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La Romana di Alberto Moravia. Caratteristiche del romanzo., Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Analisi sintetica dei contenuti, dei personaggi e della struttura del romanzo.

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018
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Scarica La Romana di Alberto Moravia. Caratteristiche del romanzo. e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! LA ROMANA – ALBERTO MORAVIA Moravia, la vitalità della Romana – Vittorio Spinazzola. “La romana”, anno 1947, nasce per scuotere un pubblico largo con un quadro traumatico dei costumi di vita nell’Italia fascista, o almeno fascistizzata. Per accentuarne l’impatto, la rappresentazione è ambientata fra le classi subalterne, e il punto di osservazione è quello scandalosamente basso di una prostituta. Per la prima volta Moravia adotta la forma del racconto autobiografico, affidando ad Adriana il compito di rievocare la qualità delle relazioni fra i sessi sullo sfondo di un grande centro urbano, anche perché le esperienze che hanno determinato il degrado della sua femminilità l’hanno messa in contatto con persone di tutti i ceti sociali. Perciò, è maturata in lei una visione dell’universo sociale scetticamente desolata ma non rassegnata, sorretta da un’energia vitale invincibile, pura della purezza intrinseca alla naturalità dell’eros. Durante la scrittura del romanzo, Moravia creò anche “La Ciociara”, dedicato a sua volta alle peripezie di una popolana romana, Cesira, bottegaia e madre di famiglia, in Ciociaria durante la guerra. Ma questo libro fu terminato e pubblicato solo una decina di anni dopo, anche se appare molto vicino al resocontismo cronachistico e al pathos solidaristico del neorealismo postbellico, in chiave di apertura alle speranze di una civiltà migliore. Per lo scrittore era più urgente l’evocazione cupa e inquietante di un mondo di violenze, inganni e frustrazioni, governato dalla dittatura per 20 anni, senza contrapporgli una visione etico-politica. Il concepimento della Romana aveva un’intenzione provocatoria: seduzione forte e morbosa di Adriana, un’eroina per niente eroica, una brava ragazza che, quasi per compenso alla povertà, ha avuto il dono della bellezza ma non ha saputo farne buon uso. L’universo in cui è nata è il regno del disordine sotto le parvenze di un ordina biecamente costruito, dove non c’è spazio per rapporti autentici. Si è lasciata andare, per indolenza, per un lassismo ancestrale, che però non le fa perdere l’innocenza nativa di un istinto edonistico. Il suo carattere la porta a piegarsi senza però cedere allo smarrimento vittimistico: sopravvive al destino di morte dei suoi amanti e sublima il suo vitalismo biopsichico nella maternità, accettando il figlio che nascerà da un delinquente pluriomicida ammazzato dalla polizia. Un personaggio così complesso e ambiguo non aveva precedenti nella narrativa italiana: si rifa a un modello straniero di altri tempi, la Moll Flanders di Defoe (eroina vera dell’intraprendenza, unica carta vincente nel mondo dell’individualismo borghese: costruzione autonoma della fortuna senza scrupoli o rimorsi), ma Adriana non ha un’indole combattiva, anzi, è incline a una banale paciosità conformistica. È la vita a contraddire i suoi modesti sogni e le sue esperienze ci rivelano le leggi comportamentali cui i suoi simili si uniformano. Gli episodi tendono al melodrammatismo appendicistico: sciagure che colpiscono la virtù. Ma a distanziarsene è il trapasso dalla dimensione sociologica alla psicologica. Per raccontare se stessa, Adriana analizza lucidamente le personalità riscontrabili negli altri personaggi: tutti si rivelano moralmente devastati e distorti. Contemporaneamente, affonda lo sguardo dentro di sé, con la stessa pacatezza introspettiva, constatando che il suo buon senso e il suo attaccamento alla normalità mediocre è sempre stato schiacciato dall’istinto del piacere. Il desiderio erotico l’ha spinta sempre nella direzione sbagliata, come un pulsione masochista, da cui però Adriana trae godimento, nonostante le umiliazioni cui viene sottoposta: esercita la prostituzione come una professionista contenta del suo lavoro, che la gratifica sessualmente ed economicamente e le appare del tutto naturale. Questo lavoro non le da nessuna prospettiva di un futuro migliore, ma Adriana vive solo nell’oggi e per l’oggi. Si tratta di un romanzo di formazione, ambientato in un mondo in cui il principio di realtà coincide con un criterio di economicità mercificata, sulla base del tornaconto personale. La salvezza interiore di Adriana sta nel non deificare il denaro, pur nella consapevolezza della necessità di procurarselo: la sua bellezza è il mezzo più comodo allo scopo. Proprio questa mancanza di avidità lucrativa consente la presenza dentro di lei di una vocazione molto femminile all’oblatività (generosità assoluta senza compensi) disinteressata e protettiva: dopo tante peripezie, l’amore per Mino, nevroticamente fragile, mei ricambiato. Il sentimento materno si compirà pienamente nell’avere un figlio da un omicida morto, considerata da Adriana come una conseguenza giusta del fatto che Sonzogno sia stato l’unico a possederla e a farle provare il vero piacere. La strategia fondamentale dell’impianto romanzesco è impostata sulla differenziazione radicale dell’io narrante rispetto all’io narrato, per chiarire le situazioni e gli stati d’animo arrovellati. Colei che narra la propria autobiografia giovanile è una donna matura e disincantata, tanto quanto la se stessa che descrive era ingenua e inesperta. Il rimando dal tempo dell’oggettività fattuale al tempo della rammemorazione resocontistica è la legge di sviluppo del racconto. Adriana ha il compito di presentare dall’interno la realtà che ha sofferto e di assumersi la responsabilità dei suoi errori, e lo fa con un’intelligenza autocritica superiore alle sue risorse mentali. Il lettore non conosce la situazione attuale, ma deduce che in lei è avvenuto un profondo rivolgimento: Moravia riconosce la capacità dei figli del popolo di uscire da un torpore ancestrale per rendersi consapevoli degli