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La riscoperta dell'umanità, Charles King, Schemi e mappe concettuali di Antropologia Culturale

Riassunto completo e dettagliato del libro a scelta.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

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Scarica La riscoperta dell'umanità, Charles King e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! 1 Charles King La riscoperta dell’umanità Come un gruppo di antropologi ribelli reinventò le idee di razza, sesso e genere nel XX secolo Capitolo primo Altrove Questo libro racconta di un gruppo di globalisti che all’epoca di nazionalismi e divisioni sociali, riuscirono a introdurre uno sguardo (preistoria dei movimenti sociali dell’ultimo secolo) sul mondo che oggi definiamo moderno e aperto. Fino a un secolo fa gli individui erano rappresentanti di un tipo specifico, somma di determinate caratteristiche razziali, nazionali e sessuali (le donne non potevano fare politica ed erano accettate nella vita pubblica solo come volontarie). Nel 1890 nel censimento degli Stati Uniti vennero introdotti i termini «mulatto», «quadroon» (un quarto di sangue nero) e »octoroon» (un ottavo di sangue nero). La prima edizione completa dell’ Enciclopedia Britannica terminata nel 1911, conteneva la definizione di «razza» come un gruppo di individui «discendenti da un antenato comune»;l’ Oxford English Dictionary non riportava i termini di «razzismo», «omosessualità» e «colonialismo». L’ idea che esistesse una gerarchia naturale tra esseri umani regolava ogni aspetto della cura sociale: università, scuola, politiche, tribunali e cultura popolare: l’odierno Foreign Affairs si chiamava Journal of Race Development. I dibattiti che caratterizzano la politica di oggi sono il risultato di una serie di scoperte fatte da Franz Boas e il suo circolo: le categorie sociali in cui ci dividiamo, comprese razza e genere sono costruzioni , prodotto dell’artificio umano e agiscono a livello inconscio nella società. Boas e gli studiosi del suo circolo decisero di chiamarsi «antropologi culturali» e di coniare la loro teoria «relatività culturale» (che oggi studiamo come «relativismo culturale»). Boas e gli studiosi che gli gravitavano attorno sostenevano che per vivere in modo intelligente dovremmo vedere le vite degli altri attraverso la lente dell’empatia e sospendere il giudizio su come gli altri vedono la realtà sociale finché non riusciremo a vederla con i loro occhi I libri di Boas furono i primi ad essere bruciati con l’ascesa del nazismo insieme a quelli di Freud ,Einstein e Lenin. 2 Margaret Mead, Ruth Benedict, Ella Cara Deloria, Zora Neal Hurston al pari di Boas basavano i loro studi sul metodo scientifico (le conclusioni raggiunte sono provvisorie e sempre soggette ad essere contraddette da nuovi dati). Boas parlava di culture al plurale e non al singolare: tutti abbiamo i nostri totem e i nostri tabù, i nostri demoni e i nostri dei. Tutto col tempo cambia e quello che ci sembra normale fare oggi un giorno sembrerà strano a chi verrà dopo di noi. Lo studio del circolo di Boas partiva dall’assunto che il nostro non è uno stadio distinto all’interno dello sviluppo umano e la storia procede in spirali e circoli , non per linee rette e non ha destinazione. Per i membri del circolo di Boas la fama se arrivò arrivò accompagnata dalla calunnia.Gli antropologi di Boas furono controllati dal FBI e perseguitati dalla stampa per aver diffuso l’idea che gli Stati Uniti di America potessero non aver creato la più grande nazione del mondo. Capitolo secondo Isola di Baffin Franz Boas nacque a Minden in Vestfalia, Prussia (Germania) nel 1858; era figlio di Sophie e Meier Boas, ebrei. Vestfalia, città della pace del 1648, si portava dietro residui dell’età dei lumi e il contributo del pensiero di Goethe, Schiller e Humboldt. Coloro che avevano sostenuto i moti del 1848 (a Parigi furono innalzate barricate per abbattere la monarchia costituzionale di Luigi Filippo I) si ritirarono a vita privata o furono mandati in esilio. Nonostante l’antisemitismo fosse largamente diffuso in Europa, i genitori di Boas avevano la fortuna di essere bürgelich ,borghesi agiati e liberi pensatori con una propria attività e facevano parte di una rete transnazionale di mercanti e viaggiatori.Il padre aveva ricevuto in dote l’attività della famiglia della moglie: biancheria raffinata, stoviglie e mobilio per l’azienda Meyer di New York. Boas era l’unico figlio maschio tra molte sorelle e frequentò il Gymnasium con buoni voti soprattutto in latino, matematica e geografia. Non era uno studente modello e i professori si accorsero che era propenso a fare confronti sistematici rispetto ai fenomeni naturali che osservava e che saltava da un interesse all’altro. Nel 1877 si iscrisse all’Università di Heidelberg, dove si dedicò agli studi di fisica e matematica. Boas partecipò anche alla vita delle associazioni di confratelli dove gli studenti si ubriacavano e si sfidavano a duello quando si presentava l’occasione per ottenere le Schimiss (cicatrici da duello). Come tanti studenti si spostò un anno dopo all’università di Bonn e poi a Kiel ,eccellente università su mar Baltico. All’università ebbe modo di studiare l’illuminismo tedesco (Aufkarlung) e di studiare Kant. Secondo Kant, per quanto l’universo sia governato da leggi, queste rimangono impenetrabili a causa della fragilità delle nostre menti che studiano la realtà circostante in base ai sensi, a 5 Con l’approvazione, nel 1871, dell’ «Indian Appropriation act» il Congresso aboliva il vecchio sistema di trattati formali di relazione con le tribù indiane. Da quel momento i nativi erano sotto custodia del governo e si trovavano in una via di mezzo legale che non li rendeva né cittadini a pieno titolo, né stranieri. Il mentore di Powell si chiamava Lewis Henry Morgan, era un uomo d’affari nato nel 1818 e che per caso aveva trovato la sua vocazione come Boas e Powell. Era interessato a scoprire il passato dell’America ,legato al presente da cui poteva essere estratto (per es. comunità indigene sparse a sud e a est del lago Ontario). Morgan era interessato alla confederazione irochese, un’entità politica ed economica di Mohawk, Onondaga,, Oneida, Cayuga, Seneca e Tuscarora. La confederazione era scomparsa gradualmente dopo l’arrivo dei coloni inglesi e francesi ma negli anni quaranta dell’800 Morgan e i suoi colleghi vollero provare a rifondarla.Lo scopo era far si che indiani ed europei riacquisissero dimestichezza con uno stile di vita più puro e autentico, riportando in vita l’antica civiltà fiorita un tempo sul luogo americano. Il progetto però non andò a buon fine e Morgan decise di dedicarsi agli affari di famiglia però continuò a interessarsi del passato e del presene degli irochesi e nel 1851 pubblicò le sue varie scoperte in La lega degli irochesi . Nel 1877 Morgan pubblicò Ancient Society ,uno studio in cui tentava di creare un modello generale per spiegare come le società umane si organizzassero e come considerassero la proprietà.Tutte le società secondo Morgan attraversavano i medesimi stadi evolutivi. Nell’antichità era possibile distinguere leggi che governavano la transizione da forme di organizzazione più semplici (famiglie, fratellanze, tribù) ai complessi stati-nazione moderni. L’opera di Morgan fu considerata un’autorità sui processi di cambiamento sociale (fu citato da Darwin, Marx , Engels e reso obbligatorio da Powell per lo staff del Bureau of Ethnology). Nel 1886 Powell tenne una conferenza di fronte a una grande platea che riuniva l’élite scientifica di Washington. Il suo discorso era basato sul lavoro di Morgan : Powell affermò che «la cultura umana attraversa degli stadi» (stadio selvaggio, barbaro e civile). È possibile che gli individui non esibiscano tutte le caratteristiche dello stadio in cui si trovano e quindi possono essere versioni «degradate» della cultura umana (come gli zingari secondo Powell). Lo stadio generale della cultura comunque andava sempre verso conquiste più elevate nonostante gli stadi del progresso si mescolassero tra loro. Studiare le peculiarità degli stadi della cultura umana era compito dell’etnologo che doveva imbattersi in questi chiaroscuri che a volte permettono di essere studiati in tempi brevi (come nel caso degli indiani contemporanei a Powell) mentre a volte richiedevano tempi biblici. Powell chiamava «doti umane» la capacità di creare un linguaggio, di forgiare istituzioni e di usare la ragione per comprendere il mondo. A differenza di Spencer non credeva che 6 fosse la sopravvivenza del più adatto a determinare chi dovesse dominare ma sosteneva che l’evoluzione sociale non avesse nulla a che fare con quella biologica. L’etnologia era il dialogo che l’uomo civilizzato intraprendeva con coloro che dovevano ancora seguire il percorso di civilizzazione che lui aveva già compiuto.La conferenza ebbe molto successo poiché Powell aveva separato, basandosi sugli studi di Morgan, l’oggetto della biologia dall’oggetto dell’etnologia, la cultura. Nel 1897 a Washington finirono le costruzioni dell’edificio in cui venne ospitata la Biblioteca del Congresso.I lettori potevano osservare una collezione di trentatré teste di granito che ricalcavano i modelli della collezione di Powell.I civili popoli europei erano posti sulla facciata all’ingresso centrale. I barbari cinesi e arabi decoravano le pareti laterali mentre i selvaggi africani e gli abitanti del pacifico erano nascosti sul lato posteriore. Nel luglio del 1886, dopo un anno dal ritorno in Germania, Boas si imbarcò su un transatlantico diretto a New York in un viaggio che non sapeva ancora sarebbe stato di sola andata. Boas faceva parte dei quasi due milioni di immigrati che tra il 1880 e il 1900 si trasferirono negli Stati Uniti. Il quartiere di Kleindetuschland o Dutchtown rinominato poi Lower Est Side, era , dopo Vienna e Berlino, la città che all’eco contava il maggior numero di tedeschi. Boas quando arrivò a New York non aveva un lavoro e cominciò a cercare una serie di contatti accademici e richiedere raccomandazioni. Cominciò a cercare una nuova destinazione per la sua ricerca sul campo puntando sulle popolazioni indigene della costa nord-ovest del pacifico il cui studio gli avrebbe permesso di di proseguire la ricerca iniziata sull’isola di Baffin. Nell’autunno del 1886 quindi con il prestito di uno zio, partì alla volta dell’ovest. Boas prese il treno da Tacoma nello stato di Washington e si diresse verso la provincia canadese della Columbia Britannica. Scrisse circa l’impressione strana che gli fece la città di Vancouver: città emersa da nemmeno un anno dalla terra selvaggia. Boas stimò che la popolazione indiana della Columbia britannica fosse circa di trentottomila unità, perlopiù dislocate verso la costa.Le persone si vestivano all’europea, lavoravano come pescivendoli, stivatori e lavandaie e la loro organizzazione sociale era varia (o tribù suddivise in clan o sistemi di società segrete). Ciò che univa gli indiani era il comune senso artistico molto sviluppato. Decise di concentrarsi sulla raccolta di miti e leggende popolari lungo la costa, sull’isola di Vancouver e imparò anche il chinoock (lingua semplificata usata per il commercio). George Hunt, uomo per metà Tlingit e per metà inglese che sposandosi era entrato nella società Kwakiutl, gli faceva da guida e da testa di ponte, lo stesso ruolo che sull'isola di Baffin era stato di Signa. Spesso i miti che la gente del posto raccontava erano pieni di scurrilità e volgarità, il che innervosiva Boas che sapeva che non avrebbe potuto pubblicarli. La nuova ferrovia Canadian Pacific Railway avrebbe di lì a poco attraversato la zona di Vancouver e le capanne di assi di legno sarebbero state sostituite per far posto a edifici 7 moderni. Boas sapeva di dover compiere una corsa contro il tempo ma constatò che né i coloni né gli autoctoni consideravano la nuova realtà una tragedia. A dicembre (1886) Boas tornò a New York e un mese dopo entrò a far parte della rivista «Science» dopo aver cenato con il direttore Nathaniel D.C. Hodges. Informò la famiglia che si stava stabilendo formalmente in America e comunicò a Marie che potevano cominciare a organizzare il matrimonio per la primavera. «Science» era un periodico fondato nel 1880, un «rapporto settimanale sul progresso scientifico» in cui Boas aveva il compito di sovrintendere la pubblicazione degli articoli a carattere geografico e di preparare trafiletti sullo sviluppo della disciplina. La rivista fu l’occasione di Boas per esporre le sue idee generali sulle emergenti scienze sociali: i sociologi e gli etnologi avrebbero dovuto smettere di basare le proprie professioni su quelle dei medici e degli studiosi del mondo naturale in quanto la sociologia e l’etnologia non potevano fornire conclusioni generali perché fortemente radicate al contesto. Secondo lui il National Museum di Washington e tutti gli studiosi che si erano raccolti intorno a Powell avevano completamente frainteso questo principio. Di ritorno dalla Columbia Britannica infatti Boas si era recato allo Smithsonian per studiare le collezioni sulle popolazioni della costa nord-occidentale: era una sorta di protomuseo che raccoglieva un’insieme di curiosità che re e principi del Rinascimento e della prima età moderna avevano raccolto per dilettarsi. Al contrario, i moderni musei di storia moderna si concentravano sulla classificazione logica: per esempio al British Museum si potevano attraversare le gallerie che presentano flora, fauna, fossili e impronte. Per Powell e gli altri studiosi invece, dato che tutta l’umanità attraversava tre fasi dell’evoluzione, era logico raggruppare tutto ciò che riguardava ognuna di queste fasi indipendentemente dalla regione geografica.Inoltre Boas osservò come il visitatore non poteva capire lo scopo d’uso dei vari strumenti esposti perché non c’era spiegazione. La posizione di Boas era: condizioni simili non producono sempre effetti simili, i fatti storici invece avevano maggior influenza sull’ambiente. L’organizzazione degli oggetti fatta dal professor Mason allo Smithsonian invece contraddiceva questo assunto tanto che Boas scrisse un articolo in cui esprimeva il suo disaccordo e ricevette risposta da Mason che continuava a sostenere l’importanza dell’attaccamento alla biologia nell’interpretazione dei fatti etnologici. Secondo Boas la visione di Mason, Powell e Morgan teneva conto degli stadi dell’evoluzione organizzandoli in un eterno presente , senza tener conto dell’importanza della storia, delle migrazioni , degli incontri con altri popoli e idee che modificano gli usi e i costumi di un popolo. Per Boas non si potevano basare le ricerche etnologiche su un metodo deduttivo perché questo non avrebbe fatto altro che ricercare assunti generali che confermassero i pregiudizi di partenza: bisognava invece rifarsi a un metodo induttivo che permettesse l’esame 10 mediterranee, i brachicefali, con la testa più corta, erano dell’Europa e dell’America del Nord e del Sud. La teoria generale su cui si basava l’antropometria era la convinzione che le differenze fisiche potessero dare indizi per risolvere questioni complicate che spaziavano dalla salute pubblica ai servizi segreti. Inoltre dato che il cranio conteneva il cervello, poteva offrire una chiave per comprendere il comportamento: il poliziotto francese Alphonse Bertillon aveva proposto in quegli anni un uso sistematico della fotografia per studiare i criminali. Quella che divenne la famosa foto segnaletica con lo scatto frontale e di profilo, veniva utilizzata non solo per identificare meglio il soggetto ma anche per confrontare le foto con quelle di altri criminali e correlare i principali tratti del volto con quelli di altri noti criminali per poter più facilmente identificare chi era colpevole e chi avrebbe potuto esserlo in futuro. Per Putnam e la maggior parte degli scienziati dell’epoca, la psicologia, l’etnologia e l’antropologia avevano il medesimo scopo: utilizzare l’osservazione sistematica dei tratti esteriori degli individui per arrivare a conclusioni sulle evidenti differenze tra gruppi sociali. Anche Boas si era imbattuto in alcune incursioni di questo tipo: per esempio all’università di Clark aveva messo in piedi un progetto per l’analisi dell’anatomia dei bambini delle scuole pubbliche di Worcester. Questo progetto venne impedito e non abbastanza difeso da Hall, motivo in più che spinse Boas ad andarsene dall’università. Quando Boas si presentò al padiglione della fiera, la mostra di antropologia era solo un progetto; si trovò a coordinare circa settanta lavoratori sul campo che dovevano raccogliere artefatti presso le tribù nord-occidentali del Pacifico. Egli stesso mobilitò i contatti che si era creato nella Columbia Britannica e andò a caccia di maschere, canoe, totem, artefatti cerimoniali… La fiera aprì il 1° maggio a Chicago, si estendeva per circa settecento acri lungo la costa del lago. Oltre duecento padiglioni illuminati con corrente elettrica mettevano in mostra la scienza e la tecnologia in ogni possibile campo. Dal complesso dedicato all’agricoltura i visitatori attraversavano un ponte poi salivano su una ferrovia sopraelevata che li portava all’area etnologica. Si potevano osservare qui una replica delle rovine maya della penisola dello Yucatán, capanne in corteccia di betulla degli indiani Penobscot, totem intagliati. Il padiglione di antropologia riuscì ad aprire giusto in tempo per i festeggiamenti del Quattro Luglio: l’edificio era stravolto di oggetti riuniti per popolazioni o paesi, voluti da Putnam e ammassati dai suoi assistenti. Lungo la galleria invece si trovava l’esposizione di Boas sull’antropometria: le stanze erano dedicate allo studio dei tratti fisici si amerindi e «mezzo sangue», nascita e sviluppo dei bambini e infine un laboratorio che avrebbe condotto ricerche di psicologia, neurologia e craniologia in tempo reale, utilizzando come oggetto di studio gli stessi visitatori. Si trattava di un esperimento in larga scala, di una mostra e di un’occasione per fare ricerca. 11 I visitatori poter ano usare calibri per misurare la lunghezza, goniometri per gli angli facciali, il tachicraniografo di Zambelli per disegnare le sezioni del cranio…Tutto questo era parte dell’obiettivo di Boas di far osservare agli stessi visitatori come in realtà le differenze fisiche non fossero raggruppatili in base a schemi riconducibili a gruppi umani e che per esempio le impronte digitali degli indiani nordamericani erano diverse tra loro come tra tutti gli individui del mondo, perché uniche. L’altezza dei mulatti del Nordamerica portavano a risultati simili dei bianchi eccetera. Boas stava infatti maturando una repulsione verso la teoria non suffragata da prove e preferiva presentare dati anziché trarne lezioni generali. Per esempio ne 1889 pubblicò un articolo riguardo alla «cecità dei suoni». Secondo Boas l’incapacità di distinguere la pronuncia di alcune parole non mostrava maggiori o minori propensioni in base al livello di sviluppo delle società considerate. Inoltre grazie alle ricerche sul campo affermò che l’incapacità di distinzione dei suoni colpiva spesso più gli osservatori che gli osservati. Infatti osservò gli Inuit e Kwakiutl non avevano una pronuncia meno definita rispetto agli etnologi che la studiavano. Questa era un ulteriore indizio rispetto al fatto che gli studiosi vedevano il mondo in termini non oggettivi, ma attraverso un sistema di linguaggio che più conoscevano: i suoni conosciuti attraverso la propria lingua madre. Boas chiamò «appercezione» la tendenza universale a interpretare nuove esperienze alla luce di quelle a noi più familiari. Boas arrivò ad affermare che ogni scienza è provvisoria e che per le scienze sociali le spiegazioni arrivano dalle specifiche visioni del mondo e dalle abilità e categorie preesistenti dei ricercatori. Le teorie quindi non erano vere o false ma efficaci o meno efficaci. Il primo passo per un antropologo quindi era la raccolta dei dati e solo in un secondo momento la formulazione di una teoria. Il padiglione di Antropologia era posto al margine della fiera e non ebbe molto successo, complice anche la concorrenza della vicina collezione etnologica organizzata dallo Smithsonian. La fiera inoltre finì male: a Chicago si diffuse un’epidemia di vaiolo, seguita da una di influenza. Il sindaco di Chicago Carter Harrison venne assassinato poco prima delle cerimonie di chiusura della fiera e un’incendio appiccato dagli operai rimasti disoccupati rase al suolo l’intera esposizione. Inoltre H.H.Holmes era il proprietario di una pensione ,vicina alla casa di Boas, che aveva installato nelle stanze sistemi di areazione per asfissiare i clienti. Come se non bastasse la piccola figlia di Boas nata a marzo del 1993 mentre era impegnato nell’organizzazione del padiglione , morì poco dopo la chiusura della fiera. Lasciata Chicago la famiglia Boas si trasferì a New York vicino su una strada al confine con Central Park. Boas dopo la fiera venne congedato e si ritrovò di nuovo disoccupato quindi tornò a New York in ricerca di una posizione in università. Intanto sbarcava il lunario attraverso lavori a contratto presso i musei e continuava a raccogliere artefatti durante le sue spedizioni. Nel 1895 durante l’allestimento di una nuova mostra allo Smithsonian si posò in alcune 12 fotografie con un vestito di lana e persino in intimo e imitò una danza rituale di una società segreta kwaktiul che aveva osservato per la prima volta alla fiera di Chicago. L’esperienza di Chicago e la collaborazione con Putnam si rivelarono utili quando nel 1896 Boas fu convocato per collaborare nell’American Museum of Natural History di New York di cui Putnam era diventato collaboratore. L’American Museum of Natural History fu fondato nel 1869 e riuniva le collezioni private di nobili e naturalisti; nel 1874 il presidente Ulysses S. Grant fece costruire un nuovo edificio nella zona desolata della Settantesima Ovest e nel 1977 il Museo era pronto per aprire ai visitatori. Boas si dedicò a riunire tutti i materiali per una nuova galleria dedicata alle popolazioni della costa nord-ovest e organizzò una squadra di nuovi ricercatori per intraprendere nuove spedizioni nel Pacifico settentrionale (lo scopo era osservare le relazioni tra popolazioni indigene in Asia e America). Un altro progetto era dedicato allo studio dei gruppi tribali in estinzione a Ovest degli Stati Uniti. Nel frattempo la famiglia Boas si allargò e l’antropologo ricevette finalmente una posizione accademica e il titolo di professore alla Columbia University nel 1897. Il lavoro part-time all’università garantito segretamente dallo zio Jacobi era solo part-time e affiancato al lavoro di raccolta, cura e catalogazione al museo. La Columbia era nata col nome King’s College nel 1754 e cambiò nome in seguito alla rivoluzione americana. Sotto il presidente progressista Seth Low, politico di Brooklyn, l’università rivide i corsi di studio ponendo molta enfasi sulle scienze umane. Boas cominciò a insegnare alla Columbia alla facoltà di filosofia come professore di antropologia proprio quando Low trasferì l’università da Midtown ai quartieri dell’Upper West Manhattan, vicino al Museum of Natural History. Boas cominciò a dedicarsi alla vita accademica e nella primavera del 1899 lanciò una nuova serie della vecchia rivista «American Anthropologist» con un nuovo consiglio editoriale e con il contributo di un piccolo gruppo di dottorandi che riempivano la rivista con nuovi studi sul campo e ritrovamenti. Boas l’anno successivo venne eletto alla National Academy of Science e la nuova generazione di studiosi che gravitava intorno al National Museum spostò il centro degli studi antropologici da Washington a New York. Inoltre nel 1902 Powell morì, lasciando il posto simbolicamente alla generazione di Boas. Nel 1902 Boas contribuì a riformare l’American Antrhopologist Association e sull’American Anthropologist criticò le convinzioni dei suoi predecessori. Boas scrisse che finché non si fossero raccolti molti più dati, sarebbe stato impossibile definire ampie teorie sulle differenze del genere umano. Difendeva invece l’idea che le misurazioni fisiche in futuro sarebbero servite per comprendere la varietà umana ma vedeva dei limiti anche in questa impostazione. 