Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

La seduzione dello spettro, Sintesi del corso di Storia Del Cinema

Riassunto del libro "La seduzione dello spettro" di F. Pierotti per l'esame di Filmologia con il professor Canosa, DAMS - unico

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 13/05/2016

Eleonora.Laura
Eleonora.Laura 🇮🇹

4.4

(154)

48 documenti

1 / 30

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica La seduzione dello spettro e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! LA SEDUZIONE DELLO SPETTRO INTRODUZIONE Di fronte a una fotografia o a un film, a tutti è capitato almeno una volta di esprimere le proprie preferenze cromatiche. Meglio a colori o in bianco e nero? Quale mi restituisce un’immagine preferibile della natura? Quale rende più fotogenico un ritratto? Molte delle domande che da oltre un secolo non abbiamo smesso di porci sul colore sono il riflesso condizionato di idee, convenzioni, luoghi comuni che ci vengono trasmessi dal conteso culturale in cui viviamo. Queste stesse idee hanno attraversato le menti e le vite degli uomini di cinema, che se ne sono spesso appropriati per riutilizzarle, rinnovarle, contestarle, sovvertirle, a volte ridicolizzarle. Questa monografia tenta di ordinare in un quadro storico alcune delle riflessioni, delle domande e dei problemi che hanno accompagnato gli sviluppi del colore cinematografico dalle origini fino alla sua affermazione come forma abituale della visione filmica e mediale, nel corso degli anni sessanta. Il periodo del cinema muto è diventato un orizzonte storico ineludibile per lo studio del coro cinematografico: gli equilibri tra le forme cromatiche e i modi della rappresentazione che in esso si evidenziano possono contribuire ad illuminare anche i periodi successivi. Sappiamo che in questo periodo il colore è stato spesso pensato in relazione a contesti e immaginari legati alla spettacolarità, al commercio o alle pratiche applicate alla produzione seriale e, di conseguenza, come mezzo chiamato a catturare e sedurre l’osservatore, a insinuarsi nei suoi stati di distrazione. Questo ha fatto si che all’interno del medium cinematografico nascesse una forte e persistente domanda del colore. Va inoltre ricordato che la storia del colore è inevitabilmente legata alla CROMOFOBIA: desiderato da alcuni come complemento necessario, per altri rigettato come inutile elemento addizionale. Infatti atteggiamento ostili nei confronti del colore si presentano all’interno di questo periodo e ne rappresentano persino uno dei possibili elementi di continuità. L’immagine in bianco e nero genera spesso la convinzione che possa bastare a se stessa (ma in realtà mettendo in scena l’assenza di colore mette comunque in vista una particolare configurazione cromatica del mondo). Intanto la pretesa di riprodurre il mondo con tutti i suoi colori viene criticata, si pensa infatti che i colori distraggono lo spettatore e che non gli permettano di seguire la storia. Ad altri sembra invece necessario quanto i pigmenti per il pittore, per esprimere un momento psicologico, un’atmosfera, un modo, che possano riflettere il personaggio. La storia si chiude con il periodo della conversione al colore (anni ’60) dove lo spettro cromatico perde gran parte di quel carattere di seduzione che ne ha caratterizzato le vicissitudini nei periodi precedenti, assumendo un differente statuto culturale. I colori sullo schermo danno l’impressione di divenire inavvertiti, rovesciando i precedenti equilibri tra attrazione e distrazione. L’orizzonte storico-culturale Per i film a colori sono chiamate in causa due differenti forme di distanza: una che investe il sistema dei possibili valori da attribuire ai colori, l’altra riguarda la dimensione materiale dei colori. Molti dei valori, delle funzioni, che siamo portati ad attribuire al colore hanno conosciuto momenti di svolta proprio nei primi decenni dell’ottocento e persistono ancora oggi. Due importanti teorie: TEORIA DEI COLORI (1810): Goethe -> azione morale dei colori; sostiene che questo agisce direttamente sulla sensibilità e sulle affezioni della mente. L’impatto delle sue idee risultò determinante per lo sviluppo di alcune discipline e teorie (cromoterapia). LEGGE DEL CONTRASTO SIMULTANEO (1828): Chevruel -> interferenze di vari colori; da una serie di esperimenti con tinture e tappezzerie, formulò come due colori posti in contatto si influenzassero reciprocamente, raggiungendo il massimo grado d’intensità in presenza di due complementari. Da questa legge estrapolò un modello per raggiungere l’armonia cromatica tenendo conto delle interazioni. Questi saperi sul colore hanno dei limiti spaziali. Le idee occidentali tendono a globalizzarsi ma sono completamente diverse da quelle che informano altri contesti culturali. Quali colori mi trovo di fronte? Materiali dei colori: pigmenti soggetti ad alterazioni -> alterazioni che possono prodursi per effetto del decadentismo fisico dei colori stessi, oppure per il passaggio da un supporto tecnologico all’altro. Per i colori del muto, con la colorazione manuale a pochoir, tinture e viraggio (procedimento chimico che conferisce alla stampa fotografica una particolare tonalità, grazie a bagni appositi) si da vita a modalità cromatiche che si definiscono con il termine COLORE APPLICATO, in quanto le tinte vengono deposte solo sui fotogrammi di un positivo nitrato in bianco e nero. Alla fine degli anni venti sarebbe stato impossibile individuare una linea di demarcazione netta tra film bianco e nero e film a colori, con i colori applicati questa operazione non è possibile dal momento che la distinzione si opera di copia in copia. La possibilità che di uno stesso film si possano trovare varianti cromatiche rende complessa l’identità del soggetto di studio (colori disordinatamente ordinati). Nel caso in cui si guarda un film ma non con il suo supporto originale, si viene a creare una nuova serie di alterazioni cromatiche che si sovrappongono ad alterazioni causate dal decadimento dovuto al tempo. Ciascun passaggio di supporto altera gli equilibri complessivi delle immagini, sia che ci si muova nel terreno esclusivo dell’analogico, che in quello del trasferimento da analogico a digitale. Il colore come oggetto culturale: testo e contesto Lo scarto tra la dimensione linguistica del colore e quella percettiva è un dato costitutivo dell’esperienza cromatica. Nella nostra esperienza, noi percepiamo dei colori, anche quando teniamo gli occhi chiusi, e il linguaggio ci dota degli strumenti per nominarli, descriverli, attribuire loro valori e significati. Per Pastoureau, nel moderno contesto occidentale, sono soltanto sei i colori di cui si può attribuire valore culturale primario: bianco, blu, giallo, nero, rosso, e verde. Cinque in posizione subordinata: arancio, grigio, marrone, rosa e viola. CAPITOLO 1: LA VEDUTA COLORATA Nella seconda metà dell'800 le tecniche di riproduzione cromatica favoriscono il commercio.