inganni e autoinganni di cui è tramata la propria sorte. La prova del percorso ascensionale di Adriana sono le sue capacità elocutive: analisi serrate e limpide e doti di scrittura che risultano incongrue rispetto al suo basso ceto sociale (critiche all’autore). Il linguaggio di Adriana vuole dimostrare la sua crescita culturale: è il modo di esprimersi dell’io narrante, non dell’io narrato. Si tratta di un linguaggio esperienziale: dalle sue vicissitudini emotive Adriana ha sviluppato la riflessività necessaria per infondere al resoconto una sorta di pathos della pacatezza. Racconta come sono andate le cose e come le ha vissute spiegando il significato di verità che è in grado di trarne alla luce di una sapienza etico-conoscitiva alla portata di chiunque sia disposto a ragionare. Proprio perché il possesso di un italiano corretto è per lei un’acquisizione importante, evita ogni concessione al colorismo dialettale: pochissimi termini romaneschi, come “burina, cosa per niente scontata in epoca neorealista. Usa anche pochi volgarismi, quelli più comuni e pertinenti al suo mestiere, come “troia”, “puttane da marciapiede”, “baldracche”, limitati per lo più a dialoghi o soliloqui. Vi si contrappone una certa quantità di vocaboli o costrutti letterariamente sostenuti, come “animo vedovato”, “madore appiccicoso”, “tardandomi di essere accarezzata”. Spicca la ricorsività frequente di alcune parole chiave, soprattutto quelle dell’area dell’eros, ma anche dell’economicità, come “povertà” e “denaro”. Si nota una ricchezza lessicale straordinaria indotta allo scrupolo di chiarezza e precisione denominativa: disposizioni binarie o ternarie di sostantivi o aggettivi a integrazione e correzione reciproca, come “ero infaticabile, sottomessa, paziente; e al tempo stesso serena, lieta e tranquilla” o “durante la gita mi aveva parlato con toni bassi, caldi, strangolati; ma la sua voce, mentre parlava alla signora della veletta, aveva un timbro chiaro, freddo, misurato”. Ad accentuare questa smania di esattezza puntigliosa, troviamo le espressioni attenuative o dubitative, che circoscrivono o relativizzano la portata di un’affermazione troppo perentoria, come “a modo suo, la mamma mi voleva molto bene” o “mi parve di intravedere, ma forse mi sbagliai, quasi un barlume di gratitudine”. Lo sforzo di mettere a fuoco l’essenza di un dato percettivo può anche portare ad accostamenti verbali contraddittori, con un effetto di sintesi ossimorica, come “grido lacerante, tra l’orrore e il piacere” o “la mia voce restò, gridando senza voce, nel mio petto”. A volte, la convivenza di sentimenti opposti è sottolineata esplicitamente, come “parrà strano che, dopo la straordinaria commozione che aveva destato in me la preghiera alla Madonna, io mi distraessi al punto da incuriosirmi del mio confessore; ma io ritengo che non ci fosse contraddizione tra questa curiosità e quella commozione. Partivano ambedue dal fondo del mio animo in cui devozione e civetteria, afflizione e sensualità erano inestricabilmente mescolate”, in cui ammette la particolarità della situazione per poi affermarne l’autenticità incontestabile. Altre volte, si rivolge al d’animo che si potrebbe definire maternamente comprensiva e che la porta a penetrare nei cuori umani, oltre la soglia di consapevolezza dei loro possessori. Questo è il profitto che ha saputo più lucidamente trarre dalle vicende del suo processo di autoformazione. A differenza degli altri, Adriana è un personaggio non statico ma evolutivo: scrive di sé per far notare il suo cambiamento dalla adolescenza alla maturità, grazie all’esperienza, che ne ha influenzato la direzione di sviluppo. Rimane saldo il fulcro dell’io, cioè il rapporto di Adriana con il suo corpo e con la propria femminilità: una sorta di narcisismo nativo che sorregge la sua disponibilità espansiva verso gli altri, per offrire e ricevere amore nella comunione carnale. Questa è la sua ricchezza, la bellezza che la rende più fortunata di ogni altra donna. Il desiderio esuberante di godere serenamente la propria sessualità ha in lei l’autorità di assolutezza premorale. Il primo incontro di Adriana con la realtà dell’amore è la scoperta che la normalità del vivere è intessuta di vizi. L’ideale di felicità piccoloborghese era solo un sogno da ragazzina credula, il suo concetto di pulizia dei sentimenti intrinseci al rapporto sessuale va in frantumi. La crisi è totale e irreversibile, nella caduta delle illusioni, a sussistere è solo la percezione della pena di stare al mondo. Dopo questa seconda tappa dell’itinerario biopsichico di Adriana scatta la sua riscossa, in nome di quello stesso principio di realtà di cui ha preso atto. L’unica via di salvezza, o almeno sopravvivenza, consiste nell’accettazione consapevole della propria condizione. Solo così diventa possibile “gustare pienamente il sapore della vita, fatto di blanda noia, disponibilità e speranza”. L’elogio dell’acconsentimento ai dettami dell’esistenza ha un risvolto positivo doppiamente gratificante: sottintende una fedeltà imperturbabile al principio del piacere, nella naturalità premorale del desiderio erotico. La voglia di vivere dell’io si sublima corporeamente nel fare l’amore. Inoltre, questa fonte di gioia può fungerle anche da mezzo di sussistenza. Certo, il prezzo consiste nel monetizzare il proprio corpo, ma questa degradazione ha a sua volta un’implicazione positiva: significa sottrarsi ai tradimenti, alle sopraffazioni dei maschi, imponendo loro le proprie condizioni professionistiche e strumentalizzando il loro erotismo. Siamo al nodo centrale del sistema immoralistico messo a punto dalla protagonista con consequenziarietà spudorata, ma ecco una nuova crisi, con l’apparizione di Sonzogno, che incarna la potenza fascinatrice dell’aggressività virile. Con lui Adriana sperimenta l’indissolubilità del nesso tra piacere e dolore, violenza fatta e subita: l’orgasmo più inebriante e spaventato, il soddisfacimento dell’io profondo. Adriana, da brava ragazza, non vuole arrendersi a una seduzione così oscura, che minaccia di travolgere le sue difese dai drammi della vita. Il panico in cui precipita appare senza soluzioni, e negli ultimi