizzazione dei domini lessicali proprio riflettendo sui tentativi falliti di raccogliere la classificazione dei pesci presso i pescatori del villaggio di Icarai (Ceará, Nordest del Brasile). Lo studioso, a seconda che mostrasse pesci veri o ponesse delle domande in forma di intervista, riceveva termini classificatori differenti- Partire da un oggetto non “puro”, inserito nel suo contesto consente, quindi, di determinarne il significato con maggiori sfumature e ampiezza, frutto di riflessioni ragionate, di lunghe interazioni e forse di una maggiore co-partecipazione tra ricercatore e collaboratore. Infatti, secondo Amith (2010), etnobiologo specializzato nelle lingue nahuatl (Messico), le conoscenze zoologiche sedimentate nel modo in cui i nativi osservano la vita e il comportamento degli animali si riflettono su aspetti della semantica locale relativa alle denominazioni e categorizzazioni degli animali stessi. La semantica dei nomi dati a piante e animali non è affrontabile attraverso domande esplicite che non corrispondono ad alcuna pratica di trasmissione ed esplicazione delle conoscenze locali, bensì piuttosto attraverso il parlato quotidiano, dialoghi, conversazioni spesso informali. La stessa impostazione metodologica risulta efficace nel campo della metaforizzazione dell’esperienza del corpo in relazione alle sue parti utilizzata per definire lo spazio, luoghi e territori, parti e forme degli oggetti e del corpo stesso (degli esseri umani e degli animali) (Cardona, 1985). Per la maggioranza delle società, il corpo o alcune delle sue parti sono fonte di metafore, e a loro volta sono definiti da metafore extracorporee. I riferimenti spaziali metaforizzati in tal senso prenderebbero forma, organizzerebbero le relazioni tra esseri, tra questi e gli oggetti e i movimenti compiuti al loro interno. La combinazione delle metafore corporee con il sistema delle preposizioni, i verbi di movimento e l’organizzazione dell’agency, consente di approfondire dimensioni della cognizione e della rappresentazione dello spazio, dell’orientamento, delle posizioni e dei movimenti e delle loro direzioni, altrimenti poco sondabili. La lunga esperienza di campo di Ruth Finnegan in Africa e in Gran Bretagna ha recentemente portato la studiosa a riflettere sulla limitatezza delle sue prime ricerche quando raccogliere storie, spesso sotto dettatura, era come “catturare” un testo che diventava significativo solo se scritto e presentato in parallelo alla traduzione in inglese. Il modello da lei seguito era quello «del linguaggio come testo scritto». Gli aspetti intrinseci dell’oralità andavano perduti e con essi molti dei significati della storia: la realizzazione sonora, il timbro, la velocità, i picchi, la melodia, il ritmo, l’onomatopea, gli ideofoni, la qualità della voce, il mescolamento di più voci, insieme ad altri suoni o silenzi, in un ambiente sonoro di contorno dove possono esserci risate, pianti e molto altro. Tutte dimensioni della comunicazione in cui si esplicitano aspetti dell’organizzazione e gerarchizzazione sociale, politica e religiosa. Nelle parole di Finnegan percepiamo l’eco di una intensa sensibilità: la vita non si interrompe mentre lo studioso è intento a “catturare” le sue “prede- testi”, e questa vita condiziona la performance alla cui condivisione siamo ammessi e incide sull’attività interpretativa. presenza di tali strumenti può avere effetti non previsti se si innestano dinamiche che variano il comportamento delle persone durante un evento formale regolato da etichette. Jane Hill (anni Sessanta) → Roscinda Nolasquez, l’ultima parlante del cupeño (una lingua della costa sud della California, ora purtroppo estinta), è stata una collaboratrice della studiosa. Roscinda spesso si soffermava a raccontare le vicende che colpirono tragicamente la sua gente, portandola all’estinzione, dopo essere stata espropriata della propria terra (San Diego) e forzata a vivere in mezzo al deserto. Roscinda aveva intuito il ruolo che la studiosa avrebbe potuto rappresentare per la documentazione della sua lingua-cultura e quindi seppe “approfittare” del lavoro congiunto riuscendo a plasmare tutti i dettagli dei suoi discorsi perché rimanesse una documentazione della sua lingua e delle sue tradizioni. Con il trascorrere del tempo Hill capì perché la sua collaboratrice definisse il lavoro compiuto insieme “insegnamento”: lei «stava costruendo una documentazione, stava mettendo insieme un patrimonio sebbene non lo avesse mai detto esplicitamente». Roscinda si era sforzata di parlare alla studiosa utilizzando generi e forme che fossero esaustivi del patrimonio comunicativo e culturale della sua gente. Ma nella velocità delle trascrizioni, Hill, tradita dalla familiarità acquisita, spesso non annotò subito osservazioni e glosse. E quando dopo quarant’anni non ci fu più nessuno in grado di interpretare quei testi trascritti, il cupeño rischiò una seconda “estinzione”, se l’accresciuta esperienza della studiosa non le avesse permesso di ricostruire un tipo di comprensione della lingua scoprendo la grandissima ricchezza del parlato di Roscinda. Gli antropologi linguisti nel corso degli anni hanno formulato teorie, proposte e soluzioni pratiche per risolvere i problemi di trascrizione, elaborando sistemi molto sofisticati in grado di rappresentare sulla pagina la complessità degli elementi che contribuiscono a costruire e determinare gli eventi comunicativi e a darne forza illocutiva: la qualità della voce, la prosodia, i gesti che accompagnano le parole, la posizione dei partecipanti all’evento, lo spazio occupato, il tipo di relazione (sociale, politica o religiosa) che esiste tra di essi, musica e passi di danza nel caso fossero presenti nella scena dell’evento ecc. Una trascrizione, come sostiene Ochs (1979), è sempre sostenuta sia da una teoria che interpreta e seleziona ciò che è saliente per lo studioso, sia da un aspetto pratico legato alla leggibilità dell’evento, o da ciò che dell’evento si vuol mettere in luce. Per questo motivo qualsiasi sistema di trascrizione usi, è bene che il ricercatore si domandi quali criteri di lettura degli eventi stia utilizzando e per quali fini di leggibilità. Senza dubbio il passaggio dalla notazione su carta a quella su registratore e/o videocamera permette la fissazione di eventi che né l’occhio né l’orecchio più attento sono in grado di memorizzare nell’immediato e di mantenere nel tempo. Consente la visione all’infinito di un evento in modo che possa essere analizzato senza l’ansia dell’irripetibilità. Tali strumenti non eliminano il paradosso del punto di vista dell’osservatore, né i limiti culturali e fisiologici dell’osservazione imputati all’occhio e all’orecchio. Anzi, in un certo senso vengono proiettati su scala più ampia ma con aspettative e risultati sostanzialmente diversi. A fronte del rischio che i sistemi divengano obsoleti, è bene infatti assumere oggi i paradigmi e le condizioni di ricerca che abbiamo a nostra portata: registrazioni digitali, video, riversamenti su computer, metodi e tecniche di trascrizione sempre più sofisticate, possibilità di analisi delle immagini e dei suoni, collegamenti Internet nei luoghi più remoti del pianeta, possibilità di inviare quotidianamente quanto raccolto al sicuro di una banca dati “centrale”, informazione costante su quanto scritto sul territorio, sulla popolazione presso cui si risiede, sulla sua lingua, aggiornamenti informativi e fattuali. → Con tali potenzialità, è chiaro che il ruolo della lingua locale e delle sue parole si accresce, perché la raccolta sul campo non è più solo “controllata” dalle interazioni del ricercatore con una o più persone, ma gli consente di preparare la sua “ricerca” e la sua “interpretazione” nel loro divenire. In ogni ricerca sul terreno è bene che il ricercatore già pensi all’archiviazione “sicura” del materiale audio-sonoro (ma anche scritto) della sua raccolta, nei vari archivi centralizzati esistenti. Vivere con un microfono addosso Esempio di ricerca → cogliere il lento e graduale processo di apprendimento del linguaggio nell’età dell’infanzia (da zero a sei anni) in una comunità maya tzotzil (Chiapas, Messico). Il fine era giungere a comprendere come i bambini diventino e siano considerati da tutti persone, membri attivi della comunità. La ricerca è stata condotta da Lourdes de León (2005) presso alcune famiglie delle comunità di Zinacantan, dove la studiosa ha vissuto a lungo condividendo «la loro vita e i loro complicati divenire». Un’indagine del genere implica lunghi periodi di assidua presenza per seguire lente trasformazioni, difficili da cogliere quando i bambini (fino agli 8 mesi di età) passano molta parte del tempo in una sorta di marsupio, sulle spalle della madre impegnata nelle attività di lavoro, prima che si affaccino a un’età di incipiente indipendenza (i primi passi, le prime parole). De León descrive con grande dettaglio il metodo a cui è giunta dopo iniziali insuccessi dovuti alla sua presenza: i bambini impauriti si nascondevano o venivano nascosti per timore del malocchio o si raccoglievano tutti insieme attorno ai regali portati da lei, fonte infinita di litigi e capricci. Frustrata dall’irraggiungibile ambizione di essere “trasparente”, de León scelse un metodo di raccolta dei dati composito condotto tanto tra famiglie “focali”, quanto tra famiglie “complementari”: osservazione, partecipazione, registrazioni compiute dagli stessi genitori, riprese video durante le riunioni familiari o durante la giornata secondo una tempistica periodica regolata. Come definitivo strumento, «dalla nascita fino a che il bimbo/a ha una mobilità propria (gattonare, camminare eretto) è stato usato il microfono senza fili collocato sulla madre o su chi ne faceva le veci. Quando il bambino/a ha acquisito mobilità ed è stata monitorata la sua attività verbale, è stato utilizzato il microfono senza fili apposto sul bimbo/a». Se questa tecnica di rilevamento dei dati ci può sembrare molto invasiva, c’è da tenere presente che de León ha avuto la piena e partecipata collaborazione da parte delle famiglie interessate al progetto. Quando i genitori hanno