15 Gobineu scriveva che le razze moderne degradate dall’incrocio con razze inferiori, sarebbero discese da un’antica e pura razza ariana. Agassiz, direttore dell’Harvard Museum of Comparative Zoology, fino alla sua morte nel 1873 sostenne la naturalezza della schiavitù e la proibizione dei matrimoni interrazziali. La personalità più importante in merito a questo discorso era Madison Grant che suggeriva consigli pratici per poter distinguere i tipi migliori e peggiori della stessa popolazione bianca. Madison Grant era discendente dei primi coloni puritani olandesi che arrivarono in America , combatterono tutte le guerre americane e firmarono i documenti ufficiali più importanti della storia statunitense. Grant incarnava ideali progressisti secondo cui i governatori dovessero migliorare la vita dei governati e sosteneva che le ricerche scientifiche dovessero contribuire a questo scopo. La sua idea di razze umane era legata a quella che aveva sugli animali: bisognava conservare la specie migliore per evitarne l’estinzione. Infatti Grant fece costruire in Dakota e in Montana dei rifugi per i bisonti americani in via di estinzione. Egli sosteneva che bisognasse salvaguardare la specie nel suo complesso , non tutti i bisonti, per questo contribuì alla costruzione di aree naturalistiche protette e fu uno dei fondatori dello Zoo del Bronx che apri nel 1899. Grant sosteneva che lo stesso principio che rischiava di portare la razza dei bisonti all’estinzione avvenisse anche tra gli esseri umani e che gli ebrei, gli slovacchi e gli italiani che arrivavano in massa a New York avevano effetti negativi sulla difesa della propria razza. Per Grant le opere che sostenevano le disuguaglianze tra le razze furono illuminanti tanto che apprese l’esistenza del termine eugenetica (dal greco, «buona nascita») coniato dal naturalista Francis Galton negli anni ’80 dell’Ottocento e che aveva come scopo la conservazione dei caratteri buoni e l’eliminazione di quelli cattivi. Nel 1906 Grant scrisse The Passing of the Great race (Il tramonto della grande razza) che venne esposto come opera scientifica. Nel libro si limitava a ripetere le posizioni sostenute da tempo da chi si occupava di antropometria: le razze potevano essere distinte in base a metri di paragone esteriori e persino i bianchi avevano delle sottospecie. Inoltre, le caratteristiche razziali erano per lo più immutabili e le loro caratteristiche e differenze potevano essere definite dalla specie. Sosteneva anche che «una delle maggiori difficoltà nella classificazione degli uomini era la perversa tendenza ad accoppiarsi in maniera sbagliata». Per questo bisognava impedire che l’America continuasse ad essere il «rifugio per gli oppressi» ovvero per i milioni di europei che stavano portando l’America all’abisso razziale. Il libro divenne una pietra miliare nell’applicazione delle idee scientifiche alla storia e alla politica tanto che tre quarti delle università americane (tra cui Harvard) introdussero i corsi di eugenetica che avevano come testo di riferimento quello di Grant. Nel frattempo gli immigrati negli Stati Uniti arrivarono ad essere il 14,7% della popolazione nel 1910. La popolazione di immigrati era aumentata di un terzo in dieci anni e i nuovi arrivati abitavano le zone urbane a fianco di ricche famiglie e antiche famiglie americane. Nel 1882 il «Chinese Exclusion act» aveva bloccato l’arrivo legale di lavoratori cinesi ma 16 dagli anni ’90 in poi era consentito arrivare a milioni di europei provenienti dai paesi orientali e mediterranei. Il Kleindeutschland si riempì di italiani, slovacchi e polacchi. Secondo Grant in questo panorama era importante distinguere gli avanzati, sani e vigorosi europei del nord dalle sotto-razze che si affollavano nel Lower East Side. Gli studi di Grant non erano di solo interesse accademico ma erano finanziati dal governo. Negli anni che Grant spese a leggere le opere sulla varietà dei tipi umani Boas si era congedato da curatore dell’American Museum of Natural History nel 1905 ed era passato al lavoro a tempo pieno come professore in università. Alla Columbia Boas riorganizzò le attività di dipartimento inserendo le discipline di studio che lui considerava alla base degli studi antropologici: linguistica, etnologia (oltre alla tradizionale antropometria) e archeologia. Nel frattempo la famiglia Boas si trasferì nel New Jersey e la nuova casa divenne luogo di ritrovo informale per un circolo sempre più vasto di studenti di dottorato. Il primo a completare il dottorato nel 1901 alla Columbia sotto gli insegnamenti di Boas fu Alfred Kroeber, immigrato tedesco che si traferì a Berkley (California) dove fondò il Dipartimento di antropologia. Dopo di lui a diventare dottori furono l’esule austriaco Robert Lowie, Edward Sapir, immigrato europeo originario dell’impero russo etc. L’entusiasmo che portò tanti laureati al Dipartimento di antropologia ad essere assunti dai musei del campus nei primi anni, calò quando nel 1908 il presidente dell’Università Nicholas Murray Butler negò ulteriori fondi per il dipartimento. Boas cominciò a cercare disperatamente finanziatori tra i vecchi colleghi del Bureau e aprì un nuovo corso nell’anno accademico 1907-08 intitolato «Problema dei Negri». Nel marzo del 1908 però arrivò un’occasione unica: il Congresso degli Stati Uniti aveva istituito l’anno prima una commissione per studiare la crescita dell’immigrazione e gli effetti sul paese. La commissione partì a visitare città come Napoli, Marsiglia e Amburgo constatando che le persone che emigravano non erano criminali ma disperati che vivevano in campi di detenzione e avrebbero fatto di tutto pur di partire. Non era quindi vero come sosteneva Grant, che la crescente immigrazione era parte di un complotto per diluire la «grande razza». Boas fu quindi incaricato di preparare un rapporto per la commissione sull’ «immigrazione di diverse razze» nel paese. Boas quindi cominciò a studiare i figli degli immigrati che avrebbero riportato gli effetti più chiari dell’immigrazione e partì da una domanda: i figli degli immigrati, frutto di incrocio tra razze diverse avrebbero riportato caratteri legati alla razza di origine? Questi caratteri sarebbero sopravvissuti al tempo e alla distanza? Boas chiese un finanziamento he venne fornito solo in parte per uno studio preliminare. Gli studenti di dottorato, i colleghi della Columbia e gli assistenti cominciarono a misurare le teste degli studenti delle scuole ebraiche, distribuivano questionari alle famiglie italiane e facevano domande ai boemi; rintracciavano ungheresi, polacchi e slovacchi a Brooklyn oltre a misurare la gente che aspettava le ispezioni mediche a Ellis Island. 17 I risultati dello studio furono inattesi e furono riepilogati nel 1911 nelle conclusioni intitolate Cambiamenti nella forma fisica dei discendenti degli immigrati che furono consegnate alla Commissione Dillingham. -Innanzitutto l’adattabilità degli immigrati era molto più grande di quanto Boas e gli altri studiosi supponessero prima delle indagini. I bambini nati negli Stati Uniti avevano più tratti in comune con altri bambini nati lì che con il gruppo nazionale dei genitori. Non esistevano differenze tra «ebrei», «polacchi» o «slovacchi» a giudicare dai corpi dei bambini di prima generazione di immigrati. Le condizioni di vita, la dieta e l’ambiente avevano un effetto rapido e misurabile sulla forma della testa che prima si pensava essere fissa, ereditiera di un determinato tipo umano. - Boas concluse che le razze erano instabili: qualsiasi storia si presentare come scontro all’ultimo sangue tra razze era essenzialmente falsa. Boas era giunto a queste conclusioni già dai tempi dell’isola di Baffin, ma ora sapeva che non si trattava più di una semplice intuizione, aveva dati a sostegno della sua tesi. - Era ciò che una persona faceva e non ciò che era a rappresentare il punto di partenza di una legittima scienza della società e quindi anche della politica sul tema immigrazione. Boas articolò tutte queste idee anche nel libro L’uomo primitivo, scritto nel 1908: si inserì quindi autorevolmente nel dibattito del rapporto tra razza, scienza e potere. Si trattava anche di dare una forma, una visione del mondo all’enorme massa di dati empirici raccolti in tutti quegli anni. Nel libro Boas scrisse che la differenza tra uomini civilizzati e primitivi consisteva nel fatto che i primi avevano dominato la natura, i secondi invece non lo avevano fatto e quindi i popoli civilizzati guardavano a quelli primitivi con un «sorriso di compassione» dietro al quale si nascondeva l’assunto moderno che stabiliva la superiorità della propria società intrinseca ai popoli normalmente detti civili (in particolare di tipo nord-europeo). La differenza dei risultati raggiunti si poteva spiegare con il caso e con il tempo oltre che con gli eventi storici. Gli europei che si disseminarono oltreoceano e la creazione di imperi nelle terre conquistate avevano bloccato lo sviluppo culturale e materiale del Nuovo Mondo. Boas affrontò poi l problema dei tipi umani affermando che le manifestazioni fisiche si manifestano in gradazioni minime, con una trasmissione di tratti fisici tra popolazioni diverse, e non creano confini netti che separano un tipo da un altro. Le differenze tra i diversi tipi emersero essere piccole rispetto a quelle osservabili nell’arco di variazione di ciascun tipo. Questa alta variabilità all’interno di una stessa categoria razziale, metteva in dubbio il concetto stesso di razza. Un’ altra conclusione che Boas espose nel libro fu quella che chiamò «interpretazione secondaria delle azioni consuete» ovvero la tendenza a razionalizzare le nostre pratiche culturali in base a modelli esplicativi assurdi. Per esempio si cerca di spiegare perché i popoli civilizzati abbiano inventato la forchetta per evitare il rischio di tagliarsi mangiando con i coltelli ma la probabilità di farsi male con la forchetta o il coltello, era la stessa. Le società tendono a trattare i propri costumi come prodotto di uno sviluppo razionale quando in realtà è possibile che questi siano derivati dal caso o dall’imitazione, che non seguano per forza una logica universale. 20 riuscì a raggiungerlo negli Usa e andò a vivere da lui appena prima che venne approvato il «Johnson-Reed Act». Si trattava di una modifica della politica sull’immigrazione che aveva come scopo riportare la composizione demografica americana allo stato precedente l’immigrazione di massa. L’immigrazione dall’Asia fu completamente bloccata mentre non furono imposti limiti ai modesti arrivi dall’America Latina. La legge invece tendeva a limitare di. Molto gli arrivi di ebrei, italiani, polacchi e slovacchi considerati culturalmente arretrati e pericolosi. Questa legger regolò la politica immigratoria americana fino al 1965. Nel 1922 il «Married Women’s Act» revocava la cittadinanza a tutte le donne americane sposate con stranieri non bianchi e la Corte Suprema affermò la costituzionalità dell’intero sistema nella sentenza Ozawa contro Stati Uniti, uno dei processi che stabilì i confini della razza bianca negando ai giapponesi l’idoneità alla naturalizzazione per ragioni razziali. La Columbia University e molte altre università americane limitarono l’accesso a chi apparteneva a una razza straniera e a chi era nato all’estero. Nel 1925 The Passing of the Great Race di Grant fu pubblicato in tedesco e Adolf Hitler scrisse nel Mein Kampf che gli Stati Uniti avrebbero portato alla costruzione di una politica migliore fondata sulla scienza e che si sarebbe presa cura dei suoi migliori elementi razziali. Frantz Boas uscì completamente mutato dagli anni della guerra: suo figlio Ernst era partito con l’esercito americano contro il suo volere. Nel 1915 Boas scoprì di avere un tumore alla ghiandola salivare e durante la rimozione della massa tumorale gli venne reciso un nervo che gli provocò vista offuscata, perdita di sensibilità del volto e un occhio e una guancia cadenti. Boas confidò al figlio Ernst che gli Usa erano diventati la più grande delusione della sua vita perché avevano ceduto al nazionalismo ed erano diventati ossessionati dalla purezza della razza al pari di altri stato-Nazione europei come la Germania. Il dipartimento di antropologia fu ridotto al minimo dal presidente Butler e Boas era diventato una specie di esiliato all’interno della Columbia. Inoltre giunse la notizia dalla Germania che il compagno di viaggio Wilhelm Weike era morto. La cosa che Boas riusciva a padroneggiare meglio nella sua vita erano le lezioni: quelle introduttive e quelle per dottorandi (Butler impedì che insegnasse ancora ai non laureati per evitare che li influenzasse con le sue idee politiche). L’uditorio più entusiasta di Boas però erano le donne che studiavano in un edificio parte della Columbia situato sull’altra sponda di Broadway. Come quasi tutte le università dell’epoca, la Columbia era pensata per giovani maschi ma all’inizio degli anni ’80 dell’800 venne istituito un programma speciale che permetteva alle donne di sostenere gli esami sebbene non fosse loro permesso di frequentare i corsi. Una delle prime laureate fu Annie Nathan Meyer, discendente da una delle più importanti famiglie sefraditi (discendenti degli ebrei ispanofoni espulsi dalla monarchia cattolica nel XV secolo) e bis-bisnipote del rabbino Gershom Seixas che aveva presieduto un’importante sinagoga di New York di epoca coloniale. 21 Sposata con un importante medico ebreo (Alfred Meyer), Annie riuscì, grazie alle sue notevoli relazioni e il suo status di studentessa della Columbia, a far costruire un edificio che potesse ospitare un’università femminile. Lo scopo era far sì che l’edificio facesse formalmente parte della Columbia University e furbamente, Meyer cercò di evitare che l’esistenza del campus femminile venisse considerata una minaccia dal resto dell’istituzione intitolandolo a un adorato ex presidente dell’università, Frederick A. Barnard.L’università femminile aprì nel 1889. Meyer nonostante le sue idee progressiste sull’istruzione femminile era apertamente contraria al voto alle donne ma le studentesse che arrivavano alla Barnard erano di tutt’altro avviso. Boas insegnava anche alla Barnard e sia nel campus principale sia in quello femminile il suo metodo di insegnamento partiva dal fondo: assegnava ricerche avanzate e in caso di lacune su teorie generali e basi statistiche o matematiche, riempiva velocemente la lavagna di formule ma il suo scopo era che gli studenti si approvassero alla disciplina in materia scientifica e quindi attraverso la raccolta di dati empirici e la costruzione di ipotesi. Inoltre Boas non assegnava manuali da studiare ma incoraggiava gli studenti a scambiarsi gli appunti e aiutarsi col materiale delle lezioni disponibile. Per un decennio si era battuto per ammettere più donne possibili al dottorato (che non aveva limitazioni di genere) e nel 1921 arrivò alle sue lezioni una studentessa che trovò le idee dell’antropologo a dir poco elettrizzanti: si chiamava Ruth Benedict. Ruth Fulton (nome da nubile) , avrebbe in seguito detto che la sua vita era iniziata a 21 mesi, quando alla morte del padre, la madre disperata la porta nella stanza del corpo del defunto padre e la implorò di ricordarlo. Ogni anno Ruth ripeteva insieme alla madre quel rito di pianto forte trasformandolo in un «culto del lutto». Fin da piccola imparò a vivere tra il mondo sereno e tranquillo della morte e quello confuso e intenso della vita. Ruth era nata il 5 giugno 1887 e si era laureata al Vassar College nel 1909.In seguito si sposò con Stanley Benedict, un biochimico che lavorava all’università di Cornell.Ruth si occupava della casa e a non dare troppo fastidio al marito finché il marito espresse il desiderio di traslocare dalla città di New York per trasferirsi in un posto meno caotico. Ruth accettò ma tenne una stanza a New York e cominciò a scrivere poesie, un diario e si iscrisse alla Free School University (che poi cambiò nome in New School for Social Research) ,istituzione sperimentale senza voti in cui cominciò a seguire un corso tenuto da Elsie Clew Parsons. Parsons era ex allieva del Barnard College e autorità emergente sui nativi americani del Sud-Ovest, aveva ottenuto un dottorato in sociologia alla Columbia ed era stata la maggior finanziatrice del dipartimento di antropologia durante gli anni della guerra. Scrisse Fear and Conventionality nel 1914 in cui riprese L’uomo primitivo di Boas invitando i lettori ad abbandonare i soliti vecchi schemi mentali e a considerare il mondo come se ciò che è già noto e normale fosse ignoto e strano. Parsons credeva che ogni uomo fosse prigioniero delle classificazioni che eredita e che quindi il primo passo per le scienze sociali era operare lo scollamento tra gli individui e i comportamenti sociali che ci si aspetta da loro. 22 Dopo una serie di libri in cui esaltava le virtù del libero amore, del divorzio e della contraccezione, il nome di Parsons fu eliminato dalla lista ufficiale delle migliori famiglie di New York (dal «Social Register», pubblicazione che riportava i nomi dell’alta società americana). Queste idee per Ruth Benedict furono una rivelazione ma lei non aveva bisogno di far pratica per osservare i propri costumi come se fossero bizzarri perché il morbillo contratto da bambina l’aveva resa parzialmente sorda e lei osservava il mondo come se fosse costruttivamente «fuori fase». Un altro professore di Benedict, allievo di Boas, la incoraggiò a iscriversi a un corso di dottorato alla Columbia per approfondire i suoi interessi. Alla Columbia Ruth si dedicò a scrivere la tesi di dottorato leggendo tutto il giorno libri e lavori sul campo e intuì che i modi di ripartire le credenze primitive nelle categorie di animismo, magia e misticismo erano sbagliati. Le stesse pratiche tribali delle Grandi Pianure per esempio erano molto caotiche. Secondo Benedict le nostre categorie per classificare l’esperienza umana non devono partire dagli schemi mentali dell’osservatore ma dall’esperienza stessa. Ruth passò l’estate del 1922 in California a lavorare con Kroeber in una riserva indiana. Quell’autunno Boas le propose di diventare sua assistente al Barnard College. Benedict nel 1923 scrisse Il concetto di Spirito Guardiano in Nord America (che le valse il dottorato in antropologia) ma le sue richieste di finanziamenti per il lavoro sul campo furono rifiutate. Nell’estate del 1924 grazie Boas e Parsons, Ruth ebbe abbastanza denaro per organizzare la sua spedizione per Gallup, in New Mexico. A Zuñi, a sud di Gallup viveva una piccola comunità che parlava una lingua diversa da tutte quelle della zona e viveva vicino ai Navajos agli Apache. Gli abitanti di Zuñi erano diffidenti infatti Benedict trovò informatori disposti a concederle lunghe interviste talvolta in cambio di denaro. La società di Zuñi manteneva un’ordine matriarcale e privilegiava la discendenza matrilineare. La gente del posto aveva una tradizione consolidata di cambiamento di genere che i francesi avevano chiamato berdache: persone biologicamente di sesso maschile potevano assumere il ruolo sociale delle donne, vestendo abiti e svolgendo attività assegnate tradizionalmente alle donne in quella società. I berdache se volevano potevano avere relazioni con altri uomini non baracche. Nonostante Zuñi fosse un luogo già battuto (anche da Boas), Benedict sapeva dai suoi studi che le menti prendono la forma della società in cui abitano infatti nel posto in cui si trovava era considerato normale che la ricchezza e l’identità si trasmettessero da madre a figli anziché da padre a figlio. Cominciò quindi a maturare le idee che inseguito espresse ne L’antropologia e l’anormalità : lo studio di culture molto varie permette di capire con che facilità quelli che noi consideriamo anormali o devianti potrebbero inserirsi ed essere accettati da altre culture. Per esempio gli schizofrenici o i nevrotici, gli omosessuali (che ad esempio a Zuñi non erano emarginati e avevano un ruolo sociale) dimostrano che la normalità è definita culturalmente in un ampio ventaglio di possibilità.Benedict sosteneva quindi che la devianza di ogni tipo si esprimesse come modo individuale di affrontare la vita che la società in cui si vive tende a preferire ed apprezzare. 25 Mead era entrata in contatto con queste idee e divorava tutti i libri e gli studi che le abitavano sottomano : analisi di tatuaggi, metodi di costruzione delle canoe, studi etnologici. A quel punto Margaret aveva bisogno di fare esperienza e raccogliere dati in prima persona. Era particolarmente interessata alla fase adolescenziale e si chiedeva se si trattasse del prodotto di una specifica cultura in uno specifico momento. Si chiedeva se la ribellione adolescenziale non potesse essere anche risultato di un apprendimento sociale e non solo di una rivelazione di ormoni. G.Stanley Hall, ex capo di Boas all’università di Clark, invece pensava che le fasi vitali dell’uomo seguissero la logica dell’evoluzione: sosteneva che gli umani al pari dei tipi razziali passassero dalla primitività dell’infanzia alla razionalità della vita adulta. Boas suggerì a Mead di compiere un lavoro sul campo alle Samoa Americane in quanto lì c’erano strutture sanitarie affidabili: Margaret soffriva di una nevrite acuta che a volte le impediva di alzare le braccia, inoltre durante il primo anno di dottorato si era rotta una caviglia e guarì mai completamente.Dato che per la tesi aveva studiato molto la Polinesia sui libri, ora poteva raccogliere dati concreti. Nel frattempo il rapporto con Luther si stava raffreddando e Mead si innamora di Edward Sapir (brillante studioso che le fece i complimenti a una conferenza in Canada) che era diventato suo amante. Nella primavera del 1925 i due iniziarono una relazione insieme, pochi mesi prima che Margaret partisse. Sapir era quasi vent’anni più vecchio di Margaret ma aveva l’aria da ragazzo; era discepolo di Boas e etichettato come «genio» dai colleghi. Aveva inventato uno schema di classificazione delle lingue native americane che sarebbe diventato il modello utilizzato dai linguisti e aveva iniziato a riflettere sul concetto di cultura a partire dal pensiero di Boas, cercando di offrirne una sistematizzazione. Sapir era un immigrato proveniente dalla Pomerania e che si era trasferito nel 1890 con la famiglia a New York, sua madre, bottegaia, manteneva la famiglia. Nel 1910 era già uno tra i migliori antropologi del Nord America quando venne nominato capo antropologo della Geological Survey of Canada. Sapir sosteneva che il linguaggio non coincide con le lingue: tutte le società cominciavano al di là dei suoni che sceglievano per esprimere le loro idee complesse, il linguaggio quindi era sia universale che particolare e il simbolo scelto per identificare un suono non era altro che una scelta arbitraria. La lettera b potrebbe essere rappresentata anche con ciò che noi normalmente scriviamo t. Sono la storia e le convenzioni a dirci se usare un simbolo o un altro. Il linguaggio quindi doveva essere compreso nel contesto della cultura che lo utilizzava. Sapir pubblicò anche una riflessione inerente al tema cultura nel 1924. La parola cultura veniva spesso usata in tre accezioni principali: per l’etnologia la cultura era qualsiasi elemento socialmente ereditato nella vita materiale e spirituale dell’uomo. Per altri indicava un certo senso di raffinamento; infine la cultura poteva essere lo «spirito» o il «genio» di un grande gruppo sociale. Il filosofo tedesco Herder del XIX sec, aveva sostenuto che ciascun popolo Volk possedeva una specifica Kultur (ciascun popolo possedeva specifici tratti, convinzioni, costumi e visioni del mondo). Secondo Sapir invece la «cultura» esisteva laddove pratiche e matrici di credenze presentavano una coerenza interna. Le culture 26 dovevano apparire sensate a chi vi si trovava immerso. Sapir scrisse: «La cultura genuina non è necessariamente alta o bassa», riprendendo il pensiero di Boas ma andando anche oltre. Secondo Sapir le culture assomigliano più a sistemi: modi in cui idee e abitudini particolari si accordano tra loro. Ci si rendeva conto di essere all’interno di una cultura se si ritrovava in essa un ruolo sensato, che non fosse fonte di frustrazioni. Spesso i vertici della cultura si sono raggiunti in corrispondenza di bassi livelli di raffinatezza e viceversa. La cultura in conclusione può essere ovunque e non può essere considerata in alcun modo fissa stabile. Rendersi conto di avere davanti una cultura significava rendersi conto di avere davanti un sistema di pensieri e pratiche che permettesse agli individui di sentirai a proprio agio nel proprio mondo sociale. Mead partì proprio da questo presupposto per interrogarsi sul modo più «genuino» di essere adolescenti. Davvero l’adolescenza era solo un fatto biologico che non risentiva dell’influenza della società? La rigida ripartizione di generi, le frustrazioni sociali della società americana meritavano di far parte di un sistema chiamato cultura? L’estate in cui Margaret partì per la sua spedizione, Sapir le inviò la fede della sua ex moglie come pegno d’amore ma Mead aveva da poco cominciato a descrivere la sua relazione ideale in termini di poligamia. Mead riuscì a farsi pagare il viaggio dal padre e ricevette una borsa di studio dal National Research Council: organizzò il viaggio sulla volta della West Coast, delle Hawaii e infine delle Samoa Americane. La stessa estate Benedict doveva fermarsi a lavorare a Zuñi, così fecero un pezzo di viaggio insieme. Cressman aveva bisogno probabilmente che Margaret partisse perché stava affrontando una crisi personale, spiritual e professionale.Chiese di essere espulso dai registri della chiesa, accedette a un dottorato in sociologia della Columbia e presentò un progetto per andare un anno in Europa a studiare approcci più progressisti al controllo delle nascite (la crisi era stata causata dalla morte di una donna per parto ,che aveva lasciato due gemelli alla parrocchia). Sapir da parte sua non era d’accordo che Margaret partisse, cercò di convincere attraverso una serie di corrispondenze con Boas e Benedict che non fosse una buona idea la spedizione nelle sue condizioni mentali. Sosteneva che i malanni continui di Margaret non fossero altro che l’espressione di una forte nevrosi e che Margaret avesse bisogno di uno psicanalista. Sapir inoltre voleva una relazione stabile, un matrimonio che gli permettesse di badare ai tre figli che la sua defunta moglie gli aveva lasciato. Nel luglio del 1925 Benedict partì con Mead e trascorsero un viaggio d’amore prima che Benedict scendesse dal treno vicino al Grand Canyon. Dopo l’esperienza in treno con Benedict, a Mead si schiarirono subito le idee sulla sua intricata situazione sentimentale: decise di affrontare Sapir declinando la sua proposta id matrimonio e confessò a Cressman la sua esigenza di avere relazioni aperte e libere. Margaret si sentì per la prima volta libera ma anche preoccupata perché aveva un progetto di ricerca piuttosto vago e non sapeva a cosa sarebbe andata incontro alle Samoa. 