 Dopo l'introduzione delle prime tecniche di fotoincisione in tricromia, iniziano ad apparire riproduzioni a colori anche nelle copertine di alcuni periodici, fumetti e pubblicità. Sul fronte della cultura d'élite la disciplina cromatica viene avvertita come una priorità culturale ineludibile da quella stessa classe sociale che qualche decennio dopo inizierà a interessarsi al cinema. Per gran parte del 900 l'immagine in bianco e nero si affermerà come veicolo prevalente dell'informazione visiva, attraverso il cinegiornale e la fotografia, diventando segno di cultura, distinzione e rispettabilità sociale. Nonostante lo sviluppo dell'industria dei coloranti sintetici metta a disposizione un vasto campionario di tinte, molti dei moderni oggetti di consumo sono inizialmente prodotti nella gamma dei neri, dei bianchi, dei grigi e dei bruni. L'oggetto industriale non aveva bisogno di essere colorato né funzionalmente né commercialmente: lo si sarebbe venduto comunque. Henry Ford, fondatore dell'omonima pirotecnici fosse importante per il cinema di Méliès. La veduta raffigura un demone che nella sala di un castello medievale fa bruciare nel suo calderone tre vittime, finché tormentato dai loro fantasmi, si getta egli stesso nel calderone. Nell'arco di circa due minuti si vedono 4 effetti pirotecnici: la fiammata sprigionata per tre volte dal calderone, grosse nuvole di fumo, trasformazione delle anime in fiamme volanti, fiammata e fumo causati dal demone che si getta. Nella versione dipinta a mano le tinte hanno una grande importanza nell'orchestrazione spaziale e temporale degli effetti visivi, sia quelli propriamente scenici, che quelli cinematografici: esse sono disposte solo su determinati oggetti e personaggi, ciò determina il piano spaziale; quello temporale è dato dal colore che incanala l'attenzione verso determinati elementi. L’applicazione di queste tinte restituiva una dimensione colorata di spettacolarità all’effetto pirotecnico, sebbene sul set esso non fosse così poiché non ci doveva essere traccia di colore. Méliès aveva fatto si che nel suo studio di Montreuil tutti gli oggetti presenti sul set, dai fondali ai costumi, fossero realizzati in diverse tonalità di grigio, in modo da neutralizzare la limitata sensibilità della pellicola ortocromatica e ottenere una migliore trasparenza, attributo indispensabile sia per le copie in bianco e nero che per quelle colorate. Nel regno delle fate. Méliès e la féerie
La féerie cinematografica rivela i modi di funzionamento del colore nei riguardi degli effetti pirotecnici e in relazione ad altri momenti clou. L'adattamento della dimensione cromatica della féerie teatrale al mezzo cinematografico implicava una logica complessa: la perdita del colore o la sua reintroduzione tramite tinte applicate sui fotogrammi. Ad esempio per far apparire e scomparire un personaggio si poteva scegliere un opzione scenica(botola) e fotografica (arresto) o eventualmente la combinazione di entrambi, l'unica soluzione possibile era la colorazione. I colori potevano rendere più efficaci determinati effetti legati alla produzione della clou machine. In “Le royaume des fées” si ha elementi di aria e di acqua. L'acqua in due momenti clou: la tempesta e l'annegamento della strega. Un clou dell'effetto aereo è quello della cavalcata fantastica: un pannello scenografico scorrevole, raffigurante delle nubi. Ancora sulla féerie. La sintassi cromatica All'interno della féerie finiscono per prevalere esigenze visionarie più forti della continuità. Già di per sé la féerie teatrale, con la sua segmentazione in quadri, costituiva un genere discontinuo, in cui gli effetti visivi erano fortemente privilegiati rispetto alla linearità narrativa. Il colore non pare aggiungere particolare surplus di continuità o linearità. Se esistono casi in cui i colori possono aiutare a identificare personaggi e oggetti chiave all'interno dell'inquadratura, in altri sembra avvenire l'esatto opposto. Nel cinema di Méliès le tinte sembrano disposte senza alcuna preoccupazione per la centratura dell'immagine. La presenza del colore può dunque operare in direzione degli effetti di continuità e della costruzione del mondo diegetico, sia in direzione contraria. La dimensione sintattica della colorazione diventa più saliente quanto più l'apparato cinematografico si dota di dispositivi in grado di strutturare una narrazione. Sotto questo profilo, il passaggio dall’unità discorsiva di natura teatrale del quadro a quella cinematografica della sequenza, cui corrisponde il passaggio dalla veduta al film, costituisce una transizione decisiva. Ciò che fino ad ora si era potuto apprezzare come puro dispensatore di piacere visivo avrebbe allora rischiato di porsi come un ostacolo,di fronte a più elaborati schemi cognitivi e a diverse configurazioni dell'immaginario. CAPITOLO 2: L’IMMAGINARIO DELLA MONOCROMIA Il cinema del secondo periodo (1907-17) tende a rimodellare la prima immagine attraverso la ricerca di identità più nobili rispetto a quella dello spettacolo d'attrazione. Il cinema sperimenta le più disparate opzioni stilistiche e narrative per dotarsi di un apparato discorsivo più complesso e articolato, in grado di costruire mondi, delineare psicologie e raccontare storie. La definitiva affermazione della sala stabile come luogo deputato alla proiezione tende ad imporre per gli edifici cinematografici più prestigiosi criteri di costruzione che intendono entrare in concorrenza con quelli adottati dai teatri. Il primato della colorazione manuale e a pochoir viene scalzato dalle tecniche chimiche di colorazione, che alla policromia del fotogramma pitturato sostituiscono la monocromia della pellicola sottoposta a bagno di tintura o di viraggio, con l'opzione di praticare l'uno di seguito all'altro, ottenendo un immagine in bicromia. Tinture e viraggi, realizzabili con procedure più semplici, si presentavano assai meglio delle precedenti a soddisfare le esigenze produttive dei film in lungometraggio, poiché consentivano di proiettare immagini colorate mantenendo al contempo sotto controllo tempi e costi di lavorazione. Collocata in un regime percettivo incerto tra bianco, nero e colore, tra riproduzione fotografica e chimica pigmentaria, l'immagine monocromatica presenta a uno statuto costituzionalmente debole e incerto. Del bianco e nero, essa mantiene la basilare tessitura dei rapporti chiaroscurali, convertendola al contempo in scala monocromatica. Nell'immagine tinta i neri restano tali mentre i grigi e le trasparenze si colorano della tinta impiegata proporzionalmente al loro grado di chiarezza. La forma che ne deriva può essere definita come nero e colore (nero e blu, nero e giallo, nero e rosso). L'immagine virata è frutto del processo inverso: i neri e i grigi sono convertiti in pigmento in proporzione della rispettiva chiarezza, mentre le trasparenze restano tali. La forma ottenuta può essere definita bianco e colore. I due processi risultano complementari oltre che compatibili sul piano tecnologico. Possono essere impiegati in combinazione, restituendo un immagine bicromata in cui la scala dei chiari viene convertita in un colore (tintura) e quella degli scuri in un altro (viraggio). La forma così ottenuta è colore e colore. I film tinti e virati costituiscono le manifestazioni del doppio vincolo che ha frequentemente determinato il valore culturale dei colori: da un lato sono stati usati come strumenti per promuovere associazioni o classificazioni, come elementi per mettere in ordine fenomeni, dati e concetti; dall’altro lato questa operazione è stata possibile al prezzo della riduzione della gamma cromatica, che implica una forte codificazione dei significati e, di conseguenza, espone al rischio della banalizzazione. Se da un lato l’immagine monocromatica costituisce l’orizzonte più concettuale dell’immagine a colori, in quanto limita la presenza del colore al minimo, dall’altro essa risulta costituzionalmente impoverita sul piano della riproduzione di senso. La presenza sullo schermo di un solo colore per volta favorisce il processo di associazione tra una determinata tinta e una gamma non troppo ampia di funzioni possibili. L’immagine cromatica si configura per tutto il secondo periodo come la forma che più di ogni altra è in grado di contemperare la necessità di avere del colore sullo schermo, imposta dalla persistenza ancora forte di un immaginario spettacolare ottocentesco, che riqualifica le funzioni semantiche, sintattiche, simboliche e psicologiche del colore. “Emigrare dal paese monotono del bianco e nero” Come le tecnologie di colorazione manuale e pochoir, anche la tintura e il viraggio andavano incontro ad abitudini percettive consolidate, le cui origini si possono far risalire ancora prima della fotografia, ad alcune pratiche sviluppatesi nel campo dell'incisione. L'insoddisfazione che taluni stampatori avevano avvertito di fronte a immagini incise con inchiostro nero su carta bianca aveva portato a escogitare una serie di soluzioni per ottenere diversi possibili gradi di articolazione cromatica. Analoghe procedure furono riadattate con l'invenzione della fotografia. La potenziale relazione che si instaurò tra i materiali chimici adoperati per la formazione dell’immagine fotografica e i supporti su cui essa veniva fissata rese praticabile lo sviluppo di tecniche di spostamento dalla gamma tonale o di ampliamento delle tinte. Lo sviluppo del fenomeno fu inizialmente sollecitato dai problemi legati ala tecnologia dei materiali: per tutto l’ottocento le immagini fotografiche non erano ancora stabilmente in bianco e nero, ma dopo il lavaggio e il fissaggio sconfinavano più spesso verso la gamma del bruno o del giallo. Il bagno di viraggio, chiamato anche intonazione, consentiva di renderle indelebili, aumentandone la gradevolezza. Per l’occhio dello spettatore, perciò, le immagini monocromatiche erano più gradevoli di quelle in bianco e in nero e il metodo per ottenerle era più semplice ed economico. All’immagine grezza e al suo quasi bianco e nero era preferita quella virata tanto da configurarsi come forma standard. Le tecnologie del viraggio consegnavano alla nascente cinematografia un retroterra culturale e percettivo già dotato di un campo armamentario chimico e pratico. Come si legge nel manuale di Mariani del 1916, (associazioni di colore) la tintura blu è considerata ottima per ritrarre effetti di notte, la rossa per incendi e tramonti, la rosa per tramonti aurore e carnagioni, la verde per la natura e l'arancio la luce per gli interni e il sole per gli esterni. La coppia blu e giallo era la migliore per riadattare la contrapposizione tra bianco e nero, presente in quasi tutte le culture per esprimere la polarità tra luce e buio. Il modo più semplice per far parlare il colore è costituito dalla riduzione della gamma e del ricorso a un sistema di associazioni pesantemente codificato. Luci in scena Al cinema la scelta del giallo e blu come significati del giorno e della notte poteva comportare alcuni vantaggi rispetto al bianco e nero. Tutte le scene notturne dovevano essere girate però di giorno, sotto la luce solare o dei riflettori elettrici, che nel frattempo si iniziarono ad usare nel set.