ritenuto che non fosse opportuno registrare o esporre i bambini a questo tipo di monitoraggio, la studiosa ha ovviamente rispettato il divieto, soprattutto quando si è trattato di seguire bambini maschi, per via del potenziale malocchio che li può colpire quando sono eredi di un terreno. Tale divieto attinente alla sfera sociale e di genere, ha messo in luce che invece le bambine, non ereditando nulla, non potevano correre gli stessi rischi e quindi sarebbero state dei soggetti del tutto accessibili per tale tipo di indagine. = La ricerca di de León il cui fine era la comprensione della “microgenesi della competenza comunicativa” ha avuto il pregio di aver dimostrato l’inadeguatezza di molte teorie sui processi di socializzazione spesso portate a termine a partire dall’osservazione di bambini del nostro mondo. Secondo lo studio di de León i/le bambini/e di Zinacantan diventano “persone” nel graduale dispiegarsi delle loro capacità comunicative e di partecipazione agli eventi, sollecitati costantemente dagli adulti, stimolati ad acquisire e utilizzare in prevalenza verbi e solo in minor numero sostantivi. Le interazioni comunicative sono tese pertanto a far partecipare i bambini alla vita che li circonda, attraverso la realizzazione di forme verbali complesse piuttosto che a farli “gingillare” con i sostantivi. Tanto il metodo quanto i risultati raggiunti dalla ricerca di de León possono avere un valore paradigmatico esemplare: una ricerca come questa, che tocca sfere così private e particolari quasi impercettibili all’osservazione, affidata ai tempi della ricerca in situ e agli occhi del ricercatore, ha bisogno di un equilibrato concorso fra la tecnologia, un rigoroso sistema della classificazione dei dati, la piena compartecipazione tra la ricercatrice/tore e i propri interlocutori, una profonda e reciproca fiducia, e un contesto di ricerca “identitariamente maturo” dove progetti di tale complessità spesso svolgono il ruolo di far affiorare consapevolezze inespresse. Le aspettative delle comunità: il principio della “restituzione” In conclusione la resa alfabetica delle lingue tendenzialmente agrafe è un lavoro spesso vissuto come una tappa critica piena di aspettative per le comunità indigene che basano la volontà di riscatto e rivalutazione a partire dalla propria lingua, anch’essa discriminata perché, tra l’altro, “senza scrittura”, oppressa dall’alfabetizzazione scolastica impartita nella lingua dello Stato. Spesso vi è una grande partecipazione e attesa da parte delle comunità locali all’elaborazione di alfabeti che siano appropriati alle esigenze della loro comunità. A questi fenomeni bisogna prestare grande attenzione dal momento che aprono le comunità alla produzione di una scrittura propria, sentita come conquista di autonomia e di riconoscimento. Conseguente deve essere la sensibilità dell’etnografo di non produrre sistemi di scrittura troppo divergenti per non creare confusione e non dare l’impressione di disprezzare gli sforzi di standardizzazione a cui le comunità ambiscono giungere, ma anche per rendere accessibili i propri materiali raccolti e trascritti. Spesso l’affermazione e l’appropriazione del sistema di scrittura della propria lingua hanno aperto la strada alla produzione di letterature indigene, di riflessioni sulla propria lingua, di vere e proprie etnografie native che aprono scenari sempre più complessi e interessanti per il ricercatore. Se da un lato la produzione di una letteratura indigena può rappresentare un necessario campo di ricerca per l’antropologia, dall’altro la presenza di una produzione autonoma e indipendente di saperi scritti locali può spingere le comunità o settori di esse ad accettare sempre meno la presenza della voce aliena dell’antropologo. Le sue analisi potrebbero essere percepite ancora una volta come simbolo di colonizzazione, “furto” della propria ricchezza culturale ed espressione di punti di vista che non appartengono alla comunità o che per gli abitanti sono irrilevanti o fonte di rischio complessivo. Non possiamo più far finta di credere di avere l’esclusività e il “predominio” del sapere antropologico né possiamo evitare di porci in un’ottica dialogica non solo dal punto di vista teorico-metodologico dell’interazione, dello scambio tra soggetti, dando “voce all’altro”, ma anche dal punto di vista pratico: il confronto con le voci degli antropologi nativi è una realtà con la quale misurarsi con saggezza. → Sempre più spesso non siamo noi a stabilire quale sia il “punto di vista del nativo”, ma questo è rappresentato dalla sua stessa voce quando le condizioni di potere e di diseguaglianza lo consentano e lo favoriscano. Gli antropologi sul campo possono impegnarsi a contribuire al fatto che questi processi si realizzino con successo. A prescindere da questo scenario in cui la presenza degli antropologi potrebbe anche essere legittimamente “delimitata”, si deve comunque prestare grande attenzione alle politiche di “restituzione” e alle esigenze espresse dalla comunità in materia di riscatto e di riconoscimento, elaborando opere che rispondano ai suoi interessi espressi o inespressi. Ma il lavoro dovrà passare al vaglio della comunità secondo una modalità di stesura tendenzialmente cooperativa che vede la partecipazione esplicita della comunità o di parte di essa. IMMAGINI di Cecilia Pennacini Premessa Le immagini, intendendo con questo termine sia le rappresentazioni concrete di percezioni visive (figure o raffigurazioni) sia le rappresentazioni mentali individuali e collettive che vanno a costituire i vasti depositi culturali dell'immaginario (nutrito creativamente dalla fantasia, dall'arte e dal sogno), sono centrali nella ricerca etnografica in quanto oggetti da raccogliere e strumenti con cui raccogliere dati. In ogni cultura circolano densi flussi di immagini, sotto forma di raffigurazioni di vario tipo prodotte con diverse tecnologie, ciascuna delle quali tende a sviluppare codici semiotici particolari. I media che la contemporaneità sembra prediligere (fotografia, cinema, televisione, Internet) rendono sempre più complesso l'insieme delle interazioni caratteristiche della comunicazione visiva, coinvolgendo massicciamente tutte le società e contribuendo in maniera sostanziale alla globalizzazione culturale, come anche ai processi di etnicizzazione a essa associati. La prospettiva transculturale che è propria dell'antropologia può dare un contributo originale alla raccolta e all'interpretazione delle immagini, attraverso la comparazione di differenti culture visive e la conseguente enucleazione di tratti specifici come di meccanismi generali. Le immagini sono dapprima percepite e poi trasformate cognitivamente ed esteticamente in prodotti culturali, che vengono "archiviati" nell'immaginario per essere successivamente trasmessi attraverso media in continua evoluzione tecnologica. La riflessione filosofica ed estetica sui concetti correlati di immagine, immaginario e immaginazione si è concentrata soprattutto sulla dimensione virtuale delle rappresentazioni: l'immagine è qui considerata in primo luogo un simulacro della realtà, un prodotto della fantasia frutto di un'attività poietica di natura selettiva e creativa. In effetti, anche a livello etimologico, la parola "immagine ", dal latino imago, rinvia all'idea dell'imitazione di una percezione: le radici im-, da cui anche "imitare", o sim-, da cui similis, similitudo, simulacrum, indicano la rappresentazione verosimile di qualcosa. La natura non verbale dell'immaginazione era stata messa in luce in ambito psicoanalitico da Lacan, che considerava la capacità di riconoscere la propria immagine allo specchio come uno stadio fondamentale del processo ontogenetico di identificazione del soggetto, in contrapposizione alla fase successiva contraddistinta dal registro simbolico e dalla centralità della parola. D’altro canto, a livello filogenetico, il paleoantropologo Leroi-Gourhan (1965) aveva a sua volta messo in luce come l'estetica, qui intesa nel senso ampio di insieme delle percezioni sensoriali e delle loro rappresentazioni, nasca e si sviluppi parallelamente al linguaggio verbale. → In questa prospettiva possiamo allora considerare l'immaginazione come il processo di costruzione intellettuale di immagini, successivamente oggettivate in raffigurazioni collettivamente condivise. Si tratta di un processo che occupa un posto fondamentale nel funzionamento culturale. In questo senso, come afferma Jedlowski citando il famoso slogan del maggio francese, «l'immaginazione è da sempre al potere» dal momento che le rappresentazioni sedimentate negli immaginari collettivi esercitano un innegabile controllo culturale sugli individui. = Si pensi al potere persuasivo esercitato dalla pubblicità, che propone modelli sociali e culturali espressi fondamentalmente in forme visive. È dunque vero, come ha Produrre immagini Le immagini, per Gibson, sono tracce interiorizzate di percezioni visive, prodotte da stimoli sensoriali che si sono ormai esauriti. Si tratta di consapevolezze di un ambiente che ha cessato di esistere, ma permane dentro di noi in una forma immaginaria. In effetti, l'immagine vive e comunica laddove non esiste più l'oggetto che essa rappresenta né il nostro rapporto percettivo con esso. Dunque, le immagini riguardano in primis il passato, ma vengono utilizzate anche per pensare ambienti o eventi futuri. Inoltre, queste tracce costituiscono la base dell'esperienza onirica e allucinatoria, o anche della creazione artistica di mondi fittizi. Le raffigurazioni artistiche si allontanano dalla percezione della realtà in modi e misure diverse a seconda della particolare modalità di rappresentazione adottata. = L'immaginario può anche giungere a contrapporsi al reale, pur mantenendo con esso relazioni fondamentali, selezionando per la rappresentazione solo determinate caratteristiche dell'oggetto originale e istituendo in questo modo specifiche gerarchie di relazioni tra persone e cose. Ancor prima di essere fissate su diversi tipi di supporti per mezzo di tecniche differenti (disegni, dipinti, fotografie, filmati), che le trasformeranno in rappresentazioni visive