capitoli la vediamo disarmata di fronte al triplice lutto: Sonzogno uccide Astarita e viene ucciso dai poliziotti, Mino si suicida per la vergogna di aver tradito i suoi compagni di cospirazione antifascista con Astarita. È il fallimento della maschilità, che apre una via di salvazione tutta al femminile: la gravidanza. Adriana resta incinta di colui che le ha fatto provare il maggior godimento, poco importa che si tratti di un criminale. La vitalità trionfa nel corpo di lei, la debolezza della donna si ribalta, diventa la sua forza. La fine del libro rappresenta l’eterogeneità dei fini cui sottostanno le vicende umane, in cui bene e male sono indistinguibili. Inoltre, il bambino non avrà preoccupazioni materiali, perché la famiglia di Mino provvederà per lui, dato che Adriana aveva attribuito la paternità a lui, a fin di bene, per distrarlo dai propositi suicidi. Così il principio dell’economicità, sempre tenuto in conto da Adriana pur senza rendersene schiava, ottiene un risarcimento postumo: non programmato, non moralmente impeccabile, ma comunque non immeritato. Come si è detto, il romanzo offre uno spaccato vero e proprio della società italiana negli ultimi anni ’30. Solo la classe superiore non è portata in scena, ma è presente “in absentia” con la descrizione della villa lussuosa in cui abitano i padroni dell’autista Gino. Gli altri strati sociali veniamo a conoscerli come ce ne dà immagine Adriana. La sua antipatia è avvertibile nei confronti della piccola e media borghesia, quella che incarna la condizione di vita cui aspirava da ragazza, ma che Mino le aveva raffigurato come piena di perbenismo e meschinità ottusa. Così è il primo cliente, Giacinti, l’affittacamere di Mino e così sono anche i fidanzati di Gisella. Si fa un discorso a parte quando si passa dalla borghesia urbana a quella di provincia, con Astarita (servitore autorevole ed efficiente della polizia politica) e Mino (schiavo di un’ossessione erotica monomaniacale). L’immagine di Mino è antitetica: ribelle alla classe d’origine e al sistema ideologico-politico in cui essa è integrata, ma incapace di incanalare le proprie energie in una direzione scelta autonomamente e perseguita senza esitazioni. La mancanza di carattere equivale a una caratterizzazione univoca: la raffigurazione del personaggio appare impostata in base a una reiterazione comportamentale più monocorde che nel caso di Astarita. Mino vale a emblematizzare il degrado di un ceto intellettuale che non saprà mai farsi classe dirigente, perché incapace di assumersene le responsabilità, e che si inibisce il godimento edonistico dei suoi privilegi di status, giacché il principio ordinatore della virilità non regge il confronto con l’altro sesso: il maschio borghese versa in una condizione di orfanità smarrita da cui nemmeno la femminilità materna può sollevarlo. In contrasto con queste due figure borghesi, troviamo due popolani, Gino e Sonzogno. Moravia rimarca la mancanza di ogni sentimento solidaristico tra i membri delle classi subalterne, siano di condizione servile o di antisocialità malavitosa. Nessuna vicinanza provano per i loro compagni di sorte, anzi, proprio su di loro riversano la maggior spietatezza, appena ne abbiano l’occasione. La differenza è nei modi, o nei mezzi: Gino è bravo solo ad approfittare delle ingenuità o difficoltà altrui, come la domestica accusata ingiustamente del furto; Sonzogno invece è animato da un risentimento più profondo nei confronti della gente da cui pensa o intuisce di non essere accettato senza riserve. Questi sono gli uomini che influenzano maggiormente il destino di Adriana: tutti le hanno fatto del male, sia quelli di cui lei è innamorata, sia quelli che hanno forzato la sua volontà. Eppure, alla fine, Gino si è lasciato coinvolgere dai suoi stessi imbrogli e l’ha amata davvero, Mino è addolorato della propria incapacità di ricambiare come vorrebbe il suo affetto, Astarita per lei farebbe qualunque cosa e la possessività micidiale di Sonzogno esprime un disperato bisogno di affetto, che Adriana, anche contro la sua volontà, non ha potuto fare a meno di sentire con il suo corpo. Queste figure maschili rappresentano i vari lati dell’inadempienza virile, di fronte alla quale si rivela la superiorità di Adriana, che concede a tutti l’attenuante suprema: non sapevano quel che facevano. Resta però evidente l’impossibilità di Adriana, plasmabile e arrendevole, di trovare un sostituto paterno a sorreggerla nella sua vita. L’antimaschilismo del libro non cancella le accuse rivolte alla femminilità: ci sono due modelli di comportamento femminile che agiscono su Adriana, Gisella e la madre. La falsa amica appare un concentrato di cattive qualità, ma incarna un modello vincente: spinge Adriana a diventare prostituta come lei, per invidia della sua bellezza. Nello stesso tempo però le proprie azioni immorali la imbarazzano e la spingono ad adoperarsi per il bene di Adriana. A lei la sorte è favorevole, tanto da farla diventare una mantenuta abbastanza di lusso in questa figura si può scorgere quella di madre vicaria, che subentra al ruolo disastroso svolto dalla madre naturale. La madre vuole sinceramente il bene della figlia: trovarle uno spasimante ricco, come la sua bellezza merita. È una vedova inasprita dalla povertà, in cui si era ritrovata a vivere per aver sposato un uomo povero. Ecco spiegata l’antipatia per Gino, un autista nullatenente, di cui fin da subito intuisce le vere intenzioni nei confronti di Adriana. La ragazza però volge al peggio la lezione materna, sfruttando la sua bellezza dandosi alla prostituzione, situazione che la madre non disprezza più di tanto, poiché le assicura vantaggi analoghi a quelli di un buon matrimonio. Moravia ritrae le incongruenze del carattere della madre, sempre sbagliato, prima autoritario e iracondo, poi remissivo e torpido, misto di diffidenza e sprovvedutezza, astuzia e avidità. Adriana non cessa di proclamarle affetto, pur registrando la durezza del suo trattamento. “Aveva un corpo lungo, magro e bianco, anche i corpi hanno un’espressione come i visi, e il suo aveva un’espressione casta e giovanile”: descrizione fisica di Mino. Esalta la tensione visiva