Definita intorno al giallo e al blu la propria grammatica di base, l'immagine monocromatica tendeva a estendere le proprie funzioni lungo un più ampio arco di possibilità convenzionali e codificate. Diventa efficace sia per gli stati di passaggio dal giorno alla notte sia per tutti gli effetti illuministici e pirotecnici, nonché per designare gli stati psicologici che essi potevano evocare. Considerando le prassi visive e spettacolari che precedono la nascita del cinema, è possibile delineare una genealogia complessa e multiforme, in cui interagiscono almeno quattro differenti ambiti: la pittura, che aveva posto il paesaggio e la luce al centro delle proprie attenzioni; il teatro, che con le innovazioni illuminotecniche riusciva meglio a riprodurre gli effetti ambientali; le immagini colorate come fotografie, cartoline che avevano contribuito a divulgare un immaginario del paesaggio e delle condizioni atmosferiche; le proiezioni dei panorami e degli altri spettacoli ottici. Tra i più importanti fenomeni tecnologici e illuministici che attraversano la scena teatrale sono la luce a gas e l'oscurazione della sala durante lo spettacolo. Ciascuna di queste novità aveva rafforzato un idea di una sempre più netta separazione tra sala e scena, facendo di quest'ultima un luogo deputato all'imitazione della natura. Gli usi e le funzioni della luce costituivano elementi di primaria importanza, perché consentivano di Lo spettro cromatico come sistema simbolico: “carnevalesca” Un ulteriore modo di riqualificare l'immaginario cromatico poteva essere offerto dalla sostituzione complessiva del codice corrente con un codice alternativo ritenuto culturalmente più elevato (cioè sottratto dall’immediata intelligibilità e consegnato a modalità di lettura a carattere esoterico o iniziatico). Lo spettatore doveva essere in possesso della parola d'ordine per capire le sensazioni. Tra i casi più interessanti “Carnevalesca” (Palermi, 1918), leggibile come una modalità di declinare nel nuovo mezzo cinematografico suggestioni culturali provenienti dalla poetica teatrale simbolista. Nel film la relazione con l’universo dei colori è mediata dal riferimento culturale allo spettro cromatico di Newton. Il film prevedeva un 'architettura costruita da 7 colori spettrali, a ciascuno die quali veniva assegnata una specifica funzione simbolica. Nella sceneggiatura di “carnevalesca” si ha la scansione in sette carnevali (azzurro, verde, giallo, blu, rosso, arancio e violetto) incorniciati da altri due in funzione di inicpit (bianco) ed explicit (nero). Ciascuno dei sette carnevali centrali corrisponde a una sezione del film colorata nella tinta corrispondente, a prescindere da eventuali cambi di luce. I carnevali di cornice indicano le sezioni lasciate in bianco e nero. Per i primi 4 carnevali improntati sul registro della commedia erano previste per ciascuno dei rispettivi colori, tonalità più chiare. Per gli ultimi 4 carnevali (giallo, arancio, violetto, nero), drammaturgicamente più affini alla tragedia, le tonalità erano più scure. I colori si associavano al tema del carnevale occidentale che tradizionalmente erano legati alla cultura della policromia, ma anche al rovesciamento del potere, che costituisce uno dei motivi conduttori della narrazione. Ciascuna sezione corrispondeva infatti a una fase particolare della vita: bianco, nascita; azzurro, primi amori e prime delusioni; verde, gioventù; blu, vita notturna; rosso, passaggio alla vita adulta; giallo menzogna e tradimento; arancione, matrimonio; violetto, la sua funzione non è marcata, ma dovrebbe rappresentare il lutto; nero, è completamente assente, ma dovrebbe rappresentare l'opposto del bianco, quindi la morte. Nel 1993 è stata rinvenuta e restaurata una copia del film la cui architettura non corrisponde bene a quella ideata da D’ambra. (prof Canona propende per una suddivisione in quattro carnevali, ipotizzando un parallelismo con le stagioni dell’anno e con l’età dell’uomo: bianco=infanzia, azzurro=giovinezza, Rosso=passioni violente, nero=morte). CAPITOLO 3: IL POTERE DELL’IMMAGINE IN BIANCO E NERO Alla tendenza di evidenziare funzioni e risorse del bianco e nero, fa riscontro la parallela squalificazione del colore e degli immaginari cromatici. Le forme di colorazione vengono spesso ignorate o guardate con sospetto, divenendo oggetto d'indifferenza o di esplicito rifiuto: se per definizione non può essere accettato ciò che non sia frutto di riproduzione del colore, non può che essere escluso dal nuovo orizzonte. Improvvisamente sembra impossibile pensare a forme di nobilitazione della visione veicolate da tinture o viraggi. Il discorso sul colore si sposta sempre più verso immagini fisse o in movimento che nel frattempo si stanno moltiplicando grazie ai progressi della riproduzione cromatica. Nel 1907 i fratelli Lumiére lanciano con l'autochrome il primo sistema fotografico a colori commercialmente affidabile, mentre dopo pochi anni la parabola del kinemacolor e del chronochrome apre anche sul versante cinematografico la lunga stagione del cosiddetto colore naturale. La comparsa dei nuovi sistemi suscita entusiasmo tecnologico, ma spinge molti teorici a preferire il bianco e nero. Questo fenomeno investe sia l’ambito del cinema narrativo che andava ad istituzionalizzarsi, sia quello dei principali movimenti di avanguardia. Da entrambi derivano apporti significativi alla riqualificazione culturale ed estetica del bianco e del nero. Sul versante istituzionale il bianco e il nero rimuovono sul campo percettivo il potere di attrarre e distrarre attribuito al colore, rivelandosi più funzionale alla costituzione del modo di visione diegetico. L’affermazione del modello discorsivo basato sul montaggio e la linearità ha il suo corrispettivo nel tendenziale prevalere dei film in bianco e nero (colori che si configurano come forma istituzionale della cinematografia, relegando ai margini tutte le altre forme di rappresentazione cromatica). Questo non significa che i film saranno meno attraenti, anzi il dominio delle tecniche d’illuminazione e di ripresa rivendicato dagli operatori condurrà a un’assimilazione di tutti quegli strumenti che sin dalle origini hanno invece sottolineato la potenziale discontinuità percettiva del nuovo medium: trucchi, montaggio, primo piano, soggettiva, doppia esposizione. L’adozione del bianco e del nero a forma riproduttiva della modernità implica il desiderio di liberarsi dai più vieti luoghi cromatici della tradizione ottocentesca. Esistono tre diverse questioni nell’elaborare il primato del bianco e del nero e conseguentemente una complessiva riconsiderazione del rapporto con il medium fotografico: 1 illuminare alla rembrand; 2 dibattito fotogenia; 3 persistenza della tradizione. Nel loro manifesto del 1916, i futuristi denunciano con spirito polemico che il cinematografo è ed è stato profondamente passatista. I dadaisti chiamano nel frattempo a un grande lavoro distruttivo negativo da compiere, esprimendo il desiderio di usare colori diversi. Diversamente da quanto avviene in altri ambiti, come il teatro la pittura, l'architettura o le arti decorative, in cui il colore è posto al centro di decisivi ripensamenti, nell'ambito della fotografia e del cinema il lavoro si realizza di preferenza entro l'orizzonte della visione in bianco e nero. Certi film d'avanguardia saranno in grado di recepire queste indicazioni più e meglio di ogni altra forma. Il transito dalla vecchia tecnica al nuovo medium favorisce l'acquisizione di un modello pittorico che può manifestarsi nell'orizzonte riproduttivo in assenza del colore. In secondo luogo, analoghe istanze di emancipazione purista trovano un decisivo momento di cristallizzazione teorica nel dibattito francese sulla fotogenia, in cui l'approvazione di una vecchia nozione