concrete (per Gibson "figure"), le immagini vivono dunque nella mente di un soggetto come persistenze virtuali, tracce mnemoniche e astrazioni di percezioni visive, informate da una particolare ontologia. Tra la percezione in presa diretta di un ambiente dato, che corrisponde all'atto dell'osservazione, e la produzione di raffigurazioni in grado di fissare tale percezione esiste una dimensione intermedia, che risulta fondamentale nella trasformazione delle percezioni visive in figure: l'immaginazione. L'immaginazione presenta un'importante dimensione antropologica, dal momento che essa è certamente un fatto sociale oltre che individuale: le immagini circolano e vengono condivise tra gli individui, dando vita a immaginari collettivi, i quali svolgono un ruolo di grande importanza nelle dinamiche culturali. L'immaginario è dunque una sorta di serbatoio di immagini da cui si attinge per produrre raffigurazioni di varia natura, risultanti dalla trasformazione mentale delle percezioni. Tutte le raffigurazioni si situano dunque a metà strada tra la percezione del reale e l'immaginazione, e la distanza variabile che le separa da ciascuna di queste due dimensioni darà la misura del loro grado di realismo o di finzione. Se possiamo identificare nell'immaginario una sorta di riserva mentale di immagini, prodotte dagli individui per poi essere socializzate in forme di comunicazione visiva, dobbiamo domandarci come funziona tale dimensione specificamente visuale dell'attività intellettiva. Lo storico dell'arte tedesco Rudolf Arnheim (1969) ha parlato, a proposito di questa complessa attività della mente, di un "pensiero visivo" dotato di importanti funzioni conoscitive. Arnheim sostiene che sia necessario tentare di superare la dicotomia che separa ragionamento e percezione, poiché la nostra attività intellettuale non può che prendere le mosse dalla percezione dell'ambiente. La mente immagazzina percetti trasformandoli in immagini mnemoniche per poi produrre forme e immagini mentali, che costituiscono i contenuti fondamentali del pensiero. Arnheim sostiene addirittura che non si possa in realtà pensare senza immagini, dal momento che la nostra comprensione del linguaggio passa in gran parte attraverso la raffigurazione mentale di referenti concreti sulla cui base si dà vita a operazioni mentali complesse, come l'astrazione, la generalizzazione e la classificazione. Tuttavia, se tradizionalmente queste operazioni sono concepite come un distacco dall'esperienza concreta (induzione), Arnheim insiste invece sulle connessioni che non possono che ricondurci costantemente alla percezione del mondo. La tesi di Arnheim è che la nostra specie non debba unicamente al linguaggio la capacità di astrazione, poiché quest'ultima agisce anche a monte del linguaggio, nelle forme visive cui esso si riferisce: «La mente, giungendo ben al di là degli stimoli ricevuti dagli occhi direttamente e transitoriamente, opera con la vasta gamma di immagini disponibili attraverso la memoria e organizza l'esperienza di tutta un'esistenza entro un sistema di concetti visuali». Se dunque la percezione visiva si colloca al centro dei meccanismi culturali di adattamento all'ambiente, la costruzione di immaginari collettivi sviluppa e al tempo stesso supera i processi della percezione visiva in una dimensione intellettuale che risulta fondamentale nei processi cognitivi. In altri termini, ciascuna cultura produce e rielabora costantemente i suoi immaginari, che costituiscono una delle sorgenti primarie del pensiero stesso. Le immagini, in questo senso, sono una fonte imprescindibile dell'etnografia, prima ancora di essere un suo strumento. → Le immagini prodotte dalle culture possono quindi essere raccolte e analizzate ai fini della ricerca etnografica. Le immagini degli altri Attraverso la mediazione delle figure, l'immaginario individuale viene condiviso in forme che divengono collettive. Si creano vasti repertori di immagini, che costituiscono uno degli aspetti più importanti della vita culturale. Aby Warburg e gli storici dell'arte che fanno riferimento alla corrente "iconologica" hanno affrontato la produzione e la circolazione delle immagini in diversi contesti cultural, mentre in ambito più strettamente antropologico, Serge Gruzinski ha a lungo studiato le caratteristiche dell'immaginario messicano e dell'impatto che su di esso ha avuto il sopraggiungere di un'altra grande tradizione che si è sempre avvalsa di un uso massiccio di immagini: il cattolicesimo. L'etnografo in questo caso ha raccolto l'iconografia "trovata" sul campo, mostrandone gli usi, le diverse origini, i processi di cambiamento, per leggervi i significati da essa veicolati. Una delle caratteristiche più notevoli dell'universo culturale che caratterizza il Messico prima della conquista spagnola è l’impiego di una forma di espressione figurata, la pittografia, che insieme con le tradizioni orali ha contribuito a trasmettere per secoli le informazioni, i sistemi di valori e i mondi immaginari prodotti dalle popolazioni di quest'area. Vari tipi di glifi venivano fissati su diversi supporti, creando opere complesse in grado di narrare cronache di guerra, repertori di prodigi, divinazioni, eventi climatici, racconti mitologici, ma anche di riprodurre cartografie o transazioni economiche e fiscali. = Le pittografie del Messico preispanico costituiscono una straordinaria testimonianza, in forma figurata, di molti aspetti della vita e dell'immaginario locale nei secoli che precedono la conquista. Accanto alle pittografie, altri sistemi di espressione visiva erano presenti nel Messico preispanico: esistevano forme pittoriche e scultoree di rappresentazione delle divinità e degli spiriti ancestrali, che dopo la conquista divennero immediatamente il bersaglio di violenti attacchi cristiani. La predicazione cattolica aveva alle spalle una lunga tradizione pedagogica e mnemotecnica basata sulle immagini, indispensabili per diffondere il Verbo presso i contadini europei analfabeti. La stessa strategia fu utilizzata dai missionari con gli indios, cui vennero sistematicamente proposte immagini della divinità cristiana, della Madonna e dei Santi. Tuttavia, per poter procedere in questo senso, fu prima necessario tentare di distruggere gli "idoli", le raffigurazioni pittoriche e scultoree delle divinità locali, per potervi poi sostituire le immagini cattoliche. Da un lato si contrastava dunque con violenza l'idolatria, mentre dall'altro si proponevano nuove immagini relative ad altre divinità. La conquista significò dunque, tra le altre cose, l'incontro/scontro tra due potenti immaginari, quello del Messico preispanico e quello dell'Europa cristiana. Gruzinski sottolinea come l'occhio dei conquistatori doveva essere particolarmente sensibile alle rappresentazioni visive, essendosi formato nella civiltà rinascimentale del Quattrocento e poi nel Cinquecento barocco (due secoli contraddistinti in Europa dalla centralità dell'espressione pittorica, scultorea e architettonica), un'attenzione che non tardò a far scoppiare nelle Americhe conquistate una vera e propria guerra di immagini. Tuttavia, nonostante la disparità di mezzi e la superiorità tecnologica, politica e militare degli spagnoli, la guerra non terminerà, almeno da questo punto di vista, con una facile vittoria del cattolicesimo. La "colonizzazione dell'immaginario" si rivelerà essere invece un processo lento e parziale, che non arriverà mai a cancellare del tutto la tradizione visiva preesistente. I corpus visivi che un ricercatore può trovare sul campo sono di molteplici tipi e si prestano a diverse possibilità di analisi: dallo studio dei repertori pittorici, scultorei, decorativi, illustrativi, alle tradizioni di motivi visuali e forme rinvenibili su diversi supporti. Quando gli altri fotografano L'antropologia visiva si è concentrata soprattutto sulla fotografia e sulla cinematografia, per via della rilevanza che queste due tecniche hanno progressivamente conquistato a partire dal XIX secolo. Da quando comparve in Occidente (prima metà del XIX secolo) la fotografia divenne rapidamente uno dei principali veicoli degli immaginari collettivi, funzione che in precedenza era stata svolta prevalentemente dal disegno e dalla pittura. La rapida diffusione delle tecniche fotografiche avrà ricadute sociali e antropologiche molto importanti, come aveva preconizzato Walter Benjamin in un suo famoso saggio del 1936. Se con questi mezzi tecnici l'arte perde quella che Benjamin definisce la sua "aura", cioè quell'idea di autenticità, unicità e irripetibilità che conferisce valore e autorità all'opera di un artista, le rappresentazioni visive diventano però fruibili a un pubblico vastissimo, che potrà entrare anche fisicamente in loro possesso: «La riproducibilità tecnica dell'opera modifica il rapporto delle masse con l'arte» Tuttavia, Benjamin non era giunto a prevedere gli effetti transculturali dell'appropriazione delle tecnologie di riproduzione visiva da parte delle "masse " di ogni angolo del globo, che le declineranno secondo usi locali particolari. Il colonialismo raggiunge il suo apogeo negli stessi anni in cui la fotografia prende il sopravvento sulle altre tecniche di raffigurazione. Per tutto il corso del XIX i ritratti fotografici degli altri furono concepiti come tasselli di una classificazione di tipi umani, secondo un progetto diffuso, come vedremo, nell'antropologia positivistica ottocentesca. Allo stesso tempo le popolazioni soggette si approprieranno molto presto del mezzo tecnico, utilizzandolo a loro uso e consumo. Un esempio autorevole di ricerca visiva condotta interamente a partire dall'analisi diacronica di un vastissimo repertorio fotografico è contenuto nell'opera di Christopher Pinney (1997) dedicata alla storia della fotografia in India. Dalla seconda metà del XIX secolo, molti indiani iniziarono ad aprire studi fotografici rivolti a un pubblico indiano. Ben presto, le élite locali si appassionarono a questo genere di rappresentazione, che consentiva loro di scimmiottare le usanze della borghesia inglese. Così, mentre gli europei consolidavano uno stile di rappresentazione