della narratrice nel ritrarre tutti i personaggi, al loro primo apparire. La stessa accuratezza e sensibilità la ritroviamo nella descrizione degli spazi, che commisura a se stessa, secondo se vi si trovi a proprio agio o meno. I luoghi principali del romanzo sono lo stanzone squallido e la buia cucina in cui Adriana vive con la madre e, soprattutto, la camera da letto, che si trasforma da camera matrimoniale a sede del meretricio. Quella stanza è il suo nido, adeguato ad accogliere la sua esuberanza sessuale. Il suo ideale abitativo era quello di una piccola borghese massaia, una casa piccola ma pulita e ordinata, ma non si è mai trasferita. Ciò non significa che sia indifferente nell’osservazione di case accoglienti e lussuose, anzi. Si scatena in lei un istinto di rivalsa, in forma di profanazione attraverso il sesso, come avviene nella villa dei padroni di Gino, in cui non cede al senso di soggezione iniziale. Descrive allo stesso modo anche la pensione dove abita Mino, che la impressiona per l’atmosfera chiusa e spenta. Anche qui, il risentimento d’orgoglio si esprime attraverso il sesso, per terra nel salotto. Quando passa dagli ambienti abitativi agli esterni paesistici, Adriana esclude la contemplazione delle bellezze architettoniche di Roma, come se le sembrassero riservate al godimento delle classi superiori. Si potrebbe sostenere che non esista una Roma “della Romana”, se si pensa all’assenza quasi completa di vedute cittadine toponomasticamente determinate. Adriana si muove su vie, piazze e quartieri anonimi. Eppure, si tratta di un romanzo urbano: la città costituisce lo sfondo necessario per le vicende della protagonista, che si sente insediata profondamente nella città dove è nata e vive. Troviamo una dichiarazione di godimento sensuale provata nel passeggio serale per il centro città, in cui l’attrazione per lo spettacolo gratuitamente offerto non cancella la consapevolezza dell’inaccessibilità dei beni. Ma i poveri si sentono accomunati ai più fortunati dalla condizione cittadina grazie alle chiese, aperti a tutti e ricchi per tutti. Questo trasporto affettivo è collegato a una motivazione pratica: le vie sono anche i luoghi dove la prostituta esercita il suo mestiere, mescolandosi alla folla e attirando l’attenzione degli uomini che poi porta nella sua camera. C’è un’interdipendenza stretta tra la casa, luogo di riposo e assieme di lavoro, e gli spazi aperti percorsi da una folla solitaria cui offrire l’appagamento mercenario della pulsione sessuale. Adriana è sempre sola e sempre in compagnia, o in cerca di compagnia. È di tutti e di nessuno. La sua situazione rispecchia la struttura istituzionale della città, di cui non c’è chi possa dirsene padrone. Ma naturalmente ogni illusione di autonomia è contrappesata dagli effetti di condizionamento più alienanti. Il tempo di svolgimento del romanzo appare come un flusso interminato, povero di riferimenti alla cronologia esterna: la memoria che lo ripercorre è orientata sulla continuità discontinua dell’esperienza individuale. C’è però una data significativa che fissa l’epoca storica: “la radio di un caffè faceva sentire la voce appassionata e clamorosa di una donna che cantava. Era l’anno della guerra in Etiopia e la donna cantava Faccetta Nera”, siamo quindi nel 1935-36, il periodo di maggior successo del fascismo. Il tempo interno del racconto è quello di un ristagno di energie morali e civili, tra gli obblighi gravosi di un conformismo autoritario e lo sfrenamento anarchico delle pulsioni egocentriche. Adriana non fa alcun cenno al mutamento intervenuto nella civiltà italiana rispetto all’epoca dell’azione narrativa, eppure il libro è stato scritto nel clima di fine della guerra e caduta del fascismo. In questo modo, le esperienze narrate sono immerse in un passato che non è separato nettamente dal presente. L’unica differenza sta nello stato di autocoscienza dell’io narrante rispetto all’io narrato: un’evoluzione così assoluta da dare l’impressione che a parlare sia una Adriana di età molto avanzata, provata e stancata dai casi della vita, anche se sul piano della verosimiglianza non può essere così. È come se le disavventure drammatiche avessero avuto conseguenze immediate e irreversibili dentro di lei. Perciò, c’è un senso di lontananza ma anche di prossimità fra il tempo storico-culturale, e che questo abbia stimolato l’autore ad imprimere una temporanea svolta nella sua narrativa. Infatti, Moravia teorizza una netta distinzione tra personaggi intellettuali e non, borghesi e proletari. Con questo romanzo, il personaggio borghese è abbandonato, a favore del “mito nazionalpopolare” tipico della narrativa neorealista. Nonostante ciò, le istanze esistenzialistiche non vengono meno: il problema dell’esistenza come dispiegarsi della coscienza in contrasto con la realtà esterna. La riproduzione della realtà sociale del dopoguerra è minata dal “realismo esistenzialistico”, complesso e inquieto, tipico di Moravia: i personaggi, in primis Adriana, risentono del dissidio tra esistere e vivere, o tra essere e dover essere. 1) PROSTITUZIONE E FORMAZIONE. L’opinione diffusa della critica ritiene che si tratti di un romanzo sulla prostituzione. È vero che è un referto autobiografico, ma, fin dall’incipit, la voce narrante non si configura come quella di una prostituta, bensì come di una donna. È dichiarato l’intento dell’autore, infatti, di raccontare una vita, a partire dall’adolescenza della protagonista, quindi la situazione narrativa è quella tipica del romanzo di formazione. Affinché un romanzo possa essere “di formazione”, infatti, il primo elemento necessario è la giovane età dell’eroe, proprio come i 16 anni di Adriana. La protagonista ha quindi la tipica età dell’eroina in formazione e procede negli anni in parallelo al dispiegarsi del racconto (dialogo con Mino, dice di avere quasi 22 anni). Quanto alla storia, si tratta della storia di una crescita. Si deve considerare Adriana una fanciulla a cui capita l’incidente esistenziale, di diventare prostituta. In questo caso, la prostituzione è uno dei possibili strumenti della formazione del soggetto. Inoltre, la capacità di autoanalisi della protagonista