spinge a considerare il cinema come espressione di un nuovo immaginario moderno. I film, tuttavia, non sempre appaiono sincronizzati con simili proposte, rivelandosi spesso come depositi culturali in cui i sedimenti della tradizione persistono sotto gli avanzamenti del nuovo. In questo complessivo riposizionamento, l'occasionale riemergere di logiche visionarie sarà sempre più spesso negoziato tramite il colore analogico, ma mano che si realizzerà, nel corso degli anni 20, il suo ingresso nell'istituzione. Al contrario, le avanguardie contribuiscono in maniera determinante a demolire gli immaginari rappresentativi della tradizione per ricostruirli sulla base dei nuovi scenari della modernità e della società di massa. Dal pigmento alla luce. Illuminare alla Rembrandt Intorno agli anni dieci, iniziò ad instaurarsi una potenziale tensione tra due logiche di diversa natura: da un lato quelle prodotte dalle tecniche d'illuminazione chiaroscurale, che iniziarono ad essere sperimentate sui set cinematografici, dall'altro quelle veicolate in forma adattiva dalle tecnologie di colorazione monocromatica 8questo sia per aver maggiore controllo sulle operazioni nel set, quanto per ragioni di esigenza di natura stilistica ((colorazione assai più problematica)), altro vantaggio possibilità di distribuire ed articolare la luce nello spazio, sfruttando le risorse direzionali e chiaroscurali). Nel giro di qualche anno, questa tensione si sarebbe risolta in favore del primo termine con il passaggio del modello dominante della luce diffusa a quello della luce direzionale e selettiva. Rispetto alle risorse dell'illuminotecnica, la colorazione si rivelava più problematica in quanto sfuggiva al processo fotografico della ripresa. Con tinture e viraggi il risultato finale doveva essere delegato al tecnico di laboratorio, con la conseguenza di ridurre i margini di controllo sulle copie positive. Rispetto alla resa pigmentaria e superficiale della colorazione, un secondo vantaggio dei mezzi illuminanti risiedeva nella possibilità di distribuire e articolare la luce nello spazio, sfruttandone appieno le risorse direzionali e chiaroscurali. Almeno in teoria la mediazione del colore appariva necessaria alla macchina diegetica almeno finché, almeno all'interno del regime fotografico del bianco e del nero, le soluzioni tecniche e stilistiche messe a punto non avessero garantito un sistema ridondante di isotopie, ovvero un insieme di segni in grado di assicurare l'omogeneità del discorso. Uno spettatore potrà più facilmente accettare un ambientazione notturna girata in piena luce in una scena comica che non di un omicidio, in cui la colorazione si sarebbe resa necessaria. Si iniziarono a mettere a punto una serie di tecniche per realizzare anche attraverso l'illuminazione tutti quegli effetti che costituivano un domino irrinunciabile, e fino a poco tempo prima esclusivo delle colorazioni. La luce iniziava a essere pensata come un potenziale linguaggio dotato di una propria retorica visiva, in grado di realizzarsi autonomamente nella dimensione del bianco e nero. La luce non era più concepita soltanto come una risorsa necessaria a illuminare il set, come nel cinema delle origini, ma iniziava a rivendicare una propria funzione in quanto elemento determinante della messa in scena, in grado di incidere su quello stesso spettro di funzioni ambientale psicologiche già assegnate al colore. Un momento di svolta in questa direzione è rappresentato dall'adozione di un particolare stile di illuminazione che rivendicava le proprie ascendenze negli effetti chiaroscurali della pittura di Renbrandt. Non più colore per luce, ma l'inverso: era la luce che aspirava ora a simulare i giochi chiaroscurali del pigmento pittorico. La genesi cinematografica di questa espressione deriva dal desiderio di promuovere culturalmente il nuovo mezzo attraverso il recupero di un modello visivo riletto alla luce della ricezione ottocentesca del pittore e delle mediazioni dell’orizzonte discorsivo della fotografia. Può essere ottenuta con una luce e un riflettore, o con due luci. E’ molto popolare perché permette di ottenere immagini naturali e avvincenti con un equipaggiamento minimo. Figure a cui sono attribuite alcune ricerche illiministiche: De Mille e il suo operatore Wyckoff e al produttore Lasky. Tra il 1915 e il 1916 si inizia a parlare di Lasky Light (serie di effetti chiaroscurali). Inoltre De Mille fece oscurare i teatri di prosa anticipando un metodo di lavorazione: in questo modo aveva pieno controllo per la creazione di tutti i particolari effetti d’illuminazione (indipendenza dalla luce solare). l’insoddisfazione per la convenzionalità delle soluzioni dei sistemi di colorazione monocromatica, lo spinse ad adottare il metodo del tipografo incisore Handschiegel (adattare principio della litografia). Tecnica di colorazione che utilizzò per la sequenza finale di “Giovanna D’Arco” (1916) nella quale le fiamme del rogo sono colorate in modo da produrre l’effetto di movimento delle fiamme e del fumo, in grado di suscitare più forti sensazioni allo spettatore. Al di là dell'insoddisfazione che le tecnologie monocromatiche potevano produrre, in alcuni casi risultava ancora difficile rinunciarvi del tutto, non solo per motivazioni legate a una pragmatica della ricezione, ma anche per ragioni di coninuity delle inquadrature. La transazione del sistema significante della monocromia a quello dell'illuminazione procedette in modo graduale e progressivo, compiendosi in maniera definitiva solo con la nascita del rapporto alla colorazione ma ai mezzi stilistici che potevano essere controllati sul set, come le riprese e l'illuminazione, spingendo contestualmente ad assumere il bianco e nero a operatore esclusivo della dimensione cromatica dei film. Tutti gli effetti illuministici, compresi quelli notturni, potevano essere ottenuti attraverso mezzi di illuminazione artificiale. Luce, macchina da presa ed effetti visivi sono chiamati ad assorbire l'intero arco delle funzioni stilistiche, espressive e psicologiche. Alla metà degli anni venti, il cinema tedesco è attraversato da cambiamenti molto forti; il sistema produttivo tende a recepire molte delle novità stilistiche e narrative introdotte dal filone espressionista e da quello dei film senza didascalie, restituendole in forma dispersa e diffusa in tipologie filmiche non necessariamente eversive o d'autore. In questo quadro, il convergere di nuove spinte tecniche e la formazione di stanze puriste di rinnovamento può aver contribuito al tendenziale accantonamento del sistema più tradizionale della colorazione anche all'interno di una produzione organizzata su base industriali rivolta ad un pubblico alto e internazionale. Al canone dei film colorati citato sopra si può cosi far corrispondere un canone complementare di quei film non colorati che potrebbero aver avuto un ruolo significativo nel formalizzare il salto di paradigma verso il nuovo ordine del bianco e nero. Mentre il bianco e nero veniva discusso e utilizzato nella sempre più diffusa consapevolezza del proprio valore di autonoma forma estetica e culturale, le prime tecnologie di riproduzione cromatica stavano iniziando a rivendicare il ruolo di unica modalità legittimata del colore cinematografico. Nel 1920 Delluc la descrive come una qualità propria degli oggetti ripresi, ma anche del soggetto umano, delle sue parti. Si coglie dunque un valore eminentemente produttivo della fotogenia, da porre in relazione con il lavoro sulla luce compiuto dall’operatore: usi non convenzionali del chiaroscuro, del controluce, dell’illuminazione naturale o artificiale concorrono a determinare questa reazione. Le immagini del cinema concorrono quindi a presentare una nuova sensibilità moderna nello spettatore. Il bianco e il nero