dell'altro ispirato soprattutto alla fotografia antropometrica di "tipi etnici", gli indiani fotografavano sé stessi seguendo più da vicino i canoni della ritrattistica europea. La produzione di ritratti si diffuse capillarmente nella società, entrando a far parte di una sorta di "costruzione della persona" ottenuta tramite la messa in scena di ruoli sociali contraddistinti da un particolare abbigliamento, dalla postura, dagli oggetti decorativi e dalla scelta dei fondali. A partire dalla metà del XIX secolo la fotografia penetrò progressivamente in ogni angolo della vita sociale: nella dimensione familiare, nell'informazione, nell'educazione, nell'intrattenimento, nella moda, in pubblicità, nel commercio, nell'educazione, il medium fotografico è utilizzato per veicolare modelli sociali e sistemi di valori di una data cultura. Fissate su supporti che ne consentono la circolazione e l'archiviazione, queste rappresentazioni visive vengono di norma conservate andando a costituire testimonianze preziose del passato. Si tratta dunque di documenti visivi che possono essere "letti" e interpretati analogamente a quanto si fa con i documenti scritti o sonori, per ricavarne informazioni sulla vita delle culture e sulla loro storia. L'analisi dei repertori fotografici può focalizzarsi su tipi particolari di fotografie, consentendo di concentrare l'attenzione su temi specifici. Le fotografie di famiglia, ad esempio, possono dire molto sulla storia familiare ma anche sui ruoli e sulle relazioni di parentela in un dato contesto sociale, nonché sui modelli stessi di famiglia e sui loro cambiamenti. Già Roland Barthes (1980) aveva osservato come le fotografie degli avi e dei parenti defunti costituissero, a partire dal XIX secolo, una sorta di altare degli antenati in grado di mantenere viva la memoria delle generazioni passate. Oltre all' analisi diretta delle fotografie familiari, l'etnografia visiva ricorre talvolta al metodo della foto-elicitazione che consiste nel condurre interviste a partire dalla visione di fotografie. France Widdance Twine (2oo6) ha applicato questo metodo per raccogliere interviste condotte a partire dalla visione di fotografie di famiglie interetniche. Qui madri bianche di figli di origine africana prendono spunto dalle fotografie delle loro famiglie per raccontare alla ricercatrice come esse arrivano a negoziare, nelle arene pubbliche e private, ciò che viene definito il loro "profilo razziale". Naturalmente anche le immagini cinematografiche prodotte dagli altri costituiscono documenti altrettanto significativi per l'etnografo. Tuttavia, diversi fattori fanno sì che in antropologia le fonti cinematografiche preesistenti alla ricerca vengano utilizzate meno di quelle fotografiche. La tecnica cinematografica si sviluppò alcuni decenni dopo quella fotografica, restando a lungo complessa e costosa per quel che riguarda le apparecchiature, i supporti e i trattamenti di lavorazione, nonché le competenze professionali necessarie a utilizzarla. Per questo motivo la produzione di film è stata per molto tempo prerogativa quasi esclusiva di professionisti, regolata dal mercato e dall'industria cinematografica. Lo sviluppo di formati amatoriali ha consentito un utilizzo non professionale della tecnica cinematografica, che tuttavia non ha raggiunto neanche lontanamente la diffusione della fotografia a uso privato. Negli ultimi decenni stiamo assistendo a una nuova rivoluzione tecnologica avviata dall'elettronica finalizzata alle riprese video, che trova oggi nella tecnologia digitale applicazioni di grande qualità tecnica a spese estremamente contenute. Questa rivoluzione ha contribuito a "democratizzare" anche la ripresa di immagini in movimento, che si sta avviando a raggiungere una diffusione capillare analoga a quella della fotografia. !! La storia del cinema e, più specificatamente, la storia delle varie cinematografie nazionali, costituisce anch'essa una ricca fonte di riflessione antropologica. Tra i primi antropologi ad aver utilizzato il cinema professionale come documentazione per l'analisi antropologica troviamo Gregory Bateson, che fece emergere temi e modi della cultura nazista a partire dall'analisi del film Hitlerjunge Quex, diretto da Hans Steinhoff nel 1933. L'analisi di Bateson rientrava in un vasto progetto di "studio di culture a distanza" coordinato da Margaret Mead e Rhoda Métraux. Il cinema produce documenti visivi in grado di veicolare i suoi contenuti nel tempo e nello spazio. Come si è detto le immagini e gli immaginari, fissati su supporti che Negli anni Settanta del Novecento John e Malcolm Collier estendono la proposta di Mead e Bateson in un progetto che colloca la fotografia al centro della pratica etnografica. La fotografia viene concepita come una sorta di " apriscatole", che consente tra l'altro di condividere con i membri della comunità studiata alcune fasi della ricerca. Essa costituisce di fatto una forma di comunicazione tra l'etnografo e le persone da lui studiate, le quali partecipano al processo di costruzione della rappresentazione etnografica attraverso la visione e la discussione delle immagini prodotte dall' antropologo. Una dimensione, quella della condivisione, che riemergerà in maniera ancora più importante nella produzione di film etnografici e video documentari. Ogni fotografia è il prodotto di una prospettiva particolare, di una specifica cultura visiva, che rimane leggibile in essa. Le fotografie antropometriche scaturivano da una rappresentazione coloniale dell'alterità dove i soggetti venivano ridotti a tipi umani comparabili e classificabili. Per fare questo era necessario renderli il più possibile neutri e simili nella pastura e nell'abbigliamento (spesso assente). Paradigmi teorici differenti hanno prodotto rappresentazioni visive marcatamente diverse, come nel caso di Bateson e Mead o dei Collier. Inoltre, se la fotografia funziona come medium di comunicazione attivo anche nei confronti delle comunità con cui si lavora, è fondamentale tener conto della cultura visiva locale, che determinerà la percezione della fotografia. Come osserva Sarah Pink, la fotografia etnografica è in qualche misura il risultato del confronto tra la cultura visiva dell'etnografo e quella del gruppo studiato. Produrre immagini con gli altri: dal film etnografico al video digitale Fin dalle primissime spedizioni etnografiche il cinema fu utilizzato entusiasticamente dagli antropologi. Alfred Cort Haddon, il promotore della spedizione allo stretto di Torres (1898-99), realizzerà personalmente alcune riprese cinematografiche, nonostante le difficoltà tecniche imposte dalle tecnologie allora disponibili. Lo stesso Haddon si farà poi promotore della diffusione della fotografia e del cinema tra gli antropologi, convincendo tra gli altri Baldwin Spencer a realizzare alcune riprese nel corso della ricerca condotta con Francis James Gillen tra gli aborigeni australiani all'inizio del Novecento. Si tratta di brevissimi spezzoni di danze aborigene, sonorizzate con registrazioni asincrone effettuate su rulli di cera. Si potrebbero citare molti altri esempi di antropologi che si misurarono con le tecniche cinematografiche nei primi decenni del Novecento. Generalmente i risultati di questi esperimenti non appaiono particolarmente significativi, soprattutto se si confrontano con i traguardi espressivi raggiunti nello stesso periodo dall'industria cinematografica. Non è un caso se il primo documentario citato nelle storie dell'antropologia visiva come il prototipo del film etnografico è Nanook of the North, diretto nel 1922 da Robert Flaherty, un esploratore-geologo privo di qualunque formazione antropologica ma dotato di una straordinaria creatività cinematografica. Questo film, realizzato tra gli Inuit della baia di Hudson, nel Canada settentrionale, deve la sua fortuna oltre che alle doti registiche di Flaherty alla formula profondamente collaborativa su cui si basa. Il cacciatore Nanook (''Orso", in lingua inuit) insieme con la sua famigliola poligama non solo accettò di recitare come "attore non professionista, ma abbracciò integralmente il progetto di Flaherty tanto da divenirne in qualche misura coautore. Il film ebbe un grande successo di pubblico e venne distribuito in diversi paesi, contribuendo a far conoscere al mondo la cultura, l'ambiente e i problemi degli Inuit, oltre che a diffondere il genere documentario. Quando Flaherty realizzò Nanook, il cinema era già un'arte consolidata, orientata in primo luogo alla produzione di film di finzione per l'intrattenimento in sala. Fin dall'inizio, accanto ai film di finzione, si proiettavano nelle sale brevi "attualità" su fatti realmente accaduti. Tuttavia, sarà Flaherty il primo a sperimentare un nuovo linguaggio cinematografico, quello documentaristico, per realizzare un lungometraggio incentrato sulle vicende di persone vere ambientate nel loro contesto abituale. La differenza fondamentale che distingue Nanook dalle riprese cinematografiche realizzate nello stesso periodo dagli antropologi rinvia alla capacità di Flaherty di articolare un discorso cinematografico complesso, basato sulla sapiente costruzione delle inquadrature, sul montaggio, sul ritmo e sulla narrazione visiva. Già allora il cinema era molto più di una semplice tecnica in grado di registrare immagini in movimento. Esso aveva acquisito tutte le caratteristiche di un "linguaggio", un sistema di rappresentazione visiva fondato su codici specifici, capace di veicolare in maniera unica i significati e le emozioni di intricate vicende umane. Analogamente alla fotografia, anche se in forma diversa, il cinema documentario non ha mai costituito un documento fedele della realtà che rappresentava: esso era (e continua a essere) piuttosto il prodotto dell'immaginazione di un autore, che costruisce un certo "discorso" visivo, utilizzando l'inquadratura, il formato, il bianco e nero o il colore, la composizione, l'illuminazione e gli altri parametri che limitano e al tempo stesso permettono l'espressione cinematografica. Se dunque la tecnica cinematografica fa la sua comparsa in antropologia come metodo di raccolta di una documentazione visiva che il ricercatore potrà poi in vari modi rielaborare, il film etnografico assume presto le caratteristiche di un prodotto a sé stante, in grado di comunicare autonomamente un "discorso" antropologico. Molti antropologi scelgono questa forma di rappresentazione etnografica in aggiunta o anche in alternativa alla scrittura: il film può costituire di per sé un "testo" antropologico, espresso in una forma estetica capace di rappresentare le emozioni e le sensazioni che spesso le parole faticano a rendere. A partire dalla lezione di Flaherty, il cinema etnografico si consolidò dando vita a una nutrita tradizione di autori e di film. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento, in Europa, negli Stati Uniti e in Australia, si consoliderà una produzione sistematica di film antropologici, stilisticamente disposti tra i due poli del "cinema d'osservazione" da un lato e del "cinema partecipativo" dall'altro. • La prima tendenza sperimenta un linguaggio cinematografico che lascia il più possibile "parlare la realtà", tentando di ridurre al minimo la presenza e l'intervento del regista, grazie al ricorso a lunghi piani sequenza, al suono in presa diretta, a ritmi distesi, ed evitando l'aggiunta di un commento fuori campo. Di particolare interesse in quest'ambito i lavori di John Marshall, Robert Gardner, Judith e David MacDougall, impegnati a partire dagli anni Sessanta del Novecento a sperimentare e sviluppare lo stile osservazionale. • La seconda tendenza, prevalente negli ultimi decenni, è incentrata sulla collaborazione tra il regista- antropologo e il gruppo studiato, secondo lo stile inaugurato da Flaherty. Etnografi e informatori si impegnano in questo caso in un dialogo serrato sulla cui base decidono insieme cosa e come filmare. Possono così persino ricostruire determinate situazioni a beneficio della macchina da presa, giungendo in alcuni casi a realizzare le cosiddette etnofiction → Tecnica filmica introdotta da Jean Rouch, che consiste in una vera e propria mise en scène di una storia, ricostruita insieme ai collaboratori nativi che si prestano a diventare attori. Maestro indiscusso dell'approccio partecipativo fu Jean Rouch, antropologo africanista, allievo di Marcel Griaule, il quale in un certo senso portò l'attenzione per la realtà etnografica dentro alla storia del cinema, rivoluzionandola con la sua teoria del “cinéma-verité”. Etnografo dei Songhai e dei Dogon, Rouch abbandonerà progressivamente la scrittura etnografica per volgersi al cinema. La prima fase della produzione di Rouch si colloca appieno nella tradizione documentaristica inaugurata da Flaherty, che Rouch riconosce come suo “antenato totemico”. Lo sviluppo del film etnografico e la partecipazione produttiva delle comunità indigene sono stati favoriti, negli ultimi decenni, dall'introduzione delle tecnologie elettroniche prima e digitali poi, che hanno notevolmente abbassato i costi di produzione. La diffusione popolare del video ha completamente rivoluzionato lo scenario della comunicazione visiva, rendendo possibili varie sperimentazioni. Due sono le direzioni verso cui tendono oggi le rappresentazioni etno visive: 1. La prima riguarda il trasferimento delle tecnologie audiovisive alle stesse comunità studiate dagli antropologi. Vari esperimenti si sono susseguiti a questo scopo, a partire dal progetto pionieristico sviluppato da Sol Worth e John Adair negli anni settanta, quando venne insegnato l'uso della cinepresa a un gruppo di indiani navahos, i quali fissarono in alcuni brevi filmati «la loro visione del loro mondo». Una ventina d'anni dopo Terence Turner coordinerà un gruppo di Kayapo della foresta amazzonica, che si approprieranno della tecnica video per utilizzarla in particolare nella lotta contro la deforestazione. In questo modo alcuni antropologi hanno contribuito alla produzione di "immagini altrui" offrendo il know how e il sostegno produttivo, senza però interferire con le scelte registiche dei "nativi". 2. La seconda tendenza rinvia invece alla collaborazione produttiva di etnografi e popolazioni locali, che negoziano progetti su cui lavorare insieme. In realtà questa opzione è presente come si è visto fin dai tempi di Nanook of the North, ed è alla base della cinematografia etnografica di Jean Rouch e di molti altri autori, tra cui spiccano le produzioni firmate da Judith e David MacDougall, realizzate insieme a comunità aborigene australiane nell'ambito delle attività dell'Australian lnstitute of Aboriginal and Torres Strait Islanders Studies (AIATSIS). In anni più recenti la disponibilità di apparecchiature a basso costo ha potenziato tale possibilità, rendendola virtualmente alla portata di qualunque etnografo che possieda i rudimenti del linguaggio cinematografico. Pennacini → Film Kampala Babel (2oo8), realizzato insieme allo scrittore ugandese Moses Isegawa. Isegawa, intellettuale baganda che ha vissuto una ventina d'anni in Europa prima di tornare a vivere in Uganda, ha collaborato alla realizzazione del film a vari livelli. La progettazione e la messa a punto del tema, la complessità della vita religiosa nella metropoli contemporanea di Kampala e il processo storico che ha prodotto questo scenario, è avvenuta grazie al dialogo con Isegawa, che ha accettato di svolgere il ruolo di mediatore tra la sua cultura e la mia, assumendo anche nel corso delle riprese la funzione di una sorta di accompagnatore tra le manifestazioni della spiritualità ugandese: i rituali del culto di possessione ancora diffusamente praticati si fondono e si sincretizzano oggi con gli influssi delle religioni "universali" (islam, protestantesimo e cattolicesimo) , cui si aggiunge l'ascesa costante e massiccia del Pentecostalismo. La struttura narrativa scelta nel film è quella del dialogo e del confronto con Isegawa, che ci accompagna nei templi delle diverse confessioni relogiose fornendoci con la sua presenza e la sua voce una guida preziosa per orientarci nella selva delle pratiche religiose. La collaborazione con Isegawa e con le altre persone che hanno accettato di partecipare alle riprese si è sviluppata nelle diverse fasi di produzione, dalla preparazione e stesura del progetto alle riprese, al montaggio e alla postproduzione. Particolarmente interessante, a fini antropologici, si è rivelata essere la possibilità di rivedere insieme ai collaboratori locali i "giornalieri" (così definito nel cinema professionale il materiale grezzo filmato durante una giornata di lavoro) e successivamente il montato "elicitando" significati non ancora emersi e rielaborando il montaggio alla luce di queste nuove indicazioni. Questo processo, ispirato a uno spirito di "restituzione " delle immagini prodotte sul campo nella prospettiva di un risultato filmico in cui i collaboratori locali possano infine riconoscersi, era stato sperimentato da Flaherty e poi da Rouch, che usava tornare nei villaggi dove aveva lavorato per proiettare i suoi film e raccogliere le opinioni e le indicazioni dei protagonisti. Quella che Rouch aveva definito un’«anthropologie partagée», una metodologia di ricerca fondata sulla condivisione di obiettivi e risultati, si è trasformata oggi in una molteplicità di progetti che utilizzano il video come terreno comune su cui antropologi e "nativi" si confrontano cercando fruttuose collaborazioni. Se le ragioni e gli obiettivi di studio e di ricerca dell'etnografo restano fondamentalmente distinti da quelli che spingono comunità o individui a realizzare rappresentazioni della loro cultura, è proprio il confronto, lo scambio, e talvolta le discordanze tra questi diversi punti di vista, a risultare fruttuosi. Tale diversità può utilmente entrare a far parte di una rappresentazione etnografica comune, frutto e prodotto della collaborazione tra comunità locali e studiosi stranieri, in grado di presentare una molteplicità di voci e di visioni senza necessariamente disciplinarle, addomesticarle e ridurle a un punto di vista uniforme. La decolonizzazione delle metodologie etnografiche significa non certo abbandonare il confronto con l'altro, delegandogli interamente la responsabilità della rappresentazione di sé, quanto l'emergere e anche la tematizzazione di una forma di dialogo paritario, che, tenendo conto delle ineludibili responsabilità che la storia ha assegnato alle nostre rispettive appartenenze culturali e nazionali, dia luogo a una riflessione comune. EMOZIONI di Chiara Pussetti Raccogliere emozioni: un'etnografia nella nebbia La più importante caratteristica della ricerca etnografica sulle emozioni è la sua eterogeneità: prive di una consistenza empirica direttamente osservabile e registrabile, le emozioni costituiscono una sfida per il ricercatore, che si trova a dover ricorrere a metodologie d'indagine molteplici e a dialogare con discipline limitrofe, tre le quali ad esempio la psicologia o le neuroscienze affettive. Tale eterogeneità di prospettive di indagine è stata posta in relazione alla questione dell’ambiguità epistemologica e della scarsa validità scientifica del concetto di emozione. Le emozioni sono infatti una di quelle nozioni considerate come scontate sia a livello di senso comune, sia dalla conoscenza specialistica. Sembra infatti che tutti sappiano che cosa sia un'emozione, finché non viene chiesto di definirla. L 'esperienza emozionale, in altre parole, pare immediata e concreta, ma, al di là delle apparenze, ci si trova ad avere a che fare con una nebbia concettuale. Nonostante si sia avuta, in differenti campi del sapere, una grande fioritura di risposte circa la natura, gli elementi costitutivi e la classificazione delle emozioni, di fatto non è ancora stato raggiunto un accordo sulla loro definizione. In tempi recenti si è cercato di definire l'emozione in una forma più ampia e articolata, Principali strategie utilizzate per affrontare lo studio antropologico delle emozioni: Relativizzare (il discorso sulle emozioni) → La prima strategia è fare ciò che gli antropologi in una certa misura hanno sempre fatto, ovvero mettere in discussione la certezza e la validità universale dei modi in cui pensiamo e parliamo di cose come le emozioni, verificando