27 La Polinesia come Mead sapeva, non era tanto un luogo fisico quanto un’idea: il nome significava «tante isole» ma gli abitanti non usavano quell’etichetta per riferirsi all’enorme spazio del Pacifico cento-meridionale in cui vivevano. La popolazione delle isole condivideva solo alcuni tratti linguistici ma aveva un’enormità di elementi in comune. Le isole erano diverse, alcune formatosi in seguito a eruzioni vulcaniche e altre costituite dalle vette dei monti marini che emergevano sulla superficie oceanica. Negli anni ’70 del Settecento l’esploratore inglese James Cook aveva lanciato una spedizione nel Pacifico (forse uno dei primi contatti tra europei e indigeni) e morì (ucciso dai sudditi del re che attaccarono la nave) nel 1779 in seguito al tentativo di ottenere il riscatto di una presunta barca rubata attraverso il tentativo di rapina del re Hawaiano Kaleiopuu. Cook aveva scritto molti diari in cui riportava l’uso di tatuaggi e la diffusione di tabù; subito prima che Mead iniziasse il dottorato, nel 1914, anche un immigrato polacco (di Cracovia, sotto corona austriaca) che viveva a Londra di nome Bronislaw Malinowski era andato nelle isole del Pacifico sud-occidentale (Melanesia) per condurre delle ricerche etnologiche. Tra le «isole nere» della Melanesia c’erano le Figi, la Nuova Guinea e le isole Salomone. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale però Malinowski era considerato nemico straniero quindi non poteva rientrare in Gran Bretagna quindi si ritrovò bloccato in Australia, da dove partivano normalmente le spedizioni nell’area. Essere naufrago gli permise di trasferirsi alle isole Trobriand, un arcipelago a est dell’attuale Papua Nuova Guinea. Gli stessi nomi delle isole erano stati assegnati da europei: l’esploratore francese Dumont d’Urville aggiunse i nomi Micronesia (isole piccole) , Malesia (dove abitava il popolo malese) e Melanesia in riferimento agli abitanti con pelle scura e ricci del pacifico sud- occidentale (dalla Nuova Guinea agli aborigeni australiani). Gli stranieri consideravano spesso gli abitanti della Melanesia dei selvaggi e i polinesiani l’aristocrazia barbara del Pacifico a Melanesia della loro pelle bianca e delle pratiche «primitive». Malinowski invece nelle Trobriand trovò una società differenziata e complessa. Gli abitanti praticavano il kula: compivano viaggi molto lunghi in canoa per scambiare doni con abitanti di altre isole. Spesso i doni erano conchiglie decorate o perline: in realtà era un sistema economico per mantenere i contatti tra comunità lontane. Nel 1922 venne pubblicato Argonauti del Pacifico occidentale di Malinowski in cui si poteva rintracciare una nuova forma di approccio al lavoro sul campo: quello che gli studiosi in seguito chiamarono «osservazione partecipante». Malinowski non si limitò a osservare gli abitanti delle Trobriand ma li affiancò nelle loro mansioni quotidiani vivendo in mezzo a loro. Scrisse che per conoscere davvero una popolazione bisognava «uscire da sotto le proprie zanzariere» per poter osservare il mondo con gli occhi dei nativi. Questo richiedeva un lungo soggiorno sul posto. Quando Mead arrivò a Honolulu, mentre aspettava di imbarcarsi per le Samoa, non poteva fare a meno che sentirsi prigioniera dell’ombra di Malinowski. Mead però era interessata a scoprire un aspetto che altri studiosi avevano ignorato: la vita di donne e ragazze. 30 All’inizio del 1927 Boas invitò a pranzo Mead per discutere del manoscritto ricevuto: l’unico commento che fece fu relativo alla differenziazione tra relazioni amorose e passione fisica che non era ben chiaro; Boas acceso di scrivere una prefazione al libro. L’adolescenza in Samoa uscì nell’autunno 1927 per il nuovo editore William Morrow che intravide forte potenziale nel libro a causa del nuovo interesse pubblico nei confronti delle società primitive. Il testo era pensato come lo studio di una società specifica, nei tre villaggi dell’isola Ta’u che Mead conosceva bene. Nell’introduzione Mead espose il suo scopo generale: vedere quali schemi avesse elaborato una popolazione che viveva agli antipodi degli americani, in na cultura, in un clima e on un ambiente molto diversi, per definire il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Mead partiva dal presupposto che i neonati quando nascono non sanno niente delle regole di comportamento, di cosa sia la bruttezza o la bellezza, da cosa è definita la bontà e la cattiveria: tutto dipende dal processo educativo che in certe società può avvenire anche in luoghi specifici come la scuola, ma che comunque rimane un processo continuo e diffuso. Mead scrisse sulle differenze tra gli usi degli abitanti delle Samoa e gli americani: le nascite spesso erano pubbliche poiché le case erano aperte su un lato; ai bambini veniva insegnato subito un codice di comportamento: sedersi per parlare con una persona più anziana, non stare al sole e non toccare la ciotola rituale ‘ava. Ai fratelli maggiori e soprattutto alle sorelle maggiori, spettava l’accudimento dei nuovi arrivati e solo quando le ragazze erano abbastanza grandi per poter portare carichi pesanti e svolgere altre attività per la famigli lasciavano il ruolo di baby-sitter dei più piccoli. Mead scrisse le sue osservazioni rispetto all’inesistenza di sostanziali differenze di genere riguardo le abilità e la motivazione personale: le donne potevano far valere le loro opinioni in pubblico e in grandi assemblee. Per quanto riguarda il sesso, le ragazze samoane non conoscevano l’amore in termini di fedeltà assoluta, esclusivismo e monogamia poiché le relazioni extraconiugali non minacciavano l’istituzione del matrimonio. Il matrimonio infatti era legato alla necessità di trovare un buon compagno in termini di ricchezza, abilità e status sociale. I saponai inoltre erano sinceri alle loro azioni ma molto riservati rispetto alle motivazioni di tali azioni e sulle emozioni. Nonostante la precisazione rispetto alla differenza di esperienza nella stessa società samoana, i bambini avevano una conoscenza intima e precoce delle varie funzioni del corpo umano: i giovani spesso perlustravano la boscaglia per cercare di cogliere gli amanti sul fatto. La masturbazione era universale (talvolta svolta in gruppo tra i maschi) e i rapporti omoerotici erano socialmente accettati se terminavano prima del matrimonio. Diversamente gli americani sembravano organizzare la loro vita intima attorno a un’ esperienza sessuale idealizzata: i rapporti sessuali dovevano essere proceduti da lunghi corteggiamenti e orientati da un amore romantico pubblicamente manifestato. Inoltre il sesso doveva avere luogo in età post-adolescenziale in seguito alla cerimonia formale chiamata matrimonio. 31 Nei villaggi studiati da Mead invece l’abilità sessuale, il piacere fisico e l’età appropriata erano argomenti di conversazione sempre presenti. In conclusione nelle Samoa era difficile identificare chi fossero propriamente gli adolescenti perché non esisteva una cultura giovanile né una delinquenza diffusa come rifiuto dei valori imposti dalla società (come invece avveniva negli Stati Uniti). Nonostante Mead compì lo studio su un ristretto numero di persone (cinquanta ragazze in tre piccoli villaggi su un’isoletta del Pacifico Meridionale), arrivò a tirare conclusioni generali apprezzate anche da Clarence Darrow (avvocato, personaggio pubblico) e Bronislaw Malinowski. Mead sosteneva che l’adolescenza come unico periodo di transizione necessariamente carico d’ansia fosse frutto delle tensioni della società americana (mondo puritano, individualista e bacchettone) e non di tutte le società. L’adolescenza in Samoa vendette in pochi mesi oltre trentamila copie e nel frattempo Mead partì per una nuova spedizione nel Pacifico Meridionale, questa volta accanto a Reo Fortune. Fortune era interessato allo studio delle isole al largo delle coste della Nuova Guinea, in Melanesia (circa trentamila miglia dalle Samoa). Più giovane di Mead, Fortune si era laureato a Wellington e aveva conseguito un Diploma di perfezionamento in antropologia all’università di Cambridge. Aveva conosciuto Malinowski e studiato con altri ricercatori esperti in (sul tema) Melanesia; Radcliffe- Brown, suo mentore, sarebbe diventato a breve una delle figure più autorevoli nel campo dell’antropologia sociale. Mentre Boas e i suoi studenti descrivevano il loro interesse principale con cultura , i colleghi britannici pensavano in termini di sistemi e funzioni. Mead con Fortune poteva avere un tipo di rapporto intellettuale mai avuto prima: condivideva il suo entusiasmo ma aveva un approccio diverso ai problemi sociali. Stabilirono un nuovo sito di ricerca sulle isole dell’Ammiragliato , a Nord della Nuova Guinea. Lì Fortune poteva proseguire i suoi studi sulle società malsane mentre Mead poteva proseguire le sue ricerche sull’adolescenza in un nuovo ambiente sociale. Nell’ottobre del 1928, prima della partenza Mead inviò un telegramma a Benedict per avvisarla del matrimonio civile con Reo Fortune che avvenne in un ufficio di stato civile in Auckland, Nuova Zelanda. Mead e Fortune arrivarono a Pere, un villaggio sull’isola di Manus: gli uomini portavano i capelli lunghi raccolti in un codino alto mentre le donne si ravanò i capelli e usavano gioielli ricavati dalle ossa dei parenti defunti. I bambini imparavano a nuotare da neonati e passavano le giornate in acqua.La vita sociale era accompagnata da un comune senso del pericolo: per andare d a una casa all’altro le persone dovevano rischiare di cadere in acqua scendendo dalle scale delle loro traballanti palafitte.Mead infatti si ruppe nuovamente la caviglia e per settimane dovette zoppicare mentre lei e Fortune studiavano il linguaggio locale e mappavano le case di Pere e le loro complicate reti di parentela. Mead adottò un nuovo approccio con i bambini: diede loro carta e matita e raccolse più di trentacinquemila disegni; cominciò anche a concentrarsi u un problema che aveva lasciato perplessi per anni educatori ed esperti di istruzione: quali tratti comportamentali sono innati e quali altri sono il prodotto delle circostanze in cui ci troviamo. 32 Il tema dell’innatismo e dell’ereditarietà era uno dei problemi fondanti delle scienze sociali da decenni: alla Columbia Mead scrisse una tesi magistrale sui test d’intelligenza. Studiando i campioni di scolari italiani e americani in New Jersey , scoprì che i test sembravano rispecchiare la capacità del soggetto di padroneggiare l’inglese e non la capacità di problem solving o di ragionamento consequenziale. Scrisse anche all’autore dei test della Otis Group Intelligence Scale facendo presente l’enorme errore di progettazione ma venne liquidata bruscamente. Anche Boas si chiedeva se l’intelligenza fosse qualcosa di ereditario e rispetto al tema era abbastanza scettico analogamente a come lo era nei confronti delle teorie derivate dall’antropometria. Nonostante ciò una buona componente della comunità scientifica andava in direzione opposta. Nel 1905 il genetista William Bateson aveva coniato la parola genetica per indicare il modo in cui gli esseri viventi trasmettono alla prole i propri tratti profondi. Qualche anno dopo altri ricercatori coniarono il termine gene per indicare l’unità di informazione tramandata da una generazione all’altra sulla base degli studi di Gregor Johann Mendel, botanica che nel XIX aveva studiato l’ereditarietà. Chiunque era a conoscenza delle ultime scoperte scientIfiche, sosteneva che la riproduzione di tratti era in gran parte destino. Per esempio la giovane donna Emma Wolverton (nota al pubblico americano con il nome di Deborah Kallikak) risiedeva dal 1897 (da quando aveva otto anni) nell’istituto di cura per i bambini con problemi mentali e man mano che cresceva presentava un blocco delle capacità mentali. Camminava con un’andatura strana e non riusciva a compiere mansioni complesse. Secondo il direttore della scuola Henry H.Goddard, l’«idiozia» della donna dipendeva dal fatto che Emma fosse nata da una relazione illegittima di un suo antenato con una cameriera che sembrava soffrire di disturbi mentali. Molti libri destinati al grande pubblico seguivano la stessa logica tanto che i ricercatori coniarono un nuovo termine contrapposto a eugenetica: cacogenetica o disgenetica. Pochi anni prima che Goddard pubblica la storia di Emma Wolverton nel libro Kakillak Family, lo psicologo francese Alfred Binet aveva elaborato un test in grado di produrre un quoziente intellettivo (QI).Tutti utilizzavano una versione del test di Binet e il libro di Gorddard fu un successo che orientò anche gli studi sulla popolazione del 1910 condotti dal Carneige Institution di Washington (con sede nello stato di New York). Lo scopo di tali studi era elaborare programmi di istruzione per migliorare le famiglie e far avanzare la razza. Si trattava di una scienza che poteva fr diminuire la popolazione di esseri umani considerati più deficitari con lo scopo di migliore il patrimonio biologico delle razze più avanzate e creare una società americana più produttiva e sana. Questi studi ampiamente condivisi dalla comunità scientifica vennero mesi in mostra nel 1921 all’American Museum od Natural History in occasione del Secondo congresso internazionale sull’eugenetica. Lo scopo era far osservare gli effetti negativi dell’immigrazione di azze straniere e quelli positivi della sterilizzazione obbligatoria su certe categorie di persone. Un esempio era quello fornito dal caso della ragazza Carrie Buck: considerata disabile venne sterilizzata (con sentenza della Corte Suprema degli Stati Capitolo nono:Masse e vette Quando Mead e Fortune tornarono da Manus, praticamente chiunque insegnasse antropologia o dirigesse un museo di storia naturale, in qualsiasi parte degli Stati Uniti, aveva come unici riferimenti intellettuali queste due figure: Frederic Ward Putnam, di Harvard, e Franz Boas, della Columbia. A Harvard, Putnam aveva dato un forte impulso agli studi dei siti dei nativi americani e addestrato squadre di ricercatori imponendo metodi rigorosi per la ricerca sul campo e la conservazione, proprio come aveva fatto con lo stesso Boas alla Fiera di Chicago. Ma la sua morte, sopraggiunta nel 1915, segnò la fine della generazione di cui avevano fatto pure parte John Wesley Powell, Otis Tufton Mason e altri accademici con i quali Boas si era scontrato. Le università di Harvard e Columbia continuavano a competere per aggiudicarsi dottorandi e fondi per la ricerca, ma in termini numerici Boas stava avendo la meglio. In quel periodo i suoi allievi, e gli allievi dei suoi allievi, popolavano i dipartimenti di antropologia, i musei e gli istituti di ricerca di tutto il paese: erano antropologi fisici, etnografi, linguisti e archeologi che, lavorando insieme su questioni comuni, cominciavano a plasmare la disciplina secondo la visione del loro maestro. Gli allievi di Boas erano anche loro dei bastian contrari, con opinioni forti e la necessità di rendere l’antropologia una scienza di pubblica utilità. In quell’epoca di limiti all’immigrazione e segregazione razziale, con l’eugenetica che sembrava trionfare, per chi studiava la nuova scienza dell’umanità insegnata alla Columbia la posta in gioco era più alta dell’ottenere un assegno di ricerca o di assicurarsi un posto all’università. Gladys Reichard aveva preso in carico alcuni dei corsi introduttivi al Barnard College. Melville Herskovits aveva lasciato la Free School per dirigere lì alcuni dei corsi di antropologia fisica. Benedict continuava a coordinare il loro lavoro in qualità di professore assistente e, in pratica, come vice di Boas. Una volta entrati in contatto con le idee fondamentali di Boas, era impossibile non sentirne il peso: le illuminazioni sconvolgenti, il senso di causa comune, e – soprattutto per molte giovani donne – un nuovo modo di rovesciare le nozioni sociali di comportamento corretto. “Ho cominciato a fare tesoro di tutte le parole della dottoressa Reichard, della dottoressa Benedict e del dottor Boas, il re dei re, - raccontava una delle studentesse. – anche noi lo chiamiamo papà” Questa studentessa in particolare era piuttosto sui generis, perché aveva trentaquattro anni. La fotografia del suo corso al Barnard College la ritrae in posizione centrale, ma mezza nascosta dal ramo di un albero. Diceva di essere “uno scoglio nero in un mare di panna”: l’unica studentessa afroamericana di quell’università. Immigrata di recente dalla Florida, era passata da un’occupazione all’altra: camerinista di una compagnia teatrale itinerante, manicurista e poi studentessa alle scuole serali. L’esperienza più simile all’antropologia che aveva fatto era stato il breve periodo come cameriera al John Wesley Powell’s Old Cosmos Club di Washington, dove aveva condiviso con altri camerieri di colore un’atmosfera di 36 “paternalistico affetto mitigato da una certa attenzione al budget” l’unica cosa di lei che attirava l’attenzione era il nome che le aveva dato uno degli amici della madre: Zora. Nessuno sapeva da dove venisse, ma c’era il sospetto che l’avesse preso da una marca di sigarette turche. Zora Neale Hurston era nata in Alabama ma era cresciuta a Eatonville, a nord di Orlando, in Florida. Eatonville era conosciuta per essere stata la prima città di afroamericani a essere ammessa nella confederazione: Hurston la definitiva “una perfetta città da negri”. Maitland, la controparte quasi interamente bianca della città, con case più belle, si trovava lungo la stessa strada, abbastanza lontana da mantenere il decoro ma comunque a portata di mano. Hurston apparteneva a una delle buone famiglie di Eatonville. La sua famiglia si era liberata dalla schiavitù da due sole generazioni: tutti e quattro i suoi nonni erano stati schiavi in Georgia e Alabama. Suo padre era un pastore battista, come sindaco della città aiutava a gestire quello che era in via ufficiosa il municipio di Eatonville, ovvero la veranda della bottega di Joe Clarke, un altro notabile del posto. Sua madre Lucy compensava il tutto dedicandosi alla sua istruzione, a leggere libri e coltivare ambizioni. Ma la morte di Lucy, quando Hurston era appena adolescente, cambiò le cose. Il padre si riposò subito con una donna più giovane, e Hurston fu mandata a studiare a Jacksonville. L’allontanamento da quel mondo che le era familiare, oltre che dal padre, fu il trauma che segnò la sua infanzia. Fu a Jacksonville che si accorse, per la prima volta, di essere “una ragazzina di colore”. La segnaletica stradale separava le persone, come Noè, in bianchi e neri. Era facile notare la reazione immediata sul viso di un bianco quando una parola pronunciata da un nero rasentava l’insolenza. Hurston fu sballottata tra vari membri della famiglia, a Nashville poi ancora a Jacksonville, poi a Baltimora, finchè non fu grande abbastanza da cavarsela da sola. Quando suo padre morì schiantandosi in auto contro un treno a Memphis, non si presentò al funerale e cominciò invece a pianificare il suo futuro. Divenne parte di quella che sarebbe stata definita la Grande migrazione afroamericana: il flusso di afroamericani che si spostavano dal Sud al Nord degli Stati Uniti, alla ricerca di un lavoro e in fuga dalle restrizioni dei governi locai totalitari. Finì a Washington, attirata in parte dalla prospettiva di studiare nella migliore università del paese in cui non vigeva la segregazione. Le differenze tra Jacksonville e Washington, però, erano meno palesi di quanto avesse immaginato. Di lì a poco il presidente Wilson avrebbe proclamato che la libertà e l’autodeterminazione erano i pilastri fondamentai per governare il mondo, ma nella madrepatria proprio il suo governo fu il primo a insistere sull’applicazione delle leggi Jim Crow a coloro che lavoravano per il governo federale. Gli afroamericani furono rimossi dalle loro cariche o destinati a reparti segregati. Gli afroamericani rappresentavano più di un quarto della popolazione di Washington, e il Congresso degli Stati Uniti usava la sua influenza per assicurare che la segregazione, per legge o per uso comune, rimanesse in vigore nei ristoranti, negli hotel, nei cimiteri e in altri e in altri edifici pubblici. L’unico spazio a Washington dove i bianchi e i neri interagivano regolarmente erano i mezzi pubblici misti, ma anche lì era chiaro chi 37 avesse il coltello dalla parte del manico. Nel 1908 il deputato James Thomas Heflin aveva sparato a un nero sul tram per aver usato un linguaggio volgare. Mai incarcerato, Heflin esercitava ancora il suo ruolo di legislatore al Campidoglio quando Hurston arrivò in città. Qualche anno dopo, la commissione incaricata di organizzare la cerimonia di intitolazione del maestoso Lincoln Memorial pretese che gli afroamericani che assistevano alla cerimonia si sedessero in una zona recintata lontana dal palco. Non molto tempo dopo il Ku Klux Klan trasferì la sua direzione nazionale in città, dove in quel momento il clima era più favorevole che mai ai propositi dell’organizzazione. Nell’estate del 1919, quando Hurston si stava preparando a cominciare per il college, un esercito di almeno duemila bianchi armati setacciarono i quartieri dei neri in cerca di due uomini che, a quanto si diceva, avevano cercato di rubare l’ombrello a una donna bianca. Dopo tre notti di violenze si contarono sei morti e molti feriti, e centinaia di persone furono rinchiuse nel carcere cittadino mentre le truppe federali pattugliavano le strade della città. Ma quando quell’inverno ripresero i corsi, per la prima volta Hurston si sentì al centro di qualcosa. Entrò subito nella cerchia dei professori più stimati. Fu alla Howard che cominciò a scrivere racconti, saggi e poesie, prima per una pubblicazione del campus e poi per “oppurtunity”, una delle riviste che di lì a poco avrebbe contribuito a incanalare il nuovo flusso di talento letterario nero. Non era però una studentessa brillante. Le tasse universitarie si accumulavano e presto si ritrovò al verde. La sua produzione letteraria aveva conquistato qualche notorietà, e grazie alla