consente il libero dispiegarsi della “famosa psicologia”, che Moravia ritiene necessario complemento dei farri nell’invenzione romanzesca. Secondo Cornieri, l’accuratezza formale del discorso della protagonista sottrae verosimiglianza documentaria ma è funzionale all’analisi dei moti interiori e della realtà circostante. Quindi, è soprattutto l’interiorità di Adriana a manifestarsi attraverso la narrazione e a modificarsi incessantemente a contatto con la realtà, con l’umanità e con i “casi” della vita. Un altro elemento che avvicina “La romana” al romanzo di formazione è l’assenza di una prefazione, rivelando la volontà dell’autore di trattenersi da qualsiasi giudizio morale, lasciare spazio alla voce narrante in qualità di organizzatrice del materiale narrativo e di non condizionare il lettore, chiamato a valutare autonomamente la storia dell’essere umano e non quella della prostituta. Al contrario, Moll Flanders esplicita l’immoralità della propria vita, dicendo di dover usare uno pseudonimo perché il suo vero nome è conosciuto dal carcere di Newgate e dal tribunale dell’Old Bailey di Londra. In Moravia troviamo solo una descrizione fisiognomica della protagonista adolescente, che, poi, verrà ad essere caratterizzata anche socialmente e professionalmente. 2) ADRIANA OVVERO LA NATURA. Adriana è il primo risultato della svolta populista di Moravia, che ne fa il simbolo di una condizione sociale non compromessa con il disordine borghese, un personaggio opposto rispetto al giovane intellettuale borghese. Si ha quindi un ribaltamento di prospettiva e una regressione dell’autore nella protagonista narratrice, che vigila tutti i personaggi, anche borghesi. Adriana rappresenta la completa estraneità al flusso della storia moderna dominata dalla borghesia, la natura in contrapposizione alla storia. Moravia ripristina e potenzia il carattere ancestrale, primigenio della donna: la ragazza possiede infatti i tratti fisici di una dea madre. Adriana si autorappresenta come simbolo di una femminilità che non appartiene al presente (Tessari) e che lo sovrasta dall’alto di una storia tanto antica da renderla quasi esponente di una realtà sovratemporale. Una sovratemporalità che si manifesta in primo luogo nelle caratteristiche fisiche “démodé”. Sempre per quanto riguarda l’incipit, l’età in cui si colloca l’avvio del racconto in analessi è nettamente superiore a quella tipica del filone autobiografico inglese e lievemente inferiore a quella degli eroi del realismo francese: Moravia conferma le scelte attuate nei romanzi di formazione maschili in terza persona, garantendo la continuità del filone narrativo femminile con quello maschile (16 anni). Se ha un corpo da divinità pagana, Adriana ha anche un animo immacolato, da angelo cristiano, pieno di fiducia nella bontà delle persone e disposto al più benevolo perdono. In quest’animo privo di invidia, gelosia e rancore e pieno di dolcezza e gratitudine, si può vedere una tabula rasa, che conserverà fino alla fine del romanzo la sua nativa purezza. È proprio questa la grandezza del personaggio. 3) IL SOGNO BORGHESE DI UNA POPOLANA L’eroe del romanzo di formazione dell’800, piccolo o medio borghese, aspirava ad entrare a far parte degli alti ranghi dell’aristocrazia, dando origine alla dialettica borghesia-aristocrazia. Inoltre, proprio l’appartenenza alla classe borghese garantisce tradizionalmente all’eroe il dinamismo necessario per l’ascesa sociale, che non è prerogativa dei giovani proletari, generalmente privi di stimoli alla mobilità. Adriana costituisce un’eccezione alla tradizionale regola della mobilità sociale, figlia di un defunto ferroviere e di una umile camiciaia, appartiene al sottoproletariato romano. La madre intende sfruttare al meglio le potenzialità economiche della bellezza della figlia introducendola nel mondo dello spettacolo. Inoltre, Adriana acquisisce precocemente una coscienza di classe tale da accendere in lei un’ambizione sociale modesta, aspirando ad una vita da piccolo borghese, fin da bambina (il Luna Park è il simbolo di una felicità tutta materiale, da cui l’allora bambina si sentiva esclusa), spingendola a compiere il suo tentativo di movimento sociale. La felicità a cui aspirerà la popolana all’età di 18 anni non coinciderà tuttavia con il “bel mondo”, come il bozzetto infantile potrebbe lasciar supporre, ma sarà una felicità sommessa, domestica, semplice, piccolo borghese. Questa modesta aspirazione non è però esente da modificazioni e sviluppi, cui corrispondono i 3 successivi ruoli sociali rivestiti dalla protagonista: modella, promessa sposa, prostituta. La “manipulation of expectation”, che nel romanzo di formazione femminile tradizionale informava il finale, qui si verifica fin dai primi capitoli tramite la sovrapposizione delle aspettative materne a quelle filiali. La figura della madre è molto importante in relazione allo sviluppo dell’intreccio e dell’eroina. Ella compare infatti accanto alla figlia fin dalle prime battute e funge, più che da personaggio impulsivo, da vero e proprio personaggio coercitivo, in quanto non accende la reazione, ma ottiene l’adeguamento dell’eroina alla propria volontà. Di conseguenza, proprio le variazioni che si verificano nel rapporto tra volontà materna e volontà filiale definiscono le 3 fasi dell’ambizione di Adriana e i suoi successivi ruoli sociali. Se nella prima fase predominano le frivole aspettative della madre, che, dopo il fallimento dei provini di ballo, introduce la figlia alla professione di modella, nella seconda la modesta aspirazione di Adriana ad una sistemazione coniugale si pone in contrasto con i progetti materni. Si delinea quindi la sostanziale differenza delle aspettative familiari del romanzo rispetto a quelle della famiglia dell’800: mentre, tradizionalmente, il matrimonio è per le eroine e per gli eroi sinonimo di rinuncia, esso è per Adriana sinonimo di desiderio e illusione. Gino, autista di una famiglia benestante, di principi apparentemente sani, rappresenta, fin dal primo incontro, l’occasione per tradurre questo sogno borghese in realtà. Egli, elogiando le ricchezze dei suoi padroni e introducendo la ragazza nella loro villa, fa da