se è così anche altrove. Storicizzare (il discorso sulle emozioni) → La seconda strategia per coloro che siano interessati alle emozioni come fenomeni socioculturali è storicizzarle. Questo significa analizzare i discorsi sull'emozione, la soggettività e il sé esaminandoli attraverso il tempo, osservandoli in contesti locali e momenti storici particolari, e vedendo se e come sono cambiati. Contestualizzare (il discorso sulle emozioni) → La terza strategia consiste nel concentrarsi sul discorso sociale, basandosi meno sulla propensione antropologica alla comparazione o sul più ampio inquadramento storico del problema che sull'impegno a un'analisi accurata della ricchezza delle specifiche situazioni sociali. È una strategia seguita dagli autori che partono dall'assunto che l'emozione è un costrutto socioculturale e che si dedicano a esplorare, attraverso un'attenta osservazione dei casi etnografici, i molti modi in cui le emozioni acquisiscono forza e significato attraverso la loro collocazione e la loro performance nel dominio pubblico del discorso. = Valutare la natura e il valore di queste strategie di ricerca richiede in primo luogo attenzione al termine “discorso”. Il discorso, in questa prospettiva, non si riferisce semplicemente a una forma linguistica, ma viene impiegato per indicare tutte le modalità attraverso le quali viene costituita una conoscenza, includendo in questa definizione le pratiche sociali, le forme specifiche di soggettività e le relazioni di potere che ineriscono a tali conoscenze, tanto quanto le loro reciproche connessioni. La dimensione del discorso non è perciò né una struttura, né un sistema, ma una pratica nella quale vengono a formarsi sia gli “oggetti” di cui esso parla, sia i “soggetti” che in esso parlano. Il “discorso” sulle emozioni non propone delle norme cui gli individui dovrebbero attenersi e che vengono incorporate nel corso di un processo di socializzazione; piuttosto il “discorso” crea gli individui come esseri emozionali di un certo tipo. → Secondo questo approccio, parlare di emozioni significa discutere questioni che hanno a che fare con il potere, la politica, la parentela, i cambiamenti storici, i concetti di normalità e di devianza, le differenze di status e le caratterizzazioni di genere. Il compito interpretativo non è quindi cogliere cosa le altre persone “sentono dentro”, ma piuttosto tradurre da un contesto a un altro il significato dei termini usati nelle conversazioni quotidiane per parlare delle emozioni. Comprendere il significato di un'emozione significa, secondo questa prospettiva, riuscire a cogliere e a partecipare di quei momenti complessi in cui azioni, relazioni sociali, norme, giudizi e concezioni morali vengono strategicamente messi in gioco. Sul campo si impara che, proprio quando si ha l'impressione di aver compreso di cosa si sta parlando, le emozioni narrate assumono sfumature inattese, dalle quali si possono trarre significati molteplici, in base al contesto, alla situazione specifica e agli attori coinvolti. Esempio → Il caso dell'emozione bijagò edìk, analizzata durante una ricerca nell'isola di Bubaque (Pussetti, 2oo6). Descritta come l'emozione tipica degli adolescenti, giovani, impetuosi, irrispettosi dell'autorità degli anziani. Il suo significato si colloca tra volere, desiderare, vincere, essere forti, competere, battersi fisicamente. Al contempo i giovani me ne parlavano come della disposizione necessaria per tutte le attività che richiedono vigore, come danzare, conquistare le donne, generare figli, combattere i nemici, proteggere il villaggio. Nelle conversazioni questa emozione veniva spesso associata a termini che esprimevano un'idea di potenza, energia e intensità. Edik è quindi un sentimento fondamentalmente ambiguo, in quanto connette sentimenti positivi come la determinazione, la fierezza, l'energia, il coraggio, la temerarietà alla capacità di esercitare violenza, di provare collera o rancore e a disposizioni considerate negativamente, quali la cupidigia, la concupiscenza, l'avarizia. Edik è infatti energia diretta alla soddisfazione di interessi individuali, e pertanto potenzialmente distruttiva: chi prova questo sentimento non si adegua alle norme del gruppo, ma impone le proprie regole. Tra le diverse forme in cui si declina l'edik, incontriamo ad esempio la stregoneria, o comunque l'impiego di forze occulte per l'accumulazione di potere e ricchezza o il soddisfacimento di desideri impropri. Edik è in altri discorsi la passione amorosa, la malattia di chi si consuma per un amore non corrisposto o un desiderio inappagato, è la gelosia, ma anche la bramosia e la cupidigia. Ed è l'emozione messa in gioco quando si vuole suscitare pietà o compassione nell'interlocutore, quando si richiede supporto o aiuto, dichiarando la propria resa. “Aiutami, edik ha avuto ragione di me” = significa confessare pubblicamente il proprio fallimento nel seguire le norme della morale condivisa, dichiarare la propria debolezza. La graduale comprensione, e traduzione, di questo complesso di significati deriva da un lento processo di apprendimento della lingua, da un'attenzione puntuale ai contenuti dell'interazione verbale e da una costante condivisione della quotidianità. L'analisi linguistica delle interazioni verbali è una delle chiavi principali per cogliere i modelli locali di comportamento emozionale. Districare la densa stratificazione delle formazioni discorsive, prodotte dai molteplici soggetti coinvolti sul campo, e analizzare le strategie sintattiche da un punto di vista pragmatico permettono dunque di rivelare modelli di relazione emozionale, altrimenti non esplicitati. Secondo questa prospettiva la ricerca sulle emozioni avviene, come qualsiasi etnografia, sulla base di una "immersione partecipante". La ricerca si rivolge ai modi in cui gli interlocutori concettualizzano, orientano e discutono i comportamenti propri e altrui, partecipando della loro quotidianità. Considerare infatti il campo delle emozioni come un ambito di ricerca particolarmente inaccessibile che necessiti di una metodologia capace di misurare alterazioni “biologico-corporee” significa in qualche modo riaffermare , all'interno della discussione disciplinare, lo stesso stereotipo che l'antropologia ha cercato di decostruire: un'immagine cioè delle emozioni come intimi stati mentali, biologici e naturali, indipendenti dal contesto sociale e non accessibili ai metodi dell'analisi culturale. Le etnografie classiche sulle emozioni ci mostrano come non si tratti tanto di indagare sensazioni inconsce e irriflettute, quanto piuttosto di cogliere riflessioni e concezioni legate all'esperienza emotiva. Il primo passo può essere l'analisi dei modelli locali di umanità e dei processi di antropopoiesi (costruzione della persona. Lo sviluppo emotivo risulta dall'acquisizione di schemi interpretativi, culturalmente specifici, del significato delle situazioni: sono proprio questi processi di valutazione che, attribuendo a uno stimolo un valore, lo rendono significativo per l'individuo e che allo stesso tempo rendono l'individuo "emotivo". Questo processo di plasmazione si insinua nelle forme silenziose della quotidianità, nei simboli, nei valori, nell'autorità non dichiarata dell'abitudine e della convenzione. Il rapporto privilegiato con i caregiver nei primi anni di vita è la base sul quale la convenzione sociale acquista la sua naturalità e la sua immediatezza e le pratiche del potere, profondamente inscritte nelle azioni del quotidiano, cessano di essere percepite o rimarcate come forme di controllo. Questo processo di socializzazione non è meccanico né monolitico, siccome si tratta di una combinazione dinamica e originale di influenza reciproca tra le esperienze sociali di uno specifico caregiver e quelle del bambino. I modelli attraverso i quali i soggetti riducono la complessità di ciò che provano, pensano e percepiscono in ogni istante, organizzando dinamicamente la propria architettura neuronale e modificando le connessioni sinaptiche, si acquisiscono non attraverso generalizzazioni esplicite, ma attraverso esperienze e partecipazioni ripetute. Caratteristica della socializzazione emozionale primaria è pertanto l'incorporazione di elementi ambigui e ambivalenti. A lato di questi processi di costruzione delle emozioni che si svolgono in maniera progressiva e continua, si stagliano processi che al contrario interrompono la normalità, foggiando drammaticamente la personalità degli individui affinché corrisponda a uno specifico ideale di umanità. Mi riferisco a tutti quei processi che, introducendo violenza, paura, dolore, sofferenza fisica e psicologica, determinano l' attivazione del sistema neuroendocrino, il quale reagisce con la messa in circolo di alcuni ormoni prodotti nelle ghiandole surrenali: in particolare, l'adrenalina, che interagisce con i recettori presenti nell' amigdala, punto chiave del circuito emozionale del cervello e centro della memoria emozionale, e il cortisolo, che stimola l'ippocampo potenziando l'apprendimento e accrescendo la ritenzione dei ricordi. I lavori di Harvey Whitehouse su emozioni, ormoni dello stress e memoria nei rituali di iniziazione sono a questo proposito esemplari. Appartengono a questo tipo di interventi tutte le pratiche o tecniche, farmacologiche e comportamentali, destinate a dare una particolare forma o a trasformare le emozioni affinché corrispondano alle aspettative sociali. Diverse etnografie sottolineano come esistano momenti di passaggio destinati a formare, disciplinare e guidare l'emotività in una direzione ideale, coerente e funzionale al mantenimento di un preciso ordine morale e sociale e alla costruzione di un certo tipo di adulti. Queste pratiche non propongono tanto norme cui gli individui dovrebbero attenersi, quanto costruiscono gli individui come esseri emozionali di un certo tipo. Ancora, sono considerabili come pratiche antropopoietiche tutti i discorsi pubblici sulle emozioni, che indicano e orientano il tono emotivo delle relazioni, offrendo modelli di comportamento percepiti in quello specifico contesto come “adeguati”, e che aiutano gli individui a