qui contribuisce a promuovere il cinema a una nuova forma d’arte e a mezzo in grado di esprimere le istanze delle modernità. Il cinema di Weimar tra modernità e tradizione. Il un primo momento nell’ambiente cinematografico tedesco si era affermata la consapevolezza che la colorazione fosse una prassi consueta e abituale, ha posto il problema di verificare alcuni concetti chiave del cinema espressionista tedesco. Infatti da li a poco la concezione fu completamente sovvertita: dominio del bianco e del nero. Alla fine mentre il bianco e il nero veniva discusso e utilizzato nella sempre più diffusa consapevolezza del proprio valore di autonoma forma estetica e culturale, le prime tecnologie di riproduzione cromatica stavano iniziando a rivestire un ruolo di unica modalità legittima del colore cinematografico. CAPITOLO 4: COLORI NATURALI? ARCHEOLOGIA DI UN MITO TECNOLOGICO L’apparizione dei primi sistemi di riproduzione foto e cinematografica (lastre fotografiche autoctone dei Lumier e prime vedute riprese con il Kinemacolor) sollecita un lungo processo di assimilazione di questi che occupa almeno tre decenni. In questo arco di tempo si presenta un conflitto tra COLORE NATURALE e COLORATO. Al primo vengono ascritti i colori ottenuti con i sistemi di riproduzione analogica, al secondo quelli ottenuti con le tecnologia alternative della colorazione, della tintura e del viraggio. Le origini del mito. Stampa e fotografia Prima della fotografia c’era fiducia nella riproduzione di un sistema in grado di riprodurre i colori della natura. Nel 1719 il procedimento messo a punto da Le Blon (inventore stampa in tricromia) tentò di riprodurre la gamma dei colori sovrapponendo tre immagini contenenti le informazioni del blu, del giallo e del rosso. Egli partì dalle teorie di Newton, e propose la distinzione tra colori immateriali o impalpabili e colori materiali, ovvero i pigmenti impiegati nella stampa. Le Blon riduce i colori dello spettro a soli tre fondamentali: blu, giallo, rosso. Nel corso dell’800 la distinzione effettuata da Le Blon e la riduzione dei colori fondamentali in una triade si era andata precisare con altre formulazioni scientifiche sulla sintesi additiva e quella sottrattiva. Esse avevano fornito il supporto teorico e scientifico all’idea che tre colori primari fossero sufficienti a riprodurre tutti i colori dello spettro. Nel dominio della luce colorata la triade rosso, verde, blu (RGB) forma il modello teorico dei colori additivi. La loro somma conduce alla luce bianca. Mentre nel dominio dei pigmenti la triade ciano, magenta, giallo (CMYK) forma il modello teorico dei colori sottrattivi. La loro miscela produce il nero. Inizialmente le maggiori possibilità commerciali furono sviluppate nel campo della fotografia additiva. I fratelli Lumèire utilizzarono il metodo del fisico scozzese Maxwell, che dimostrò come, ottenendo tre immagini negative dopo aver posto davanti all’obiettivo un filtro RGB e proiettando su uno schermo le diapositive da esse ottenute con un medesimo sistema di filtraggio, si otteneva una riproduzione cromatica additiva dell’oggetto iniziale. I fratelli Lumière ricondussero i tre filtri in un unico sistema microscopico di filtraggio contenuto all’interno del supporto, formato da milioni di granelli di fecola di patate, colorati in rosso, arancio, verde e violetto, mescolati in eguale misura e uniformemente posti sulla superficie della lastra. Infine l’immagine anziché essere frutto di una proiezione, si formava a colori direttamente sul supporto in seguito all’inversione del negativo (= Autochrome, 1097; resisterà fino al 1932). La sperimentazione cinematografica Difficoltà dei principi di Maxwell: necessità di produrre un gran numero di copie e quella di ottenere molte copie positive da immettere nel circuito delle sale. Per consentire lo sfruttamento commerciale dei brevetti si arrivò alla rinuncia di un colore dei tre primari. Infatti la perdita del blu permetteva comunque di ottenere maggiori effetti di dettaglio rispetto a quelli di ogni altro sistema di colore applicato. Charles Urban si rese conto di tutto ciò per mettere a punto il suo Kinemacolor (1906). Nel 1914 le fortune del Kinemacolor furono interrotte da una sentenza che impose la revoca del brevetto e portò alla scioglimento di tutte le società in pochi anni. Secondo tentativo fu della Gaumont con il marchio Chronochrome che tentò la riproduzione in tricromia. Aumentano i film a colori ma vi è un’arretratezza nei modi della rappresentazione. La comparsa sugli schermi di colori riprodotti permetteva di strappare al bianco al nero l’esclusiva sul piano degli effetti reali. Quei colori divenivano il risultato di un automatismo fotografico: essi sembravano pulsare della stessa materia che animava il resto dell’immaginario. Nessun Pennello poteva competere. Nella pratica però il principio del naturale continuava a rimanere un campo problematico di attribuzione. I primi colori cinematografici sotto il naturale risultavano complicati sotto diversi aspetti, al punto che la distinzione tra naturale e colorato valeva talvolta più sul piano teorico. Negli anni dieci l’introduzione del colore fotografico aveva esercitato una pressione sul sistema tanto da destabilizzare tecniche come il pochoir. Il suo impiego veniva conformato a effetti più realistici e decorativi, come voler rivendicare un primato sul terreno del naturale ancora tanto incerto. Gli esordi del Technicolor Anni 10/20 fondata a Boston la società Technicolor sotto la direzione di Herbert Kalmus. Technicolr #1 = sistema additivo in tricromia; film “The Gulf Between” (1918): difficoltà per l’operatore in cabina nell’uso dello speciale proiettore. Il colore doveva infatti formarsi sullo schermo facendo aderire perfettamente due diverse serie di fotogrammi, mediante un macchinoso sistema ottico che rendeva inutilizzabili i normali proiettori. Technicolor #2 = ricerche verso la sintassi sottratti, mediante la quale il colore si sarebbe formato direttamente sulla pellicola. Film “Fiori di loto” (1922). Grande favore sollecitò grande interesse delle major. Tra il 1922 e il 1928 il sistema fu utilizzato da MGM, Paramount… Nella maggior parte dei casi il sistema fu considerato dai produttori e registi una più lussuosa decorazione adatta ai singoli episodi di grande spettacolo come “I dieci comandamenti” (De Mille 1923) o quelli della natività come “Ben Hur” (Niblo 1925). Si considerava ancora il colore naturale come un elemento di seduzione visiva. Technicolor #3 = “La vedova allegra”, bicromia. Essa metteva nelle mani dei protezionisti una copia tecnologicamente affine a quelle in bianco e nero. Essa risultava completamente compatibile con la stampa ottica del suono quanto i sistemi di proiezione. Il passaggio al sonoro La domanda crescente di film parlati e cantati costituì invece un traino per la diffusione di vecchi e nuovi sistemi analogici in bicromia, sempre più richiesti per arricchire con il colore le sequenze dei primi talkie (film sonori). Il boom dei talkie in bicromia nel biennio 1929-30 fu caratterizzato da una continua euforia della visione. Le strategie che informano le sequenze a colori dei talkie rivelano la necessità di esibire ciò che fino a quel momento non si era potuto fare sugli schermi. I film offrivano anche una nuova declina nazione delle istanze estetiche e avanguardistiche maturate in precedenza attorno all’orizzonte della sinestesia: la nuova alleanza tra colore e musica consentiva di ammettere la produzione di effetti sin estetici al dominio della riproducibilità. Il “Re del jazz” ( Anderson, 1930) rivela al meglio il funzionamento di questo dispositivo (Technicolor #3). Il film ripercorre il campionario dell’effettistica luminosa e cromatica che fino a pochi anni prima aveva costituito uno degli