tramite tra la popolana e l’universo dell’alta borghesia, ma il suo comportamento, unito alla visione della villa, provoca in Adriana un immediato e profondo turbamento. Il fascino della ricchezza fa nascere in lei il nuovo desiderio di condurre una vita da signora, quindi l’aspirazione passa dalla media all’alta borghesia. Quanto più elevata diventa l’ambizione tanto maggiori sono le conseguenza che essa determina. L’invidia e il sentimento della propria miseria straziano l’animo di Adriana durante la visita alla villa e la convincono che per dimenticare la sua condizione e sentirsi libera sia necessario diventare l’amante di Gino. La componente sociale è talmente centrale e determinante nel romanzo che persino l’iniziazione sessuale, momento cruciale nella vita di ogni eroe, viene ad essere soggetta ad essa. L’atto del concedersi sullo sfondo della villa lussuosa, in cui si fondono amore e ambizione, è l’emblema della duplicità delle tensioni psichiche di Adriana in prossimità della terza fase del suo percorso sociale. In lei coesistono due tipi di aspirazione: quella modesta al matrimonio e quella più ambiziosa ad una vita davvero agiata. Indotta dalle teorie e dal pragmatismo della madre e di Gisella, Adriana identifica sempre di più la ricchezza alla prostituzione e solo l’amore per Gino, fin quando non sarà deluso, riuscirà a trattenerla dall’avvio della professione. Viceversa, il mito medio- borghese del matrimonio continuerà ad affascinarla anche quando sarà ormai a tutti gli effetti una prostituta. Dopo la separazione da Gino, sposato e padre di famiglia, e dopo il cedimento ad Astarita, la prospettiva di non lavorare genera in Adriana l’illusione di un riscatto per sé e per tutto il proletariato. L’incontro con Mino si rivelerà fondamentale per la dinamica del romanzo, Adriana si innamorerà di lui pur non essendo ricambiata. Mino rappresenta la borghesia insoddisfatta di sé, ma funge anche da nuovo e più concreto canale di comunicazione tra la protagonista e l’alta borghesia, tramite la conoscenza non di luoghi ma di persone, come la vedova Medolaghi. La formazione di Adriana è quindi interpretabile in termini sociali, ma anche il passaggio dall’adolescenza all’età adulta sarà possibile proprio grazie al fallimento dei ripetuti tentativi di ascesa sociale e solo quando l’avidità dell’ambizione si tradurrà in sviluppo interiore. - L’abitazione come correlativo oggettivo e cronotopo della dialettica proletariato-borghesia. Il rispecchiamento della dialettica di classe (borghesia e proletariato) non si verifica in termini di “lingua dei rapporti spaziali”, ma di correlativi oggettivi e cronotopi. Ciascuna delle 3 abitazioni a cui è assegnato valore di segno riassume visivamente un diverso sentire sociale della protagonista (rifiuto della condizione proletaria, aspirazione alla media e poi all’alta borghesia) e materializza una precisa fase dello sviluppo della sua personalità e della sua coscienza (elemento spaziale che fissa un elemento temporale). Insieme alla madre, Adriana vive in un appartamento vecchio e povero che è il correlativo oggettivo del disagio sociale che lei avverte da sempre e che vorrebbe superare e il cronotopo della sua condizione d’origine dalla quale, ai fini della sua formazione, dovrebbe allontanarsi. Il desiderio di normalità borghese ha come corrispettivo spazio-simbolico il villino di un quartiere vicino ma meno povero, di impiegati e piccoli commercianti, il cui cronotopo ha una funzione generatrice di mobilità sociale. L’ampliamento di prospettiva di Adriana trova la sua espressione iconica nella villa dei signori nel quartiere di lusso della città, in cui vivono i milionari, la cui vista trasforma le sue aspirazioni da modeste ad ambiziose e rende anche più amara e insostenibile la percezione della propria miseria. - La stanza di Adriana, correlativo bifronte dei sogni di felicità e delle illusioni perdute. Vagheggiando il proprio matrimonio con Gino e pensando di realizzare il suo sogno medio- borghese, Adriana rimette a nuovo una stanza della casa materna, acquistando con grande sacrificio i mobili. La nuova stanza era per lei avvolta da un’aura sacra, oggetto di contemplazione quasi religiosa perché custodisce tutte le speranze di felicità e normalità coniugale e simil-borghese. La stanza è un villino in miniatura e un triste modellino della villa dei signori, un luogo in cui mettere in scena il gioco del lusso (ordine e pulizia). Nella sua soddisfazione, si avverte però un certo senso di ambiguità e ancora più sinistro e premonitore è l’atteggiamento della madre, che le consegna i risparmi di una vita ma è convinta che il matrimonio non si farà. La connotazione positiva, quasi sacra, della stanza sarà cancellata dalla rivelazione della doppia vita di Gino e dal fatto di essere stata arredata con i soldi provenienti dal cedimento ad Astarita, ma essa sopravvive al tempo stesso come simbolo delle illusioni perdute (fasicità semantica del medesimo correlativo-cronotopo). Sul piano dei contenuti, la proprietà conserva un’accezione negativa, così come il denaro, un pericolo ed il mezzo supremo di corruzione dell’adolescente. In questo senso, proprietà e denaro non possono coesistere con alcun valore positivo, quale ad esempio l’amore. Il correlativo oggettivo della camera acquisisce poi un’altra sfumatura: diverrà il luogo dove Adriana riceverà i clienti, per Mentre Mino tenta di contrastare con la lotta politica la propria classe di appartenenza, Adriana continua fino alla fine ad aspirare a quella classe sociale, senza alcun fine politico-ideologico. Proprio la persistenza di tale tensione verso la borghesia le conferisce quella mobilità che ne fa un personaggio in formazione, rendendola non del tutto aliena alla storia. Questa considerazione ci porterebbe a mettere in discussione la contrapposizione di Adriana e Mino come Natura e Storia, ma resta possibile tener conto di queste due categorie su un piano diverso da quello sociologico. Per quanto riguarda la conformazione fisica, i due appaiono speculari. Riemerge la natura terrestre e animale della donna moraviana, contrapposta al corpo di Mino, in cui ritroviamo tutte le caratteristiche dell’eroe maschio di Moravia: biancore, magrezza, esilità come segnali esteriori della coscienza morale. Tra le regole compositive del romanzo di formazione moraviano, la caratterizzazione fisiognomica non è secondaria. La dicotomia tra natura e storia, poi, si riflette su quella di accettazione-non accettazione. Adriana “continua”, quindi come la natura non ha storia, e Mino “finisce”, cioè si conclude in una storia tutta umana e astratta. “Continuare” vuol dire vivere ma anche formarsi, “finire” vuol dire morire ma anche non formarsi. Solo in questo senso Adriana, emblema della naturale femminilità, ha la meglio sulla storia: nel romanzo l’etica storica è giudicata e condannata dalla natura. Ciò conferma che laddove Moravia sceglie come protagonista un personaggio popolare, la figura dell’intellettuale borghese subisce un inevitabile slittamento di ruolo e diviene personaggio impulsivo, che ha il compito di mettere positivamente in crisi la solida sanità proletaria del personaggio con cui interagisce, contribuendo alla formazione della sua coscienza morale. Questa è infatti la funzione di Mino, che si mostra indifferente all’amore di Adriana ma la induce a riflettere sulla propria condizione e sulla perduta dignità, risvegliandone l’amor proprio. Per salvaguardare il loro rapporto, infatti, Adriana è tentata di lasciare il suo mestiere, in contrasto con un amore vero. In tutta la catastrofe da tragedia che conclude il romanzo, la sola morte eticamente e narrativamente significativa è quella di Mino, che proprio nella morte prolunga e intensifica la sua azione dinamizzante. - La nuova identità di Adriana. La scoperta della duplicità di Gino determina la svolta psicologica della protagonista dallo stato di adolescenziale illusione a quello di più matura disillusione, a cui corrisponde l’implicito rifiuto del modello teologico-formativo femminile, la dolorosa autenticità del caso come regola dell’esistere. Così come l’addio vero e proprio a Gino non si consuma, perché Adriana lascia che la sua vecchia vita muoia lentamente nella nuova, il battesimo morale della delusione affettiva è solo uno degli elementi che concorrono alla trasformazione dell’identità di Adriana. La delinquenza che Adriana percorre ha come tappa fondamentale il furto del portacipria durante la seconda visita alla villa dei padroni di Gino (seguito poi dal furto del fazzoletto in un negozio). Allo sfogo della ragazza, Gino obietta che “non diventa puttana e ladra se chi non vuole”, Adriana avrebbe potuto imboccare altre strade per riparare alla sofferenza. Quindi il lettore non deve cadere a sua volta nell’equivoco della inevitabile realizzazione di un destino che in realtà non esiste. Ad avere l’ultima parola è il narratore, e quindi il personaggio di Adriana, che dalla formulazione di un’ipotesi di destino passa alla constatazione della fattività dell’esistenza. E le constatazioni della voce narrante adulta attesteranno proprio la reversibilità della scelta giovanile di divenire prostituta e ladra e saranno quindi sufficienti a smentire l’ipotesi di un aprioristico destino. Pur nella sostanziale mancanza di soluzione di continuità, è possibile intravedere una precisa cesura tra adolescenza e prostituzione nella simbolica lunga notte di sonno, dopo la quale Adriana si sveglia con la sensazione di essere cambiata. Lo strumento dell’accertamento del cambiamento è invece uno specchio, in qualità di topos specifico della formazione. L’atto dello specchiarsi determina l’acquisizione della consapevolezza della propria fisicità, anche se Adriana della fisicità scopre sostanzialmente il potenziale economico. 5) ANIMA COMPLETA, MENTE INCOMPLETA. Nei romanzi di formazione dell’800 gli eroi erano studenti o comunque individui istruiti, lo stesso Moravia classifica i suoi personaggi come intellettuali e non intellettuali. Il personaggio moraviano per eccellenza è l’intellettuale borghese, mentre Adriana appartiene invece alla categoria dei non intellettuali. Se esiste una ovvia corrispondenza tra condizione popolare e mancanza di istruzione, in Moravia è tutt’altro che ovvia la coincidenza tra mancanza di istruzione e femminilità. È quasi una regola però l’abbinamento di una protagonista non intellettuale con un personaggio intellettuale, che svolge una funzione impulsiva, cioè Mino, che vuole istruire Adriana e si rivela insofferente di fronte alle sue difficoltà cognitive. La sua formazione non può che avvenire su un piano diverso da quello culturale, ovvero su quello morale. Secondo Moravia, infatti è possibile a tutti avere una coscienza morale limpida e sveglia, Adriana è pienamente popolana sul piano intellettuale, quindi è un’anima completa e una mente incompleta. L’atteggiamento tipico dell’intellettuale borghese è la rivolta, nozione che Moravia usa in accezione esistenzialistica, come tensione volta a colmare il dissidio tra esistenza e vita, tra essere e dover essere. Al contrario, l’assenza della componente intellettuale determina nel personaggio l’assenza di rivolta, elemento non vitale per Adriana. Il suo tentativo di ascesa sociale appare esplicito solo all’inizio e alla fine del romanzo, mentre nella parte centrale ci rivela uno spontaneo atteggiamento di accettazione del reale. Per quanto riguarda il rapporto tra l’io e il mondo, chiave di volta del romanzo di formazione, “La romana” rappresenta un unicum. La protagonista non cresce infatti attraverso il rifiuto della realtà, ma proprio attraverso l’accettazione di quanto la realtà ha da offrirle. 6) L’ACCETTAZIONE E IL SENSO RELIGIOSO. Contrapponendola all’accettazione, Mino chiarisce ad Adriana la nozione di rivolta esistenziale, che nel romanzo si distingue dalla rivoluzione politica, in cui il giovane ha fallito. In questo si differenziano profondamente i due amanti, ed è proprio questo diverso atteggiamento esistenziale che impedisce loro una reale comunicazione. Se quella di Mino è la rivolta di un vinto, e consiste nel suicidio, quella di Adriana e la sopravvivenza di una vincente. Per questo Adriana è un personaggio adatto a formarsi. L’atteggiamento di accettazione della protagonista ha a che fare non già col destino, ma con la vita. Se nel romanzo di formazione femminile classico la rinuncia, la rassegnazione o la manipolazione delle aspettative giungevano a conclusione della vicenda, nella Romana l’accettazione compare precocemente. E la permanenza del dissidio tra essere e dover essere in Mino espone maggiormente l’eroe al rischio dell’immobilità che non l’annullamento di tale dissidio. Anzi, l’accettazione è, secondo Adriana, un’inesauribile fonte di forza e quindi di mobilità. Una forza che non solo le permette di amare tutti gli uomini con cui si incontra, ma anche di non portare rancore nei confronti della madre che l’ha spinta sulla strada della prostituzione e di accettare con gioia persino il figlio di un uomo che l’ha messa in pericolo di morte. L’accettazione fa inoltre in modo che la sua formazione si configuri come un continuum e non come un succedersi di traumatiche scoperte o di ribellioni. Infatti, la sua nuova vita ha inizio ancora prima della scoperta dell’inganno di Gino, così come la fine della reazione con Gino ha i connotati di una progressiva presa di distanza. Moravia ci dice che la morale del libro è proprio l’eroismo dell’accettazione. Secondo Vittorini, però, la prostituzione coincide con la mancanza di libertà e di attività morale, e secondo Sanguineti e Longobardi l’accettazione è una forma di sereno abbandono alla corruzione. Nel romanzo la prostituzione è semplicemente una scelta, sbagliata ma reversibile, che non annulla la libertà e la mobilità della protagonista. L’ipotesi di una passiva e comoda accettazione della corruzione non spiegherebbe, infatti, come mai alla fine del romanzo Adriana usi di nuovo tutti gli strumenti in suo possesso, menzogna compresa, per cogliere la definitiva occasione al cambiamento che le si offre, cioè far credere a Mino di aspettare un figlio da lui. Il distacco dalla pratica religiosa apre il fondamentale problema della formazione in un mondo abbandonato dagli dei, in cui il singolo è lasciato solo nell’agone della vita. Come apprendiamo da una lunga analessi, da bambina la protagonista appare ingenuamente devota alla Madonna, vista come un’amorevole seconda madre, borghese e ben vestita. La trasfigurazione economica dell’immagine della Vergine è compiuta spontaneamente dall’eroina e non dagli adulti, però Adriana in seguito si rivelerà autenticamente religiosa, capace di cogliere del messaggio cristiano l’aspetto più rivoluzionario, quel perdono che ella non esiterà a concedere ad Astarita. La disillusione e l’immoralità concorrono a problematizzare il rapporto col divino e a piegarlo, almeno sul piano esteriore, nella direzione dell’utilitarismo. Quanto al finale voto di castità, ci sembra che riveli il recupero di una religiosità autentica, ma che al tempo stesso si faccia spia della sostanziale sfiducia nutrita da Moravia nei confronti della religione, che, al contrario della prostituzione, non può essere strumento di edificazione dell’individuo. La Madonna di Moravia, alla cui immagine Adriana si è rivolta e prostrata, disperata, pare guardare con dolcezza e bontà la ragazza, ma sembra anche non accettarne la preghiera. La Vergine condanna, troppo umanamente, Adriana per la sua dissolutezza e le nega ogni aiuto. La sua immagine tornerà nel finale, come controfigura di Adriana che si appresta a diventare madre. 7) LA MADRE, LA FIGLIA, IL DENARO. La madre, unica figura genitoriale, influenza profondamente il processo di crescita della ragazza. La relazione madre-figlia è la più stabile di tutto il sistema dei personaggi, presente dall’inizio alla fine del romanzo. La madre di Adriana è una donna delusa dalla vita, che vede nella figlia una seconda occasione per se stessa. Sul rapporto madre-figlia esercita una forte mediazione il denaro. L’ambiguità dell’atteggiamento materno è visibile fin dalla scena dell’acquisto dei mobili: il rapporto con il denaro non è privato e non è un mezzo di contrapposizione ai genitori, qui esso è condiviso con la madre. La madre non esita a dare alla figlia i soldi per farsi prostituta, non vuole per Adriana una sistemazione borghese, ma una forma di successo, e assume un atteggiamento violento perché la figlia si è concessa all’uomo che intende sposare e non perché diventa una prostituta. La madre non rappresenta la borghesia, ma ne incarna la stessa etica del guadagno e del pragmatismo. Tutto il romanzo è percorso da una sostanziale atipicità del rapporto generazionale. Lo sviluppo psicologico del personaggio, infatti, non passa né attraverso la separazione fisica, né attraverso l’affrancamento morale della figura materna, ma, al contrario, attraverso il riconoscimento della verità delle affermazioni della mamma (senza soldi, poca felicità è consentita), e attraverso una progressiva adesione alla volontà della donna. Sempre più col procedere della vicenda, madre e figlia assumono le sembianze di un’unica entità indissolubile e co- reattiva. Se la figlia sceglie il fittizio successo rinunciando al matrimonio, la madre si avvantaggia della scelta a cui ha indotto la figlia, abbandonando il suo lavoro. L’anomalia della relazione madre- figlia si riflette nell’uso di tecniche narrative come la tecnica del “doppio sguardo”, che va nella direzione inaspettata della compassione e non dello smascheramento, e fa della madre, agli occhi della figlia ormai cresciuta, una creatura indifesa, vecchia e bambina allo stesso tempo, inerme e bisognosa di protezione. Adriana ruba per lei un fazzoletto, la induce a pregare e la nutre. La presa di distanza morale dalla madre non si realizzerà fino alla fine della vicenda per via dell’attitudine della ragazza all’accettazione e alla giustificazione di ciò che è umano. Tuttavia, sul piano della condotta esistenziale e su quello sociale la presa di distanza avrà luogo, eccome. Adriana appare decisa a spezzare il ritmo sonnolento delle generazioni, a conquistare uno status sociale migliore di quello dei suoi progenitori, di cui, proprio la madre, assieme al nascituro, sarà la prima beneficiaria. 8) LA MATERNITÀ. Alla definitiva conquista della maturità, oltre l’assunzione di responsabilità morale e materiale,
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