conoscenza delle persone giuste pensò di potersi guadagnare da vivere come scrittrice. Proprio come Mead, anche lei si sentiva attratta da New York. La prima settimana di gennaio del 1925 stipò tutto quello che aveva in una borsa e, con in tasca un dollaro e cinquanta, si diresse verso nord. Hurston si inserì con molta facilità all’interno della galassia di scrittori, editori e ricchi filantropi bianchi. Quell’estate riuscì ad aggiudicarsi il secondo posto in un concorso letterario indetto dalla rivista “oppurtunity”. Alla cena di premiazione incontrò Annie Nathan Meyer, la mecenate fondatrice del Barnard che si offrì di trovarle un posto in quello stesso college per il successivo anno accademico, assicurandole anche il supporto economico. Hurston fu inoltre presentata a uno dei vincitori. In Langston Hughes trovò subito un compagno di viaggio ideale. Il posto al Bernard e insieme la prospettiva di diventare una scrittrice professionista arrivarono in maniera inaspettata, soprattutto visti i voti mediocri e la laurea mai presa alla Howard. Decise di iscriversi quello stesso autunno. Con la benedizione di Meyer e della preside del college Hurston divenne da subito la persona da conoscere. Aveva anche perfezionato il suo personaggio: sapeva distinguersi ma rimanendo riservata. Alla fine del 1925 il suo ex professore Alain Locke scelse uno dei suoi racconti, insieme a un lavoro di Hughes e di altri giovani scrittori, per pubblicarli in un’antologia che stava curando, dal titolo The New Negro. Il libro divenne il manifesto del Rinascimento di Harlem. Hurston si buttò a capofitto su Harlem, non solo nel quartiere ma anche nello stile di vita. Frequentava scrittori e artisti vari. Sembrava conoscere tutti. Faceva quella vita che Mead e 40 Fuori dalle città e dai luoghi di villeggiatura che stavano sorgendo lungo le coste, il cuore della Florida era immerso nell’oscurità. Le più importanti attività industriali dello stato, ovvero l’abbattimento di foreste vergini e la lavorazione della trementina ricavata dal legno delle immense pinete, l’estrazione del fosfato naturale dal terreno e la coltivazione di aranceti sempre più grandi, richiedevano un’enorme quantità di manodopera. Gli abitanti della Florida si erano resi conto da tempo che le loro prigioni ne offrivano in grande quantità. I carcerati venivano regolarmente “affittati” agli imprenditori locali e agli industriali, in una forma di vincolo lavorativo che era semplicemente un nuovo tipo da schiavitù. La Florida abolì questa pratica nel 1923 ma la privatizzazione delle carceri a servizio delle grandi aziende continuò. Gruppi di uomini in catene potevano essere mandati a lavorare sulle strade di campagna come forma di riabilitazione. I mezzadri potevano essere incarcerati per non aver pagato l’affitto della terra e poi costretti a lavorare nei campi di privati per pagare il loro debito.Hurston conosceva la terribile realtà infestate di zanzare delle zone interne della Florida. Ed era diretta proprio lì. Il suo scopo era raccogliere in modo sistematico racconti popolari, detti, storie e altro materiale etnografico nelle comunità nere delle contee del Nord e del Centro. Le ci volle un po’ per capire in che modo diventare un’antropologa. Come Mead nella Samoa, Hurston aveva portato un bel po’ di carta da lettere intestata che usava come mezzo per mandare notizie dal campo. Era cresciuta ascoltando storie nella bottega di Joe Clarke, ma quella era una comunità che conosceva, piena di familiari e amici. Stavolta era diverso. Non si può semplicemente arrivare in una città e avvicinarsi a un gruppo di estranei per chiedere loro di raccontarti quello che sanno su quel posto. Ci voleva tempo per capire le persone, per dimostrare loro la propria buona fede e guadagnarne la fiducia. Pensò di scrivere un romanzo sul linciaggio, basandosi su un’intervista condotta con una vittima miracolosamente scampata dalla morte. Ma la sua vocazione era il lavoro di ricerca sul campo. Ben presto spedì a Boas la prima bozza di quello che sperava sarebbe stato uno studio dettagliato della vita popolare in Florida. Aveva molto materiale sottoforma di appunti. Le era stato insegnato che l’antropologia era l’arte del recuperare, e ora capiva cosa volesse dire. La prima cosa che le persone le dicevano era che avevamo dimenticato tutte le “vecchie storie”. Dopo un po’ di chiacchere e imbeccate, forse riuscivano ad aprirsi, ma durava poco. La loro “negritudine” era stata “rimossa dal contatto stretto con la cultura bianca”, disse a Boas. Hurston rimase in Florida fino all’estate, per poi ripartire alla volta di New York, accompagnata per buona parte del tragitto di Langston Hughes. Aveva però molto poco materiale da mostrare su quei mesi passati in Florida. Alla fine, tra gli appunti c’erano dei racconti sulla schiavitù che, a quanto diceva, aveva raccolto in Alabama. La maggior parte di quei testi, però, si rivelarono copiati da una fonte già pubblicata. Chiese a Boas cosa avrebbe dovuto fare con il resto del materiale che aveva 41 accumulato, ma uscì in lacrime da quell’incontro. Lui le aveva suggerito di essere più sistematica, di fare attenzione soprattutto alla tradizione di proverbi, miti e forme musicali trasmessi dai piantatori europei agli schiavi africani, e lei non aveva seguito il suo consiglio. I suoi appunti e le interviste, le disse, contenevano ben poco che non fosse già noto. L’unico modo per recuperare quei sei mesi che aveva passato sul campo, era quello di tornare lì e passarcene altri. Dopo un breve periodo a New York, si diresse di nuovo a sud. Stavolta viaggiava con il sostegno di un mecenate, Charlotte Osgood Mason. Come molti altri filantropi bianchi dell’epoca, credeva che gli intellettuali neri avessero un’abilità speciale nell’intercettare le pratiche e le credenze umane più antiche e più autentiche. Acconsentì ad assumere ufficialmente Hurston con un salario di 200 dollari mensili, dandole una stabilità finanziaria che non aveva mai conosciuto, ma costringendola a nuovi compromessi. Avrebbe potuto continuare a raccogliere i dati, ma avrebbe anche dovuto riprendere in mano quei lavori letterari che languivano da quando aveva cominciato la ricerca sul campo. E tutto il materiale raccolto sarebbe stato di proprietà di Mason. Boas aveva suggerito a Hurston di scrivere una vera e propria etnografia, il suo lavoro scientifico si riduceva ad accumulare risme di appunti, idee per nuovi libri e perfino pellicole, visto che Mason le aveva fornito anche una telecamera per riprendere la vita popolare così come appariva davanti ai suoi occhi, qualcosa che né Mead né Benedict erano riuscite a fare nelle Samoa o nel Sud-ovest. Nel 1928 e nel 1929 tornò a Eatonville e a Maitland, poi nei campi di trementina e nelle foreste, attraversò l’Alabama e passò l’autunno e parte dell’inverno a New Orleans, per poi, sempre in inverno, tornare in Florida e spingersi fino alle Bahamas. Il suo lavoro non consisteva tanto nel catturare una cultura morente, ma nel provare a decifrare il presente, il qui e ora di un modo di essere così intenso e complicato. Tornò a New York per qualche tempo solo nella primavera del 1930, promettendo a Boas di lavorare duro per riuscire a tirare fuori qualcosa di buono dalla ricerca sul campo che l’aveva tenuta occupata, anche se a intermittenza, per i precedenti tre anni. I suoi bagagli erano pieni di appunti e racconti, storie e ritratti di personaggi raccolti grazie a più di un centinaio di testimonianze. Boas nel 1906 aveva assicurato al suo uditorio all’Università di Atlanta che i neri erano competenti quanto le persone che si definivano bianche, solo che le loro capacità dovevano ancora essere pienamente realizzate. Ma lo stesso Boas non dava molto valore a ciò che erano diventati gli africani portati con la forza nelle Americhe. “non c’è nessuna prova che la licenziosità, la pigrizia, l’inettitudine, la mancanza di iniziativa siano caratteri fondamentali della razza. Ogni cosa sembra indicare che queste qualità siano il risultato delle condizioni sociali più che dei tratti ereditari”. Era indicativo dei limiti dello stesso Boas, oltre che del momento storico, il fatto che non si chiese mai se queste qualità descrivessero davvero gli afroamericani. 42 Anche se non c’era niente di costitutivo o innato nell’inferiorità dei neri, per Boas era comunque difficile vedere nella cultura nera qualcosa che non fosse una forma degradata di quella bianca. Alcuni dei suoi studenti portarono ulteriormente avanti queste argomentazioni, avvicinandosi a una formula che ricordava quella di Madison Grant, che classificava le persone in base alla forma del naso. Per gli studenti bianchi di Berkeley i corsi di antropologia finivano per confermare quella gerarchia razziale che davano per scontata. L’inferiorità culturale sostitutiva l’idea di inferiorità biologica sostenuta dalla generazione di Madison Grant. Senza contare il paradosso del fatto che questa visione prendesse piede proprio nel momento in cui il Rinascimento di Harlem stava raggiungendo dei risultati sorprendenti. Perfino per gli intellettuali neri era normale credere nell’uguaglianza delle razze e, allo stesso tempo, nell’arretratezza dei costumi dei neri. Booker T. Washington era noto per aver incoraggiato giovani uomini neri a concentrarsi sull’agricoltura e sull’artigianato, le principali materie insegnate nel suo Tuskegee Institute. Centinaia di anni di schiavitù avevano prodotto esseri umani che avevano bisogno di essere ricostruiti dalle fondamenta, mantenendo il loro posto nella stratificazione sociale americana finché non fossero stati prima o poi meritevoli del progresso. W. E. B. Du Bois, al contrario, ripeteva che non c’era bisogno di aspettare. Uomini e donne neri si stavano già dimostrando creativi, pieni di talento e ambiziosi quanto il resto della società americana, perfino in un sistema politico ed economico creato per convincerli della loro naturale debolezza. Eppure, sia per Washington sia per Du Bois, essere neri voleva dire essere perfettibili. Gli americani bianchi, credevano in molti, avevano una cultura, mentre gli americani neri si trovavano in una condizione patologica. Se le vite dei neri trovavano spazio nella coscienza del pubblico bianco, spesso era grazie a una delle discipline imparentate con l’antropologia, ovvero il folklore. Si trattava di tutto ciò che si identificava con il corpus di detti, racconti eziologici, proverbi e filastrocche infantili che ogni persona in una data società avrebbe dovuto conoscere. Queste fiabe e questi racconti erano interessanti perché si credeva che fossero l’essenza spirituale e intellettuale di un popolo. Con un po’ di attenzione era possibile intravedere il Volk, lo spirito del popolo, che emergeva dai discorsi della gente comune. Nella prima metà del XIX secolo, in Germania, i fratelli Jacob e Wilhelm Grimm erano stati dei pionieri in questo campo. Avevano attraversato i distretti rurali nei dintorni della loro città natale raccogliendo e dando una forma coerente alle storie che avevano sentito lungo il cammino. La pubblicazione della loro prima raccolta di fiabe fu un enorme passo in avanti non solo nella conservazione della tradizione orale, ma anche verso la definizione di ciò che era autenticamente nazionale. In assenza di una nazione chiamata Germania essere tedesco significava in parte conoscere uno dei racconti dei fratelli Grimm, da Hansel e Gretel a Cenerentola. E se non se ne conosceva qualcuno, lo si poteva leggere nella loro raccolta. Avevano creato un vero e proprio manuale di base per prepararsi a far parte in maniera consapevole di un noi collettivo, tedesco. 45 Mentre viveva in Florida, aveva abbozzato una trama basata sulla sua esperienza come figlia di un travagliato predicatore del Sud. Scrisse e riscritte più volte il testo, poi lo mandò a un editore di Filadelfia, Bertram Lippincott. Qualche tempo dopo le arrivò un telegramma con l’annuncio che il romanzo era stato accettato, lo stesso giorno in cui le era arrivato un avviso di sfratto. Nel gennaio del 1935 si iscrisse al dottorato della Columbia. Quella strada, in precedenza, era stata bloccata dall’ingerenza di Mason, che ripeteva che un titolo di studio del genere sarebbe stato solo una perdita di tempo e di energie. Boas accettò di essere il suo tutore. Il fondo Julius Rosenwald, un’organizzazione filantropica che supportava accademici e artisti neri, le promise una borsa di studio per coprire le ricerche sugli “speciali doni culturali dei negri”. Più tardi, quello stesso anno, Hurston riuscì a dare un certo ordine a appunti, trascrizioni e storie che si era portata avanti e indietro tra New York, New Orleans, Eatonville e le varie tappe intermedie. Lippincott fece uscire il libro, quello stesso autunno, col titolo “Mules and Men”. Boas acconsentì a scrivere la prefazione, proprio come aveva fatto per il libro di Mead “L’adolescenza in Samoa”. Elogiò il libro di Hurston come il primo tentativo che qualcuno avesse mai fatto di capire “l’autentica vita interiore dei negri”. Già i folkloristi avevano creduto di essere sulla strada giusta per capire l’essenza di una comunità, ma alla fine si erano ritrovati, secondo Hurston, con amenità superficiali e racconti inventati. Mules and Men era il primo serio tentativo di far arrivare il lettore nel pronto delle città e nei cambi di lavoro neri del sud, non come semplici osservatori ma, in qualche modo, come partecipanti. Dal 1927 aveva passato più tempo sul Golfo che Boas, Mead e Benedict in tutti i luoghi in cui avevano fatto ricerca. “Il folklore era un concetto di vita umana”. Abbandonò il distacco impersonale e cominciò a raccontare in prima persona gli incontri, le chiacchierate. Mead aveva fatto una cosa simile, anche se spesso in seconda persona. Gli abitanti delle Samoa e delle isole dell’Ammiragliato erano grammaticalmente congelati nel momento in cui lei li aveva osservati: nuota, mangia, dice, sa. Ed erano interessanti per gli americani proprio perché potevano essere immaginati come immutabili unità di misura con le quali confrontare la mentalità ristretta della propria società. Ma Hurston scrisse di Eatonville e Loughman al passato: corse, gridò, cadde, taglio. Offriva in questo modo al lettore una riproduzione creativa, interpretata, di cose che aveva visto e di cui aveva sentito parlare, collocando i suoi informatori nel tempo nello spazio. Comunicava la sua scienza proprio come l’aveva svolta: come una conversazione nella quale lei, in qualità di osservatrice intelligente, faceva anche parte dell’azione. Stava creando dei dati, non li stava solo osservando, e voleva che il lettore se ne rendesse conto. Nel farlo, mostrò nero su bianco uno dei messaggi fondamentali di Boas: che tutte le culture cambiano, e continuano a cambiare anche mentre gli antropologi sono intenti ad annotare le loro osservazioni. 46 “Mules and Men” era una specie di raccolta organizzata in due sezioni, una dedicata ai racconti popolari e una alla religione popolare, ovvero l’hoodoo, una specie di magia nera. Il folklore non era il portare alla luce qualche essenza nascosta della società, capì Hurston, ma riguardava il modo in cui le persone interagiscono tra loro nel tempo, ripetutamente, nel lungo arco di una conversazione, dello scontro e della riconciliazione. La logica basilare che sottendeva alle leggende, ai racconti e agli usi popolari non era quella di cristallizzare le persone nel tempo, ma piuttosto si provare a comunicare al lettore il gusto per il racconto come atto condiviso. “Non credo di esagerare dicendo che la signorina Hurston ha probabilmente una maggiore e più profonda conoscenza della vita popolare dei negri di chiunque altro in questo paese”, scrisse di lei il suo vecchio professore Melville Herskovits dopo la pubblicazione di Mules and Men. La questione centrale di Mules and amen non era quella di parlare solo dei neri o di imbalsamare la cultura nera perché in futuro venisse studiata nelle aule universitarie. Quello che lei immaginava era piuttosto un grande progetto che testimoniasse l’umanità che molti pensavano che queste persone avessero perso, o a causa di un’innata inferiorità o a causa di un decadimento culturale prodotto da generazioni di schiavitù. Hurston in Mules and Men aveva provato a mostrare che c’era un altrove diverso tutto da studiare nelle paludose lande del Sud-est che aveva conosciuto nella sua infanzia: non una società superbiste dell’Africa o un degrado sociale da eliminare, né una versione corrotta della cultura bianca da migliorare, ma qualcosa di vibrante, caotico, splendente e soprattutto vivo. Capitolo decimo :La nazione indiana Mentre Hurston viaggiava lungo le coste del Golfo del Messico, e Mead e Fortune lavoravano a nuovi progetti da portare avanti dopo la spedizione a Manus, Boas era rimasto a New York. Ormai era una vera e propria eminenza. Le responsabilità legate a questo nuovo status gli impedivano di svolgere ricerche sul campo che lo avevano occupato quando era uno scienziato giovane sconosciuto. L’Ufficio relazioni pubbliche della Procter & Gamble chiese a Boas di intraprendere uno studio comparativo sulle differenze funzionali ed estetiche tra le mani di persone diverse. Il ritmo frenetico sostenuto da Boas per la gestione del Dipartimento era ancora più sorprendente se si pensa all’età e al suo stato di salute. Quando Mead e Hurston pubblicarono i loro libri si trovava alla soglia dei settant’anni, aveva problemi cronici allo stomaco, al cuore ed era spossato dai troppi impegni. La vita personale di Boas era tormentata dalle tragedie; era ormai sopravvissuto a più della metà dei suoi figli. Nel febbraio del 1898 un giovane Franz Boas si era riunito con un gruppo di uomini nel cortile dell’American Museum of Natural History. Uno alla volta avevano raccolto delle pietre e le avevano disposte solennemente su un pezzo di stoffa usato come sudario. Boas cominciò il suo elogio funebre per qui Qisuk, un Inuit originario della Groenlandia che era 47 appena morto di tubercolosi. Minik, il figlio di sette anni di Qisuk, si fece avanti e tracciò un segno per terra sul lato nord del piccolo monumento funebre costituito dalle pietre impilate, come ultimo gesto di addio. Qisuk e Minik facevano parte di un gruppo di sei groenlandesi che vivevano nel museo. Erano stati portati lì da un famoso esploratore artico, Robert Peary. Boas aveva chiesto in precedenza che Peary reclutasse un Inuit per aiutarli a catalogare alcuni dei reperti delle collezioni del museo, e Peary era tornato con parecchi di loro, che si unirono al gruppo di indigeni portati al museo come esperti. Quello che tutti, tranne il giovane Minik, sapevano, era che l’intera cerimonia era una farsa. Non c’era più un corpo da seppellire: i resti di Qisuk erano stati smembrati dagli studenti di medicina del Bellevue. Qualche anno dopo, quando Minik ormai adolescente provò a rintracciare il corpo del padre, lo scandalo prese piede nella stampa newyorkese. La storia della condotta grottesca del museo e delle peripezie di un orfano produsse titoli scandali sensazionalistici. Boas rimase sulla difensiva. Il rituale, spiegava, era stato semplicemente un tentativo di consolare un bambino distrutto dalla perdita del padre. Lo scandalo si placò quando lo stesso Minik morì, vittima della grande epidemia di influenza del 1918. Le idee di Boas erano spesso più avanzate delle sue stesse azioni. L’etnologia poteva essere il territorio per ricercatori giovani e in cerca di avventura, il cui obiettivo primario era l’acquisizione di quelli che chiamavano dati. Un anno dopo la messa in scena del funerale di Qisuk, Boas ricevette una lettera preoccupata da Hunt, il suo mediatore per la costa del nord-ovest, riguardo un altro scandalo che si stava lentamente gonfiando: un capotribù kwakiutl, Hemasaka, aveva sentito dire che Boas aveva fatto un uso improprio delle informazioni raccolte sull’importante danza cannibale, una cerimonia di ammissione a una delle principali società segrete dei Kwakiutl. Boas rispose rapidamente, scrivendo che seppure aveva mostrato la danza al pubblico e agli studiosi, non aveva mai fatto accenno a vere pratiche di cannibalismo. L’ingestione di carne umana era un segreto che la società kwakiutl custodiva gelosamente. Chiese a Hunt di organizzare un banchetto per tutti i capotribù a spese di Boas, e spiegare loro il rispetto che aveva per i kwakiutl. Il banchetto fu un successo. Nell’autunno del 1911 Kroeber stava dando notizia dell’arrivo di un indigeno, emaciato e praticamente nudo, apparso da un giorno all’altro in un recinto per animali vicino a un mattatoio. L’uomo fu subito accolto dagli antropologi dell’università, che lo identificarono come l’ultimo membro di una tribù californiana degli Yahi. Kroeber lo battezzò Ishi, che nella lingua Yahi significava “uomo“. Quando Ishi morì nel 1916, ancora residente all’interno dell’edificio del museo, il cervello gli fu rimosso per ulteriori studi, proprio come era stato fatto con Qisuk. Gli Yahi non erano però una tribù estinta. Cacciati via dalle loro terre prima dei messicani, poi da coloni bianchi, facevano parte di quei 120.000 indiani della California che vennero 50 Omaha e uno degli informatori principali di Dorsey, ricorreva in tutto lo L’Omaha Sociology come un fastidioso bastian contrario, un guastafeste etnologico. Non appena si era sicuri di aver capito qualcosa, Due corvi negava tutto. Ma Dorsey riportava i fatti così come li aveva raccolti, negazioni e contraddizioni incluse. Anche da studente, Sapir vedeva lo stile di Dorsey per quello che era, ovvero la prova della genuina insicurezza di un osservatore che aveva capito quanto fosse difficile determinare qualsiasi cosa che riguardasse la cultura di qualcun altro. Per conoscere qualsiasi cosa riguardasse il mondo sociale, si era invariabilmente legati a quello che due corvi o chi per lui aveva da dire. Non c’era modo di conoscere o capire questa danza o quel rituale di semina, quel totem di caccia o questo canto guaritore, se non parlandone con qualcuno. E nel farlo, ci si esponeva immediatamente a qualsiasi divergenza sui fatti in questione. E anche così, il problema rimaneva: se pur si fosse riusciti a far coincidere il pensiero della maggioranza sulle occasioni nelle quali si doveva svolgere la danza del bufalo o su quale clan includesse gli altri, un Due corvi poteva comunque arrivare e negare che tutto ciò fosse vero. L’antropologia aveva immaginato se stessa come una scienza, dedita a capire oggettivamente le cose. Limitarsi ad avere un voto di maggioranza sulla verità e chiuderla lì non era abbastanza. Ecco perché era così importante considerare le persone proprio per quello che erano, ovvero persone, pensava Sapir, e non come meri generatori di dati. Sapir scriveva: “ quindi, invece di discutere il problema delle variazioni individuali a partire da una supposta oggettività della cultura, dovremmo, per certi tipi di analisi, procedere nella direzione opposta. Dovremmo agire come se non sapessimo niente di una cultura ma fossimo interessati ad analizzare al meglio quello che un dato numero di esseri umani abituati a vivere gli uni con gli altri pensa e fa davvero nelle proprie relazioni quotidiane”. Si doveva quindi abbandonare l’idea di arrivare a una definizione definitiva di cosa fosse davvero questa o quella società. Bisognava piuttosto ammettere che la massima vicinanza possibile a una cultura si otteneva riportando quello che un esperto - qualcuno che vive quella realtà - pensava di quella stessa cultura. La cultura, per Sapir, era soprattutto un’astrazione teorica che gli osservatori, interni esterni che fossero, definivano come l’approssimazione a ciò che alcune collettività facevano, pensavano, dicevano e sentivano. Qualsiasi gruppo di persone abituate a vivere le une con le altre, spiegava Sapir, può formare una collettività. Una fabbrica, una strada in una zona borghese, il gruppo parrocchiale, ecc. potrebbe essere una cultura. La maggioranza degli americani bianchi non aveva mai conosciuto un indiano, ma era abbastanza sicura di conoscere gli indiani: un unico genere diviso in tribù, con una serie di leggende e tradizioni più o meno comuni, caratteristiche di quella comunità di una volta che vivevano dal New England all’Oceano Pacifico. Essere americani voleva dire, tra le altre cose, essere convinti di sapere tutto sugli indiani. In seguito ai grandi conflitti armati svoltesi intorno al 1890, i nativi americani