ambiti funzionali della colorazione applicata. Verso una retorica del colore. Il caso Sonochrome Alcuni registi non presero bene la novità del Technicolor perché temevano che la diffusione del colore avrebbe portato a delegare una parte della propria autonomia ad esperti del colore. Nel 1929 un tecnico della Kodak, Loyd Jones, presentò ai tecnici di Hollywood un kit di positivi colorati con 17 tinte diverse (Sonochrome), pensato per rendere compatibile la tintura con la riproduzione del suono, in monocromia. Proponeva di utilizzare un linguaggio dei colori preesistente fondato sulle possibili associazioni oggettive e soggettive tra le 17 tinte e una serie di stati emotivi e psicologici. In una scala degli effetti psicologici, distingueva così un primo gruppo di tonalità in grado di eccitare lo spettatore (giallo-arancio; arancio intenso; scarlatto..), un secondo gruppo dotato delle capacità di tranquillizzare lo spettatore (giallo-verde; verde; blu-verde) ed infine uno di tinte soggioganti e deprimenti (blu-viola; blu; porpora). CAPITOLO 5: QUALI COLORI PER HOLLYWOOD? L’INTRODUZIONE DEL TECHNICOLOR stavano imponendo come dominanti nella Hollywood degli anni '30. Un processo di omogenizzazione stava coinvolgendo le forme della messa in scena verso quella particolare configurazione culturale, che si è soliti definire come stile classico: un modo di rappresentazione fondato sul dominio del narrativo, sul sensibile e su un elevato grado di negoziazione dei valori. Per tutti i film realizzati in Technicolor, la società istituì un rigido protocollo da seguire, che imponeva i produttori il rispetto di una serie di condizioni: obbligo di noleggiare la macchina da presa e sviluppare e stampare tutto il materiale negli stabilimenti della casa madre; ricorso a personale tecnico specializzato della società e ai servizi del dipartimento stesso. Dalla fine degli anni '30 la dialettica tra attenzione e attrazione avrebbe imposto modi d'uso del Technicolor assai più diversificati. Technicolor e studio system anni 30 I film in Technicolorrealizzati nella seconda metà degli anni trenta seguirono logiche trasversali alle dinamiche di genere, rivelando il bisogno di saggiare simultaneamente molteplici possibilità. Tra il 1936 e il 1938 le principali case di Hollywood iniziarono a interessarsi al colore. Nel corso del triennio, furono complessivamente realizzati ventiquattro film in Technicolor. Benché il numero fosse ancora basso rispetto al totale della produzione, alcuni di questi furono premiati da un forte successo, amplificando l'impatto culturale della novità. I film girati con il nuovo sistema rientravano nei canoni del cosiddetto Prestige Picture, ovvero una tipologia produttiva che includeva generi diversificati potendo contare sulla presenza di attori di primo piano e ali budget (via col vento, il mago di Oz). Alcuni operatori sostennero che il Technicolor costringesse a muoversi nell’ambito esclusivo delle tecniche di High-key lighting. In questo modo, il modellamento dei piani spaziali dell’immagine si sarebbe ottenuto attraverso le differenze cromatiche tra gli elementi in primo piano e con quelli sullo sfondo. Al colore stesse funzioni prima assolte dalla luce. La Warner cercò di valorizzare il colore all'interno di un ciclo di genere caratterizzato da ampie possibilità di spettacolarizzazione della novità entro un modo narrativo semplice ed efficace. Quegli effetti che erano stati annessi un paio di decenni prima al dominio del bianco e nero, diventano in questa fase oggetto di interesse per gli addetti ai lavori, nel quadro di una strategia per negoziare la presenza del colore a Hollywood. Al centro dell'attenzione risultava sopratutto il problema della perdita di luminosità provocata dal complesso sistema di ripresa Technicolor. La sua limitata sensibilità e la scarsa latitudine di posa, costringevano ad un considerevole aumento dei mezzi illuminanti da utilizzare sul set. Il modello dei piani spaziali non sarebbe stato più ottenuto attraverso le gradazioni di luce, bensì attraverso le differenze cromatiche tra gli elementi in primo piano e quelli sullo sfondo. Al colore sarebbero così state delegate le funzioni precedentemente assolte dalla luce. Quando un particolare effetto visivo si produceva sullo schermo, doveva risultare motivava agli occhi dello spettatore. All'interno di queste dinamiche un posto di rilievo è occupato dal ritorno dell'immaginario rappresentativo della natura. Il fenomeno fu favorito dal buon esito di “Il sentiero del pino solitario” in gran parte girato in location reali nonostante le difficoltà tecniche. I maggiori sforzi e costi furono comunque ripagati; il film, uscito nel febbraio del 1936 portò nelle casse della Paramount significativi introiti, segnando il primo importante successo per il Technicolor. Il film delinea l'immagine di una natura ordinata, razionale e armonica, con cui l'uomo può entrare in simbiosi. Tanto la serie del visibile naturale quanto quella dell'umano sono orchestrate attraverso un predominio di tinte neutre, di grigi marroni e verdi, I momenti a maggiore tasso di attrazione, affidati sopratutto alla presenza di effetti atmosferici in funzione di contraltare emotivo, sono disciplinati attraverso un ricorrente sconfinamento discorsivo nei piani di ambientazione posti all'inizio delle sequenze. In “Via col vento” i colori neutri hanno certamente il loro valore, e il colori pastello quando sono usati correttamente assicurano scene deliziose, ma questo non significa che un film intero debba essere al cento per cento in colori neutri o tonalità pastello. Questo film in particolare ci offre occasionalmente l'opportunità di gettare un tocco violento di colore contro il pubblico per esprimere bruscamente un contenuto drammatico. Selznick voleva utilizzare il colore per rafforzare l'intensità drammatica dei momenti clou, ripensando il rapporto tra esibizione del colore e posizionamento affettivo dello spettatore. In “Via col Vento” lo spettatore è posto di fronte a un ricco catalogo di effetti luministici e cromatici, non più localizzati ai margini delle sequenze ma collocati nel cuore stesso della narrazione. Analoghe strategie investono le tecniche d'illuminazione. Sul finire del decennio, dunque, i due poli entro i cui sembrava potersi sviluppare l'estetica del Technicolor erano stati delineati. Una volta accettata la presenza del colore, l'istituzione non avrebbe potuto fare a meno di soggiacere al potere di fascinazione delle tinte sature del Technicolor. L'esigenza del controllare i colori, di nasconderle dietro ad un ordine discorsivo, avrebbe continuato a manifestarsi nei decenni avvenire. L'immaginario del Technicolor tuttavia sarebbe stato completamente sganciato da un simile modo di organizzazione del colore, indicando al contrario manifestazioni sontuose, ricche ed eccessive del cromatismo. “Glorious Technicolor”. Visione e spettacolo Nel 1955 la necessità di operare lavorazioni compatibili con la nuova pellicola a supporto Easàtmancolor (1951) spinse la società ad aggiornare il vecchio sistema, trasformandolo in un metodo di stampa si copie ad alta qualità, applicabile a qualsiasi negativo (Technicolor #5). Nel corso degli anni ’50 il colore si sarebbe disseminato in tutte le altre cinematografie europee, ma fino a quel momento, tranne poche eccezioni, critici, cineasti e spettatori si erano accontentati di film a colori importati. Un ulteriore contributo all'accensione della tavolozza fu offerto da alcune produzione in Technicolor realizzate in Inghilterra. Rispetto al resto d'europa la cinematografia Inglese si trovava in una posizione di vantaggio. Si poneva di fatto in antitesi con la tradizione di qualità legata al bianco e nero, alimentata nel loro paese sopratutto dal genere documentaristico.