tradurre le proprie sensazioni in espressioni socialmente accettabili. Le discussioni sulle possibili reazioni e relazioni affettive costituiscono infatti al contempo giudizi, valutazioni, interpretazioni, e stabiliscono così cosa apparirà come "razionale", "normale ", "giusto": qui si apre una questione che ha importanti implicazioni etiche e politiche. Le pratiche pato-poietiche possono essere lette come pratiche che dipendono e che al contempo generano potere, consentendo il mantenimento e la riproduzione di relazioni diseguali: in questo senso, comprendere chi conosce cosa, chi crea e definisce significati culturali e con quale fine, diviene una questione molto seria. Raccogliere dati sulle norme morali e sociali che regolano il comportamento emozionale ci permette di mostrare come anche aspetti che possono essere ritenuti intimi e naturali riflettono in realtà dinamiche di potere: in questo senso l'antropologia delle emozioni si presenta anche come una prospettiva critica, volta a ricondurre ogni aspetto individuale e culturale al più ampio contesto storico, politico e sociale in cui esso è inserito. In quest'ottica l'antropologia delle emozioni può assumere un'importante funzione di critica sociale anche al di fuori del mondo accademico, nella misura in cui è in grado di illuminarci sulla relatività e sulla natura socioculturale del nostro sapere più indubitabile, del senso comune, addirittura delle nostre emozioni e sensazioni corporee, svelandone la natura politica e sociale. Le emozioni, infatti, rivelano un'essenza contemporaneamente biologica e sociale, collocandosi in quella zona opaca e difficile da definire nella quale percezioni, sensazioni, valutazioni, apprendimento, orientazioni cognitive, moralità pubblica e ideologia culturale si congiungono. In virtù di queste loro caratteristiche le emozioni svolgono un importante ruolo di mediazione e connessione fra tre corpi diversi e insieme coesistenti: quello individuale, quello sociale e quello politico. Esaminare come le emozioni siano immaginate, definite e interpretate significa dunque riflettere su relazioni sociali, rapporti fra gruppi dominanti e gruppi oppressi, differenze di status e caratterizzazioni di genere. Seguendo questa strada può essere un'utile strategia identificare le pratiche culturali atte a definire e a correggere le emozioni ritenute trasgressive o pericolose, per salvaguardare il benessere del gruppo e dei singoli individui. Diversi autori hanno lavorato in questo senso, cercando di rintracciare, da un punto di vista empirico e concettuale, la genealogia dei regimi correnti delle emozioni e del self, ossia le condizioni e i processi che hanno plasmato l'ideale normativa del comportamento emotivo e gli orizzonti di possibilità della nostra esperienza. Questa costruzione è intesa come un processo storico piuttosto che come un fenomeno individuale. Lo scopo è destabilizzare e denaturalizzare i regimi del self che sembrano dati nella loro naturale autenticità, elucidando i limiti imposti, le illusioni create, gli atti di dominazione e incorporazione del potere con i quali qualsiasi sforzo di agency e libertà deve venire a patti. Parlare di invenzione del sé non significa affermare che noi siamo vittime di un'illusione collettiva. Sostenere che la nostra relazione con noi stessi e le nostre sensazione ed emozioni è storica e non antologica significa affermare che la soggettività è la conseguenza di performance ripetute, e che anche l'autenticità altro non è che una particolare costruzione: «L'idea di un io autentico o di un nucleo di irrazionalità “nascosto” o protetto è una versione dell'emozione che coltiviamo da tempo nella nostra tradizione». La dimensione carnale delle emozioni I filosofi Robert Solomon e Claire Armon-Jones affermano che l'emozione non è una sensazione ma è essenzialmente un'interpretazione e che l'emozione è un irriducibile prodotto socioculturale. L'antropologa Benedicte Grima sostiene che l'emozione è cultura, le antropologhe Lila Abu-Lughod e Catherine Lutz arrivano ad affermare che lungi dall'essere entità psicobiologiche interne, le emozioni sono piuttosto costrutti socioculturali, pratiche discorsive, performance sociali. Le due autrici propongono addirittura di considerare le emozioni come qualcosa che appartiene alla vita sociale piuttosto che a stati interiori, suggerendo di lavorare per liberarle dalla psicobiologia. Abu-Lughod e Lutz riconoscono tuttavia il rischio di perdere completamente di vista la dimensione della corporeità: «Un approccio centrato sul discorso potrebbe essere interpretato come un rifiuto o un oscuramento del corpo, mentre noi non intendiamo negare la forza dell'emozione e dell'esperienza soggettiva». Diversi autori hanno sostenuto che il paradigma discorsivo rischia di trascurare la dimensione carnale delle emozioni, privilegiando le rappresentazioni e le idee sulle emozioni, piuttosto che le emozioni in sé, come vengono vissute corporalmente e soggettivamente. Esemplare al riguardo il testo di Renato Rosaldo (1989) sulla forza culturale delle emozioni, spesso non riconosciuta dagli antropologi, in quanto così impegnati a esplorare ragnatele simboliche di significato da non riuscire a cogliere «quel tipo di esperienze o sentimenti che proviamo apprendendo che il bambino appena investito da un'auto è uno di noi, non un estraneo». diventano quindi human motives, una questione di sensibilità, onore e dignità personale. Tuttavia, è ragionevole supporre che i membri di qualsiasi società siano inseriti in una molteplicità di modelli morali, criteri locali di espressione o stili emozionali, che forniscono visioni del sé che si possono eventualmente trovare in aperto contrasto. Riuscire a cogliere i contrasti, le anomalie, gli spazi vuoti, le contraddizioni e le sovrapposizioni di valori, che costituiscono i mondi interiori degli individui, significa prendere lentamente coscienza della pluralità dei valori e delle norme, talvolta in contrasto tra loro. Cogliere i codici centrali di riferimento al punto da sentirne a livello personale la forza, l'impatto e il valore significa raggiungere una comprensione non solo intellettuale, ma carnale e sensuale di quello specifico mondo emotivo. In questo modo, «catturare stile, stati d'animo, emozioni» attraverso un'immersione partecipante diventa un'impresa personale e intellettuale appassionata, coinvolgente ed emotivamente carica. L'empatia come metodo e il contagio delle emozioni Sulla recente storia del termine “empatia” e sulle sue diverse accezioni hanno pubblicato un interessante volume tre psicologhe italiane, Bonino, Lo Coco e Tani (1998), le quali propongono un discorso articolato sui diversi tipi di condivisione empatica che si sviluppano nel corso dell'età in base al grado di mediazione cognitiva. Sul ruolo dell'empatia nella costruzione del sapere etnografico ha scritto Leonardo Piasere, introducendo il concetto di “perduzione”. Secondo il metodo perduttivo, si impara essenzialmente attraverso processi di ripetizione, empatia, attenzione fluttuante, abduzione e mimesi, o meglio «si impara ripetendo, si impara osservando e riosservando scene simili tra loro, si impara facendo allo stesso modo, o quasi. Si impara ottenendo il consenso, da parte di coloro che si imita, che quello che si fa va bene, o quasi» Questi schemi cognitivo-esperienziali, acquisiti tramite un'interazione continuata con i propri ospiti, entrano in risonanza con gli schemi o i saperi già incorporati dall'etnografo in quanto membro della propria società. Non si tratta di “diventare come” l'altro o di attribuire ad altri il proprio stato emotivo, ma di apprendere o comprendere il non noto attraverso analogia o risonanza con il proprio vissuto, in una continua tensione o rimando tra il sé e l'altro, tramite il quale l'antropologo e il suo interlocutore svelano, trasformano la propria identità personale, nel tentativo di creare un universo referenziale comune. → In mancanza di accessi diretti o privilegiati, diviene quindi necessario costruire ponti: in questo senso, «gli antropologi hanno fatto di una caratteristica degli oggetti che si proponevano di conoscere, le emozioni, un ingrediente attivo e regolatore della loro pratica: la negoziazione di mondi comuni» (Despret). Questo processo ci consente di cogliere un nuovo punto di vista che non subentra al posto di quello vecchio perché si trattengono entrambi nello stesso tempo. Un'interpretazione dell'empatia come condivisione esperienziale per analogia, processo associativo molto flessibile legato alla storia del soggetto e alle sue vicende, è stata proposta da diversi autori, secondo i quali l'etnografo interpreta sempre le esperienze altrui in risonanza con le proprie esperienze, ossia riconoscendole per via analogica. Renato Rosaldo, tratta sulla comprensione "intuitiva" o "empatica" della rabbia causata dal dolore presso i cacciatori di teste Ilongot delle Filippine, avvenuta in seguito all'improvvisa e tragica scomparsa della moglie Michelle. Pur consapevole della diversità di tonalità, aspetto culturale e conseguenze sul piano umano tra la sua "rabbia" e la "rabbia" ilongot, la sua personale esperienza del dolore si rivela nelle intenzioni dell'autore lo strumento più efficace per comprendere e rianalizzare la connessione ilongot tra dolore, rabbia e caccia alle teste, e per trasmetterne ai lettori la forza emotiva. In questo senso, un'emozione dell'antropologo (il dolore per la morte della moglie) autorizzando un tipo privilegiato di traduzione, diviene vettore di sapere. Sulla stessa linea è l'argomentazione proposta dall'antropologa norvegese Unni Wikan, che dai suoi ospiti a Bali apprende l'importanza di creare keneh, nozione che traduce con risonanza, con la gente e con i loro problemi, così come in un secondo momento con il testo che scriverà e i suoi lettori. Si tratta di un "feeling, pensiero", un'applicazione simultanea cioè di sentimento e pensiero, uno strumento di comprensione non esclusivamente verbale, che consente di superare il senso di alterità, favorendo una de-esotizzazione di coloro con i quali lavoriamo. Con le sue parole, la risonanza è «l'orientamento cruciale che ci permette di andare al di là delle parole per afferrare le forze motivazionali degli individui; la risonanza assomiglia ad attitudini che noi potremmo definire simpatia, empatia o Verstehen» Questo concetto viene suggerito a Wikan da un informatore, professore e poeta balinese, nel corso di una discussione sulle possibilità di comprensione tra persone di culture differenti. Non si tratta di uno sforzo unilaterale, ma da parte di entrambi gli interlocutori è necessaria «la volontà di instaurare un rapporto con un altro mondo, vita o idea; un'abilità a usare la propria esperienza [...] per cercare di afferrare, o comunicare, i significati che non risiedono né in parole, né in fatti, né in testi, ma che vengono evocati nell'incontro di un soggetto che sta facendo esperienza di un'altra persona o di un testo» L'autrice cerca quindi in primo luogo di creare risonanza con i suoi interlocutori balinesi lasciandosi coinvolgere intimamente nella loro vita, instaurando un rapporto di amicizia e scambio, partecipando alle attività quotidiane, in modo da divenire sempre più familiare con il loro modo di esperire la vita, con i concetti con i quali essi sentono, pensano e manipolano i fatti delle loro esistenze individuali. Il secondo passaggio è quello tra l'antropologa come autrice, il testo e il lettore. Ancora un tentativo di creare risonanza, non intesa dunque come identificazione o condivisione di un'identica esperienza, ma come tentativo di cercare nel fondo di noi stessi un ponte verso gli altri, poiché dove le culture separano, la risonanza getta ponti. Punti in contatto con il pensiero di Unni Wikan la riflessione proposta da John Leavitt (1996), il quale, in un saggio dedicato all'analisi antropologica delle emozioni, tratta di un processo di comprensione antropologica per analogia che coinvolge pensiero e sentimento, mente e corpo. La critica che questo autore rivolge ai suoi colleghi è che spesso nella quotidianità del lavoro sul campo si dipende da processi di comprensione empatica che non vengono però mai riconosciuti e dichiarati nelle etnografie. → Se è assolutamente ingenuo presumere l'universalità delle risposte affettive, sostiene Leavitt, è anche certamente vero che un etnografo immerso nella vita dei suoi ospiti riuscirà, grazie alla lunga frequentazione e nonostante le immancabili perdite di ogni processo di traduzione, a comprendere le loro emozioni. Ma questa comprensione, secondo Leavitt, è solo l'inizio della ricerca. Il problema dell'empatia non dipende dal fatto che coinvolge il vissuto dell'antropologo, ma che, nascondendo del tutto il carattere problematico della traduzione, spesso porta a considerare come giusta la prima impressione, quando invece questa dovrebbe essere riesaminata e rielaborata alla luce di una maggiore conoscenza e familiarità con la cultura studiata. Secondo Vinciane Despret, un utilizzo semplicistico dell'empatia, nel quale l'antropologo mette il proprio corpo e la propria storia a disposizione di un negoziato di cui egli è l'unico sito, si ricollega all'autenticità della passione e dei suoi accessi: la mia passione mi dà un accesso autentico a quella dell'altro. Despret: L'idea di un io autentico o di un nucleo di irrazionalità "nascosto" o protetto è una versione dell'emozione che coltiviamo da tempo nella nostra tradizione. Si noterà che questa singolare articolazione tra l'interiorità, la passività e l'autenticità dell'emozione presuppone una certa definizione dell'autenticità: l'emozione è vera, naturalmente vera, ma soprattutto spontaneamente vera. Questa definizione dell'autenticità esprime la separazione tra natura e cultura. Un ricorso ingenuo all'empatia porta infatti al malinteso, in quanto non considera né il punto di vista dei locali né il più ampio contesto politico, storico e sociale, e colloca acriticamente l'esperienza degli altri all'interno di concetti di persona ed emozione propri dell'antropologo, rischiando di dare luogo «a una forma di imperialismo occidentale sulle emozioni degli altri». Se un'empatia aproblematica ed etnocentrica, o ancora ingenua ed egocentrica, porta al "fraintendimento empatico" o alla "trappola empatica", alla «misrisonanza implicita nella parzialità delle propriospettive», a un falso keneh causato da una «troppo facile attribuzione agli altri di ciò che uno sente / pensa», l'empatia "analogica e riflessiva" o simpatia consente di attenuare i rischi di incomprensione. La simpatia di Leavitt si avvicina molto all'empatia "etnografica" di cui ci parla Jackson (1998) e che si basa su un'intensa e durevole relazione con gli altri, sulla coesistenza, sulla permeabilità. Nella prospettiva fenomenologica di Jackson la possibilità dell'empatia etnografica è strettamente connessa con la capacità di apprendimento. La strategia metodologica che propone consiste nell'acquisizione di pratiche corporee e di abilità sociali, secondo un apprendimento che nelle società preletterate è spesso materia di osservazione e imitazione diretta: si tratta di desistere dal prendere appunti, «prendendo parte alla vita quotidiana senza altre motivazioni: consiste nell'abitare il loro mondo». In questo senso il campo può essere pensato come un habitus piuttosto che come un luogo, intendendo per habitus un gruppo di disposizioni d'animo e pratiche fatte proprie, incarnate (Clifford). La comprensione viene a coincidere con un processo, imperfetto e mai definitivamente concluso, di knowing how sociale, ossia con l'abilità a orientarsi in un determinato contesto e a parlare un altro linguaggio. Che la maggior parte della conoscenza e comprensione culturale non sia solo espressa in forme linguistiche quanto piuttosto agita nelle pratiche del quotidiano è stato affermato da molti filosofi e antropologi. In Veneto c'è un termine molto adatto a questa metafora: imbombegà (Piasere). Ogni oggetto che si impregna di una sostanza non cambia di per sé, resta "segnato" perché imbombegà. L'impregnazione- imbombegamento-sedimentazione-incorporazione- internalization è un feeling-pensiero incorporato, un fenomeno psicosomatico che facilmente possiamo riferire all'acquisizione, parziale ma felice, di habitus altrui. L’“imbombegamento” di Piasere (2002) è un concetto simile all' imprégnation di Olivier de Sardan (1995), al "vivere con" di Jackson (1989), al "saper fare" di Stoller (1989b) e Jean Lave (1988), al knowing how di Ryle (1949), alla "sedimetazione " e all"'immersione sociale totale" di Hastrup e Hervik (1994), al lasciarsi condurre dalla vita degli altri di Devereux (1967). Una condizione di reciproca permeabilità e recettività cui i miei interlocutori sul terreno si riferivano parlando di "contagio di emozioni". Secondo la psicologia implicita bijagò le emozioni, alla pari delle malattie, possono passare da una persona all'altra, specialmente qualora queste condividano una relazione di prossimità, penetrando facilmente i permeabili confini corporei. Questa trasmissione avviene in modo involontario e quotidiano, senza necessità di prendere appunti o accendere il registratore, semplicemente partecipando delle stesse situazioni, in particolar modo quando queste siano di particolare intensità emotiva, come nel caso di conflitti o crisi. Un' antropologia che spezza il cuore: le emozioni sul campo e nelle monografie etnografiche Le emozioni sono inestricabilmente legate alla nostra ricerca antropologica così come al momento della scrittura, dal momento dell'apprensione e dell'attesa che precedono il campo, alle fasi di adattamento, impotenza, stanchezza, fino all'instaurarsi di relazioni significative e alla fase complessa della scrittura. Tuttavia, le emozioni sono generalmente omesse dai resoconti finali degli antropologi: eventualmente relegate a momenti di scambio informali tra colleghi, come lezioni e seminari, o confinate con un certo imbarazzo nelle note private del diario di campo. Questo è uno dei vari risultati della divisione dicotomica, di antiche origini, tra ragione ed emozione, per cui l'ambito accademico decide di privilegiare il sapere e nascondere il sentire, considerando l'ambito emozionale come il pericoloso "altro" della conoscenza. Anche se le emozioni in gioco nell'esperienza di campo sono state generalmente eliminate dai testi di antropologia, non possiamo non considerarne le molteplici funzioni nei processi che condizionano la forma in cui si produce la conoscenza etnografica, come il modo in cui negoziamo la costruzione del sapere sul campo, il modo in cui l'altro diventa o meno effettivamente l'Altro, e il modo in cui un'esperienza profondamente soggettiva come quella etnografica passa al lettore della monografia. Nonostante il crescente accento sulla riflessività nella ricerca qualitativa in generale e nella ricerca etnografica in particolare, pochi autori hanno cercato di esplorare l'influenza delle proprie risposte emotive, così come della propria corporeità, nel processo di ricerca in un modo capace di condurre a una più profonda comprensione di ciò che accade durante l'esperienza sul campo. Le emozioni dei ricercatori sono sempre state trascurate come una fonte di dati in sé stesse. Le emozioni rimangono insomma nascoste perché questo tipo di etnografia è direttamente correlata alla sfera della conoscenza non verbale, pratica, empatica e incorporata, che difficilmente passa nello scritto. L'interesse attuale per le emozioni nel lavoro sul campo è il risultato di un dibattito che fin dal 1980 discute questioni riguardanti riflessività e rappresentazione, e il rapporto del ricercatore con il proprio oggetto di studio. Nonostante l'enfasi crescente sulla riflessività nella ricerca qualitativa in generale e nell'etnografia in particolare, fino a esperienze di ricerca quali l' autoetnografia o la narrativa personale, pochi autori hanno esplorato le loro stesse risposte emotive nel processo della ricerca, con le conseguenze che questo tipo di introspezione potrebbe avere. Le emozioni dei ricercatori non sono considerate dati rilevanti in sé stesse, in quanto condizionanti il processo di ricerca e i suoi risultati.
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