cominciarono a occupare una posizione centrale nell’idea che i bianchi si stavano facendo sul futuro della 51 loro razza. Mentre il Madison Grant e i suoi colleghi lanciavano l’allarme sul declino della razza anglosassone, gli indiani erano sempre più frequentemente additati come portatori di quei valori, tipici della classe media, che avrebbero potuto salvarla: stoicismo, duro lavoro e consapevolezza dei propri scopi; coraggio e spirito d’avventura per i ragazzi, manualità e cura della terra per le ragazze. Più che selvaggi che resistevano all’espansione verso ovest, gli indiani venivano ora raffigurati come saggi e nobili paladini della natura, una civiltà che stava scomparendo e le cui virtù potevano offrire delle lezioni per il futuro. Gli americani bianchi immaginavano quel mondo estinto ed estraneo come qualcosa di loro, profondamente intimo e sempre presente. Uno dei più importanti sostenitori di questa visione degli indiani come modelli di vita era G. Stanley Hall, professore dell’Università di Clark, secondo il quale i nativi americani avevano un ruolo speciale nell’aiutare i bambini bianchi ad affrontare il cammino impervio della pubertà. Hall supponeva che nei processi di crescita di un individuo ricapitolasse il progresso del genere umano dallo stadio selvaggio alla civiltà, una delle teorie consolidate che Mead attaccó con le sue ricerche nella Samoa. Ma il lavoro di Hall toccava anche un altro aspetto: lo sviluppo individuale, diceva l’autore, era profondamente legato al progresso delle razze. Dall’infanzia all’età adulta, gli esseri umani attraversavano le stesse fasi fisiologiche che differenziavano le popolazioni più primitive, con la pelle più scura, da quelle con la pelle più chiara e più civilizzati. Per esempio, mentre gli adulti possono fronteggiare un animale che ringhia, i bambini vanno in cerca del più vicino nascondiglio, proprio come loro antenati primitivi. “La maggior parte dei selvaggi sono in molti aspetti dei bambini”, scrive Hall. “Se non vengono rovinati dal contatto con le ondate della più avanzata civiltà sono le creature più virtuosi, semplici, fiduciose, piene d’affetto e pacifiche, curiose, scanzonate, incredibilmente religiose e in salute, con dei corpi che sono superiori ai nostri in praticamente qualsiasi funzione”. Gli impulsi naturali tipici di ogni fase dello sviluppo devono essere lasciati liberi di esprimersi appieno; al contrario, si impedirebbe loro di seguire il corso naturale dello sviluppo. Hall credeva che la vecchia gerarchia di Morgan tra selvaggi, barbari e società civilizzate fosse più o meno corretta. La postilla che aggiunse aveva come scopo quello di specificare che lo schema di Morgan poteva essere applicato in modo altrettanto efficace a una persona come a un’intera popolazione, e specialmente ai bianchi americani. Visto che questi bambini erano il prodotto di molti differenti lignaggi, rischiavano, nel passaggio dal buio dell’arretratezza alla luce del progresso, di essere vittime di un corpus di usi, tradizioni e credenze nazionali poco saldo. Essere fisicamente adatti ed essere razionalmente adatti, in altre parole, erano declinazioni diverse della stessa cosa. Teorici come Hall credevano che gli indiani americani potessero indicare la strada per seguirle entrambe. Il modo migliore che avevano i bianchi americani per gestire i propri primitivi era insegnar loro quelle culture selvagge che un tempo avevano prosperato nel loro stesso cortile. Ben presto un movimento assimiló queste idee e ne fece i 52 propri precetti fondamentali: i Boy-scout e l’organizzazione delle Camp Fire Girls, entrambi fondati nel 1910. I bambini bianchi si esercitavano nelle attività artigianali degli indiani durante i campeggi estivi. La scienza aveva chiaramente mostrato i vantaggi della vita indiana per la crescita di adolescenti e bambini, dichiaravano gli entusiasti di questi campeggi. Quando i bambini che avevano frequentato quei campeggi, una volta cresciuti, andavano all’università o altrove, si portavano dietro i loro indiani immaginari. Negli anni “20 del Novecento, un gran numero di squadre sportive in tutto il paese, dalle università segregate ai club riservati ai professionisti bianchi, cominciarono a chiamarsi Braves, Indians, Warriors e Chiefs (coraggiosi, indiani, guerrieri e capotribù). Pochi decenni dopo la conquista dell’ovest, per gli americani bianchi era completamente normale investire tempo ed energie a mascherarsi come quelle persone che i loro antenati avevano faticato tanto per eliminare. Nel circolo di Boas c’era una persona che trovava questa situazione particolarmente spinosa, per lei come per la sua professione ancora agli albori. A Manhattan si faceva chiamare Ella Cara Deloria. Proprio come Hurston, che stava affrontando il problema di cosa volesse dire studiare una cultura che ti era nota fin dalla culla, Deloria stava cercando di salvarne una che sembrava pericolosamente vicino a scomparire del tutto. Più di chiunque altro nel suo ambiente capiva la difficoltà di arrivare alla verità riguardo s una specifica società. Deloria era nata a Yankton, una riserva indiana nella zona del sud-est del South Dakota, ma crebbe a Standing Rock, una delle più grandi riserve tribali degli Stati Uniti e terra delle tribù sioux. Sua madre era di discendenza prevalentemente europea. Suo padre proveniva in gran parte dei Dakota ed era un capotribù ereditario. Il padre insistette perché Deloria parlasse sia l’inglese che la lingua Dakota, con tutti i suoi tre dialetti, e le fece perfino imparare il catechismo in entrambe le lingue. I suoi genitori la mandarono al collegio episcopale di Sioux Falls. Dopo il diploma comincia a frequentare l’Oberlin College, un’opportunità rara ma non irrealizzabile per un indiano delle grandi pianure. Deloria era perfettamente inserita nell’élite della provincia, in quanto figlia di un uomo in vista della riserva e cristiana battezzata le erano riservate molte opportunità. Come Mead, ben presto anche Deloria comincia a volersi trasferire a New York. Il Teachers Collage era un istituto per la formazione di insegnanti elementari e delle scuole secondarie. Deloria si scrisse nel 1912 per completare il corso di studi che aveva cominciato all’Oberlin. Entro così a far parte di un piccolo esercito di donne e uomini il cui compito era quello di mettere in pratica la missione del collage nelle zone più remote: nelle riserve indiane e nelle scuole pubbliche frequentate dalle popolazioni indigene. A New York, Deloria sentiva che la distanza che le separava delle Grandi Pianure era soprattutto geografica: lei stava vivendo in un momento storico in cui la considerazione che gli americani avevano degli indiani era condizionata non solo dalle recenti violente 55 collaboratori c’erano Edward Sapir per le lingue takelma del sud-ovest dell’Oregon, e altri accademici che avevano affrontato, tra gli altri, le lingue dei Coos del Pacifico nord- occidentale e dei Ciukci della Siberia. Tutto ciò dimostrava i legami linguistici tra le popolazioni aborigene del Nord America e quelle dell’Eurasia, a sostegno della teoria di un popolamento delle Americhe con migrazioni provenienti attraverso lo Stretto di Bering. I finanziamenti per l’ambizioso progetto provenivano in gran parte del Comitato per la ricerca sulle lingue dei nativi americani, a sua volta finanziato da una borsa di studio della Carnegie Corporation di New York. L’intero progetto era incredibilmente complesso. Boas stava dirigendo ricercatori specialisti accademici in tutti gli Stati Uniti e in giro per il mondo: ognuno di loro si affannava a cercare indigeni che conoscessero la lingua, a compilare liste di vocaboli e provare a comprendere complesse strutture grammaticali prima che gli ultimi frammenti di una lingua si riducessero in polvere. Facevano, collettivamente, quello che avevano fatto i fratelli Grimm, ovvero raccoglievano storie e modi di dire per non dover più dipendere dalla trasmissione di padre in figlio, che era il modo in cui di solito le lingue sopravvivevano. Spesso cercavano, partendo da zero, una forma standard per le lingue di cui non esisteva la versione scritta o che erano parlate con un numero enorme di variabili dialettali. Rispetto agli altri membri di questa numerosissima squadra, Deloria era diversa. Parlava come lingua madre il Dakota i suoi dialetti, ma non aveva una formazione da linguista tranne quella ricevuta durante le lezioni informali impartite da Bossi Benedict. Ma il suo istinto e la sua istantanea comprensione dei metodi di lavoro sul campo, disse Benedict, contavano probabilmente più delle conoscenze di qualsiasi dottorando. Per Margaret Mead il periodo passato nella comunità di nativi americani omaha fu soprattutto un esercizio di quella che chiamava “etnologia del troppo tardi“. Tutto quello che poteva essere stato di qualche interesse era ormai scomparso da tempo, ucciso dalla povertà e dall’invasione dei bianchi. Ma Deloria sapeva che non era sempre così. Perfino una ricercatrice sul campo esperta come Mead poteva essere colpevole di quella che Deloria chiamava “antropologia da poltrona“. Un metodo migliore era rinunciare a identificare le braci ormai spente di una civiltà antica e cercare invece di conoscere la cultura attuale e viva delle popolazioni che si avevano concretamente intorno: uomini e donne che non stavano fermi nella storia ma, come la stessa Deloria, la attraversavano. Non c’era bisogno di avere nostalgia del passato quando si poteva scoprire la ricchezza del presente. A volte, però, il presente poteva assumere forme all’apparenza sorprendenti, frustranti o perfino deludenti. Ecco perché, credeva Deloria, conoscere la lingua così importante. Anche la pronuncia cambiava continuamente, ma la lingua era importante non tanto come registrazione di un singolo momento ormai passato, ma come archivio di un cambiamento, infinita consulenza creativa dei mondi passati e di quello presente. Le lingue dei nativi americani tenevano molto in considerazione l’umorismo, i giochi di parole, le giustapposizioni, gli errori voluti e le battute ben raccontate. Il trucco era cominciare ad ascoltare, a considerare le lingue vive che ancora punteggiavano le pianure come qualcosa che esisteva nella realtà odierna è in 56 rapida evoluzione. Per parlare in modo corretto degli indiani, si doveva smettere di farlo al passato. L’obiettivo di Deloria era tirare fuori, da quella massa di appunti e interviste, qualcosa che potesse descrivere il modo in cui la sua famiglia Dakota e i suoi vicini parlavano davvero, senza renderlo però immobile come aveva fatto Walker e altri funzionari che avevano lavorato nelle riserve in anni precedenti. Boas e Deloria, frase dopo frase, fonema dopo fonema, stavano lavorando alla ricostruzione di un intero universo di significati. Scrivevano i modi di trattare le forme del discorso usati dagli uomini, e quelli diversi applicabili invece alle donne; la panoplia di modi per indicare approvazione, disapprovazione o indifferenza; il profondo significato racchiuso in una struttura complicata. Complicati legami sociali potevano collassare in una singola forma grammaticale. Descrivere una lingua voleva dire sbirciare attraverso i modi unici che aveva una comunità di racchiudere l’esperienza, di analizzarla suddividendola in frammenti comprensibili e comunicabili. L’estate seguente Boas aveva delle novità per Deloria. L’istituzione più importante del paese per quanto riguardava le scienze naturali avrebbe presto mandato le bozze, disse, e lei avrebbe dovuto controllare che non ci fossero degli errori. Il risultato finale, intitolato semplicemente Dakota Grammar, fu dato alle stampe nel 1941. Era il percorso attraverso una civiltà che un tempo abitava tutte le Pianure del Nord, una civiltà ancora in trasformazione, come sapeva Deloria, nelle riserve e fuori. Il traguardo raggiunto da Deloria fu almeno quello di verificare la teoria fondamentale di Boas, ovvero che le popolazioni i cui resti erano stati esposti, le cui culture erano state recuperate come primitivismo pop, erano pienamente umane. Tutto ciò dette anche l’opportunità di gettare uno sguardo nell’America più profonda, accecata dalle sue ossessioni sulla razza e su un’evoluzione culturale lineare. Boas aveva già scritto introduzioni per i libri importanti di alcuni dei suoi studenti, ma con Deloria aveva fatto qualcosa di più raro. Per la prima volta con uno dei suoi studenti condivise la firma di un’opera. Capitolo undicesimo Una teoria vivente Negli anni Trenta Boas decise di cambiare il suo modo di insegnare. Le riunioni informali che organizzava lui con i dottorandi e gli studiosi sarebbero diventate dei seminari a cadenza regolare. Per quasi tutto il decennio ogni martedì sera ospitó una serie di incontri ai quali studenti e colleghi erano invitati per discutere delle loro scoperte recenti. Tra una riunione di Dipartimento e la supervisione di una tesi, Benedict aveva ripreso in mano la sua vecchia ricerca sugli Zuni e aveva curato degli articoli per il Journal of American Folklore. Uno dei numeri più recenti della rivista era stato dedicato quasi interamente al lungo studio di Hurston sulla religione popolare a New Orleans e sulla costa del Golfo. Mead e Fortune stavano scrivendo il loro saggio sugli Omaha. Alfred Kroeber 57 andò in visita alla Colombia durante il suo anno sabbatico da Berkeley, dove era diventato il più importante esperto del paese di popolazioni tribali californiane. Ogni tanto, da Londra, facevano loro visita Malinowski. I dispetti e i tradimenti, le scappatelle clandestine e le ostilità furiose, le amicizie granitiche così come le rivalità più torbide facevano parte dei seminari serali a Grantwood tanto quanto i verbi dei Dakota e le maschere della nuova Guinea. Ma che discutessero di sesso, di successo o di qualsiasi altro aspetto della vita sociale, Boas aveva insegnato ai suoi studenti a resistere alla tentazione dei grandi schemi teorici o delle conclusioni definitive. Era sempre stato molto chiaro su quale fosse, secondo lui, la più grande difficoltà dell’antropologia: esistevano forse delle leggi universali che sottendevano alle culture umane? E se esistevano, come potevano essere scoperte? Una volta, il professore A. R. Radcliffe-Brown provó a spingere Boas a trarre almeno una generalizzazione della sua esperienza pluridecennale di spedizioni, raccolte di reperti e pubblicazioni. L’unica risposta che Boas si sentì di dare su questa: “Le persone non usano ciò che non hanno”. Boas credeva che l’antropologia dovesse essere una scienza basata sulla conversazione, un dialogo tra due punti di vista. Da questo dialogo si sarebbe poi arrivati a storie singolari, esperienze uniche, a una comunità specifica e al modo particolare in cui questa comunità intendeva il suo stare al mondo. Essere un antropologo voleva dire impegnarsi a sottoporre la propria esperienza a una lettura critica, ed era questa la ragione principale per la quale ci si andava a perdere volontariamente in posti lontani e remoti: prima di mettere in azione il filtro della critica, bisognava fare più esperienze possibili. Gli antropologi, per natura, dovevano guardarsi dal pontificare sulla natura dell’uomo utilizzando come punto di partenza gli schemi imposti dalla loro stessa cultura. Boas aveva visto con i propri occhi che cose terribili venivano fuori quando teorici della razza i sostenitori dell’eugenetica affermavano con sicurezza di aver capito tutto quello che c’era da capire sull’essere umano. Alcuni dei discepoli più anziani di Boas erano infastiditi dalla riluttanza del loro mentore a fare delle generalizzazioni. Lowie, Kroeber e Sapir, in modi diversi, volevano che la scienza fosse diretta dalla teoria, o almeno che quest’ultima fosse l’obiettivo finale. Sapir pensava che accumulare storie, leggende, grafici con i vincoli di parentela e liste di vocaboli non era molto utile se tutte queste cose non venivano poi messe al servizio di una conclusione generale. L’antropologia, che ormai era diventata una scienza popolare, correva ora rischio, secondo lui, di diventare qualcosa di “volgare e noioso”. La ricerca di leggi universali aveva mosso l’indagine di Lewis Henry Morgan e John Weasley Powell, sostenitori dell’idea che ci fosse un percorso comune seguito da tutte le culture. Questo era anche il presupposto del lavoro di psicologi come G. Stanley Hall, il cui obiettivo era scandagliare i recessi più reconditi della mente umana. Quando Boas cominciò i suoi seminari settimanali del martedì, questo concetto stava alla base anche della sociologia, la disciplina che si stava sviluppando come una specie di sorella dell’antropologia: la prima cercava di comprendere le società più complesse dell’Occidente sviluppato, mentre la seconda si concentrava su quelle parti apparentemente più semplici sparse nel resto del mondo. Negli Stati Uniti le ricerche sociologiche avevano ricevuto uno stimolo importante della 60 coltivazione di colocasie e pescavano nel lago. Nel villaggio c’erano delle grosse costruzioni cerimoniali con i tetti dalla forma a mezzaluna, nelle quali si tenevano dei rituali elaborati con maschere intagliate e copricapi fatti di piume di casuario e conchiglie. Sembravano vivere in un mondo di serenità e abbondanza. A questo punto c’era un’altra lingua da imparare, un altro sistema di parentele da tracciare. Giravano di casa in casa per fare conoscenza con la popolazione locale, con Fortune che si appuntavi legami familiari su un braccio in modo da non fare errori su importanti rapporti di parentela e non offendere nessuno. La lingua era altrettanto complessa, con un surplus di generi grammaticali. Mead in quel paesaggio cominciava a vedere gli esseri umani con una chiarezza che non si sarebbe mai immaginata. Mead si ammaló di malaria, aveva febbre e dolori di stomaco. L’ultimo anno sul campo l’aveva costretta, per la prima volta nella sua vita adulta, a una relazione monogama, e stava cominciando a capire che non ne era proprio portata. Una parte della sua anima ne stava morendo. Capì di essere più portata per l’amore aperto, con persone diverse tra loro e in diversi modi. Fortune, se avesse voluto rimanere con lei, si sarebbe dovuto adattare. Mead credeva che gli individui nascessero con una particolare personalità innata che si esprimeva socialmente in diversi modi. Erano composti di diversi tratti, come audacia o rilassatezza, assertività o passività, superbia o modestia. In ogni società la concezione dei generi tendeva a standardizzare alcune sottocategorie di questi tratti, a raggrupparli e considerarle convenienti e naturali. Eppure, in tutte le società che Mead, Fortune e Bateson avevano studiato, c’erano persone il cui temperamento andava contro queste categorie normalizzate. Mentre parlavano, Mead e Bateson si resero conto che erano loro a deviare dalla loro stessa cultura: lei era una donna, eppure era risoluta e avventurosa; lui un uomo, eppure in qualche modo riservato e anonimo, nonostante la sua struttura fisica imponente. Fortune, invece, era un concentrato di mascolinità: duro, brusco, vendicativo, si considerava ragionevole ma era rabbioso e irascibile quando le cose non andavano come voleva. Per la sua cultura, era lui il modello di uomo. Ma lì, lungo il fiume Sepik, era letteralmente un intruso. Mead e Bateson avevano buttato giù uno schema che, secondo loro, sarebbe servito a spiegare il modo in cui gli individui si rapportano alla cultura nella quale solo nati. Si trattava di una struttura teorica che permetteva di dare un senso a loro stessi e che sarebbe servita a chiarire il turbinio di emozioni, sentimenti feriti, sesso e conversazioni appassionate che avevano vissuto sulla riva del lago. Lo chiamarono “i quadranti“. Le persone si dividevano in quattro tipi fondamentali, o temperamenti, spiegavano. I “settentrionali” avevano la tendenza essere ligi alle regole e a tenere sotto controllo le emozioni. I “meridionali” erano passionali e sperimentatori. I “turchi” misteriosi e contemplativi. I “profetici” erano aperti e creativi. Fortune era chiaramente un settentrionale; Boas e Benedict, probabilmente, erano anche loro dei settentrionali. Sapir era un turco, sempre alla ricerca di una chiave per capire l’universo. Fortune e Mead non erano stati in grado di far funzionare il loro matrimonio perché erano costitutivamente incompatibili, la stessa cosa che è avvenuta con Gressman. Lei e Bateson, invece, erano perfetti l’uno per l’altra, i loro temperamenti si completavano e non c’erano 61 conflitti intrinseci. Per quanto riguarda il duraturo amore di Mead per Benedict, la sua incapacità di accontentarsi di una sola relazione, con una sola persona con un solo genere, sembrava ora non tanto un problema suo, ma una semplice incompatibilità tra il suo temperamento e la società in cui era nata. Mead, Fortune e Bateson avevano passato mesi tre persone che vivono in modo diverso dal loro. Gli Arapesh avevano molte categorie di generi nella loro lingua, non solo maschile femminile; non concepivano divisioni nette tra quelle che invece la società occidentale vedeva come condotte sessuali normali o deviati. In Mundugumor mostravano d’altra parte come poteva essere una società voluta votata al sospetto e alla gelosia. Le donne Tchambuli si occupavano dei raccolti mentre gli uomini creavano oggetti d’arte. Avevano formulato una teoria, con cui era possibile spiegare loro stessi e le società all’interno delle quali si trovavano in quel momento, e che era in grado di ribaltare i vecchi modi di pensare offrendo nuova e fresca motivazione alla loro scomoda situazione. Anche Fortune, almeno all’inizio, si unì al progetto. Ma Fortune ebbe ben presto dei dubbi. Mead e Bateson avevano passato lunghe ore a cavillare sulla loro nuova teoria, lasciando a lui il compito di portare avanti il lavoro sul campo. Dopo l’iniziale entusiasmo per i quadranti, si sentì sempre più tagliato fuori. I quadranti, fu la conclusione di Fortune, erano solo un modo per mascherare da scienza la lussuria: un esercizio osceno e ridicolo di creazione di etichette che non aveva altro obiettivo se non quello di liberarsi di lui, riducendo un instabile doloroso terzetto a un duo armonico. Nella primavera del 1933 quello dei quadranti era diventato una specie di culto privato, Mead era arrivata a inventare forme d’arte, rituali e perfino stili culinari che pensava caratterizzassero i diversi temperamenti. A un certo punto, nel bel mezzo dell’ennesimo litigio, Fortune colpì Mead facendola cadere a terra. Si scoprì solo più tardi che in quel momento era incinta: quell’incidente le aveva provocato un aborto. La risposta di Fortune fu quella di incolpare Bateson. “Gregory ha mangiato il nostro bambino“, disse in preda alla follia. Le allucinazioni indotte dalla malaria, le punture di zanzara, il continuo ticchettio della macchina da scrivere, la foresta buia e il lago scuro, le insalubri capanne della tribù con le loro terrificanti mascherine intagliate, l’estasi della scoperta, l’isolamento ininterrotto, il senso profondo della solitudine: i tre antropologi erano stati risucchiati in una folle spirale di grida e assenze, riappacificazioni e quiete, il tutto in una sorta di rito spirituale immaginario che credevano avrebbe prodotto un nuovo tipo di scienza. Non era possibile andare avanti così. Più tardi quell’estate decisero che era giunto il momento di partire e provare a risolvere la situazione - la teoria dei quadranti, il matrimonio di Mead e Fortune, l’eventuale futuro della relazione tra Bateson e Mead - in un ambiente più confortevole tranquillo. Si imbarcarono su una goletta per riscendere il fiume. Giunti sulla costa preso un vaporetto diretto in Australia. A bordo Fortune incontrò una vecchia fidanzata e decise di rimanere con lei una volta raggiunto il porto. Affittarono degli appartamenti nello stesso edificio: Mead e Fortune a un piano, accanto alla 62 ex fidanzata di Fortune, e Bateson al piano di sotto. Un po’ di tempo dopo, alla fine di agosto, Mead preparò un pranzo a Fortune. Per un’ora o poco più tutto sembra tornare alla normalità, ma dopo aver mangiato il Mead uscì di casa come se niente fosse, si diresse al molo, percorse la passerella e si imbarcò su un vaporetto diretto alle Hawaii, per continuare da lì il viaggio verso casa. Bateson e Fortune, successivamente, fecero ritorno in Inghilterra. Quando finalmente Mead arrivó a New York, provó a spiegare ogni ogni cosa alla sola persona che secondo lei avrebbe potuto capire, Benedict, ma l’unico strumento a sua disposizione per descrivere quello che stava accadendo erano proprio i quadranti: l’impossibilità di un matrimonio trasversale tra settentrionali e meridionali; la felicità intrinseca dell’endogamia all’interno di ogni quadrante; la perversione di voler insistere a salvare un’unione che, fondamentalmente, andava contro il suo temperamento. Benedict rimase perplessa di fronte a ciò che l’altra tentava di spiegare. Era preoccupato per la salute di Mead e, nel caso si fosse spinta a pubblicare queste teorie, anche della sua reputazione accademica. Mead e Fortune si spedivano con frequenza delle lettere. Fortune sosteneva che quelle teorie non erano altro che un modo di razionalizzare il pessimo comportamento di Mead. Mentre il terzetto sul fiume Sepik ragionava sulla teoria dei quadranti, Benedict aveva elaborato il suo contributo teorico. Lei sperava di dare un senso al mucchio di informazioni etnografiche che i suoi amici e colleghi avevano raccolto negli anni. Non aveva intenzione di disegnare i riquadri o costringere le persone all’interno di categorie inventate, come invece volevano fare Mead e Bateson. Usó, invece, un termine più moderato: modello. Benedict non lavorava sul campo della fine degli anni Venti, ma da moltissimo tempo era l’amica, la confidente e l’instancabile consigliera di coloro che invece lo facevano, molti dei quali intervenivano ai seminari del martedì sera a casa di Boas. “L’antropologia è lo studio dell’essere umano come creatura sociale“, affermava Benedict all’inizio del suo manoscritto. Nelle centinaia di pagine che seguivano, spiegava perfettamente perché questa affermazione era così significativa. Ma, sosteneva Benedict, l’unico presupposto possibile per una vera analisi delle società umane era che il modo in cui ciascuno vede il mondo non è universale. Ogni società, compresa la nostra, è soggetto alla tirannia dell’articolo determinativo: abbiamo la tendenza a considerare il nostro comportamento come il comportamento, e ciò che ci sembra naturale come la natura umana. Ma tutte le società sono di fatto solo dei frammenti del grande arco di possibilità di comportamento. Il fatto che una società sviluppi un particolare frammento di questo arco e non un altro dipende da una serie di fattori accidentali, dagli indizi suggeriti dalla geografia, dall’ambiente, o dal semplice bisogno umano di prendere in prestito elementi dalle società vicine, cosa che viene in modo più o meno casuale. Queste scelte possono poi protrarsi per un periodo di tempo ragionevolmente lungo, cosa che permette agli antropologi di studiarle all’interno di un contesto. Ma tutto questo non è mai scolpito nella pietra. Tutte le società cambiano. Allo stesso tempo, proseguì a Benedict, le culture non sono un assemblaggio casuale di tratti. Allora interno tutto ha un senso preciso; sono organizzazioni coerenti, con un senso dell’integrazione che permette agli individui che vivono all’interno di quella società di 65 Fortune insisteva sul fatto che l’intera costruzione fosse imbarazzante. Ma solo pochi mesi dopo il ritorno della Nuova Guinea, Mead scrisse a Bateson di una nuova idea venuta fuori da quel caos sul fiume Sepik. E se la questione centrale non fosse stata in quale casella far rientrare ogni individuo, ma piuttosto i modi in cui le diverse società standardizzavano specifici temperamenti negli individui stessi? Era l’immagine speculare del problema che aveva affrontato Benedict in Modelli di cultura. Benedict voleva conoscere le forme dominanti che una società poteva assumere. Mead voleva sapere in che modo quelle forme strutturano la vita degli individui che, in fondo, era proprio l’obiettivo di quella folle teoria dei quadranti. Mead stava cercando di spiegare una società completamente diversa appoggiandosi soltanto alle categorie binarie di maschio o femmina che aveva ereditato dalla sua cultura di appartenenza. La sua società aveva selezionato una cosa chiamandola sesso per contenere il temperamento profondo di un individuo. Uomini e donne dovevano avere quelle qualità essenziali che ognuno, all’interno di quella determinata cultura, avrebbe saputo descrivere perfettamente. Coraggio, aggressività e dominio erano considerate caratteristiche maschili; gentilezza, senso materno e creatività erano considerate femminili. Ma nessuno all’interno della sua società avrebbe associato il fatto di avere grandi orecchie o occhi verdi con dei tratti intrinseci al carattere; dire una persona con le orecchie sporgenti è per natura debole, per esempio, sarebbe sembrato semplicemente stupido. La cultura, affermava, si era voluta in modo tale che la classificazione maschio/femmina era un modo elementare, binario e distintivo di catalogare la realtà. Ma era possibile immaginare un modo molto diverso di costruire una società. Il suo nuovo libro, che intitoló Sesso e temperamento, fu pubblicato nel 1935. Sesso e temperamento rappresentava il tentativo più serio mai fatto da Mead di unire il lavoro sul campo a un’ampia teoria sociale. Era anche uno sforzo per collegare il pensiero di Boas sulla razza al suo modo di concepire sesso e genere. La nostra società investe moltissimo nelle differenze di sesso, scriveva. Si aspetta che gli uomini e le donne si comportino in modo molto diverso tra loro dalla nascita, basandosi semplicemente sulla loro natura biologica. Abbiamo costruito il nostro gergo, le nostre battute, il nostro essere poetici, osceni, perfino la nostra medicina basandoci sulla convinzione che sesso e comportamento sociale vadano di pari passo. Chi non rientra nel tipo designato - coloro che vengono etichettati come i maschi effemminati o femmine mascoline - sembra essere in conflitto con l’ordine naturale delle cose. Le società occidentali pensavano le differenze tra uomini e donne come qualcosa di naturale, dato da Dio, ovvio. Tutte le società assegnavano ruoli sociali specifici a maschi e femmine. Ma il fatto che questi ruoli sociali fossero strettamente legati alla biologia, osservava Mead, non era una caratteristica universale di tutte le culture. Anche se si fosse potuto dimostrare che, in media, gli uomini erano più predisposti a un certo tipo di comportamento e le donne a un altro, rimanevano comunque i problemi che Boas aveva identificato per la razza. Anzitutto, il grado di differenziazione all’interno di ogni categoria era di solito maggiore della differenza tra categorie diverse: non c’era un grande divario di comportamento tra tutti gli uomini e tutte le donne. In secondo luogo, non esisteva un modo 66 semplice di distinguere quei comportamenti che erano il prodotto di fattori sociali da quelli che si credevano innati. L’unico fattore universale era l’esistenza indipendente di ruoli sessuali e di differenti personalità, quello che lei chiamava temperamento. La differenza tra le società stava nel quale specifico temperamento una data società assegnava a mascolinità e femminilità. Un esempio era quello degli Arapesh e dei Mundugumor. Entrambe queste comunità assegnavano ruoli diversi a uomini e donne. I Mundugumor credevano che la pesca fosse un’attività più appropriata per le donne, mentre gli Arapesh consideravano che la pittura dovesse essere appannaggio esclusivo degli uomini. Ma nessuna di queste società sembrava credere che questi ruoli avessero qualcosa a che vedere con le differenze di temperamento naturale tra i due sessi. Le donne, secondo gli Arapesh, erano più portate per il trasporto di carichi pesanti. Ma solo perché in quella società si credeva che le teste delle donne fossero più dure e più forti, non che le donne fossero naturalmente predisposte a lavori più umili e servili. L’accudimento dei bambini era un compito al quale uomini e donne cooperavano, ma non perché si era convinti che entrambi sessi fossero per natura materni - anzi, era per praticavano anche l’infanticidio. Piuttosto, nella visione che avevano delle cose, la procreazione era il risultato di molteplici atti sessuali tra uomo e donna. I bambini erano plasmati e nutriti della coppia, attraverso atti sessuali, durante il periodo della gestazione. Era quindi naturale che i genitori continuassero il lavoro insieme, occupandosi del figlio dopo la nascita. Se si obbligavano gli Arapesh a spiegare la loro concezione di persona ideale, la risposta sarebbe stata una persona gentile, amorevole e orientata al bene della comunità. I Mundugumor, al contrario, consideravano qualità ideali l’aggressività, la cupidigia e il sospetto. Era una società fondata sulla rivalità e la sfiducia reciproca, raccontava Mead, diviso in gruppi che difendevano la proprietà comune da presunti aggressori. L’unica cosa che sembrava unire le comunità erano le razzie tra le popolazioni confinanti, a caccia di teste. Ma c’era la convinzione che i tratti privilegiati della società fossero comunque distribuiti in modo uniforme tra uomini e donne. E poi c’erano i Tchambuli che assegnavano agli uomini il ruolo di artisti, che svolgevano dipingendo soggetti elaborati intagliando maschere di legno e ballando, mentre le donne pescavano e preparavano il cibo. Eppure, neanche i Tchambuli facevano differenza tra gli uomini e le donne, ma solo tra la distribuzione delle loro innate potenzialità. Organizzavano infatti regolarmente delle feste durante le quali le identità sessuali si ribaltavano, grandi balli mascherati nei quali gli uomini si travestivano da donne e le donne mimavano rapporti sessuali. Le società occidentali avevano imparato nel tempo ad associare specifici temperamenti ai ruoli sociali nei quali i generi sessuali venivano incasellati. Visto che alle donne era in linea di massima assegnato il ruolo di madri amorevoli, era conveniente credere che le donne fossero per natura scrupolose, attente e concentrate sul benessere del bambino. Visto che gli uomini era affidato il ruolo di politici e guerrieri, era altrettanto comodo credere gli uomini avessero discernimento e coraggio. Ma vedere questa convergenza di sesso e temperamento come unica via possibile per organizzare una società voleva dire confondere l’effetto con la 67 causa. In principio c’erano i ruoli sessuali, argomentava Mead, prodotti da un lungo e lento processo di appropriazione culturale, compromesso, cambiamento e caso. Solo più tardi arrivava la standardizzazione del temperamento sessuale, diceva, per soddisfare i ruoli preesistenti. La vera domanda da fare alla sua stessa società, concludeva, era quanto erano disposte le persone ad aprirsi all’idea che il potenziale umano non fosse tutt’uno con gli organi sessuali. In accordo con l’uso delle scienze sociali del tempo, Mead non usó mai il termine genere se non in senso linguistico. Tutte le lingue che aveva studiato in Nuova Guinea avevano diversi generi. Ma in Sesso e temperamento sembrava tracciare una linea ben distinta tra sesso in senso biologico e sesso come categoria sociale. Nel primo caso si poteva parlare di fatti biologici; nel secondo, per il quale al giorno d’oggi si parlerebbe semplicemente di genere, si trattava del prodotto di un tempo e di un luogo specifici: le posizioni sociali distinte che una determinata società assegna a uomini le donne, o in alternativa la serie di ruoli, comportamenti, attrazioni e potenzialità che questa società mette a disposizione delle persone, con ben pochi riferimenti al sesso biologico. Era una declinazione della questione che Boas aveva affrontato anni prima riguardo il rapporto tra le differenze fisiche osservabili e la categoria sociale di razza. Le conclusioni di Mead erano il risultato di quello che lei aveva chiamato, nelle lettere scritte Benedict, la sua pratica di “biografia critica”, ovvero l’uso delle scienze sociali come strumenti per un’autoanalisi. Benedict si era occupata dei modelli culturali di una società. Mead era interessata a come le società intrappolavano e canalizzavano i temperamenti individuali. La liberazione reale non significa necessariamente rendere le donne più maschili o permettere agli uomini di essere effemminati. Si trattava invece di liberare il potenziale degli esseri umani dai ruoli che la società aveva creato, considerando ogni persona come una particella di quelle possibilità che possono essere espresse in molti modi creativi. Il cambiamento culturale arriva quando abbastanza persone cominciano a rendersi conto che i vecchi vestiti sono troppo stretti. La società occidentale era ossessionata dal vedere le persone come tipi, declinazioni di una realtà innata e profonda. Il genere non era altro che una nuova versione della razza o della forma della testa: un altro modo di ridurre le abilità umane incasellandole. Capitolo dodicesimo I regni degli spiriti Il libro di Mead, sesso e temperamento, uscì nello stesso anno del libro di Hurston, Mules and Men. Il primo fu lanciato sul mercato come una coraggiosa presa di posizione sul rapporto tra sesso e capacità individuali. Il testo di Hurston fu trattato come un resoconto sulla cultura nera scritto da un’autrice nera. I volumi sugli abitanti delle Samoa o della Nuova Guinea furono accolti come studi sulle caratteristiche universali della società umana; quello sugli afroamericani come una narrazione pittoresca. Hurston continuava anche la sua raccolta di materiale nelle cittadine del sud, e stavolta la compagnia un giovane studente ho chiamato Alan Lomax. Con il registratore che si erano 70 cerimonie che mettevano in contatto il mondo visibile con quello invisibile attraverso offerte, sacrifici e il suono dei tamburi sacri. Le pratiche variano da un distretto all’altro e da un villaggio all’altro. Le pratiche spesso considerate associate al vodou erano in tutto e per tutto il prodotto dell’immaginazione degli stranieri, scriveva Herskovits. La maggior parte degli americani sembrava pensare che la vita quotidiana degli haitiani fosse come immersa in un universo di terrore psicologico, e lui non vedeva l’ora di far cambiare loro opinione. Il risultato fu probabilmente il ritratto più sofisticato e sensibile della vita rurale haitiana che fosse mai stato pubblicato fino a quel momento, un resoconto imbevuto di umanità e ragionevolezza. Un altro obiettivo, ancor più profondo, di Life in Haitian Valley era catalogare quelli che Herskovits chiamava gli “africanismi incontaminati“ nella lingua, nella magia e nell’organizzazione sociale. Stava in un certo senso interpretando l’insegnamento di Boas secondo cui le società hanno una storia, e da questa storia dipendono le pratiche e le abitudini che vediamo al giorno d’oggi. Nel caso di Haiti, quella storia comprendeva l’epoca dell’indipendenza, i secoli di schiavitù che l’avevano preceduta e risaliva a stili di vita che erano ancora vivi e vegeti. Herskovits voleva mettere in risalto proprio la possibilità di identificare una parola, una frase, una divinità o una tecnica di percussione come originaria del regno di Dahomey o del Senegal, della Nigeria o dell’Angola - e non ridurla a meri primitivismi fuori dal tempo. Quest’idea si opponeva precisamente a quello che la maggior parte dei suoi lettori bianchi avrebbe potuto pensare di una società nera. Qualche anno dopo avrebbe ripreso la questione con maggiore forza nel suo libro “Il mito del passato negro”. Il titolo implicava una doppia negazione: non stava attaccando il mito che i neri avessero un passato, ma piuttosto l’idea che non ce l’avessero. Rivendicare il luogo retaggio culturale dei neri non era però particolarmente innovativo. Herskovits dava molto a pensatori come Du Bois e Woodson, che erano arrivati a queste conclusioni molto tempo prima. Eppure, lui spinse la sua argomentazione dove praticamente nessun autore bianco fino a quel momento era arrivato. I neri avevo una storia che valeva la pena essere ricordata, ripeteva, e l’eredità di questa storia poteva essere ritrovata nel presente. Perfino i bianchi degli stati del sud, faceva notare Herskovits, richiamavano l’Africa nel loro modo di cantare, cucinare, parlare e pregare. Eppure, come molti ricercatori bianchi del tempo, Herskovits non guardava Haiti, guardava attraverso Haiti. Era difficile considerare gli haitiani come persone se per la scienza erano soprattutto l’incarnazione di tradizioni antiche e dure a morire. Life in a Haitian Valley rintracciava quello che Herskovits definiva l’amalgama della cultura haitiana, ovvero il mescolarsi delle radici africane con i prestiti francesi. Non si pronunciava però sul grande cambiamento che aveva definito le vite di queste stesse persone che incontrava giorno dopo giorno durante la sua ricerca: l’occupazione militare da parte degli Stati Uniti. Eppure, intorno a lui, i segni erano ben visibili. In tutto il paese la presenza americana aveva segnato profondamente la società. Le forze di occupazione erano ossessionate dalle voci sulla religione pagana e le sue barbarità, i marines diretti a Haiti venivano istruiti a bordo delle navi sulle presunte tradizioni haitiane, comprese le maledizioni e l’avvelenamento dei 71 nemici. Le autorità americane bandirono ufficialmente le cerimonie vodou e fecero incursione negli hounfort: i tambuti vennero requisiti e distrutti, gli houngan vennero arrestati o costretti a darsi alla macchia. I marines stavano amministrando un paese e allo stesso tempo affrontando un’insurrezione, quella dei cacos, ovvero i contadini combattenti delle campagne dell’interno. Gli ufficiali più giovani e gli uomini di leva incaricati di sradicare la guerriglia avevano un potere immenso: la loro autorità esagerata, mescolata ai pregiudizi razziali, dette come risultato terribili atti di violenza. Ci furono innumerevoli testimonianze di lavori forzati, stupri e uccisioni di civili. La spiegazione più comune era che queste azioni fossero necessarie per tenere a bada una popolazione arretrata e crudele, schiava di una religione irrazionale. Per la prima volta nel XX secolo l’occupante straniero considerava come principale nemico qualcosa che apparteneva un altro mondo: una serie di convinzioni religiose, radicate in una cultura specifica, che venivano a loro volta utilizzate per giustificare la violenza perpetrata per sradicarle. The Magic Island, un libro di viaggio di enorme successo scritto dal giornalista William Seabrook, diventò uno dei ritratti più autorevoli della magia voodoo. I riti e statici di Haiti erano un ritorno al passato, il retaggio di uno stadio primitivo delle tradizioni religiose, in cui le emozioni erano ancora allo stato naturale e gli dèi più vicini alla terra. Hurston aveva letto The Magic Island per prepararsi al viaggio, ma conosceva bene il voodoo, ovvero religione popolare di alcune comunità nere del sud. Durante il periodo che aveva passato New Orleans era stata introdotta ai riti segreti da diversi esperti praticanti. Aveva passato vari giorni distesa nuda nel caldo estivo, con candele accese all’altezza della testa dei piedi, e aveva pubblicato i risultati di questa ricerca nella rivista di Benedict “Journal of American f Folklore“. Ora che era a Haiti, si trovó subito suo agio con i sacerdoti che aveva incontrato per caso tramite amici del posto o colleghi. Ad Arcahaie, il suo contatto con Dieu Donnez le consentì di entrare in questa società nascosta. Conobbe alcuni dei più importanti houngan e mambo del paese, notando come quelle cerimonie notturne chiamassero in causa un intero pantheon di divinità. Vide persone contorcersi e piangere mentre svenivano possedute da un loa. Senti il bisogno di afferrare un diverso piano di realtà: vedere tutte mischiate insieme, in unione perfettamente sensata, malvagità e purezza, la cosa più corrotta e quella più splendida, in cerimonia che non erano più strane, più irreali, o meno estatiche di un incontro di preghiera nella Chiesa battista di Eatonville. In quanto cristiana, pur non praticante, e figlia di un sacerdote, ne sapeva qualcosa del potere di accedere ad altri mondi. Hurston stava arrivando a capire che la religione dipendeva da diverse categorie: il sacro e il profano, l’etereo e il mondano, il miracoloso e l’ordinario. A Manhattan ce n’erano solo due, di categorie: i vivi e i morti. Ma gli haitiani ne avevano giunta una terza, un modo di non essere nè l’uno nè l’altro, o forse di essere entrambe le cose. The Magic Island aveva già introdotto quest’idea tra gli americani. Era stato il primo libro a normalizzare la pronuncia inglese di una condizione che gli haitiani indicavano con la parola zombi, e che Seabrook scriveva “zombie”. 72 Le forze di occupazione americane avevano sentito parlare di questi zombie durante le loro ronde. Qualche anno dopo, nel 1932, il pubblico statunitense avrebbe visto gli zombie sugli schermi cinematografici. A Haiti, ricordava Hurston, trovó leggende sugli zombie praticamente ovunque. La gente parlava di zombi nel modo in cui si parla del tempo o di un matrimonio che sta per celebrarsi. Tutti quelli che Hurston aveva conosciuto ne avevano incontrato uno, o conoscevano qualcuno che ne aveva incontrato uno. Ma erano solo chiacchiere. Nessuno avrebbe potuto davvero prepararla a un incontro faccia a faccia con uno di loro. Durante il soggiorno haitiano Hurston visitó un ospedale. Nel cortile trovò una donna a cui era appena stata servita la cena. La donna aveva a malapena toccato il cibo. Quando vide Hurston avvicinarsi, prese un ramo da un cespuglio lì accanto e cominciò a spazzare il suolo. Si copriva la testa con un telo, diffidente e impaurita, come se si aspettasse di essere colpita da un momento all’altro. Un dottore le tolse il telo dal viso, ma lei alzó le braccia e le mise sulla testa. Hurston scoprì che si chiamava Felicia Felix-Mentor. La cosa sorprendente era che, secondo registri medici, la donna era morta nel 1907. Hurston le scattò diverse fotografie, una delle quali fu poi pubblicata, e rimane la prima immagine conosciuta di uno zombie, o almeno di una persona considerata tale dai suoi conterranei haitiani. Cosa era successo a Felicia Felix-Mentor? Ventinove anni prima si era svolto il suo funerale, la sua famiglia aveva pianto la scomparsa e poi ciascuno era andato avanti con la propria vita: il marito si era risposato, il figlio era diventato un uomo. Poi, l’autunno precedente all’arrivo di Hurston, i gendarmi avevano trovato una donna che camminava nuda sul ciglio di una strada di campagna. Si era presentata a una fattoria del posto e aveva rivendicato la proprietà come un’eredità ricevuta dal padre; i braccianti avevano cercato di cacciarla, ma poi è arrivato il proprietario che, esterrefatto, aveva dichiarato che si trattava davvero di sua sorella. Venne mandato a chiamare l’ex marito di lei, che confermó a sua volta che si trattava della moglie defunta, Felicia. Non era possibile, però, riprendere la vita che era stata interrotta anni prima. L’unica cosa da fare era rinchiuderla di nuovo, stavolta tra le mura dell’ospedale dove poi l’aveva trovata Hurston. I dottori dissero a Hurston che Felicia era stata probabilmente vittima di un avvelenamento. Un praticante di magia nera, un bocor, gli aveva somministrato una droga, capace di simularne la morte. Il bocor, poi, può richiamare la vittima in vita, anche se le funzioni cerebrali erano totalmente danneggiate da renderla solo un simulacro della persona che era. Hurston, in un certo senso, conosceva bene questa situazione, per cui descrisse il suo incontro con Felicia molto dettagliatamente. Durante la sua infanzia non si era mai completamente arresa alla morte della madre; suo padre, invece, aveva capito molto bene come tracciare i confini definitivi tra i diversi mondi, creandosi senza problemi una nuova famiglia e mettendo da parte quella vecchia. Hurston si era fatta stuzzicare dall’idea di trovare la formula del veleno e svelare il segreto del fenomeno degli zombie. Forse avrebbe anche potuto scavare più a fondo nel passato di Felicia e ricostruire quei ventinove anni persi, o raccontare in dettaglio come si era ritrovata tra i morti viventi. Ma rinunciò quando, con la stessa estate, fu assalita da problemi allo 75 dell’antropologo: “tutti sanno che per riconoscere un posto devi andarci di persona“. Hurston stessa l’aveva fatto momento in cui era partita per il sud. Nessun altro membro del circolo di Boas poteva rivendicare di aver vissuto così profondamente l’esperienza delle popolazioni che stava tentando di comprendere. I loro occhi guardavano Dio era tante cose in una sola: un romanzo di formazione, una riflessione sulla vita interiore delle donne e degli uomini che amava, un’etnografia letteraria della costa del Golfo. Ma era anche una geografia reinventata: il sud era in realtà un Nord, un’estensione dei Caraibi, dove il pregiudizio razziale e la segregazione quotidiana sembravano essere più i resti di un passato coloniale che non le novità introdotte dalle Leggi Jim Crow. Mito e religione, nel suo ritratto della vita del sud, erano potenti come le percussioni voodoo a Haiti. La sottile gradazione dell’appartenenza razziale era, proprio come in Giamaica, strettamente legata a ogni lieve variazione del tono di pelle. Dopo un devastante uragano dal quale Janie e Tea Cake riescono a fuggire, le vittime vengono sepolte in tombe separate: i supervisori bianchi insistono affinché i lavoratori neri separino i morti “buoni” da quelli “cattivi” a seconda del colore della pelle e del tipo di capelli. Hurston mostrava quanto fosse difficile spiegare, e a maggior ragione risalire le radici, di un tale sistema: un mondo in cui perfino i cadaveri avevano una razza. Se si riusciva a credere in una cosa del genere, al confronto gli zombie diventavano una banalità. Non ci sono prove del fatto che Mead avesse letto qualcuno degli scritti letterari di Hurston. L’abisso della razza separava Hurston dagli altri membri del circolo di Boas, perfino in un momento in cui gli stessi studenti di Boas negavano con forza che la razza fosse una ripartizione fondamentale all’interno della società umana. A questo proposito, Mead visse uno dei momenti più imbarazzanti della sua vita nell’estate del 1935, quando presentò una relazione durante una conferenza interrazziale in Pennsylvania. Nel descrivere il lavoro in Nuova Guinea, si riferiva ai bambini del luogo come pickninnies, ovvero negretti. Si accorse immediatamente dell’irritazione che serpeggiava tra gli afroamericani il pubblico. Quasi in lacrime per la gaffe, si scusò subito e continuó a parlare. Ma la lezione che apprese non riguardava la sua mancanza di sensibilità o il suo pregiudizio superficiale - dopotutto il fatto che ci fosse bisogno di una parola specifica per distinguere i bambini neri da quelli bianchi era precisamente la definizione di razzismo -, ma riguarda piuttosto la possibilità di conquistare il pubblico esprimendo il proprio rimosso. Negli anni Trenta Hurston, dopo essere tornata da Haiti, fece ancora qualche spedizione nel sud degli Stati Uniti per raccogliere altri dati sul folklore e appunti sulla carismatica liturgia dei pentecostali. Mead, dopo il ritorno dal Sepik, era abbastanza disorientata. La sua relazione con Benedict era solida e affettuosa, ma nel periodo in cui Mead stata fuori Benedict aveva avuto altre infatuazioni, altre relazioni. Il matrimonio di Mead con fortuna si stava avviando alla conclusione. Nell’estate del 1935 recapitó i documenti del divorzio al consolato messicano a New York, usando per la seconda volta questo sistema per mettere fine a un matrimonio. Continuò la sua corrispondenza con Bateson, ma gestire queste nuove relazioni richiedeva una dose di tattica e un po’ di pianificazione. Si incontravano di nascosto, e solo quando l’appuntamento poteva essere giustificato da un altro impegno. 76 Soprattutto per via del riconoscimento pubblico che stava ricevendo per Sesso e temperamento, Mead stava ben attenta a evitare ogni traccia di scandalo. Naturalmente non aveva parlato a Papà Franz di tutto questo. Solo più avanti, quello stesso anno, si decise a farlo: gli disse che Fortune l’aveva rifiutata, quando la realtà era più o meno il contrario. Lei e Bateson organizzarono una spedizione insieme, stavolta a Bali, dove avrebbero avviato un progetto sulla malattia mentale e la religione locale, insieme ad altre ricerche più ampie su cultura e temperamento. Quando arrivarono a Bali, era già la signora Gregory Bateson. Si erano sposati a Singapore. Mead e Bateson lavoravano bene insieme. Stavano affrontando una nuova serie di questioni a cavallo tra la psicologia e l’antropologia, in particolare i fattori culturali decisivi nella definizione della salute mentale, un tema che per un po’ aveva interessato entrambi. Erano attratti anche dalle credenze e dalle pratiche religiose, soprattutto dal fenomeno degli stati di trance a Bali, e avevano in mente di registrare tutto quello che trovavano. Si erano portati dietro un equipaggio enorme con l’intenzione di documentare il lavoro dall’inizio alla fine usando la pellicola, come aveva fatto Hurston e nel sud degli Stati Uniti. Fu la spedizione più lunga: due anni a Bali e poi, nel 1938, altri sei mesi sul fiume Sepik, dove lei e Bateson lavorarono su un’altra popolazione della Nuova Guinea, gli Iatmul. Non era facile mantenere la concentrazione. Alla radio passavano notizie sui venti di guerra che soffiavano in Europa. L’Australia si era unità al Terzo Reich. In settembre una nave cinese che navigava lentamente lungo il fiume riferì loro che le potenze europee avevano siglato un accordo con cui permettevano la Germania nazista di annettere una parte della Cecoslovacchia. Lei e Bateson si rifugiarono nel loro lavoro di ricerca. Costruirono un rifugio per scrivere riparato dalle zanzariere, dove potevano battere a macchina tutti loro appunti. Gli abitanti del villaggio Iatmul talvolta si riunivano all’esterno del rifugio, osservandoli. Nell’autunno del 1938, proprio mentre Mead e Bateson erano immersi nella loro ricerca sugli Iatmul, Hurston pubblicò il suo lavoro sulla Giamaica e Haiti. Il titolo è il nuovo libro c’è Tell my Horse (Dillo al mio cavallo), una frase usata durante i rituali voodoo quando un individuo è posseduto da un loa. Non fu un grande successo. Negli anni successivi si spostò da un posto all’altro. Tornó per un po’ a New York, poi di nuovo nel sud, raccolse altro materiale, insegnó per un breve periodo in un college, si imbarcò in un matrimonio travagliato che durò sei settimane. Spesi ormai tutti i fondi delle due borse Guggenheim, si scrisse al Federl Writers’ Project, un programma creato nell’era della depressione per aiutare giornalisti e scrittori senza lavoro. Anche il progetto destinato agli scrittori era diviso tra personale regolare, di cui facevano parte solo i bianchi, e unità speciali per i neri. Il progetto che fu assegnato alla sua unità riguardava la compilazione di una guida della Florida accompagnata da un volume dal titolo The Florida Negro. Con una squadra di folkloristi e imponenti apparecchi di registrazione, tornó alle miniere di fosfato e ai campi in cui si estraeva la trementina che aveva conosciuto anni addietro e registro canzoni blues, canti di lavoro e storie, come aveva già fatto con Alan Lomax prima del suo viaggio nei Caraibi. Come Mead e Benedict, anche Hurston si stava attirando una schiera di detrattori, un 77 piccolo gruppo di critici, tutti uomini, che non mancavano di scrivere una recensione fredda o addirittura negativa ogni volta che usciva un suo libro. Richard Wright e Ralph Ellison, giovani autori che seguivano le orme di Hughes trattando il problema della razza nella società americana, consideravano i suoi ritratti degli usi e del folklore del sud nel migliore dei casi come pittoreschi, talvolta perfino imbarazzanti. Il suo vecchio mentor e Alan Locke si unì a questo coro di critiche. Ben presto decise di tagliare ufficialmente i ponti con Locke, proprio come aveva fatto con il Hughes. Quando l’ultimo libro fu pubblicato, Ralph Ellison affermò che non c’era niente in quell’opera che facesse progredire la letteratura negra. Era questo il criterio con il quale veniva di solito giudicata Hurston, almeno dei suoi colleghi scrittori: cos’era riuscita a fare per la letteratura nera, da scrittrice nera? Nel mondo dell’antropologia, almeno, aveva trovato una comunità professionale che la vedeva come una ricercatrice e una collega, non solo come un rappresentante della sua razza. Nella primavera del 1940 si unì a Mead e Jane Belo, un’antropologa che Mead aveva conosciuto a Bali, per una ricerca sul comportamento negli stati di trance nelle chiese del sud. Ben presto partì per le zone costiere del South Carolina e della Georgia. Insieme a Belo registró canzoni e filmó i servizi liturgici delle chiese cosiddette sanctfied, dove il fracasso dei cembali e il tintinnare dei tamburelli si univano in preghiere estatiche. I suoi appunti, che batteva a macchina e inviava a Mead, ricalcavano il tipo di lavoro che aveva svolto nei Caraibi: entrare in una comunità, divenirne parte, sforzarsi di vederla dall’interno. Lei e Belo si erano stabilite a Beaufort, nel South Carolina. I riti erano coinvolgenti, con profezie improvvisate e gente che parlava in altre lingue. Tutti pregavano insieme, innalzando la propria voce in un gran coro cacofonico interrotto soltanto dei canti o da un’esclamazione di lode. Mead non era molto soddisfatta. Chiese a Hurston di essere più sistematica nella raccolta di dati, non solo di descrivere le scene come le vedeva. Anche se Mead in quel momento non riusciva a capirlo, Hurston stava ripetendo, nel suo modo poetico, esattamente quello che aveva imparato da Papà Franz qualche anno prima. Si poteva anche pensare di aver catturato l’essenza di una religione; si poteva anche credere che questo potesse essere perfettamente caratterizzata, che si potesse definire l’essenza, sezionarne i valori fondamentali. Ma tutto questo poteva essere fatto solo in modo imperfetto, afferma Hurston, un po’ alla cieca, non potendo vedere quello che più ti interessa vedere: i riti segreti, gli ospedali psichiatrici dove sono rinchiusi gli zombie, il ritmo dell’invocazione a Dio e la gioia inesprimibile, ecc. nel suo particolare linguaggio, Hurston stava mettendo in pratica l’insegnamento di Boas su come essere degli scienziati ambiziosi e degli esseri umani umili: lasciar perdere la ricerca di leggi universali e aprire gli occhi alle persone che ti stanno di fronte, che cantano e intonano inni. Mentre si trovava nel South Carolina, nel 1940, stava per essere pubblicata una specie di storia ufficiale del Rinascimento di Harlem - il memoir di Langston Hughes, “ Nel mare della vita”. Nel racconto di quest’ultimo, Hurston era una specie di attrice, una festaiola esuberante sfacciata, capricciosa, non un’intellettuale o etnografa, di sicuro non una scienziata. Quella stessa primavera il romanzo di Richard Wright “Paura” avrebbe aperto 80 ariani. Alcuni americani avevano cominciato a usare degli acronimi - come per esempio Miafa, che stava per “My interests are for America“ - per indicare loro sostegno ai valori difesi dal Klan ed altre organizzazioni che si autodefinivano patriottiche. E fino all’inizio degli anni Quaranta era perfino comune, tra i ragazzini in età scolare, cominciare le giornate proprio come facevano i tedeschi, ovvero rivolgendo un saluto a braccio teso alla bandiera. I giuristi e i politici nazisti esaminarono nel dettaglio la “razza-crazia“ che governava l’America, e in quel momento era il più ampio e articolato sistema legislativo legato al riconoscimento delle differenze razziali e alla limitazione razzista dei diritti esercitato da una grande potenza. Lo stesso Adolf Hitler aveva elogiato il sistema americano nel suo Mein Kampf. “Nella maggior parte degli stati del sud dell’Unione i bambini bianchi frequentano per legge scuole diverse da quelle dei bambini neri. La maggior parte degli americani chiede inoltre che l’indicazione delle razze sia espressa nei certificati di nascita, nelle licenze di matrimonio e sui certificati di morte, - riportava un accademico tedesco nella Guida nazionalsocialista per il diritto e la legislazione, pubblicata nel 1934. - Molti stati americani arrivano perfino a imporre per legge la separazione tra bianchi e neri nelle sale d’attesa, nei vagoni dei treni, nei vagoni letto, negli autobus, nei vaporetti e perfino nelle prigioni e nelle celle“. Dal loro punto di vista, tutti gli americani nascevano all’interno di una razza, facevano figli appartenenti a quelle razza e morivano in quella razza. I tedeschi lavoravano diligentemente per capire come avessero fatto gli Stati Uniti a implementare così bene il razzismo. Nel 1935 il governo nazista approvò la propria legislazione razziale: le cosiddette Leggi di Norimberga si appoggiavano su anni di studi dettagliati del modello statunitense, come lo chiamavano i funzionari nazisti. La differenza, naturalmente, stava nel fatto che gli ebrei avessero sostituito gli afroamericani come oggetto della paura. La razza ebraica veniva definita il prodotto di un’essenza biologica ereditaria tramandata di genitore in figlio: c’erano gli ebrei puri, con tre o quattro nonni ebrei; i Mischlinge, o persone miste, con uno o due nonni ebrei; gli ariani puri, senza nessun nonno ebreo. I matrimoni e le relazioni sessuali che avessero ignorato queste restrizioni sarebbero stati dichiarati illegali. L’idea di cittadinanza fu rivista e reinterpretata come privilegio dei Deutschblutiger, ovvero coloro che avevano sangue tedesco e i loro cugini del Nord. Criminali recidivi, malati di mente, disabili e omosessuali furono oggetto di altre leggi che imponevano l’incarcerazione o la sterilizzazione per coloro che non erano considerati idonei, coloro che conducevano, secondo la definizione data dei medici tedeschi, delle Lebensunwertes Leben - vite non degne di essere vissute. Dopotutto, come pare dicesse Rudolf Hess, vice del Fuhrer del Partito nazista, “il nazionalsocialismo non è altro che biologia applicata”. La logica che legava le presunte differenze biologiche al senso di repulsione sembrava agire “in modo automatico una volta che il pregiudizio razziale prende piede“. Negli Stati Uniti l’Ufficio del censimento aveva a lungo impiegato l’equivalente inglese del tedesco Mischlinge: i termini “mulatto“ e “quadroon“ erano etichette per indicare persone dichiarate per metà o per un quarto nere. Negli Stati Uniti questi termini erano apparsi a intermittenza nei vari moduli dei censimenti, ed erano stati abbandonati solo nel conteggio del 1930, 81 quando i funzionari bianchi del governo organizzarono le categorie e ricondussero gli afroamericani a un’etichettata per chiunque avesse quello che comunemente veniva chiamato “sangue negro“. Qualche anno dopo, durante una conferenza a Parigi, Boas vide con i propri occhi cosa implicassero queste idee sia nella loro versione americana sia in quella tedesca. Nel 1937 assistette all’intervento di un rappresentante dell’American Eugenics Society che spiegava agli scienziati e agli esperti di politiche pubbliche i progressi fatti in patria. “Sarà un paese fortunato quello che per primo scoprirà e metterà in pratica le condizioni sociali che favoriscono un’alta proporzione di nascite tra i cittadini migliori“, disse Frederick Osborn, uno dei fondatori della società. L’intervento di Osborn fu seguito da una serie di interventi di studiosi tedeschi che argomentavano a partire dalle stesse posizioni, presentando relazioni su argomenti che andavano dall’identificazione di difetti intrinseci negli embrioni alla predisposizione di alcune razze verso la psicosi. Quando arrivò il turno di Boas, questi concluse la sua esposizione condannando la maggior parte di quello che aveva sentito. “La nostra conoscenza della forma anatomica e delle funzioni del corpo, incluse le attività mentali e sociali, non supporta in alcun modo l’idea che le abitudini di vita e le attività culturali siano in alcun caso determinate dalla razza“. L’idea che qualsiasi cosa, positivo negativa, fosse innata in una specifica razza, “è nel migliore dei casi un’invenzione poetica e pericolosa“. Quello del 1937 fu uno degli ultimi grandi congressi scientifici a cui Boas riuscì a partecipare. Quando scoppiò la guerra, nel settembre del 1939, si era già ritirato ufficialmente da tre anni. Era sempre più magro, col viso sempre più scavato e con ciuffi di capelli che spuntavano qua e là. Per più di un anno, disse Benedict, si era sentito incredibilmente debole, con la tachicardia e il fiato corto. Ma nei suoi scritti e nei suoi interventi pubblici si dimostrava ancora irruento e bellicoso. Le uniche posizioni morali in incontestabili, credeva Boas, erano quelle fondate sui dati. Nei due decenni che avevano seguito la Prima guerra mondiale i ricercatori tedeschi avevano vinto più premi Nobel rispetto a ogni altra nazione; ora invece gli scienziati di quel paese mettevano la teoria davanti all’osservazione. Non c’erano prove a supporto dell’idea che alcuni gruppi di persone fossero per natura inferiori. Ma se una presunta scienza diceva che queste prove esistevano, cosa impediva di segregare, opprimere o perfino distruggere questi gruppi? Il fatto che diverse comunità umane creano diverse categorie mentali - come quelle di morti, vivi e zombie che aveva descritto Hurston - è un’informazione importante, riconosceva Boas. Ma proprio il fatto che creiamo così tante categorie diverse tra loro significa che non dobbiamo considerare quelle create da una determinata società come le uniche utilizzabili. Inserire gli esseri umani in categorie discrete è un meccanismo della nostra mente, non un meccanismo che deriva dalle leggi della natura. E quella catalogazione è pericolosa. Le strutture morali più forti si appoggiavano sulla verità assodata che l’umanità è unica e indivisibile. Boas non vedevo alcuna incompatibilità tra relativismo culturale da una parte e la democrazia e il governo rappresentativo dall’altra. La scienza mirava ad allargare sempre 82 più la cerchia di persone alle quali si poteva attribuire una condotta morale, e la democrazia liberale era il modo migliore per assicurarsi che questa moralità venisse attribuita a tutti, almeno all’interno dei confini del proprio paese. Il passo successivo era capire come estendere questa conquista all’intero pianeta, ma secondo Boas gli Stati Uniti non erano esattamente un modello in questo campo. La prima delle Leggi di Norimberga dichiarava che la svastica era il simbolo della Germania in sé e non solo dello stato tedesco. I popoli kwakiutl e samoani avevano i loro totem, certo, ma nessuno di loro lu aveva connessi alle istituzioni di uno Stato, o ammantati di scientificità, e imprigionato o ucciso coloro che osavano offenderli. A fare tutte queste cose sarebbe stata una delle più importanti civiltà del mondo moderno. Con l’aggravarsi del conflitto in Europa né Boas né nessun altro avrebbero potuto prevedere gli orrori che sarebbero scaturiti dalla furia nazionalista tedesca. Se era così difficile prevedere il futuro, però, era anche perché, in parte, era già presente. I rifugiati tedeschi avevano una parola per definire l’ossessione per la purezza della comunità e la segregazione istituzionalizzata: Rassenwahn - “follia razziale“. Era una parola che secondo Boas si applicava perfettamente a quello che succedeva su entrambe le sponde dell’Atlantico. Mentre Boas ospitava scienziati girovaghi e accademici rifugiati, le vite di Mead e Benedict stavano cambiando radicalmente. Stanley, che per la legge era ancora il marito di Benedict, morì di infarto la fine del 1936. Sapir morì dopo meno di tre anni, all’inizio del 1939, anche lui ucciso da una lunga malattia cardiaca. Mead e Bateson avevano provato ad avere un figlio, ma gli aborti cominciarono a scandire il calendario. Tornata a New York e sistematasi nel suo ufficio all’ultimo piano, scoprì di essere di nuovo incinta. Il dicembre di quell’anno, seguita da un giovane pediatra di nome Benjamin Spock, portò a termine la gravidanza. I neogenitori chiamarono la figlia Mary Catherine. La famiglia e l’avvento della guerra resero impossibile continuare a fare ricerca sul campo come l’aveva sempre fatta. Ma col passare dei mesi Mead, Bateson e Benedict cominciarono a immaginare un modo di continuare il loro lavoro senza trascinarsi nuovamente in località remote e pericolose. Poco prima della guerra, Bateson nel libro “Naven: un rituale di travestimento in Nuova Guinea” aveva raccontato come una popolazione arrivasse a comprendere se stessa, in questo caso gli Iatmul della Nuova Guinea, analizzando uno dei suoi rituali più importanti. Tutta la complessità della società del medio Sepik, spiegava, era semplificata in un carnevale popolare che capovolgeva i ruoli prestabiliti dai ranghi e dai generi sessuali attraverso costumi e danze. Quello che una società produceva e faceva, se letto dal punto di vista antropologico, poteva essere la chiave per capire in che modo gli individuo di quella società pensavano. A quel tempo, molti altri antropologi, sociologi e psicologi erano già al lavoro su quello che si sarebbe poi chiamato l’approccio “cultura e personalità“. Si pensava che psicoanalisi, ricerca sul campo a lungo termine, psicologia sperimentale e test standardizzati potessero essere utili a mappare il modo in cui una particolare società e i suoi abitanti interpretavano la realtà. Si poteva partire dal comportamento individuale per arrivare a conclusioni sui tratti dominanti di una società nel suo complesso, oppure partire 85 con vari giornalisti, ma produceva anche in proprio campagne filmate, radiofoniche e a stampa su qualsiasi argomento, dalla vita nelle azioni nemiche al morale nel fronte interno. Le sue succursali dislocate oltre oceano si concentravano, invece, sul contrastare la disinformazione diffusa da tedeschi, italiani e giapponesi e sul tentativo di potere l’opinione pubblica dalla parte degli Alleati. Il compito segnato a Benedict era quello di mettere insieme studi sulle società straniere usando alcuni degli strumenti che aveva sviluppato come antropologa per caratterizzare posti che non aveva mai visitato e la cui lingua non conosceva. Non appena veniva affidato un nuovo compito a un membro dell’Owu, una squadra di assistenti si metteva subito all’opera per riunire tutte le informazioni esistenti: intervistare persone provenienti da una specifica nazione, parlare con persone che c’erano state di recente, leggere testi letterari tradotti, rintracciare qualsiasi artefatto si potesse trovare. Nel giugno del 1944 i capi di Benedict le commissionarono un’analisi dettagliata sul Giappone. La guerra stava per entrare in una nuova e decisiva fase. Gli Alleati stavano convogliando tutte le loro forze contro la Germania, attaccando da ovest con l’operazione Overlord e da est, in Unione Sovietica, con l’operazione Bagration. Nel Pacifico i bombardieri a lunga distanza americani attaccarono per la prima volta in due anni il territorio giapponese. Gruppi di portaerei alleate stavano avanzando nel Pacifico dalla Nuova Guinea a Guam. Benedict accumulò tutte le informazioni che riuscì a trovare, mentre altri colleghi raccoglievano appunti sulla storia giapponese. Il compito era molto più complicato di qualsiasi cosa Benedict avesse fatto fino a quel momento, e lo era soprattutto per il muro impenetrabile di pregiudizi che il suo paese aveva nei confronti del Giappone e dei giapponesi. La percezione diffusa all’interno del governo statunitense, dal ministero per la Guerra fino allo stesso Owi, era che il conflitto nel Pacifico fosse essenzialmente diverso da quello nel teatro europeo. Quella tedesca era una società normale, civilizzata, che era stata travolta da un’ideologia malvagia e da un dittatore barbaro. I cittadini tedeschi medi erano, a loro modo, delle vittime, persone per bene che erano state ingannate o soggiogate da un’élite politica ossessionata dall’espansione e dalla conquista. La guerra contro i giapponesi, invece, non era altro che una lotta per la dominazione razziale. Se la guerra in Europa era una questione di terra, quella nel Pacifico era una questione di sangue. Film americani, poster, romanzi e riviste ritraevano i giapponesi come asiatici subdoli e infidi. Poco dopo l’attacco di Pearl Harbor, la rivista “Life” pubblicò una guida dal titolo “Come distinguere i giapponesi dei cinesi”. Una serie di fotografie illustrava nel dettaglio gli elementi fisici che permettevano di distinguere un sabotatore di Tokyo da un uomo d’affari di Pechino: altezza, forma del naso, contorno degli occhi, tono della pelle. L’ammiraglio William Halsey jr, uno dei comandanti delle flotte più grandi del Pacifico, si riferiva regolarmente ai nemici apostrofandoli “scimmie” o “bastardi gialli”. “I giapponesi sono il prodotto dell’accoppiamento tra una scimmia femmina e i peggiori criminali cinesi banditi dalla Cina”, spiegó una volta. Per Benedict e gli altri scienziati sociali dell’Owi queste posizioni non solo erano 86 clamorosamente sbagliate, ma anche controproducenti. Qualsiasi dichiarazione razzista rilasciata da un funzionario americano veniva pubblicizzata dei media giapponesi in modo da diffondere ulteriormente la paura nei confronti del nemico americano e spronare cittadina combattere per la vittoria. Gli analisti dell’Owi cominciarono a guardare avanti, verso la fine della guerra, a quello che si sarebbe potuto fare nel caso di un massiccio sbarco alleato in Giappone o di un’occupazione lungo termine delle isole. L’antropologia richiedeva molte delle capacità necessarie per il comando militare: organizzazione impeccabile, audacia, abilità di andare oltre quello che era visibile a occhio nudo. Si deve essere capaci di guardare a tutte le difformità del campo di battaglia e poi riprodurle su un piano astratto. Le tre dimensioni si schiacciavano su due, i simboli sostituivano i nomi propri. Un complicato sistema di parentela poteva essere rappresentato da un grafico: triangoli per gli uomini, cerchi per le donne, il segno uguale per indicare i figli di una coppia. Un’intera cultura, in teoria, poteva essere schematizzata come una serie di inclinazioni, ossessioni e propensioni che ne costituivano il nucleo essenziale. Era tutto un tentativo di riassumere in pochi tratti ciò che rendeva il comportamento umano diverso da un luogo all’altro. Benedict l’aveva già fatto, e questa tecnica aveva dato come risultato alcune delle intuizioni chiave nel suo libro “Modelli di cultura”. Ma all’Owi si trovava fuori dal suo ambiente naturale. Era circondata da esperti di cultura giapponese di orientamento conservatore, che conoscevano la lingua e che, prima della guerra, avevano pubblicato lavori importanti sul paese. Benedict, però, aveva a sua disposizione un’arma segreta: una persona che sarebbe diventata il partner fondamentale nell’aiutarla comprendere il nemico. Due anni prima, nel 1942, centinaia di famiglie erano scese da autobus sovraffollati a una fermata nella zona nord-est di Los Angeles. Avevano tirato giù pacchi di vestiti e utensili da cucina, stringendosi al petto buste contenenti documenti di mutui e certificati delle banche. Molti dei passeggeri riconobbero subito il posto in cui si trovavano, anche senza aver fatto caso al cartello che indicava Santa Anita. Qui, ora, migliaia di famiglie di giapponesi americani venivano accompagnati oltre una recinzione di filo spinato, attraverso cordoni di soldati armati che le seguivano dalle torri di guardia, verso le stalle dei cavalli che erano state equipaggiate con delle brande. Il 19 febbraio il presidente Roosevelt aveva prolungato l’ordine esecutivo 9066, dando il potere all’esercito di designare le zone del paese dalle quali chiunque poteva essere deportato per ragioni di sicurezza nazionale. Il mese successivo i comandanti militari ordinarono un’evacuazione obbligatoria dei cittadini giapponesi e dei cittadini di origine giapponese. La destinazione, per queste persone, era una serie di campi costruiti per l’occasione situati più a est. Il tenente generale John L. Dewitt, a capo delle deportazioni, sosteneva che la razza giapponese fosse una razza nemica, e anche se molti giapponesi di seconda o terza generazione nati sul suolo americano, in possesso di cittadinanza statunitense, si erano ‘americanizzati’, la loro appartenenza razziale non si era annacquata”. Un nuovo organo governativo, la War Relocation Authority, fu creato per sovraintendere a una rete di strutture di prigionia delle famiglie trasferite. L’Ufficio del censimento fornì al 87 Wra gli indirizzi delle persone che, sui formulari usati per distinguersi, si erano dichiarati i giapponesi. Alla fine di ottobre i numeri ufficiali parlavano di 117.116 persone trasferite in centri di assembramento temporaneo o in una delle dieci strutture stabili ricavate tra i campi e la macchia in alcune zone della California. La Wra, diretta esclusivamente da bianchi, aveva ben chiaro come bisognava parlare del sistema. “Le aree di lavoro devono essere indicate come ‘centri di trasferimento’ o ‘strutture di trasferimento’, non come ‘centri di internamento’ o ‘campi di concentramento’. Perfino l’uso della parola ‘campo’ deve essere evitato perché implica l’idea di internamento e sorveglianza militare stretta”. Robert Seido Hashima aveva poco più di vent’anni quando arrivó a Santa Anita. Era nato a Hawthorne ma nel 1932 suoi genitori erano tornati nel villaggio di origine nella zona sud della prefettura giapponese di Hiroshima. Hashima si era diplomato e aveva cominciato a lavorare in un’accademia per la formazione degli insegnanti. All’inizio del 1940 era tornato in California per iscriversi al college, lavorando part-time come bracciante e come addetto alla reception in un hotel. L’ordine esecutivo del presidente Roosevelt lo aveva reso passibile di evacuazione obbligatoria. Gli fu assegnato un numero, fu visitato da un ufficiale medico, gli furono confiscati rasoi e qualsiasi altri oggetti di possibile contrabbando e gli fu assegnato un letto. Visto che l’esito della guerra era incerto, non esisteva un piano a lungo termine se non quello di tenere prigioniere le persone come lui per un tempo indefinito. Alla fine del maggio 1942, fu trasferito da Santa Anita a Poston, un campo stabile nell’ovest dell’Arizona. Quel novembre uno sciopero indetto per protestare contro il trattamento disumano degli internati portò il campo a una paralisi, i prigionieri si rifiutavano di lavorare e si riunivano in folti gruppi davanti alle prigioni del campo. La situazione a Poston fu risolta pacificamente, ma l’aumento delle tensioni fece capire ai funzionari quanto poco sapevano delle persone che avrebbero dovuto vigilare. Alla fine dell’anno, allo staff di ognuna delle dieci strutture fu aggiunto un analista comunitario, che avrebbe dovuto fornire un aiuto strategico per prevenire le rivolte e assicurare che fabbriche, scuole e centri ricreativi funzionassero senza problemi. Poston divenne ben presto il pezzo forte del programma di scienze sociali applicate dalla Wra. Aleksander Leighton, psichiatra e ufficiale della Naval Reserv, riunì un gruppo di giovani antropologi e sociologi non giapponesi. Il loro compito era quello di dare indicazioni per la corretta amministrazione di una struttura che diventava sempre più grande, e nella quale nessuno degli abitanti voleva stare. Leighton reclutò alcuni internati per fare dei sondaggi, prendere appunti sul campo e dare dei consigli su ogni aspetto della vita nel campo, dalle norme culturali al cibo della mensa. Nella gerarchia razziale del sistema-campo, gli issei si trovavano in fondo: erano immigrati di prima generazione e quindi, per via della restrittiva legge sull’immigrazione del 1924, non potevano avere la cittadinanza. I nisei erano cittadini americani di origine giapponese, i cui figli erano sansei, nippo-americani di terza generazione. Hashima, invece, era un Kibei, cittadino americano per nascita e istruito in Giappone, il rango più alto. Nel caos del 1942, quell’etichetta poteva davvero fare la differenza. 90 questi perpetuamente in lotta con gli altri. Per Benedict, queste idee stavano proprio al cuore della più importante istituzione politica giapponese: l’imperatore. L’annuncio della fine della guerra fatto in prima persona dall’imperatore fu un evento storico senza precedenti. Fu un momento cruciale, ma non perché l’imperatore fosse simbolo vivente dell’identità giapponese, ma piuttosto perché l’imperatore occupava il posto più alto di una gerarchia reale che coinvolgeva tutta la società. Rappresentava il fulcro di quell’equilibrio e di quella virtù che si trovavano ovunque, delle relazioni interne a un nucleo familiare fino al modo in cui cittadini giapponesi spiegavano a loro stessi le proprie tradizioni nazionali. Su questo punto Benedict non stava dicendo niente di nuovo. Tutti gli esperti di cultura giapponese dell’Owi conoscevano la riverenza con cui era trattato l’imperatore. Lei stessa aveva affermato la medesima cosa anni prima in alcuni appunti dedicati proprio al posto occupato dall’imperatore nella società giapponese. Le forze di occupazione statunitensi, guidato dal generale Douglas MacArthur, avevano già fatto un gigantesco passo avanti permettendo all’imperatore di rimanere al suo posto invece di obbligarlo ad abdicare. Quella decisione fu probabilmente una mossa pensata dallo stesso MacArthur, che considerava l’imperatore una figura non particolarmente importante in una società che, in ogni caso, sarebbe stata presto trasformata dall’esempio della democrazia americana. Quella che offrì Benedict, invece, fu un’argomentazione che spiegava perché avesse perfettamente senso che gli Stati Uniti, un paese che era stato brutalmente attaccato da una potenza straniera, avrebbe dovuto poi, una volta vinto il conflitto, rispondere con una politica misurata, rispettosa dei costumi locali delle ambizioni moderate. “Il crisantemo e la spada” fu, in questo senso, un manuale per un pubblico specificamente americano. Fu una specie di antidoto: un modo per combattere l’idea che i giapponesi fossero per natura degli esseri tra l’imperscrutabile e il terribile. Benedict ammise già nella prima pagina il debito che il libro aveva nei confronti del tradimento dell’America verso i suoi cittadini giapponesi. “Durante gli anni della guerra tutti i giapponesi, uomini e donne, che erano nati o avevano studiato in Giappone e che si trovavano vivere negli Stati Uniti dovettero affrontare grandi difficoltà a causa della sfiducia che molti americani nutrivano nei loro confronti“. Era particolarmente contenta, disse, di scrivere un libro che prendeva sul serio quello che i giapponesi avevano da dire su loro stessi. In circa trecento pagine aveva applicato la tecnica, appresa da Boas, di trasformare l’alterità in differenza. Negli anni che seguirono, “Il crisantemo e la spada“ fu a buon diritto il saggio di antropologia più letto che fosse mai stato scritto. Nel 1948 apparve una traduzione giapponese che vendette milioni di copie. Gli accademici giapponesi dissentivano con alcune tesi di Benedict, e affermarono che certe descrizioni e generalizzazioni erano troppo vaghe. Ma in un momento in cui la società giapponese stava attraversando una profonda riflessione sulla propria storia e i propri valori, il libro era un dono salvifico: il racconto di un’americana, rappresentante di una società distante, che stava provando a imparare qualcosa di vero su un antico avversario. Nascosto tra i suoi ringraziamenti, c’era un paradosso di fondo. Quel libro che è stato così 91 determinante nell’ottenere un migliore trattamento nei confronti di un paese avversario, aveva un grosso debito proprio nei confronti di quelle persone che gli stessi americani avevano rinchiuso perché rappresentanti di una razza nemica. Naturalmente sarebbe stato ancora meglio se Benedict avesse visitato il Giappone e avesse confermato le sue scoperte di persona. Ci aveva provato: subito dopo la guerra sperò di potersi unire alle forze di occupazione del generale MacArthur, lavorando al fianco delle persone del posto e degli occupanti alla trasformazione della società e del governo giapponese. La sua richiesta fu rifiutata da molto in alto. La ragione era semplice: i suoi capi americani non avrebbero approvato il trasferimento di una donna che aveva superato i quarantacinque anni. Capitolo quattordicesimo A casa La Seconda guerra mondiale era stata una sfida globale tra nazioni, economia e sistemi politici, ma la scomoda verità era che si era trattato anche di uno scontro tra teorie gemelle. Come aveva insegnato Boas ai suoi studenti, le visioni del mondo incarnate dal nazionalismo giapponese, dalla follia razziale nazista e dall’eugenetica americana avevano la stessa origine. Erano tutte le prodotto di un’invenzione moderna: la convinzione che noi fossimo il risultato più matura dello sviluppo sociale umano. Nessuno dei nemici degli Stati Uniti si considerava in conflitto con i valori americani. Neppure Adolf Hitler affermava di essere contro la libertà, la giustizia o la prosperità. Credevano piuttosto di aver ottenuto una versione migliore e più progredita di ciò che avevano tentato di fare gli americani. La vera libertà comportava la sottomissione delle razze inferiori. La vera giustizia comportava di dare agli individui e ai paesi più degni il ruolo che spettava loro di diritto sul palcoscenico del mondo. Il vero progresso portava comportava purificare e separare, mandare avanti i più capaci e i più sviluppati e spazzare via i primitivi e i retrogradi. Hurston, nel frattempo, aveva cambiato spesso alloggio, trasferendosi da una casa galleggiante - tipica di Daytona Beach, in Florida - a un’altra, tenendo di tanto in tanto qualche conferenza per i soldati di colore in licenza, attività che faceva parte di un programma supervisionato dalla moglie del governatore. Da quel punto di osservazione la guerra sembrava molto diversa da quella che avevano combattuto Mead e Benedict. Per Hurston l’evento cruciale sul fronte interno era stato il massacro di Detroit del 1943, ovvero l’uccisione di più di trenta civili, per la maggior parte neri, da parte della polizia e dei soldati federali. Il fatto non aveva avuto grande risonanza nel circolo di Boas. Per Mead, la riduzione dello sforzo bellico fu l’occasione per tornare definitivamente a New York e riprendere il lavoro scientifico. Ben presto si abituò ad avere con Benedict quel tipo di relazione che le aveva sempre promesso: solita e incrollabile. Durante la guerra Bateson era stato via per lunghi periodi e il peso della distanza, oltre a quello delle scappatelle romantiche di lui, costarono cari al loro matrimonio. L’anno dopo la fine della guerra, lui se ne andò di casa; nel 1950 erano già divorziati. Ralph Linton, direttore del Dipartimento, aveva lasciato la Columbia nel 1946 per un posto da professore a Yale. Dopo la sua partenza, Benedict fu finalmente promossa al ruolo di 92 professore ordinario. L’American Anthropological Association la elesse presidente. Cominciarono ad arrivare molti assegni di ricerca per finanziare il tipo di studio che lei aveva delineato nel suo libro sul Giappone. La invitavano a tenere conferenze, lezioni, si imbarcò perfino in un impegnativo viaggio che la portò in Francia, Olanda, Belgio e Cecoslovacchia, poco prima che il paese scomparisse dietro la cortina di ferro. Poté osservare da vicino un sistema sociale molto peculiare, in evoluzione, un sistema che si dichiarava favorevole ai principi di libertà ed uguaglianza ma che si stava avviando rapidamente verso una particolare forma di dispotismo. Benedict era al culmine della sua fama: un’autrice letta ovunque, una relatrice molto richiesta, una figura di riferimento tra i suoi colleghi universitari e una delle scienziate sociali più conosciuta dal grande pubblico dell’intero paese. Quando Benedict fece ritorno negli Stati Uniti dal suo tour europeo, nell’estate del 1948, era pallida e stanca. Qualche giorno dopo ebbe un infarto e fu portata di corsa in ospedale, dove Mead rimase notte e giorno al suo fianco. Morì il 17 settembre, il giorno del compleanno di suo padre, l’uomo la cui prematura morte, come aveva sostenuto lei stessa, aveva determinato la sua vita intera. Nonostante il terribile dolore, Mead si rigettò a capofitto nella vita quotidiana e provò ad andare avanti. Si preparò ad affrontare le incombenze organizzative ed emotive che man mano si presentavano: confortare la famiglia, dolersi per la perdita con gli amici, avvisare quante più persone potesse della morte dell’amica. Mead mandò anche un telegramma a Deloria per avvisarla della cerimonia funebre. Deloria, alla quale sarebbe stato impossibile pagare il viaggio dal South Dakota, rispose che si sentiva in dovere di rimanere dov’era e continuare il lavoro che aveva intrapreso dopo la pubblicazione del suo libro di grammatica Dakota: aiutare a tenere in piedi la scuola della riserva di Standing Rock, la stessa che una volta era gestita dal padre. Quando alla fine Mead si mise a lavorare su quello che lei considerava il suo elogio funebre - un calderone in cui si mischiavano gli scritti accademici di Benedict, diari e poesie che Mead intitolò “An Anthropologist at Work”, ne mando una copia anche a Deloria. Se anche Mead provò a informare Hurston del funerale di Benedict, non rimangono tracce del suo tentativo. Alla fine degli anni Quaranta Hurston aveva perso i contatti con la maggior parte delle persone del suo passato, sia alla Columbia che a Harlem. Negli anni aveva pensato di tornare a fare ricerca sul campo. L’anno della morte di Benedict fu restata con la falsa accusa di aver molestato tre ragazzi del vicinato. Alla fine fu scagionata, ma non le fu facile rimettersi in piedi. Cade di nuovo in depressione e pensò di suicidarsi. Sarebbero passati decenni prima che una prova dell’effettivo allontanamento di Hurston dalla vita pubblica arrivasse per caso alla scrivania di Mead, e lo fece traverso una fonte inaspettata: un articolo sulla rivista “Ms.“ Nel 1975 la giovane poetessa e scrittrice Alice Walker raccontò i suoi tentativi di ricostruire il lungo percorso che aveva allontanato Hurston dei riflettori. L’articolo esaminava i primi lavori di Hurston e richiamava l’attenzione dei lettori sul vecchio mondo dei rent parties di Harlem, quando la cultura nera era in gran voga. Dall’articolo di Walker Mead apprese che Hurston aveva continuato a scrivere racconti, 95 spalle alla tradizione e abbracciare l’idea avventata che non ci fosse niente di speciale nell’esperimento democratico americano. L’istruzione moderna, argomentava Bloom, aveva come obiettivo nascosto quello di “creare una comunità mondiale e di preparare i suoi membri - le persone libere da pregiudizi“. La relatività della morale, della storia e della realtà sociale erano diventate la nuova ortodossia, che sacrificava la capacità dei giovani di cercare in modo indipendente ciò che costituiva una vita giusta, autentica e significativa. Se fossero stati ancora vivi, Mead, Benedict e Boas sarebbero rimasti sorpresi dall’apprendere che le loro idee avevano trionfato. Avevano combattuto per tutta la loro vita, abituati a dover ripetere continuamente gli stessi concetti filosofici. Si erano dovuti misurare per tutta la vita con ciò che ora viene considerato un male moralmente inaccettabile: il razzismo scientifico, la sottomissione delle donne, il fascismo genocida e il trattamento degli omosessuali come persone consapevolmente deviate. “Siamo stati i primi a insistere su un sacco di cose, - scrisse il rispettato teorico e ricercatore Clifford Geertz, membro di quella generazione di antropologi che arrivarono dopo Boas e Benedict e che aiutarono a considerare il relativismo culturale come la filosofia fondamentale della disciplina. - Siamo stati i primi a insistere sul fatto che vediamo le vite degli altri attraverso le lenti del nostro stesso tran tran quotidiano, e gli altri fanno altrettanto con le nostre”. Non c’è da sorprendersi se queste idee hanno fatto pensare a molte persone che il mondo stesse per finire. Praticamente ogni membro del circolo di Boas fu regolarmente accusato di ingenuità, mancanza di civiltà o di patriottismo, e immoralità. Boas era un vecchio brontolone che negava la grandezza dell’America. Mead era una sgualdrina che insisteva nell’affermare che il sesso non era necessariamente una questione privata, sconvolgente e vagamente sbagliata. Benedict era una bisbetica. Deloria e Hurston erano un’indiana e una nera, non c’era bisogno di aggiungere altro. Ma lo scopo di tutti loro era proprio quello di turbare. Guardare oltre se stessi non poteva essere facile, ma la ricompensa era diventare persone migliori, con uno sguardo più intelligente sul mondo, sull’umanità, su tutti modi possibili di vivere una vita significativa e florida. Nessuno al giorno d’oggi fa antropologia come la facevano Mead o Benedict. Chi lavorava sul campo arrivava alla a fine mettere in discussione l’intero concetto di cultura come una cosa ben distinta che può essere descritta e analizzata. Il lavoro sulle comunità umane prosegue. La genetica sta dimostrando quello che possiamo e non possiamo dire sulle popolazioni umane. L’epifenetica sta mostrando l’impatto delle condizioni ambientali su diverse generazioni e a livello di singoli geni. Siamo tutti prodotti da una particolare stirpe. Anche se ci riferiamo normalmente ai nostri avi con etichette come scozzesi, italiani o coreani - ma non, per esempio, come babilonesi, sciiti o axumiti - queste etichette sono solo un prodotto della nostra storia, non del nostro codice genetico. Il modo in cui definiamo l’intelligenza è il risultato di un processo sociale, non di un processo biologico. Quando parliamo di cose come ruoli di genere, comportamento sessuale appropriato o mente anormale parliamo di concetti creati da un gruppo di esseri umani che interagiscono ripetutamente gli uni con gli altri - ovvero di una società - e non delle nostre viscere. Il fatto che ancora oggi siamo tentati di radicare i nostri pregiudizi in qualcosa di 96 presumibilmente più profondo della nostra immaginazione collettiva è la migliore prova di quanto rimangono importanti le idee del ciclo di Boas. Distinguere il bene dal male è un problema da filosofi, eppure si fonda su un dato di fatto: la nostra precedente idea di ciò che è ovvio o è dato per scontato, contro ciò che consideriamo ridicolo o assurdo. L’ampliamento del senso della moralità dipende dall’ampliamento del dominio del pensabile. E spesso per fare ciò è necessario, come lo era stato per Boas e i suoi studenti, armarsi di coraggio e recarsi in posti nei quali siamo certi di trovare qualcuno essenzialmente diverso da noi. Il relativismo culturale era una teoria sulla società umana, ma anche un manuale d’istruzioni per la vita. Era pensato per riaccendere la nostra sensibilità morale. Ovunque, in ogni società, può esistere un codice morale universale, insegnava Boas, ma nessuna società ha il controllo totale su ciò che questo codice può comprendere. Una data cultura di solito si pavoneggia credendo che i suoi percorsi alimentari, le sue strutture familiari, la sua religione, la sua estetica e il suo sistema politico siano i soli veramente logici. Ma se c’è un progresso morale, esso sta nella nostra abilità di interrompere questa abitudine e di sviluppare un’idea di umanità sempre più ampia. “Non c’è un’evoluzione delle idee morali“, scrisse Boas nel 1928. L’unica cosa che cambia sono le persone che crediamo debbano essere trattate come essere umani a pieno titolo, utili e degni. È questa la scoperta scientifica e la posizione etica che Boas e i suoi studenti volevano condividere con il resto del mondo. Concentrarsi meno sulle regole del comportamento corretto e di più sul circolo umano al quale queste regole devono applicarsi. Lavorare sodo per prendere le distanze da quelle idee che nutrono il nostro senso di superiorità. Capire quale comportamento la nostra società considera il migliore e poi applicarlo anche a chi difficilmente immagineremmo come beneficiario della nostra buona volontà. Con il vantaggio del senno di poi è facile vedere la scienza della razza, l’eugenetica, il colonialismo e gli eccessi del nazionalismo per le folle idee che erano. La cosa più difficile è riconoscere a se stessi gli errori che Boas e i suoi studenti stavano cercando di correggere. I pregiudizi più duraturi sono quelli più comodi, quelli più nascosti e vicini; vedere il mondo per come è richiede distanza, una visione dall’alto. Riuscire a vedere inlimiti della propria cultura, anche se questa si vuole globale e nega proprio il suo essere cultura; sentire il potere della preghiera pur rifiutando il Dio di qualcun altro; capire la logica profonda sottesa a preferenze politiche che ci sembrano sconcertanti; percepire la preoccupazione e la depressione, l’inquietudine e la rabbia causata in altre persone dalla visione del mondo che a te sembra perfettamente naturale: queste sono abilità che si costruiscono nel corso di una vita intera. La promessa è che, con uno sforzo sufficiente, possiamo arrivare a conoscere l’umanità in tutta la sua complessità, nel suo procedere a balzi, con pochi e fiocchi barlumi di un mondo diverso che appaiono dalla nebbia dell’abitudine, e che ci cambiano, ci destabilizzano, in qualche modo ci distruggono: è lo sconvolgente e terribile senso di libertà che sentiamo quando finalmente vediamo crollare le spiacevoli verità su noi stessi.
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