Film importanti assemblarono in maniera piuttosto originale un insieme eterogeneo di stili cromatici: dalla preziosa policromia ai drammatici chiaroscurali, fino alla massima ostentazione di artificialità di messa in scena. Nel dopoguerra, uno scenario sempre più caratterizzato dalla circolazione di colori accesi negli spazi urbani e domestici, nelle immagini della pubblicità e della stampa sembrava premere con forza crescente ai bordi del visibile. Una delle precoci linee di sviluppo fu rappresentata dal recupero di modalità performative e visionare che permettevano felice incontro del Technicolor con i divi affermati nelle formule aggiornate del prestige picture. Accanto all'opzione spettacolare, una seconda decisiva modalità di ridefinizione dei parametri cromatici si legava alla reviviscenza di una linea degli effetti psicologici e soggettivi del colore. Nel 1955 la necessità di operare lavorazioni compatibili con la nuova pellicola a supporto unico Eastmancolor spinse la società ad aggiornare il vecchio sistema, trasformandolo in un metodo di stampa di copie ad alta qualità, applicabile a qualsiasi negativo (Technicolor #5). Nel corso degli anni cinquanta, il colore si sarebbe disseminato in tutte le altre cinematografie europee, ma fino a quel momento, tranne poche accezioni, critici, cineasti e spettatori si erano dovuti accontentare dei film a colori di importazione. CAPITOLO 6. COLORE VS BIANCO E NERO, L’ORIZZONTE TEORICO IN EUROPA. Nelle principali enunciazioni teoriche e critiche sul colore agisce la convinzione che il suo impiego rischi di snaturare ogni possibile vocazione estetica del cinema. D’altra parte esperienze maturate a partire dagli anni 20 rivelano come nella forma del bianco e del nero questa vocazione abbia trovato la sua particolare aurea, il giusto equilibrio tra riproduzione e invenzione. Il film a colori tende ad essere classificato con categorie negative: difetti di realismo (Kraucer) o suo eccesso (Antonioni e Dreyer) oppure mancanza di forma (Arnheim). Bazin e Kraucer. Il cinema in bianco e nero L’immagine a colori falliva laddove esprimeva uno dei suoi potenziali punti di forza: il realismo. Bazin, “teoria del realismo”. Egli traccia l’evoluzione del linguaggio cinematografico riservando massima importanza all’impiego della profondità di campo e della ripresa continuità. Le due opzioni stilistiche erano assunte a favore simbolico si una versione fenomenologica della realtà, contrapposta a quella perseguita attraverso il montaggio analitico (decoupage) dal linguaggio classico di Hollywood. Per Bain il colore era in grado di liberare il proprio contenuto di verità in rapporto alla dimensione temporale. Sebbene il suo articolo non chiamasse in causa direttamente il colore, comunque finiva per alludervi nella misura in cui enfatizza le potenzialità di una tecnica che rappresentava una risorsa esclusiva della pellicola in bianco e nero: egli stesso riconosceva che l’eliminazione dello sfondo sfocato era stata agevolata sul finire degli anni trenta dall’introduzione delle pellicole ultrasensibili, sebbene lo stesso effetto fosse stato ottenuto anche in precedenza. Kraucer sistematizzò la sua concezione nello studio organico “Teoria del film” (1960). Teoria che si basava sul riconoscimento di una linea di continuità tra fotografia e cinema, poiché i due mezzi erano accumulati dalla lori specifica natura, cioè la loro capacità riproduttiva e il loro potere rivelatore della realtà. Egli individua un atteggiamento fotografico (in coloro che avevano saputo liberare il loro impulso creativo e il bianco e nero serviva a loro per dare accesso ad una diversa percezione del mondo) e uno cinematografico (tutti quei film e documentari che avessero saputo tenere insieme intervento creativo e rispetto del reale). L’intera storia del cinema poteva per lui essere riletta in bianco e nero (tutte le opere più importanti sono state realizzate in bianco e nero: nascita di una nazione; paisà) Perché sono brutti i film a colori? Arnheim nel 1936: ricordo traumatico prima visione film a colori. Lo studioso tedesco era convinto che con l’avanzamento tecnologico del colore, il cinema avesse da prendere sul piano estetico. Il colore comporta difficoltà di organizzazione formale infinitamente superiori al bianco e al nero: mentre un’immagine in bianco e nero può essere letta dentro un’unica serie tonale monodimensionale, un’immagine a colori presenta diversi sistemi di scale tonali interagenti tra loro. La pittura costituisce un orizzonte inattendibile per il regista cinematografico. Antonioni q942: colore come elemento di fondamentale importanza che poneva in termini nuovi il problema della composizione armonica dell’inquadratura, della modulazione del chiaroscuro e delle luci colorate. 1947: contro film Technicolor utilizzo piattamente naturalistico del colore. 1955: facevo eco a Dreyer. Il colore veniva preso in esame in quanto possibile operatore di un processo di astrazione, finalizzato al rafforzamento di un contenuto drammatico e psicologico, all’insorgere di una realtà soggettiva. Se nel bianco e nero questa operazione era promossa attraverso un lavoro sul contrasto tra luci e ombre e sulla contrapposizione delle linee, come testimoniano i film di Dreyer, nella forma cromatica era il rapporto tra le superfici, le forme e i colori a poter attingere alla medesima dimensione. Dreyer suggeriva di utilizzare una gamma cromatica ristretta che lasciasse ampio spazio ai bianchi e ai neri e proponeva di abolire i piani di profondità. Alcuni generi in presa diretta sul contemporaneo iniziavano a captare i colori che sempre più spesso circolavano negli oggetti di consumo e nelle immagini. Il ruolo di apripista fu assunto dalla commedia, che si rivolse spesso al colore per vivacizzare alcuni dei sottogeneri caratteristici ella seconda metà del decennio: il bozzettismo ( Racconti romani); il paesano ( Pane, amore e..); il giovanilistico o il turistico vacanziero. Il film che aprì la strada fu “ Racconti romani” che favorì il processo di normalizzazione del colore sugli schermi. La sua presenza veniva infine sottratta a investimenti puramente artificiali e spettacolari per essere inscritta in un orizzonte realistico. Per giustificare la scelta del colore, non era più necessario cercare soccorso nelle tavole di un palcoscenico, in una tela… ma era sufficiente volgere lo sguardo verso il mondo circostante per cogliere gli indizi cromatici du cui appariva disseminato. CAPITOLO 8: VISIONI DELLA MODERNITA’. VERSO UN NUOVO ORDINE CROMATICO L’acquisita normalizzazione tecnologica del colore nel convergere di pressioni sul sistema delle rappresentazioni fanno si che alla fine degli anni sessanta la transizione del colore da parte delle principali cinematografie occidentali possa dirsi realizzata. Nel corso del ventennio post bellico, la crescita della domanda, l'espansione dei mercati e il lancio di nuove tecnologie danno un impulso notevole alla moltiplicazione degli oggetti colorati. L'effetto moltiplicatore che ne deriva finisce per far vedere in modo diverso i segni cromatici della realtà, per aprire allo sguardo un nuovo mondo visibile rispetto al quale il bianco e nero sembra divenire anacronistico, non più contemporaneo. Benché una simile dialettica tra oggetti, rappresentazioni e percezioni sia riscontrabile sin dalle origini della modernità ottocentesca, essa si lascia cogliere in tutta la sua portata quantitativa e qualitativa tra gli anni cinquanta e sessanta. In questo periodo di transizione alcuni studiosi hanno individuato i sintomi di una svolta epocale dalla fase della modernità a quella della tarda o post-modernità. Uno dei caratteri più marcati di discontinuità si lascia cogliere nella destabilizzazione del panorama ideale che attraversa il periodo. Alla fine degli anni sessanta la transizione al colore da parte delle principali cinematografie occidentali può dirsi realizzata. Dopo decenni di distinguo e atteggiamenti ambivalenti, una nuova generazione di autori si appropria con decisione di quell'immaginario applicato, commerciale e pubblicitario del colore che fin dall'Ottocento ha rappresentato una delle grandi questioni aperte nel rapporto tra visione cromatica e modernità. Nel legame tra il colore e il moderno sistema della pubblicità, del consumo, della moda ,viene individuata la premessa visiva di una nuovo possibile canone della rappresentazione cromatica. Nel cinema, il colore non è più pensato come lo strato aggiuntivo di un visibile che il bianco e nero ha già concorso a rivelare, bensì come lo strumento indispensabile per aprire gli occhi dell'osservatore su un nuovo indispensabile per aprire gli occhi dell'osservatore su un nuovo visibile urbano, industriale e domestico di cui il bianco e nero sembra ormai in grado di cogliere solo parzialità. Anche la convinzione che il colore costituisca un ostacolo per l'attenzione dello spettatore, e che in quanto tale vada limitato o controllato, inizia a essere contestata da molti cineasti partecipi delle nuove ondate che investono più o meno direttamente le principali cinematografie europee. Gli anni sessanta segnano piuttosto il temporaneo affermarsi del principio opposto, basato sull'assimilazione di un sapere della comunicazione pubblicitaria, ben presente da decenni alla mente di allestitori di vetrine e designer: occorre che i colori si rendano visibili. La destabilizzazione del panorama mediale Diffusione della televisione -> allarme industria cinematografica -> 3D, schermo più largo,, stereofonia, colore. Poi televisione considerata non solo avversario ma anche potenziale acquirente (film bianco e nero perché a colori era “sprecato” per il piccolo schermo). Successivamente NBC incrementa ore di palinsesto dedicate al colore e in questa prospettiva anche i film a colori diventano oggetto di interesse per il broadcasting. Il crescente afflusso di film a colori hollywoodiani spinse le principali cinematografie europee ad accelerare i ritmi di adeguamento al nuovo standard cromatico. Entro l’inizio degli anni 70 in Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagnala transizione al colore risultava completa. Nel ventennio postbellico, una serie di modifiche dello scenario mediale statunitense destabilizza gli equilibri di tutte le principali cinematografie europee occidentali.
Nel secondo dopoguerra, la fotografia pubblicitaria aveva attraversato una fase di notevole espansione, sopratutto negli USA, facendo ricorso sempre più spesso al colore. Il volume di investimenti per le inserzioni sui giornali e riviste crebbe in questo periodo a un ritmo più che esponenziale. La separatezza tra il colore come dominio della fotografia applicata e il bianco e nero come dominio di quella artistica si era andata rafforzando, Come è ben noto al piccolo schermo, la bassa definizione, alla scarsa qualità sonora e al bianco e nero della televisione si contrapposero novità tecnologiche in grado di enfatizzare il potenziale spettacolare del prodotto cinematografico, come il 3D, lo schermo largo, la stereofonia e il colore. Nel 1953 anno di introduzione del Cinemascope, il presidente della Fox dichiarò di voler produrre solo film a colori e con il nuovo sistema a schermo largo. Nella seconda metà del decennio tuttavia, un forte calo di pubblico aprì una fase di ripiegamento sui più bassi budget del film in bianco e nero. Nel 1959 un'inversione di rotta fu impressa dall'esigenza di incentivare l'acquisto di nuovi apparecchi a colori, una volta saturato il mercato di quelli in bianco e nero. L'emittente NBC partecipò a questa strategia con un incremento delle ore di palinsesto dedicate al colore in questa prospettiva anche i film a colori diventavano un oggetto di interesse per il Broadcasting. Nel 1965 la stessa NBC seguita a stretto giro dalle concorrenti CBS e ABC, lanciò il prime prima time a colori, concorrenti a ribaltare anche gli equilibri hollywoodiani. Il crescente afflusso di film a colori hollywoodiani spinse le principali cinematografie europee esposte alla penetrazione dei prodotti d'oltreoceano ad accelerare i ritmi di adeguamento al nuovo standard cromatico. Entro l'inizio degli anni settanta, in Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagna la transizione al colore risultava completata. Il processo seguì linee indipendenti dallo stato delle rispettive tecnologie televisive: in Italia, ad esempio, dove l'introduzione della televisione a colori fu rimandata per scelta politica 1977, il rapporto numerico tra film a colori e in bianco e nero non si discostò molto dalle oscillazioni statunitensi. Dopo un secolo di ansie tecnologiche e processi tremendamente lunghi e complicati, il mito del colore naturale si sostanziava nelle pratiche più banali del quotidiano. Rispetto a quarant'anni prima, il quadro sembrava essersi ribaltato. Il colore riprodotto si avviava a diventare qualcosa di facile, in grado di prendere forma nelle mani di chiunque lo desiderasse. Universo di oggetti colorati Del colore si riconosceva il potere di euforizzare o rendere distrofico un oggetto o un ambiente, di promuovere il desiderio d’acquisto, ma anche di contribuire al comfort domestico, ridurre gli incidenti stradali.. Nella seconda metà degli anni 50 questo orizzonte di riflessioni iniziò ad entrare nell’agenda degli uomini di cinema anche in Europa, man mano che il colore li sollecitava a ripensare ai canoni rappresentativi acquisiti. Sul piano puramente commerciale, il colore di un oggetto o quello del suo imballaggio possono avere un'importanza considerevole. Il colore influenza l'eventuale cliente, sia attirandolo, sia disgustandolo. Negli anni del dopoguerra, diverse industrie avevano iniziato ad avvalersi di consulenti per il colore al fine di ottimizzare la selezione delle tinte di oggetti, confezioni ed etichette. Una lunga tradizione di studi sperimentali votati alla classificazione delle preferenze cromatiche degli individui si rivelava infine più funzionale alle indagini di mercato che alle pratiche psicologiche o alla cura degli individui, per cui essi erano stati condotti in prima battuta. Del colore si riconosceva il potere di euforizzare o rendere disforico un oggetto o un ambiente, di promuovere il desiderio di acquisto, ma anche di contribuire al comfort domestico, ridurre il rischio di incidenti stradali, aumentare la sicurezza e la produttività dei luoghi di lavoro.
Ad esempio: prevalenza di toni caldi in un ufficio per agevolare buon umore, tinte fredde in un negozio di frigoriferi, luce uniformemente diffusa e colori ad alto grado di riflessività in un'aula scolastica per mantenere viva l'attenzione dei bambini, luce bianca pura nella sala del ristorante per non alterare il colore dei cibi, tinte confortanti come pesca, carne, camoscio chiaro, avorio o crema per la corsia di un ospedale.
Mentre la produzione capitalistica si sforzava di apparire sempre più razionale ed efficiente, mentre tentava di far proprie le moderne utopie progressiste di razionalizzazione della vita diversi film si mostravano piuttosto attratti dalle aporie, le contraddizioni, i conflitti aperti dalle nuove istanze. In questo senso, il passaggio al film a colori poteva rappresentare un'occasione per decostruire il vocabolario del colore rimontarlo a partire da nuove basi. Nuove ondate, colori nuovi Il triennio della nouvelle vague (1956-61) si dispiegò all’insegna del bianco e nero con alcune eccezioni (La donna è donna, Godard, 1961). Solo alla metà degli anni 60 il colore divenne scelta maggioritaria tra quelli che ne erano stati i maggiori esponenti: Rivette, Truffaut e Rohmer. I giovani critici della nouvelle vague furono tra i primi a ripensare gli usi e le funzioni del colore cinematografico. Già in alcuni dei loro interventi degli anni cinquanta essi esplicitarono una sensibilità fondamentale diversa rispetto alle precedenti generazioni di teorici e cineasti.
Per Rhomer il nuovo elemento non doveva nobilitarsi attraverso il confronto con la pittura, le belle arti e la cultura venerata, oppure cercare la propria misura in un gusto preso a prestito dal museo, ma al contrario gettarsi senza complessi né limitazioni nel mondo prosaico dei colori per cogliere direttamente la bellezza delle cose. Se già Delluc negli anni venti aveva indicato nel cinema il regno della moda, degli oggetti e dei moderni mezzi di trasporto, diventava ora possibile, anzi necessario, riconsegnare tutti i suoi colori a un'analoga serie visiva. L'attenzione veniva posta sui film che esibivano anche in modo sfacciato i colori più sgargianti. Da un lato coloro che a Hollywood si erano spinti più lontano possibile dalle logiche di limitazione delle tinte, come Hitchcock, Lang o Ray, dall'altro i padri europei Renoir e Rossellini, tra i primi a sperimentare usi non convenzionali e non accademici del colore nei loro film degli anni cinquanta. Il triennio d'oro della nouvelle vague si dispiegò ancora all'insegna del bianco e nero con le uniche eccezioni di “A doppia Mandata” e “La donna è donna”. Solo intorno alla metà degli anni sessanta, il colore divenne scelta maggioritaria tra quelli che ne erano stati i principali esponenti. La scelta del bianco e nero risultava la più idonea a soddisfare le esigenze economiche e tecniche dei cineasti ad inizio carriera. Dopo aver sperimentato il colore tutti i principali esponenti della nouvelle vague avrebbero continuato a girare anche in bianco e nero. Il colore poteva rappresentare un potente alleato per le nuove forme di scrittura elaborate dalle nouvelle vague e dai principali autori europei del decennio. Anziché considerarlo come un effetto collaterale esso veniva pensato come un vettore visivo da sfruttare al massimo grado. In tutti i film presi in esame, i volti risultavano sempre meno colorati dei vestiti e degli oggetti. Questo dato di fatto determinava un sostanziale riassetto delle gerarchie visive: i film sembravano spostare l'attenzione dai personaggi verso i segnali della cultura commerciale disseminati lungo le strade delle città. Girare a colori portava dunque al contempo a una riscoperta del mondo e
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved