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La sindrome tedesca., Appunti di Storia Delle Relazioni Internazionali

Riassunto del libro "La sindrome Tedesca" di Valerio Castronovo

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 08/01/2020

Rattatat
Rattatat 🇮🇹

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Scarica La sindrome tedesca. e più Appunti in PDF di Storia Delle Relazioni Internazionali solo su Docsity! CAPITOLO 1 DA UN EUROPA ALL’ALTRA L’«onesto baratto» della riunificazione tedesca I colpi di piccone che nel novembre del 1989 sbriciolarono nel giro di pochi giorni il Muro di Berlino non misero fine soltanto alla divisione in due tronconi della Germania, segnarono anche il preludio del crollo dell’impero sovietico. E posero perciò ai paesi euro-occidentali un insieme di problemi altrettanto rilevanti che di impatto immediato a cui erano assolutamente impreparati. Sia perché era dominante il convincimento che tanto la contrapposizione fra Est e Ovest, quanto le ragioni della Realpolitik avrebbero continuato a congelare lo status quo e quindi a esorcizzare anche una questione scabrosa come quella tedesca, sia perché la crisi di gran parte dei regimi comunisti dell’Est, stava incrinando le fondamenta del Patto di Varsavia. Gorbačëv, sebbene non avesse sbarrato la strada alla svolta politica in corso nei paesi dell’Europa orientale, intendeva mantenere in vita quell’alleanza, simmetrica al Patto Atlantico, che per il Cremlino aveva garantito sino ad allora la propria sicurezza: a meno di rinunciarvi in cambio di determinate condizioni da parte degli Stati Uniti. Esse avrebbero dovuto consistere, in sostanza, nel riconoscimento all’Urss di un ruolo eminente in quella che, dopo la seconda guerra mondiale, era divenuta la sua area precipua di controllo e d’influenza. Quanto alla prospettiva che la Repubblica federale tedesca (Rft) incorporasse la Repubblica democratica (Rdt), non era un mistero che essa avesse destato forti apprensioni negli altri paesi della Comunità europea. Il ritorno in vita di una grande Germania, con più di ottanta milioni di abitanti e una posizione strategica al centro del Vecchio Continente, avrebbe modificato infatti gli equilibri esistenti all’interno della Cee (Francia\Italia e GB non volevano la riunificazione). Tuttavia suscitava, al tempo stesso, non poche apprensioni il rischio che gli ex paesi satelliti dell’Urss sprofondassero nell’anarchia, in un marasma di vaste proporzioni, come c’erano già vari sintomi che stesse per accadere nella penisola balcanica in seguito all’incipiente disgregazione del mosaico nazional-etnico jugoslavo. D’altra parte, non andava escluso il pericolo che i regimi comunisti venissero rimessi sul piedistallo da un intervento militare in extremis dell’Unione Sovietica. In una situazione ancora incerta e densa di incognite la ricomposizione delle due Germanie avrebbe potuto perciò costituire un importante tassello per la stabilizzazione dell’Europa centro- orientale in concomitanza con le «rivoluzioni di velluto» in corso nei paesi dell’Est verso un nuovo sistema politico-istituzionale. Era questo il punto di vista dell’amministrazione americana e del suo presidente, il repubblicano George Bush ma secondo lui sarebbe spettato alla Comunità europea agire di conseguenza, e non già agli Stati Uniti. Per tutto il corso del 1990, Francia e Gran Bretagna rimasero alla finestra di fronte alla questione tedesca, malgrado fossero titolari dei cosiddetti «diritti di riserva», ancora vigenti, sulla sorte della Germania nella sua configurazione complessiva, oltre che dell’alto controllo interalleato di Berlino. Allo stesso modo si comportarono nei riguardi dell’esigenza di aiutare l’Europa dell’Est a uscire senza scosse dirompenti dal collasso del «socialismo reale», perché ciò avrebbe richiesto innanzitutto un piano impegnativo di assistenza economica, in seguito allo sfaldamento del Comecon. Fu così il cancelliere tedesco Helmut Kohl a gestire direttamente i negoziati con Gorbačëv che posero le premesse per la riunificazione tedesca. Intavolò trattative con Mosca, in stretta collaborazione con Bush e tenendo pressoché all’oscuro del loro andamento, sin quasi all’ultimo, gli altri governi della Cee. A ogni modo, Kohl andò dritto per la sua strada nella ricerca di un accordo con i sovietici, nonostante fossero venuti crescendo, in alcuni ambienti politici sia a Parigi che a Londra, i sospetti che il cancelliere tedesco fosse disposto, pur di raggiungere i suoi scopi, a staccare la Germania dalla Nato. Kohl, in un incontro a quattr’occhi avvenuto il 16 luglio nel paese natale del leader sovietico, ottenne il consenso di Gorbačëv alla riunificazione della Germania, in cambio di dodici miliardi di marchi per il mantenimento temporaneo dei soldati sovietici di stanza nell’ex Rdt e la loro sistemazione in patria, più un prestito senza interessi, e dopo una solenne dichiarazione dei due Parlamenti tedeschi sull’inviolabilità delle frontiere con i paesi contigui stabilite all’indomani dell’ultima guerra. Il «colpo maestro» compiuto da Kohl dal punto di vista diplomatico aprì la strada a un trattato fra Bonn e Mosca, firmato il 12 settembre col placet di Washington. Tre settimane dopo, il 3 ottobre 1990, si giunse così alla riunificazione della Germania con l’incorporazione della Rdt nella Repubblica federale tedesca. Il fatto che la Germania avesse riacquistato in pieno la propria sovranità valse a rafforzare le analoghe aspettative di libertà e indipendenza dei paesi dell’Est, quando non era ancora del tutto escluso il rischio di una loro ricaduta all’indietro, di un ritorno nell’orbita del Cremlino. Sia Bush che Gorbačëv dovettero perciò ammonire il governo tedesco affinché mettesse le briglie a certe sortite inammissibili quanto controproducenti e si affrettasse a siglare un apposito trattato con Varsavia basato sul riconoscimento delle frontiere fra i due paesi stabilite dopo il 1945. Ciò che avvenne il 14 novembre 1990. Mentre la Repubblica federale tedesca cominciò a procedere nell’annessione della Rdt, senza promulgare una nuova Costituzione ma estendendo semplicemente le proprie leggi, gli altri Stati della Comunità europea si trovarono a dover districare una matassa di problemi estremamente aggrovigliata, in cima ai quali stavano innanzitutto quelli di ordine economico. Occorreva infatti aiutare concretamente i paesi dell’Europa orientale affinché non si propagasse un’ondata di sconforto e risentimento nei confronti dell’Occidente, tale da far rimpiangere i passati regimi. Ma non si poteva più confidare, come era avvenuto nel 1948, nel varo da parte degli Stati Uniti di un consistente programma di soccorsi, analogo a quello del Piano Marshall. E per quanto riguardava la Cee c’erano poche risorse su cui contare. Se il governo francese si diceva pronto a fare la sua brava parte, l’Italia e i paesi del Benelux erano assai più cauti; per non parlare della Gran Bretagna. Quanto al governo tedesco, era già impegnato sino al collo a soccorrere i Länder orientali da cui stava riversandosi in quelli occidentali un fiume di gente in cerca di un’occupazione. Senonché, dopo il collasso dei paesi comunisti dell’Est, erano venuti a mancare all’industria tedesco-orientale importanti mercati di sbocco per le sue produzioni. Contrariamente alle iniziali previsioni eccessivamente ottimistiche dei dirigenti tedesco-occidentali, risultava assolutamente improbabile che si potessero integrare diciassette milioni di tedeschi dell’Est. Era comunque evidente che la ricostituzione di una grande Germania ponesse soprattutto una questione cruciale d’ordine politico. Perciò, secondo Mitterrand, era indispensabile legare più strettamente il nuovo Stato tedesco alle istituzioni comunitarie europee. E lo si sarebbe potuto fare mediante un’unione economica e monetaria. Ma alcuni governi del Nord Europa ritenevano che si sarebbe trattato di una «fuga in avanti» che avrebbe compromesso i risultati del faticoso lavoro svolto sino a quel momento per la realizzazione del mercato unico europeo. Tanto più che non tutti convenivano sull’istituzione di una moneta unica europea: a cominciare dal premier britannico, Margaret Thatcher, secondo la quale l’integrazione monetaria avrebbe comportato un deperimento, assolutamente inammissibile, della sovranità nazionale. Quanto alla Germania, non è che alla Bundesbank piacesse l’idea di una moneta unica, in quanto era gelosa della supremazia del marco e della propria autonomia; inoltre nutriva forti perplessità in ordine alla creazione di una Banca centrale europea (Bce), poiché temeva che essa potesse divenire il principale finanziatore di vari Stati europei, della cui solidità non si fidava. Il governo di Bonn, anche perché diviso al suo interno, aveva perciò preferito temporeggiare. La politica doveva venire prima dell’economia, aveva perciò detto ai suoi connazionali, anche se erano preoccupati, dopo l’euforia iniziale, che la Germania dovesse pagare un prezzo troppo alto. L’unificazione monetaria si trattò di un vero e proprio baratto, in quanto l’impegno assunto da Kohl di abbandonare il marco a favore dell’unione monetaria valse a rimuovere le preoccupazioni di Mitterrand sulla riunificazione della Germania. Il Consiglio della Cee, riunito in sessione speciale a Roma alla fine di ottobre del 1990, indisse perciò una Conferenza intergovernativa per metà dicembre, dedicata al progetto dell’unificazione monetaria. Al di là delle reiterate dichiarazioni personali di Kohl di volere una «Germania europea», si riteneva comunque che occorresse sancire al più presto e in modo concreto, con un apposito trattato, il passaggio della Cee all’unificazione economica e monetaria. Altrimenti non si sarebbe giunti a tenere sotto controllo, nell’ambito dell’Europa dei Dodici, gli sviluppi di una Germania troppo grande per la sua consistenza demografica e le sue risorse economiche. Ma c’era anche chi pensava che, con l’avvento di una moneta unica, si sarebbe finito col lavorare per «il re Un conto salato e una gelata recessiva In sostanza, per una ragione o per l’altra, mentre la Francia e l’Inghilterra, per contrastare gli effetti della crisi economica, si trovavano dinanzi al dilemma se attuare delle politiche monetarie più espansive o perdere il passo con la Germania, altri paesi (come l’Italia, il Belgio, l’Irlanda e la Danimarca) erano costretti, per finanziare il loro ingente debito pubblico, a mantenere alti i propri tassi d’interesse. Al fine di riassorbire la disoccupazione, si stabilì perciò a Bruxelles di mettere a disposizione della Banca europea per gli investimenti un primo cospicuo stanziamento da destinare al potenziamento delle infrastrutture, in particolare al progetto di una nuova serie di reti intereuropee nel campo dei trasporti e dei collegamenti telematici. Venne deciso inoltre di attuare un piano che assicurasse un rifinanziamento dei fondi strutturali europei nel giro di cinque anni. Intanto solo il marco tedesco e il fiorino olandese s’erano mantenuti nella fascia stretta del Sistema monetario europeo. Ma se la Germania, grazie anche alla solidità della sua moneta, si faceva finanziare dal resto dell’Europa per sanare il profondo dualismo esistente fra le sue contrade occidentali e quelle orientali, lo doveva anche alla condiscendenza di Parigi. Quando nell’ottobre 1993 si tenne a Bruxelles un vertice straordinario dei Dodici per valutare come rilanciare l’Europa di Maastricht, Kohl riuscì infatti a preservare tale e quale l’indirizzo della Bundesbank. E ciò in virtù dell’aiuto di Mitterrand. Per ragioni di prestigio nazionale, il presidente francese aveva deciso di mantenere l’aggancio del franco al marco, sia pure a costo di notevoli sacrifici. Inoltre egli non escluse, al fine di procedere comunque senza varianti di sorta verso il traguardo della moneta unica, l’ipotesi di più corsie di marcia: una strettamente conforme alle scadenze fissate dal Trattato di Maastricht; l’altra riservata ai paesi (come l’Inghilterra) che avevano chiesto di differire la decisione di imboccare o meno la strada verso l’unificazione monetaria; una terza, infine, per quegli Stati membri favorevoli a una maggiore integrazione ma che si trovavano in condizioni economiche di non sufficiente convergenza con i parametri stabiliti due anni prima19. Ma se in tal modo non s’era azionato il freno sulla via dell’unificazione monetaria (e si era provveduto così alla creazione a Francoforte di un Istituto monetario europeo col compito di provvedere alla gestazione della costituenda Banca centrale europea), gran parte dell’opinione pubblica appariva sostanzialmente restia all’idea di una messa in mora delle prerogative degli Stati nazionali. Il corso ondivago della politica europeista Dal giugno 1991 Berlino era tornata la capitale della Germania. Tuttavia Bonn era rimasta per il momento la sede del governo, in attesa che venissero portati a compimento entro il 1998 i lavori di ristrutturazione di una città divisa per tanto tempo in due tronconi. E nel gennaio 1993 Kohl aveva voluto celebrare con particolare solennità il trentesimo anniversario del Trattato dell’Eliseo, con cui De Gaulle e Adenauer avevano sancito la riconciliazione franco-tedesca e la nascita dell’intesa destinata a fare da motore al processo d’integrazione europea. Per il presidente francese la riappacificazione fra i due grandi paesi europei, avrebbe continuato ad agire da contrappeso all’egemonia americana nel mondo occidentale. Quanto al cancelliere tedesco, ben sapeva come l’amicizia con la Francia avesse concorso alla reintegrazione a pieno titolo della Germania federale nell’ambito delle nazioni democratiche. Ma non sembrava affatto che la riunificazione tedesca e il progetto di unione economica e monetaria costituissero il preludio di un’unione politica europea a tutti gli effetti, come si affermava invece nelle dichiarazioni ufficiali di Bruxelles. I Dodici stavano mostrando infatti di agire indipendentemente l’uno dall’altro. Inoltre, nei principali schieramenti politici era affiorato più d’un interrogativo sulle modalità e i tempi fissati a Maastricht per dar vita a una moneta unica. Dopo il rinnovo nel giugno 1994 del Parlamento di Strasburgo, Londra aveva posto il veto alla nomina alla presidenza della Commissione del belga Jean-Luc Dehaene, perché considerato troppo europeista. E sebbene non spirasse una vera e propria ventata di euroscetticismo, s’erano addensati all’orizzonte nuovi dubbi e ripensamenti. A suscitarli o ad alimentarli era innanzitutto la rincorsa dell’economia tedesca. Grazie alla forza del «supermarco» e a tassi d’interesse più alti di quelli di gran parte dei paesi europei, la Bundesbank, come si è detto, continuava a rastrellare capitali destinati a sorreggere i provvedimenti del governo federale per i Länder orientali. Inoltre i finanzieri di Francoforte seguitavano ad assicurare alla Russia gran parte delle aperture di credito di cui Mosca aveva assoluto bisogno per la sua disastrata economia. Ma non solo per questi motivi la Germania faceva sempre più ombra, dato che continuava appunto a prosciugare, tramite una marcata politica unilaterale della Bundesbank, gran parte delle fonti finanziarie disponibili sui mercati, a scapito degli altri partner europei. Si temeva che stesse rinascendo dall’altra parte del Reno il virus del nazionalismo. Nell’aprile 1994 il presidente della Repubblica federale tedesca avesse affermato che era «interesse vitale della Germania», l’allargamento dell’Unione a Est suscitando l’impressione che egli intendesse riproporre una rinazionalizzazione della politica estera tedesca. Per la Francia, invece, l’apertura verso Est andava attuata per fasi graduali e a ben precise condizioni, non volendo andare a rimorchio della Germania. Era stato poi il dissenso espresso a questo riguardo dai socialdemocratici tedeschi (preoccupati sia delle conseguenze finanziarie di un’operazione del genere sia del rischio che si riversasse in Germania un ingente flusso di immigrati dalla Polonia e da altre contrade dell’Est) a indurre Kohl a prendere le distanze da un’ipotesi «integrazionista» ventilata da alcuni esponenti del suo partito. Egli si limitò così a proporre una sorta di «dialogo strutturato»: ossia, l’intensificazione dei contatti e delle consultazioni con i rappresentanti di quelle nazioni dell’Europa centro- orientale (come Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca). Se Kohl non aveva avuto alcuna difficoltà nel patrocinare al vertice di Essen del dicembre 1994 l’ammissione dell’Austria nella Comunità europea, ne aveva invece incontrate non poche nel perorare la causa della Svezia e della Finlandia, malgrado le loro credenziali eminentemente democratiche e le loro prospere condizioni economiche. Senonché il governo di Madrid aveva minacciato di porre il veto in quanto la Spagna (in possesso di una cospicua flotta di pescherecci) subordinava il proprio consenso al riconoscimento, da parte dei due governi scandinavi, del diritto per le sue imbarcazioni di gettare le reti nelle acque del Mare del Nord. Intanto si era dileguata la prospettiva di aggregare nell’Unione la Norvegia, i cui cittadini, chiamati a pronunciarsi con un referendum sulla proposta di adesione alla Comunità europea, avevano optato decisamente per il no, non volendo condividere con gli altri Stati europei le importanti risorse naturali di cui il loro paese disponeva. A rendere tortuoso il percorso verso l’unione monetaria non erano solo alcuni motivi e calcoli d’interesse nazionale. Erano anche le forti turbolenze che avevano ripreso a manifestarsi nei mercati finanziari. Il Belgio, la Spagna, il Portogallo arrancavano, ma era soprattutto l’Italia sotto le lenti delle agenzie di rating e delle principali cancellerie, in quanto si pensava che fosse ormai fuori gioco. Dopo che tra il 1992 e il 1993 le inchieste giudiziarie su Tangentopoli, sugli intrecci fra affarismo e politica, avevano decimato la Democrazia cristiana e il Partito socialista, ponendo fine all’epoca della Prima Repubblica, si era insediato nel maggio 1994, all’indomani delle elezioni, un governo di centro-destra, presieduto da un leader del tutto privo di esperienza politica come Silvio Berlusconi. E a Bruxelles si era diffusa la sensazione che da Roma si guardasse non più con gli stessi occhi d’un tempo alla causa europea, benché i due commissari scelti dal nuovo governo a rappresentare l’Italia nella Commissione esecutiva, Mario Monti ed Emma Bonino, fossero convinti europeisti. La lira continuava a essere bersagliata dalle speculazioni al ribasso. Peraltro, non erano solo le persistenti oscillazioni di alcune divise nazionali a condizionare le direttrici di marcia di questo o quel paese. Il passaggio del timone al neo-gollista Jacques Chirac, eletto di stretta misura all’Eliseo nelle presidenziali del maggio 1995, accrebbe le incertezze. Egli era considerato infatti un euroscettico. Per Parigi, l’aggregazione dell’Austria, della Svezia e della Finlandia, se aveva ampliato la consistenza dell’Unione a quindici membri, avrebbe finito comunque per rafforzare le posizioni della Germania, con la quale tanto il governo di Vienna che quelli degli altri due paesi erano in particolare sintonia. Chirac decise così di imprimere un colpo di barra alla politica estera francese, prese perciò l’iniziativa di proporre a Kohl un nuovo accordo, a supporto del Trattato di Maastricht, che impegnasse i paesi della Comunità a mantenere in vita, dopo l’introduzione dell’euro, una severa disciplina di bilancio, ma che tenesse comunque in debito conto determinate esigenze di carattere sociale. La nevrosi tedesca e una ridda di sospetti reciproci L’ex presidente della Commissione Jacques Delors, pur ribadendo la validità dei principi ispiratori del Trattato di Maastricht, riteneva tuttavia che, al momento della sua definizione, fosse venuta a mancare una direttiva fondamentale. Non era stato infatti incluso un riferimento alla piena occupazione come una delle finalità basilari da perseguire, accanto all’unificazione monetaria. Invece, allorché si era concepita, tra il 1988 e il 1990, l’unione economica e monetaria si era convenuto che i progressi nei due ambiti dovessero essere strettamente connessi e contemporanei. Delors aveva addebitato ad alcuni ministri delle Finanze, lasciando capire che si trattava soprattutto del tedesco Theo Waigel, il fatto che fosse mancata all’euro quest’altra direttrice di marcia. Di conseguenza s’era finito per elevare la stabilità monetaria al di sopra di ogni altro obiettivo. Intanto si stava infittendo la schiera di quanti, negli ambienti politici e in quelli sindacali, mettevano sotto accusa i criteri di convergenza, dipingendoli come il risultato di calcoli unilaterali e strumentali delle banche centrali, con in testa la Bundesbank. In ballo c’era pure il problema di perfezionare i congegni del mercato unico, che era limitato. In ogni caso, per il governo tedesco ciò che più contava era l’attuazione senza alcuna variante del Trattato di Maastricht. Se altri Stati non ce l’avessero fatta ad allinearsi ai suoi parametri, la Germania avrebbe potuto costituire, insieme ad alcuni partner nordici a moneta forte, un «nocciolo duro» e procedere oltre distaccando gli altri. Era questo, almeno, l’orientamento della maggioranza di governo. E naturalmente questa tesi aveva alimentato le polemiche nei paesi che sembravano correre il rischio di venire relegati in seconda fila. In Germania si pensava che un po’ dovunque si accampasse un pretesto dopo l’altro per annacquare le clausole del Trattato di Maastricht; altrove si riteneva che i tedeschi alzassero continuamente l’«asticella» per rendere più rigorosi i requisiti fissati nel Trattato. Si cercò così, nel summit tenutosi a metà novembre a Dublino, di trovare una quadratura del cerchio. Siccome i tedeschi temevano che l’Italia, la Spagna e il Portogallo, qualora fossero entrati a far parte di una compagine a moneta unica, divenissero un grave fattore d’instabilità, data la montagna dei loro debiti pubblici e i loro elevati tassi d’inflazione, Waigel ottenne che venissero previste severe sanzioni pecuniarie nei confronti dei paesi che, una volta entrati nell’unione monetaria, avessero deviato in prosieguo di tempo dai criteri di convergenza fissati a Maastricht. La Francia e l’Italia, fautrici di una linea più morbida, condivisa da Madrid e Lisbona, riuscirono comunque a far passare un emendamento per cui si sarebbe agito con una certa «discrezionalità politica» nell’applicazione dell’«early warning» agli Stati della zona euro che si fossero scostati dagli standard in materia di bilancio. In pratica, le penalità previste nel caso di disavanzi eccessivi non sarebbero scattate automaticamente, ma solo qualora un paese non fosse risultato in grado di sanare la situazione nel giro di due anni. Dal vertice di Dublino emerse inoltre, per iniziativa di francesi e tedeschi, l’impegno a valutare, se e come consentire a un certo numero di paesi membri di sviluppare una «cooperazione rafforzata». Ciò stava a significare che quanti avessero tagliato il traguardo della moneta unica sarebbero stati liberi di spingersi più avanti sulla strada dell’integrazione, senza tuttavia trincerarsi dopo di allora entro le proprie mura. Ma insorse il sospetto che in tal modo Bonn e Parigi avrebbero piegato le strutture della Comunità ai loro precipui interessi, in quanto si dava per scontato che Germania e Francia avrebbero raggiunto entrambe la meta per prime. Quello che Waigel considerava un successo da lui riportato al vertice di Dublino venne invece ritenuto dalla Bundesbank una sorta di «vittoria di Pirro». A Francoforte non si era affatto sicuri che gli impegni assunti nell’ultimo vertice sarebbero stati rispettati alla lettera da tutti: tanto più dopo la decisione di anticipare al 1997 l’anno di riferimento per la verifica dei requisiti fissati a Maastricht. Lo scenario politico era infatti mutato sensibilmente in importanti paesi europei, colpiti da crisi e disoccupazione, e in molti erano convinti che fosse indispensabile adottare misure più efficaci a sostegno dell’economia: se non altro, perché stavano rimbalzando in Europa gli effetti della grave recessione che aveva investito alcuni paesi asiatici. Frattanto, in Germania la situazione era divenuta sempre più pesante, eppure la Bundesbank seguitava a sostenere che non si doveva deflettere d’un pollice dall’indirizzo sinistra; e i suoi meriti, in quanto fautore di una politica di moderazione salariale e di stabilità monetaria, come pure le sue competenze tecniche, erano senz’altro ineccepibili. In passato i tedeschi non erano stati a traccheggiare più di tanto con i francesi anche quando si trattava di certe poltrone europee che più contavano. Ma questa volta erano decisi a sostenere energicamente la candidatura dell’olandese Wim Duisenberg, patrocinata dalla Bundesbank, che s’era procurata, del resto, i consensi di pressoché tutti i governatori delle altre banche centrali europee. Solo dopo una lunga negoziazione si era giunti a escogitare, con la mediazione del premier britannico Tony Blair (scelto a far da arbitro in quanto del tutto fuori dalla mischia), una soluzione di compromesso. Ovvero: nella designazione alla presidenza della Bce di Duisenberg; ma successivamente le redini dell’Istituto, di lì a quattro anni, sarebbero passate automaticamente a Trichet. Ma era un accordo tacito, altrimenti avrebbe portato revisioni al trattato di Manstricht. La «terapia d’urto» di Schröder In Germania vi era il dubbio se il proprio governo riuscisse a tener fede al Patto di stabilità, infatti la situazione dell’economia tedesca era disastrosa, malgrado la considerevole quantità di capitali affluiti dall’estero grazie agli alti tassi d’interesse praticati dalla Bundesbank. Ma gran parte delle risorse così procuratesi, e destinate a soccorrere i Länder tedesco-orientali, non erano valse ad affrancarli dalla disoccupazione e dall’indigenza. Schröder era convinto che l’euro, per il quale era stato sacrificato il loro marco tanto adorato, avrebbe procurato più malanni che benefici. E che Kohl non fosse riuscito a convincere del contrario la maggioranza dei suoi concittadini lo aveva dimostrato appunto l’esito delle elezioni che lo avevano sbalzato di sella. I francesi erano riusciti a sorpassare i tedeschi quanto a rigore finanziario: avevano raggiunto un’inflazione vicina allo zero e i tassi d’interesse più bassi d’Europa. Erano quindi anche i tedeschi sotto le «forche caudine» di Maastricht e pertanto dovevano applicare, per primi, una dura politica finanziaria, come aveva predicato fino ad allora la Bundesbank. Ma se Duisenberg (presidente Bundesbank) si prefiggeva di agire come il «guardiano della stabilità monetaria», in base al suo preciso mandato, i francesi non avevano affatto disarmato. Sostenevano che la Banca centrale andasse considerata una delle varie istituzioni comunitarie, sotto la sovrintendenza del Consiglio dei capi di Stato e di governo non diversamente dalle altre: ciò che sarebbe risultato, però, in contraddizione con la totale indipendenza della Bce inscritta nel suo statuto. Inoltre Jospin erano convinto, che, accanto alla Bce e al Comitato dei ministri economici dell’Unione (incaricato di verificare i bilanci per il Patto di stabilità), si dovesse istituire un apposito organismo investito del «governo economico» della Ue. Un organismo dotato perciò di poteri d’iniziativa che gli consentissero di svolgere, alla luce dei problemi che s’affacciavano di volta in volta, un’adeguata opera di dosaggio fra politica monetaria e politica macroeconomica. In pratica il governo francese, mentre era inattaccabile quanto al rispetto dei parametri di Maastricht, dato che i conti pubblici risultavano per il momento in ordine, avrebbe potuto esercitare, attraverso una leva come quella proposta da Parigi, una forte capacità d’iniziativa e di pressione politica. Tutt’altro era lo spazio di manovra di Schröder, che avrebbe dovuto rilanciare lo sviluppo e l’occupazione, come stava scritto nel programma del suo partito, senza incappare nelle tagliole del Trattato di Maastricht. Oltretutto, il modello renano dell’economia sociale di mercato, ereditato dai governi centristi, comportava un robusto sistema di welfare. Ma fu proprio su questo versante che il nuovo cancelliere, a capo di una coalizione fra Spd e Verdi, si trovò a dover agire, in mancanza di altre soluzioni, procedendo alla revisione di un sistema di protezione sociale considerato fino ad allora intangibile. Inizialmente Schröder cercò pertanto di introdurre alcuni piccoli correttivi al welfare. Ma presto il cancelliere dovette usare una mano più pesante, sia pur in termini selettivi, per sfrondare i nodosi rami di un welfare onnicomprensivo ed eccessivamente generoso (20% del PIL). Non c’erano tuttavia alternative, se si volevano tamponare i buchi del bilancio federale, non bastavano né la «tassa di solidarietà», pari al 5,5 per cento dell’imposta sul reddito, né i capitali presi a prestito in abbondanza dall’estero per coprire l’ingente salasso di risorse che i Länder orientali continuavano a pompare. Inoltre, il tasso di disoccupazione, aveva ripreso a crescere e la Germania stava scivolando al fondo della classifica economica europea. A sorreggerne le sorti erano in pratica unicamente le esportazioni, ma si dubitava che potessero continuare a tirare, dato che l’industria era gravata da una pesante tassazione (tanto che alcune imprese avevano dislocato parte dei loro impianti all’estero) e non brillava nei settori d’avanguardia (dall’elettronica all’informatica, al software). L’euro e una sfida ambiziosa al dollaro Abbastanza usless, volevano dare all’euro lo stesso valore del dolalro, ma era difficile perché il dollaro governava la maggior parte dei mercati, e l’unificazione europea stava avendo più di una difficoltà. Oltre sul piano economico si voleva anche tolgiere la subordinazione dell’europa all’america con questa ambizione. Senza alcun orientamento univoco Benché si affermasse invariabilmente che l’euro costituiva il preludio di un’unione politica, alle parole non seguivano decisioni che avvalorassero questa prospettiva. Oltretutto, il problema di un eventuale allargamento della Comunità a Est aveva complicato ulteriormente le cose. Nel 1999 sei governi dell’ex impero sovietico avevano ottenuto di venire «associati» all’Unione europea ma non sapevano quale sarebbe stato il momento in cui Bruxelles avrebbe dato il via al loro «esame d’ammissione». Pur non abbandonando al loro destino i paesi ex comunisti (dato che la Banca aveva fatto prestiti), a Bruxelles s’era azionato il pedale del freno. Dopo esser stata propensa a un’apertura verso l’Est, la Germania aveva fatto retromarcia: sia perché temeva che si riversasse entro le proprie mura un’ingente fiumana di immigrati, sia perché varie sue banche e imprese industriali avevano accresciuto la loro presenza in alcune nazioni orientali limitrofe, e questo era per il momento più che sufficiente. A sua volta, il governo francese era assai più interessato a che la Commissione accrescesse gli aiuti verso le regioni nordafricane, a presidio della sicurezza e della stabilità dei governi «amici» di Parigi sull’altra sponda del Mediterraneo: ciò che peraltro stava a cuore anche a Roma e a Madrid per via di alcuni loro interessi economici in quelle contrade. Questo non era comunque l’unico motivo per cui la Francia aveva preferito che venisse rallentata l’aggregazione degli Stati dell’Est nella Comunità europea. L’inclusione della Polonia e di altri paesi centro-orientali, a prevalente economia rurale, avrebbe imposto infatti una riforma della politica agricola comune (Pac). E se questo poteva star bene alla Gran Bretagna e all’Olanda, in polemica da sempre con il protezionismo e l’assistenzialismo di Bruxelles, non andava invece a genio a quasi tutti gli altri partner dell’Unione, e alla Francia per prima, che beneficiavano in maggior misura delle sovvenzioni agricole. A non contare il fatto che si sarebbe imposta un’analoga revisione per i fondi strutturali di sviluppo regionale, che fornivano parecchio combustibile a Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda e Italia. Insomma, la maggior parte dei governi di eurolandia non intendeva rinunciare alle provvidenze di cui godeva, ma se il lavoro della Commissione su una trentina di capitoli negoziali andava per le lunghe, era anche perché non si sapeva bene come avrebbe reagito la Russia a un’aggregazione alla Comunità europea di tanti suoi ex satelliti. A Mosca le elezioni svoltesi nel marzo 2000 avevano portato al potere Vladimir Putin. E l’avvento al potere, sull’onda di un prorompente sussulto nazionalista, dell’ex colonnello del Kgb, presentatosi come un «uomo forte», deciso a rialzare le quotazioni del suo paese, aveva indotto Bruxelles ad agire con prudenza e quindi a non accelerare l’incorporazione dei paesi dell’Est. Tuttavia, questo non era il più importante problema politico rimasto irrisolto. Come rendere l’unione monetaria un effettivo acceleratore in direzione dell’integrazione politica: era questo il problema su cui continuava a ruotare il dibattito. Senza una convergenza di intenti dei principali partner sui passi da compiere in tal senso, era un’illusione pensare che l’euro, di per se stesso, agisse in modo automatico per il conseguimento di un obiettivo così cruciale (in molti pensavano che l’euro non sarebbe durato). Un’impasse dopo l’altra Ben consapevoli sia della mancanza di una precisa identità dell’Unione che del suo «deficit democratico», i leader europei avevano deciso, nel vertice di Colonia del giugno 1999, la stesura di un decalogo di diritti e valori condivisi. S’era dato perciò mandato a una commissione, con a capo l’ex presidente della Repubblica federale tedesca Herzog, di predisporre il testo di una Carta dei diritti fondamentali in conformità a determinati principi ideali e politici dell’Unione. Approvata nel successivo ottobre, essa comportava, per la Comunità europea, la tutela della dignità della persona, della libertà individuale e dell’uguaglianza fra uomini e donne. Di conseguenza, elencava una serie di diritti, e in pratica, due erano i pilastri sui quali avrebbe dovuto fondarsi la cittadinanza europea della Comunità: una democrazia aperta a forme di maggiore partecipazione e uno Stato di diritto con il corollario di precise norme e garanzie. Inoltre, accanto alla riaffermazione delle libertà personali e dei tradizionali diritti civili e politici, figuravano nella Carta alcuni «diritti aggiuntivi» (al lavoro, all’istruzione, alla rappresentanza sindacale, alla salute e all’assistenza, ai servizi sociali). Non si sarebbero potuti garantire adeguatamente i diritti civili e politici senza tutelare contestualmente quelli sociali ed economici. Inoltre, ed era questa la principale novità della Carta, figuravano nelle sue clausole dei diritti per così dire post-moderni (come il diritto alla protezione dei dati personali, il divieto di ogni discriminazione fondata su caratteristiche genetiche o sull’orientamento sessuale), nonché la tutela a tutti gli effetti dei diritti dei bambini, degli anziani e dei portatori di handicap. Tuttavia, sebbene fosse stata fatta propria dal Parlamento e dalla Commissione, la Carta rimase per il momento solo una dichiarazione d’intenti, del tutto priva di forza giuridica. In pratica, soltanto dopo la sua incorporazione nei trattati fondamentali dell’Unione, previa ratifica dei singoli Parlamenti, la Carta avrebbe potuto assumere carattere vincolante. In concomitanza con la redazione della Carta dei diritti, s’era aperto un confronto in sede comunitaria su quale avrebbe dovuto essere il modello istituzionale più confacente da prendere in esame ai fini dell’unificazione politica della Comunità. Fra i massimi responsabili della politica europea, era soprattutto il ministro degli Esteri e vicecancelliere tedesco Fischer ad auspicare un assetto di tipo federale. In tal caso si sarebbe proceduto alla trasformazione dell’Unione in una vera e propria democrazia sovranazionale, con tanto di governo centrale responsabile del proprio operato nei confronti del Parlamento europeo (diviso in due Camere, una eletta dai cittadini, l’altra formata dai deputati nazionali), e con un presidente della Ue eletto direttamente a suffragio universale. In sostanza, Fischer aveva in mente una compagine federale pressoché analoga a quella del proprio paese, in cui gli Stati membri dell’Unione avrebbero perciò avuto più o meno lo stesso statuto dei Länder tedeschi, scattarono subito le reazioni da parte dei francesi, i quali ritenevano che Fischer puntasse in sostanza a una «germanizzazione» dell’assetto politico-istituzionale della Comunità, complementare a quella esercitata sul versante finanziario dalla Bundesbank. Il presidente francese acconsentiva piuttosto all’idea di un «plotone di testa» che creasse le condizioni di una più stretta integrazione politica. Ma questa ipotesi non trovava d’accordo il governo britannico, secondo il quale si correva in tal modo il rischio di provocare una spaccatura nell’ambito dell’Unione europea. In ogni caso, anche per i governanti inglesi, l’Unione non avrebbe dovuto estendere i suoi poteri sino al punto da diluire, e tantomeno assorbire, quelli degli Stati nazionali. Di fatto, una soluzione come quella federale, definita «massimalista», venne respinta dalla maggioranza dei governi europei perché avrebbe prefigurato, a loro avviso, una sorta di «super-Stato». Al vertice di Nizza col «pallottoliere» In vista dell’estensione delle istituzioni comunitarie ai paesi ex satelliti dell’Unione Sovietica (da realizzarsi fra il 2004 e il 2009) occorreva elaborare un sistema normativo che riflettesse, nei processi decisionali, il diverso peso specifico degli Stati già membri della Comunità e quello dei nuovi entranti. A rigore, si sarebbe dovuto tener conto, per un’equa ripartizione proporzionale dei voti, sia del numero degli abitanti sia dell’entità del contributo di ogni singolo Stato al budget comunitario. Senonché, qualora si fossero adottati questi criteri, la riunificata Germania avrebbe fatto la parte del leone; e invece, in base allo statuto esistente, la Repubblica federale tedesca, la Francia, l’Italia e la Gran Bretagna avevano sempre avuto, per Dopo aver coltivato l’ambizione di assumere un ruolo di punta accanto alla Gran Bretagna, il governo francese era rientrato in parte nei ranghi, preoccupato delle reazioni che avrebbero potuto manifestarsi entro i propri confini, in cui erano presenti cospicue comunità di matrice islamica. A sua volta, il nuovo governo italiano di centro-destra, il secondo guidato da Berlusconi, pur confidando su un orientamento del centro-sinistra (anche se non tutto) favorevole in linea di massima a una partecipazione di unità militari nazionali contro il regime dei talebani, aveva a che fare con l’influenza sull’opinione pubblica del tradizionale ecumenismo e pacifismo del mondo cattolico. Nel corso dell’offensiva in Afghanistan furono perciò gli americani a mantenere il totale comando delle operazionii. D’altro canto, assai più dell’apporto dei contingenti euro-occidentali alla missione «Libertà duratura», risultò prezioso il sostegno indiretto alle operazioni militari assicurato dalla Russia, schierata sin dall’inizio dalla parte degli Stati Uniti per via dei legami stabilitisi fra i talebani di Kabul e i secessionisti ceceni. Perciò proprio l’Afghanistan, dove poco più di dieci anni prima l’Armata Rossa era stata costretta alla resa dai mujaheddin largamente sostenuti da Washington, divenne il terreno di una stretta intesa fra la Casa Bianca e il Cremlino, destinata a portare al potere Hamid Karzai, grazie alla pressione esercitata da Putin sui «signori della guerra» afghani dell’Alleanza del Nord, più vicini a Mosca, perché collaborassero con il governo filo-occidentale instaurato a Kabul. Anche su un altro scacchiere nevralgico, quello medio-orientale, i governi della Ue non avevano raggiunto un orientamento saldo e condiviso in materia di politica estera e di sicurezza, e i tentativi per una mediazione furono inutili. Era stato, piuttosto, il segretario di Stato americano Colin Powell a ottenere, il mese dopo, il progressivo ritiro dell’esercito israeliano dai Territori in cambio di uno stop agli attentati degli «uomini-bomba» palestinesi. I primi venti di contestazione A dieci anni dall’assise che, dopo estenuanti discussioni, aveva varato nel dicembre 1991 il testo del Trattato di Maastricht, si era indetto un vertice in Belgio, per tirare le somme di quanto era avvenuto fino ad allora sul «fronte interno». In realtà, non è che ci fossero motivi tali da compiacersi dei risultati di quel decennio, dato che era andata crescendo in pressoché tutti i paesi un’ondata di scontento e scetticismo. D’altro canto, erano ben pochi coloro che avevano una sufficiente cognizione delle strutture e del funzionamento della Ue. Ma se dominavano pregiudizi o valutazioni approssimative, lo si doveva anche agli scarsi rapporti fra i parlamentari europei e i loro elettori. In verità, il presidente della Commissione Romano Prodi aveva cercato di diradare questa spessa cortina fumogena sostenendo che occorreva accelerare il passo per giungere all’elaborazione di un progetto costituzionale, che democratizzasse le istituzioni europee e le impegnasse ad attuare determinati obiettivi d’interesse collettivo. Tuttavia, il suo appello per istituire un’apposita convenzione incaricata di occuparsi della questione non trovò sulle prime alcun concreto riscontro. Alla fine, francesi e tedeschi s’erano convinti che si trattava d’un passo necessario. Perciò al vertice tenutosi a Laeken s’era deciso di istituire un consesso con il mandato di presentare entro il primo semestre del 2003 un testo da sottoporre all’esame di una conferenza intergovernativa. In capo a questo iter avrebbe dovuto emergere un nuovo assetto istituzionale dell’Unione in coincidenza con l’allargamento delle sue frontiere ad altri dieci paesi. Questa risoluzione cadde in un tornante segnato dai mutamenti del quadro politico in vari paesi dell’Unione. I partiti di centro-destra ebbero al successo in Austria, Italia, Spagna e Danimarca. Ma il clamoroso successo del leader dell’estrema destra Jean-Marie Le Pen, nelle elezioni presidenziali francesi dell’aprile 2002, aveva messo in allarme i leader europei. Un autentico cataclisma che, oltre a determinare l’uscita dalla scena politica del leader del Partito socialista (Jospin?), costrinse Chirac a far appello agli elettori di sinistra per arginare il pericolo di un sorpasso del suo avversario alla prova decisiva. Il terremoto politico avvenuto in Francia suscitò un po’ dovunque in Europa, il timore che la stessa cosa si ripetesse in altri paesi e che, per un effetto domino, si rafforzassero a macchia di leopardo i partiti dell’estrema destra anti-sistema e razzista, a causa della crisi economica e all’insicurezza data dal terrorismo. Anche nei sobborghi delle maggiori città altri partiti ipernazionalisti e xenofobi si erano fatti avanti negli ultimi tempi in Danimarca, nei Paesi Bassi, in Norvegia, nelle regioni fiamminghe del Belgio, ad Amburgo e nel Nord della Germania. A rendere temibile la spinta antieuropeista di una destra politica estrema, non era la reviviscenza di orientamenti ideologici e culturali riconducibili tout court al vecchio «cuore nero», ai retaggi del catechismo fascista o del verbo nazista, e neppure a determinati filoni del pensiero antidemocratico classico, elitario e antiegualitarista. La forza d’urto di questa destra radicale consisteva piuttosto in una sorta di neo-populismo che faceva leva sullo spaesamento e sulle inquietudini prodotte in molte persone dall’impatto con un mondo senza più frontiere e con i mutamenti di scenario indotti dal processo di globalizzazione. Perciò il bacino sociale da cui essa attingeva adesioni e proseliti era costituito dalle frange più a rischio o marginali della società. In Francia la vittoria di Chirac al ballottaggio con Le Pen non era valsa a esorcizzare la minaccia rappresentata dall’irruzione di un’estrema destra con connotazioni demagogiche. Quest’ultima poteva infatti convogliare dalla sua parte tanta gente incattivita dalle crescenti difficoltà economiche in cui si dibatteva e in apprensione per il proprio futuro. Era così scaturita un’incipiente ventata di ostilità nei confronti dell’Unione europea. Occorreva invece dare un segnale tangibile che l’Unione europea non era quella che veniva definita come una congrega di notabili politici e di cospicui gruppi d’interesse. Si confidava perciò nella Convenzione, tenuta a battesimo a Laeken, affinché elaborasse una nuova identità politica dell’Unione europea e ne accreditasse una missione economica e sociale più efficace e convincente. CAPITOLO 3 LA LOGICA DEI Più FORTI Intergovernativi e federalisti Bisognava stabilire chi dovesse assumere la guida della Convenzione. I francesi, volevano la candidatura di Giscard d’Estaing. Da altri partner, soprattutto dalla maggioranza della sinistra europea, era stato fatto il nome dell’olandese Wim Kok. Alla fine era risultato decisivo il voto dei tedeschi. Pur essendo orientati in linea di principio a favore di una struttura europea federale, Schröder aveva ritenuto più conveniente, per motivi di opportunità politica, ravvivare l’alleanza con la Francia. Schröder aveva ottenuto in compenso che si bilanciasse la nomina dell’uomo indicato da Parigi con la creazione di un gruppo di presidenza, una sorta di «presidium», poi ridotto da nove membri a due vicepresidenti, ma entrambi di provata fede europeista. Erano stati così designati ad affiancare Giscard il socialista ed ex presidente del Consiglio italiano Giuliano Amato, fautore di un’Unione più coesa e avanzata sotto il profilo politico, e l’ex premier belga Jean-Luc Dehaene, di simpatie federaliste ed esponente del Partito popolare. In ogni caso, il problema di fondo da risolvere era quello di stabilire quale avrebbe dovuto essere un assetto che preservasse le prerogative degli Stati nazionali senza tuttavia ricalcarle tali e quali. Su quale configurazione dare alla Ue continuavano a dividersi i fautori del «modello comunitario» e quelli del «modello intergovernativo», quanti volevano più poteri per la Commissione e il Parlamento e quanti volevano invece che gli Stati si tenessero ben strette le loro competenze nel campo della difesa, della politica estera, del regime fiscale e del welfare. Se questo era il principale dilemma, c’erano comunque sul tappeto due altre importanti questioni. Da un lato, occorreva stabilire la sfera d’applicazione del principio di sussidiarietà rispetto alle strutture statuali e degli enti locali. Dall’altro, era necessario chiarire quali avrebbero dovuto essere in prosieguo di tempo le dimensioni geografiche dell’Europa comunitaria affinché non si dilatasse a un punto tale da essere in pratica ingovernabile e senza precisi tratti distintivi. Come era prevedibile, fin dalla prima sessione, inaugurata nel febbraio 2002, Giscard d’Estaing aveva cercato di indirizzare i lavori della Convenzione su determinati binari in modo che risultassero confacenti sia alla Francia che alla Germania. Aveva perciò affermato che si trattava di dare i natali a un sistema di governo europeo, con una personalità giuridica comune, ma sulla base di una duplice «legittimità democratica». Da un lato, «quella storica e identitaria derivante dagli Stati nazionali»; dall’altro, una legittimità che egli definiva «continentale o di necessità», legata alle istituzioni europee in quanto preposte alla gestione di problemi (come la sicurezza, la politica estera, la giustizia e il controllo delle frontiere) non risolvibili altrimenti a livello nazionale né demandabili solo e sempre agli organismi di coordinamento intergovernativo. Ma la Convenzione s’era subito incagliata sulla questione riguardante la governance al vertice dell’Unione. Il sistema vigente, che consisteva nella rotazione semestrale di ciascuno Stato membro alla presidenza del Consiglio europeo, avrebbe presentato per i principali paesi un duplice svantaggio (di discontinuità e instabilità). La soluzione proposta da Chirac, e condivisa da Blair, di eleggere nell’ambito della Ue un presidente del Consiglio europeo per cinque anni, da affiancare al presidente della Commissione, aveva sollevato parecchie riserve. Inoltre, i «federalisti» avrebbero voluto un presidente dell’Unione europea eletto direttamente dai cittadini, e quindi forte di un’investitura popolare; invece francesi e inglesi (ma pure gli spagnoli) non erano assolutamente di quest’idea. A ogni modo, sia nell’uno che nell’altro caso, c’era il rischio di creare, con una doppia presidenza, del Consiglio e della Commissione, una sorta di «Europa bicefala», a due teste. Il gioco delle parti Per di più Londra, che non aveva mai visto di buon occhio il «condominio» franco-tedesco, intendeva adesso dar battaglia su questo versante. D’altronde, gli inglesi non erano gli unici a non voler sottostare alla direzione d’orchestra di Parigi e Berlino. Perciò Tony Blair aveva avuto buon gioco nel trovare un appoggio alla causa di Londra nel governo italiano e in quello spagnolo. Aveva così cominciato a prendere forma, nell’ambito della Ue, un nuovo polo, in competizione con quello franco-tedesco, anche perché Londra era forte delle sue «relazioni speciali» con gli Stati Uniti. Schröder era prossimo alla scadenza del suo mandato alla guida del governo. E stava spingendo il pedale di una politica che, dovendo colmare le vistose falle del bilancio pubblico, seguitava a comportare notevoli sacrifici. Oltre che in Italia, Austria e Danimarca, i partiti conservatori o moderati erano al potere in Spagna, Irlanda, Lussemburgo, Norvegia, Portogallo, Olanda e per giunta in Francia. In pratica, al di là del New Labour di Blair, unicamente la Finlandia, la Grecia e la Svezia erano rimaste sotto le insegne della socialdemocrazia, più il Belgio. Le angustie della nuova Germania L’economia tedesca stava afflosciandosi. Occorreva dunque procedere sulla strada delle liberalizzazioni del mercato e delle privatizzazioni. Ma intanto venivano sempre più in luce i costi della politica eccessivamente restrittiva che la Bundesbank aveva seguitato per troppo tempo a praticare, tramite elevati tassi di interesse, a causa delle sue eccessive preoccupazioni per il pericolo di una spirale inflattiva, anche quando era calata la domanda. Il basso costo del lavoro stava comunque agevolando l’industria tedesca nel movimento d’esportazione. Ma occorreva adesso che la Banca centrale europea riducesse i tassi di interesse in modo da assecondare un rilancio degli investimenti. In questo contesto quasi tutti i governi dell’eurozona avevano preso in considerazione l’ipotesi di rivedere il Patto di stabilità per allentare le strettoie in cui si trovavano le loro economie. Era comunque quello tedesco a spingere di più in questa direzione, anche se cercava di non darlo a vedere. Al cancelliere tedesco non andava certo a genio che a rimettere in discussione il Patto di stabilità fosse proprio la Germania, impegnatasi a suo tempo, più di ogni altro Stato dell’Unione, per l’adozione dei parametri di Maastricht. Ma, appunto per questi trascorsi di Berlino, gli altri governi, che si trovavano in analoghe difficoltà, s’aspettavano adesso che fosse la coalizione tedesca, a proporre un’applicazione più malleabile del Patto di stabilità. Il governo tedesco sperava che altri lo sollevassero dagli impicci. Quello francese di centro-destra, presieduto da Jean-Pierre Raffarin, era infatti dell’avviso che sarebbe stato opportuno riesaminare le norme «troppo meccanicistiche» fissate a suo tempo in materia di risanamento delle finanze statali. Del resto, non solo i conti pubblici francesi lasciavano ora a desiderare; ma il centro-destra aveva costruito le sue fortune elettorali sia sulla promessa di una sensibile riduzione delle imposte, sia sull’impegno di accrescere gli stanziamenti per la sicurezza, la difesa e la sanità. Ma anche il governo francese stava attendendo che la Germania facesse il primo passo. Altrimenti si sarebbe esposto alle obiezioni degli olandesi e degli spagnoli, decisi a sostenere l’intangibilità del Patto di stabilità, di concerto con la maggior parte dei governi della Ue di minor stazza. attizzato anche i governi di Madrid e di Varsavia, che consideravano intoccabile il sistema di voto ponderato nelle delibere del Consiglio europeo, quale era stato stabilito all’unanimità dai firmatari del Trattato di Nizza. Era stata infatti riconosciuta in quel patto alla Spagna e alla Polonia una posizione pressoché alla pari con quella dei paesi più popolosi e con un Pil più consistente. Per contro, stando alla bozza del trattato costituzionale, si sarebbe dovuto escludere questo meccanismo decisionale, adottato a suo tempo su espressa richiesta di Parigi affinché l’ago della bilancia nelle gerarchie del potere non pendesse dalla parte della Germania. In sostanza, quello escogitato nel vertice di Nizza era un sistema di voto che tendeva a equiparare formalmente i paesi medio-grandi ai tre principali Stati fondatori della Comunità e alla Gran Bretagna. Ma si trattava di un sistema iniquo, dato che di fatto un cittadino spagnolo, per esempio, contava nelle decisioni europee quasi quanto tre tedeschi. Perciò la Convenzione aveva proposto che, a partire dal 2009, s’introducesse una procedura più equilibrata, contrassegnata da un maggior tasso di trasparenza e democraticità: ossia, una doppia maggioranza, per cui una decisione che non richiedesse l’unanimità sarebbe passata con il 50 per cento più uno dei voti dei paesi membri, purché essi rappresentassero almeno il 60 per cento della popolazione. Ma in tal caso Spagna e Polonia avrebbero perso sia lo status politico di «grandi potenze» europee acquisito a Nizza, sia il potere di bloccare determinate deliberazioni che non risultassero di proprio gradimento. Si spiega pertanto come Madrid e Varsavia non fossero disposte a rinunciare a questi privilegi. A colpi di veti incrociati Se il tandem ispano-polacco aveva ribadito la sua ferma opposizione nei confronti del nuovo sistema di voto suggerito dalla Convenzione, anche a costo di bloccare il varo del trattato costituzionale, l’asse franco- tedesco, affiancato da vari altri governi, era altrettanto risoluto a non cedere il passo. S’era venuto così determinando uno scontro muro contro muro, a causa dei veti incrociati dei due opposti schieramenti, con in più le tradizionali ambiguità del governo inglese. Avendo ottenuto quanto le stava a cuore (ossia il mantenimento del principio dell’unanimità sulla politica estera, l’immigrazione, la giustizia e la sicurezza sociale), Londra non aveva alcun interesse a far da paciere perché si giungesse a un trattato costituzionale che rilanciasse il progetto di un’unione politica. All’indomani del 12 dicembre 2003, calò così il sipario sull’assise di Bruxelles. Invece di sancire una svolta storica, in coincidenza con l’avvento di una nuova più grande Europa, essa si concluse con un esito altrettanto impietoso quanto deludente. A mo’ di autoconsolazione, si andava dicendo che non c’erano scadenze così cogenti da rendere necessario che il trattato costituzionale fosse approvato su due piedi. D’altronde, per avere valore normativo avrebbe dovuto passare al vaglio dei singoli Parlamenti nazionali e di eventuali referendum popolari. Tuttavia il fallimento del vertice di Bruxelles non era stato una battuta d’arresto come tante altre verificatesi in passato. Sia perché i rappresentanti dei venticinque Stati membri si erano lasciati dopo l’insuccesso della Conferenza intergovernativa, reso ancor più bruciante per una ridda di strascichi polemici, senza stabilire quando e come riprendere i negoziati sulla Costituzione, sia perché la spaccatura avvenuta nel summit brussellese aveva messo ulteriormente in luce, la sostanziale mancanza di unità dei governi europei nelle scelte di fondo. L’esito della Convenzione, insomma, non aveva corrisposto ai propositi espressi inizialmente da gran parte dei suoi membri. Oltretutto era emersa nel vertice finale di Bruxelles una differente visione delle cose, rispetto all’ottica preminente nelle capitali euro-occidentali, da parte di alcuni importanti paesi dell’Est. Per i loro governi, che dopo l’emancipazione dal giogo di Mosca avevano recuperato la loro sovranità nazionale e stavano percorrendo faticosamente le tappe per avvicinarsi alle sponde dell’altra Europa, l’integrazione avrebbe dovuto avvenire in base a un processo interattivo, in modo che potessero esprimere le loro istanze e concorrere su un piede di parità alla determinazione della politica europea. Era soprattutto la Polonia a coltivare questa tesi. Del resto, essa aveva sia il peso politico che quello economico per nutrire aspettative più consistenti e ambiziose: anche perché era in grado di influire sui paesi baltici e su alcune nazioni limitrofe. Inoltre Varsavia aveva intrecciato stretti rapporti con gli Stati Uniti, grazie alla sua strategia nettamente filo-atlantica e alla sua partecipazione all’intervento anglo- americano in Iraq nella primavera del 2003. Si spiega pertanto come il presidente polacco rivendicasse al suo paese una posizione altolocata nell’Unione, a ridosso dei «quattro grandi». Ma anche l’Ungheria e la Repubblica Ceca, pur non essendosi spinte a chiedere un trattamento altrettanto ragguardevole, non erano affatto disposte a far ingresso nell’Unione dalla porta di servizio, o comunque rassegnate a essere trattate da parenti poveri, di terza categoria. Avendo infine acquisito a tutti gli effetti il diritto all’autodeterminazione nazionale, volevano se non altro contare di più. All’origine di questo stato di cose, che rifletteva un’Europa divisa di fatto in due o tre tronconi, stavano le motivazioni e le modalità con cui i governi euro-occidentali avevano concepito l’allargamento a Est. L’estensione delle frontiere della Ue ai paesi affrancatisi dal Cremlino era stata motivata soprattutto dall’intento di colmare un vuoto di potere, aggravato dal collasso delle economie locali, che altrimenti avrebbe potuto costituire un focolaio di conflitti intestini e di forte instabilità al centro del Continente. E se gli Stati occidentali avevano chiesto ai nuovi governi dell’Est un notevole impegno affinché si allineassero progressivamente alle norme e agli standard di Bruxelles, avevano tuttavia creduto che bastasse a ripagarli di questo loro sforzo il diritto di accedere in un futuro prossimo ai fondi comunitari a sostegno dell’agricoltura e delle aree economicamente più deboli. Si era così compiuto un grave errore di valutazione non tenendo in debito conto le aspirazioni delle nazioni centro-orientali. Entrando nella Ue, i paesi ex comunisti intendevano essere soggetti attivi nella costruzione di una nuova Europa. E i loro governi avevano perciò creduto che sarebbe stato preso in considerazione e valorizzato il loro apporto di idee e di energie, di culture e di orientamenti. Non c’era dunque da sorprendersi se alcuni governi dell’Est guardavano piuttosto a Washington che a Bruxelles sul versante della politica estera: al punto da suscitare l’impressione che costituissero una sorta di testa di ponte degli Stati Uniti nel cuore del Vecchio Continente, a scapito della compattezza e dell’autonomia dell’Unione europea. Pro e contro un «nocciolo duro» Alla Conferenza intergovernativa di Bruxelles s’era dovuto dunque prendere atto delle frustrazioni e dei dissensi che stavano diffondendosi in vari paesi dell’Est. Stando agli ambienti politici e ai più autorevoli commentatori americani, pur estranei all’area dei neo-conservatori (da sempre estremamente critici nei confronti dell’Unione europea), la Conferenza intergovernativa, non avendo tradotto il testo elaborato dalla Convenzione in un trattato costituzionale, aveva dimostrato che la Ue non sarebbe mai riuscita a superare i contrasti politici interni e le divergenze di interessi che da tempo la paralizzavano. Questa diagnosi, benché tagliata su misura degli orientamenti della destra americana, era tuttavia di per sé realistica. L’Unione europea si reggeva infatti su un trattato come quello di Nizza, risultante da un faticoso compromesso politico al ribasso, e le cui norme, a poca distanza di tempo, non venivano adesso più ritenute plausibili dalla maggioranza degli Stati membri. All’indomani del vertice di Bruxelles s’era perciò fatta strada l’ipotesi di puntare su un «nocciolo duro», su un nucleo di paesi disposti a procedere sulla strada dell’integrazione politica e quindi a impegnarsi nell’attuazione di apposite riforme. Avrebbe così funzionato da avamposto e da motore dell’Unione europea in direzione della meta finale. E ciò attraverso uno strumento come quello delle «cooperazioni rafforzate». Perché potesse agire efficacemente, questo gruppo d’avanguardia avrebbe dovuto comunque essere composto da almeno otto paesi che coordinassero, senza andare per le lunghe, le loro strategie e perfezionassero i congegni più idonei per realizzarle, per poi trainare al loro seguito altri paesi che se la sentissero di operare in modo analogo. Prese così ad aleggiare l’idea di un’Europa a due velocità, nell’ambito della quale si sarebbe sperimentato un sistema di reciproche relazioni improntate, il massimo possibile, a forme concrete di connettività e integrazione. Questa prospettiva andava a genio sia a Parigi che a Berlino. Del resto, il partenariato franco-tedesco era divenuto negli ultimi anni così stretto da apparire quasi come l’embrione di una compagine di tipo federale. Francia e Germania avevano inoltre l’autorevolezza necessaria per raccogliere intorno a sé altri paesi dell’Unione che decidessero di condividerne i propositi. Ma c’era da chiedersi se Parigi e Berlino avessero esattamente gli stessi obiettivi. Se i politici tedeschi e la loro opinione pubblica erano propensi in linea di principio alla creazione di un’entità federale europea, lo stesso non si poteva invece dire per i francesi. A Parigi prevaleva pur sempre la convinzione che non si dovesse andare più in là di un rafforzamento della cooperazione intergovernativa. Di conseguenza, la formazione di un «nocciolo duro» franco-tedesco, avrebbe provocato pericolose spinte centrifughe, invece di funzionare da apripista e collante di un processo finalizzato a una maggiore integrazione. Di conseguenza la regia dell’Unione europea, decise che fosse più opportuno e conveniente il mantenimento dello status quo. Altrimenti c’era il rischio di disarticolare l’Europa, di spezzarla in due, e inoltre di amputarla in pratica delle nuove componenti costituite dai paesi dell’Est. Questo pericolo era risultato ancor più evidente allorché, nel corso del 2004, s’era cominciato a discutere di come impostare il budget dell’Unione europea per gli anni successivi. Non solo il governo inglese, come faceva da sempre, ma anche altri avrebbero voluto ridurre il bilancio preventivo. Ma, così facendo, si sarebbe apportato un taglio anche ai fondi destinati allo sviluppo dei paesi più deboli, e quindi, in primis, a quelli dell’Est, nonché ai progetti d’assistenza economica per quelli candidati all’ammissione nell’Unione europea. Aveva finito così per imporsi, all’inizio della presidenza irlandese, una pausa di riflessione. Aveva perciò ripreso quota la tradizionale strategia funzionalista, che si limitava a una gestione dell’attività ordinaria, senza alcun disegno concreto volto ad assicurare alla Ue un ruolo di spicco nel nuovo ordine mondiale. La guarigione della «grande malata» Germania ancora in crisi, chiedono altri due anni per sistemare il bilancio, secondo alcuni membri della commissione europea valeva infatti rivedere il Patto di stabilità anziché ammettere che tedeschi e francesi potessero venire esentati, sia pur temporaneamente, dalle relative prescrizioni. Tanti tagli e riforme nei contratti fatte da Schröder, alle elezioni dopo una serie di negoziati si giunse così a un accordo per l’insediamento di una «Grosse Koalition», guidata dalla Merkel. Dopo essersi fatto carico del «lavoro sporco», perdendo così le elezioni sia pur di stretta misura, Schröder preferì ritirarsi dalla scena politica. Ma intanto la Germania, che negli anni Novanta era scivolata dal quarto all’ottavo posto nelle classifiche europee per reddito pro capite, aveva riguadagnato terreno, anche se non completamente, le condizioni di salute dell’economia tedesca stavano nettamente migliorando. E ciò avrebbe finito per risolversi a vantaggio della nuova cancelliera, che vantava dalla sua un piglio risoluto e una collaudata abilità tattica, tanto più importanti nei rapporti con i suoi alleati di governo perché essi erano rimasti privi di un autentico leader. CAPITOLO 4 I DILEMMI DELLA GLOBALIZZAZIONE Un imprevisto cambio di guardia a Berlino Merkel nel 2005 nuova cancielliera tedesca La vista corta di Bruxelles Era stato, quell’anno delle elezioni tedesche, un tornante estremamente difficile per l’Unione europea, anche se non era la prima volta che accadeva. Il lungo e paziente lavoro che Prodi aveva svolto durante il suo mandato a capo della Commissione, per rafforzare le fondamenta della Comunità europea, era stato inficiato dal rigetto definitivo del trattato costituzionale, bocciato dagli elettori francesi e olandesi. Per giunta, nel novembre 2004 Londra aveva posto il veto ancora una volta contro un altro federalista. Erano venuti comunque al pettine non solo i nodi politici ma vari altri rimasti irrisolti e sempre più aggrovigliati. Tanto che non c’era alcun versante in cui il processo d’integrazione non si fosse inceppato per un motivo o per l’altro e la Commissione fosse quindi chiamata a intervenire. Si trattava di un lungo elenco: dal trasferimento sotto l’egida delle istituzioni comunitarie delle politiche riguardanti fisco, sanità, istruzione, infrastrutture e immigrazione, alle modalità d’allargamento delle frontiere della Ue ai paesi dell’Est;, alla linea di condotta da tenere nei riguardi degli Stati Uniti, dopo le diatribe verificatesi al tempo dell’intervento anglo-americano in Iraq; dall’ammissibilità o meno della Turchia nella compagine europea, casi le file del «lavoro nero», dall’altro, a suscitare un’ondata di risentimenti e di ostilità in vari strati popolari e in parte dell’opinione pubblica. Ma al vertice di Siviglia del giugno 2000 non si era giunti a concordare una direttiva comune. Francesi e tedeschi erano contrari a fissare per tutta la Ue quote d’ingresso complessive in base a «tetti programmati»; e i governanti dei paesi nordici continuavano a frenare quanto agli impegni finanziari necessari per rendere più efficaci ed estesi i sistemi di sorveglianza alle frontiere. Venne varato soltanto uno stiracchiato compromesso sulle misure più immediate per regolare lo status degli immigrati in possesso di un permesso di soggiorno e di un normale contratto di lavoro. Non venne invece accolta la richiesta dei governi italiano, greco e spagnolo di assicurare collegialmente un adeguato apporto di mezzi per pattugliare le rotte via mare verso le loro coste. Ciò che, in fin dei conti, si sarebbe risolto a vantaggio di tutti, dato che i paesi mediterranei funzionavano per lo più solo come percorsi di transito degli immigrati extracomunitari verso la Francia, la Germania e il Nord Europa. La gestione «rinazionalizzata» dell’Unione Il voto con cui francesi e olandesi avevano bocciato nel 2005 il progetto di una Costituzione aveva riportato in auge il ruolo e le prerogative dei singoli Stati. Inoltre era stata riposta definitivamente nel cassetto l’ipotesi di un «nocciolo duro», ossia di un’Europa a due gambe e due velocità. In verità, non era che un espediente tattico, uno strumento di pressione maneggiato dai paesi più robusti; ed era contestato innanzitutto dai governi dell’Est, i cui paesi sarebbero stati relegati in una sorta di ghetto da cui ben difficilmente avrebbero potuto venir fuori, date le fragili strutture economiche e sociali su cui si reggevano. Si era perciò ripiegato sul mantenimento dello status quo, senza che si fosse poi delineata qualche concreta possibilità di superare la situazione di stallo. Nei vertici del Consiglio dei capi di Stato e di governo si ripeteva ogni volta che si trattava solo di un interludio, di «una pausa di riflessione». In realtà, i principali governi non avevano alcuna intenzione di riaprire il confronto sulla riforma costituzionale; semmai pensavano di chiudere una volta per tutte questo capitolo. Intanto la mancanza di direttrici univoche sul versante della politica estera aveva reso sempre più marcata la debolezza della Ue nei rapporti transatlantici. La prospettiva, espressa nei documenti ufficiali, di un dialogo fra l’Europa e l’America su un piede di effettiva parità nel quadro di un’autentica partnership era rimasta sulla carta. Ci si trovava così a fare i conti con un accentuato indirizzo unilateralista dell’amministrazione e della diplomazia americane. Quanto e come gli Stati Uniti, ma anche l’Unione europea, facessero pesare i loro specifici interessi risultava evidente soprattutto in ordine all’interscambio agricolo. Non c’era una volta che, negli incontri bilaterali, i rappresentanti americani non lamentassero che Bruxelles continuava a rimandare una riforma della politica agricola comunitaria, e ne chiedessero perentoriamente la revisione. È vero che la Ue manteneva in vita alcune robuste misure di sostegno alla produzione di grano, di latte e di carni che alteravano le ragioni di scambio; e che seguitava a erogare vari sussidi per esportare sottocosto taluni di questi prodotti al fine di smaltirne le eccedenze, quando non a spendere dei soldi per immagazzinarle o distruggerle. Ma la Commissione europea contestava, a sua volta, agli Stati Uniti l’impiego delle biotecnologie in varie produzioni agricole e i propositi di Washington di forzarne le esportazioni, soprattutto quelle di mais e di soia, ma pure di carni agli ormoni, considerate da Bruxelles nocive per la salute dei consumatori ma anche tali, se liberalizzate, da generare in Europa un surplus degli stessi prodotti. Inoltre i governi europei avevano da ridire sul fatto che la Fed stesse facendo di tutto per convogliare a Wall Street, la maggior quantità possibile di capitali anche da ogni parte del Vecchio Continente. In tal modo, gli Stati Uniti tendevano non solo a prosciugare le risorse disponibili per le imprese europee, ma pure a coprire la crescente emissione dei loro buoni del Tesoro e a sostenere la performance di numerose società americane specializzate nel commercio elettronico. D’altro canto, a Washington sia i repubblicani che i democratici, quando si trattava di proteggere le loro banche d’affari e le loro multinazionali, erano pronti ad andare a braccetto. Insomma, il «free market» finiva per funzionare a senso unico, a vantaggio per lo più degli Stati Uniti. Ma se i rapporti di forza erano tanto squilibrati, lo si doveva anche al fatto che l’Unione europea continuava a non parlare con una sola voce, bensì a essere divisa al suo interno per quanto riguardava sia le politiche economiche sia quelle di carattere fiscale e sociale. La ripartenza della «locomotiva» tedesca L’unico paese in Europa che stava segnalandosi per un vivace dinamismo era la Germania. La Merkel, alla guida della coalizione di governo fra la Cdu e la Spd, s’era avvalsa innanzitutto dei risultati conseguiti dal suo predecessore. In pratica, Schröder aveva ridato vigore all’industria manifatturiera mediante incentivi fiscali alle imprese e una progressiva liberalizzazione del mercato del lavoro. Muovendo da queste premesse, la cancelliera aveva continuato a praticare una politica economica volta, da un lato, a rafforzare il tessuto produttivo, in funzione di un incremento delle esportazioni in cui le aziende tedesche avevano ripreso a eccellere; e, dall’altro, a un ulteriore riassetto dei conti pubblici (tramite nuove riforme nel settore della sanità), dopo che nel 2006 il disavanzo di bilancio era stato riportato sotto il tetto del 3 per cento grazie al taglio delle spese correnti. La disoccupazione era calata di un milione di unità. Sulla base di un dato incoraggiante come la crescita del Pil del 2,7 per cento, e della fiducia che circolava fra gli industriali, mai così ampia dai tempi della riunificazione, la Merkel aveva deciso di anticipare le elezioni politiche al settembre 2007 e la Cdu, sotto la sua regia, le aveva poi vinte, anche in quanto aveva dimostrato di poter ridurre di altri punti la spesa pubblica corrente mantenendo una stretta disciplina fiscale e sotto pressione le imprese tedesche. La cancelliera aveva così dato vita a una nuova coalizione, questa volta di centro- destra, con il Fdp, il Partito liberale democratico. Ma non era soltanto sul versante economico che la Germania stava riprendendosi, tornando a essere la «locomotiva» industriale che era stata in passato. Anche sul versante politico le sue quotazioni erano risalite. Gli Stati Uniti avevano puntato la loro attenzione soprattutto sulla Repubblica federale tedesca, per capire se la Merkel avrebbe modificato l’indirizzo in politica estera di Schröder, che aveva preso le distanze da Washington in occasione della guerra in Iraq. A loro volta i paesi ex comunisti dell’Est avevano mostrato di confidare assai più in Berlino che in altre capitali europee. La Merkel aveva dichiarato infatti che occorreva rilanciare la prospettiva dell’integrazione europea. D’altronde, il governo tedesco appariva in grado di svolgere una concreta opera di mediazione e di raccordo con gli ex Stati comunisti, nuovi membri della Ue, dopo che, con la riunificazione, la Germania era divenuta il cuore dell’Europa tra l’ovest e l’est del Continente. Ma c’era chi si chiedeva se Berlino non puntasse in realtà ad assumere il patrocinio dei paesi suoi vicini, per rivitalizzare le loro economie, complementari alla propria, e attrarli nella propria orbita. CAPITOLO 4 UNA MICIDIALE CRISI ECONOMICA I prodromi della tempesta finanziaria Negli ultimi mesi del 2007 s’erano manifestati alcuni sintomi inquietanti sull’andamento della Borsa americana. Una caterva di quattrini continuava a riversarsi su titoli d’ogni sorta giunti a quotazioni esorbitanti rispetto ai profitti che si sarebbero potuti ricavare. Alcuni analisti si chiedevano perciò se e fin quando sarebbe perdurato quest’eccesso di euforia a Wall Street senza che prima o poi calasse di colpo provocando un mare di guai. Ma la Federal Reserve Bank aveva seguitato a lanciare messaggi rassicuranti. A suo giudizio, tutti stavano guadagnando grazie all’afflusso di una gran massa di capitali. D’altra parte, sulla scia della tesi divulgata trent’anni prima dal sociologo Peter Drucker, questa forma di azionariato diffuso veniva considerata da autorevoli opinionisti politici un fenomeno di «democratizzazione economica»: senza badare a chi azionava le leve che alimentavano questa crescente finanziarizzazione dell’economia e ne traeva cospicui benefici. In Europa non erano mancate analisi e previsioni allarmanti su questo stato di cose. Ma l’Unione europea continuava a navigare a vista, senza una bussola politica né un governo unitario dell’economia, al di là del Patto di stabilità a presidio della moneta unica nell’ambito dell’eurozona. In ogni caso, anche se la Commissione di Bruxelles e l’Ecofin avessero voluto alzare la voce, richiamando l’attenzione delle autorità americane di vigilanza su quella montagna sempre più imponente di transazioni finanziarie, dall’altra parte dell’Atlantico non sarebbero stati a sentirli e tantomeno a tenerne conto. Gli europei avrebbero dovuto badare ai fatti propri, se non volevano continuare a perdere terreno nei confronti degli Usa. A ogni modo, quell’espansione così straripante del mercato finanziario avrebbe dovuto indurre da un pezzo la Fed ad assumere concrete misure di monitoraggio. Si trattava infatti di operazioni che non agivano da carburante del sistema produttivo, ma puntavano a rendimenti perlopiù a brevissimo termine, e si basavano inoltre su una massa di strumenti finanziari sempre più sofisticati ma con forti dosi di rischio per i risparmiatori, in quanto spuntati su terreni imponderabili o non soggetti a efficaci controlli. Tuttavia, se il valore complessivo del risparmio investito in strumenti finanziari di ogni specie era giunto a superare nel 2006, su scala globale, di cinque volte quello del Pil mondiale, lo si doveva soprattutto al fatto che Wall Street seguitava a essere una sorta di mecca per investimenti nei titoli più svariati ed emessi a getto continuo, sia dall’Europa e dal Giappone sia dalla Cina e dai paesi arabi. Ci si era perciò dimenticati della «bolla di Internet», quando le azioni attinenti a società informatiche e al business elettronico, dopo aver raggiunto quotazioni iperboliche, dai primi mesi del 2000 erano poi precipitate vertiginosamente. D’altronde, la Federal Reserve Bank, benché avesse riconosciuto che s’era trattato di «un’esuberanza irrazionale», aveva asserito che i risparmiatori avrebbero messo giudizio da soli, senza bisogno di ricorrere a stringenti misure di carattere preventivo. Era perciò rimasta in vigore una legge (votata nel 1999 dal Congresso) che consentiva anche alle banche commerciali (quelle abilitate a raccogliere i depositi e a prestare denaro alle imprese) di compiere le stesse operazioni riservate fino ad allora alle banche d’affari. In questo contesto le principali banche s’erano trasformate in una sorta di supermercati finanziari, dando la stura a una fungaia di titoli sempre più complessi ed eterogenei, i cosiddetti «derivati», perché cartolarizzati dai mutui alle imprese e alle famiglie, con un alto grado di opacità. Tanto che era divenuto pressoché impossibile accertarne l’effettiva tipologia e consistenza. Nel pieno di quest’invadenza di titoli atipici e della più diversa congerie, sovente indecifrabili anche per la Sec (la Commissione di controllo della Borsa americana), non s’era prestata particolare attenzione alla crescita dei tassi d’insolvenza nel campo dei prestiti immobiliari, i cosiddetti «subprime», ossia non di prima scelta, perché erogati dalle banche senza effettive garanzie di reddito accertato da parte di quanti li sottoscrivevano. Ma fu proprio questo granello di sabbia (che rappresentava non più del 2 per cento del credito totale interno americano) a infilarsi negli ingranaggi del mercato finanziario e man mano a incepparlo, con un effetto domino. Una spirale perversa su vasta scala Tutto era cominciato negli ultimi anni della presidenza di Clinton, quando la Casa Bianca, all’insegna di un «capitalismo popolare», aveva sollecitato la Fed e il Congresso affinché, con adeguate iniziative, dessero modo agli americani che ne erano ancora privi di divenire proprietari della loro casa d’abitazione. L’idea di Bush era di riproporre l’«American dream» soprattutto per premiare il ceto medio-basso: anche perché nel frattempo la forbice tra i redditi si era allargata, dopo che le imposte per le categorie più abbienti erano state ridotte e i dirigenti di grosse banche e aziende avevano incamerato proventi da capogiro. Greenspan aveva provveduto pertanto a ridurre al minimo i tassi d’interesse per incentivare, con una generosa politica monetaria, gli investimenti nella costruzione di nuovi lotti di abitazioni: ciò avrebbe, del resto, agito da traino alla crescita dell’attività in vari settori complementari. Con questi presupposti, e dando per scontato che si trattava di opportunità d’investimento rassicuranti, le banche avevano agevolato quanti intendevano comprare un alloggio o una seconda casa. E lo avevano fatto non solo con ipoteche pari al 100 per cento del valore dell’immobile, ma anche con una batteria di mutui a condizioni così vantaggiose da invogliare a compiere questo passo anche quanti non sarebbero stati in grado di permetterselo, e tuttavia venivano indotti a farlo perché avrebbero potuto cominciare a pagare i relativi interessi dopo uno o due anni. Milioni di famiglie meno abbienti s’erano perciò indebitate contraendo mutui a lunga scadenza, e a tasso agevolato, in quanto sicure di poter venire così in possesso del bene-casa. Quanto alle banche e alle compagnie d’assicurazione semipubbliche, avevano seguitato a concedere prestiti a chiunque glieli proprie banche esposte in bolle finanziarie, si sarebbero avvalsi largamente di una mutualizzazione dei relativi oneri a carico di un budget comunitario, e che i tedeschi si sarebbero trovati poi a pagarne i costi più salati. Quanto ai francesi, non avevano avuto di che eccepire al riguardo. E la Gran Bretagna, non facendo parte dell’area della moneta unica, stava cercando di cavarsela da sé. Quanto all’Italia, il coinvolgimento delle sue banche nel vortice delle speculazioni finanziarie era relativamente circoscritto, ma aveva il debito pubblico più elevato in Europa. E il governo di centro-destra (guidato, ancora una volta, da Berlusconi) riteneva che bastassero alcuni lievi aumenti della tassazione su banche, compagnie d’assicurazione e società quotate in Borsa per far fronte all’abolizione, avvenuta nel luglio 2008, dell’imposta comunale sulla prima casa. Eppure le previsioni per il 2009 sulla tenuta della finanza pubblica formulate dalla Banca d’Italia erano tutt’altro che rassicuranti, perché le stime dei mercati sullo spread (la forchetta fra il rendimento dei titoli pubblici italiani e quelli tedeschi) risultavano per lo più imponderabili e c’era perciò il rischio che esso salisse, accrescendo il costo del debito pubblico. A ogni modo, a Bruxelles prevaleva ancora l’idea che la tempesta finanziaria americana avrebbe prodotto in Europa danni relativamente limitati. E non figurava comunque in agenda un programma di investimenti per assecondare una ripresa economica. Oltretutto, si continuava a litigare sulla ripartizione fra i vari Stati membri di un fondo per le infrastrutture, del valore di non più di 5 miliardi di euro. Un rapporto fiduciario sempre più sfilacciato Uno degli obiettivi dell’unione monetaria era la progressiva unificazione del mercato finanziario europeo attraverso la graduale convergenza dei tassi d’interesse dei titoli pubblici dei vari Stati membri su una piattaforma tendenzialmente omogenea o comunque più equilibrata. Ma ciò comportava, da parte dei singoli paesi, la graduale riduzione dei debiti e un aumento concomitante dei livelli di produttività. Senonché, mentre l’introduzione dell’euro aveva agevolato una sostanziale riduzione dei tassi d’interesse pagati dagli Stati per il finanziamento del debito pubblico, non tutti i governi avevano tagliato nel contempo la spesa pubblica in base a una politica di bilancio oculata. Inoltre l’Unione europea stentava a sviluppare un’efficace azione propulsiva in funzione di una crescita complessiva dell’economia. Anche perché nell’ambito della Bce si era ossessionati dai timori d’inflazione Del resto, era rimasto irrisolto un problema di fondo come il funzionamento di una macchina comunitaria priva di un collante omogeneo. In un sistema istituzionale dove convivevano alcuni elementi di sovranazionalità e le prerogative dei singoli Stati. Ogni volta si trattava perciò di cercare un punto d’equilibrio fra le logiche nazionali dei paesi membri e le direttrici d’azione a livello comunitario. Questa gestione della Ue tormentata e spesso inconcludente risultava adesso esiziale in un frangente così cruciale, quando era ormai sempre più indispensabile concertare fra i differenti livelli istituzionali una concreta azione anticiclica. Senonché era evidente come mancasse a questo riguardo un saldo rapporto fiduciario fra i diversi governi dell’Unione. Di qui la fragilità e l’immagine sbiadita delle istituzioni comunitarie, che si riflettevano negativamente sulle loro credenziali esterne. Si spiega perciò la forte diminuzione del numero di cittadini recatisi alle urne nelle elezioni del giugno 2009 per il rinnovo del Parlamento europeo. Oltretutto, dalla consultazione non solo erano spuntati, per la prima volta, partiti nazionalisti e movimenti di ultradestra. La ventata di sfiducia e disorientamento manifestatasi nell’ultima tornata delle elezioni europee non aveva tuttavia scosso i vertici di eurolandia da una routine burocratica. E dire che, mentre il Pil di diversi paesi aveva seguitato a calare, la disoccupazione aveva superato in media un indice del 10 per cento e sembrava destinata a salire. Inoltre il fatto che il dollaro si fosse ulteriormente indebolito rispetto all’euro aveva ristretto le chances delle esportazioni europee. Ma la Bundesbank non era disposta a valutare l’ipotesi di una politica monetaria più duttile da parte della Bce, che agisse a sostegno dell’economia e dei paesi in difficoltà. In ogni caso, erano palesi le contraddizioni a livello istituzionale che deprimevano l’eurozona. Da un lato, all’unione monetaria non aveva fatto seguito un processo concreto di integrazione politica, e ciò continuava a rendere anomala la posizione della Bce. A sua volta, la Commissione di Bruxelles aveva le mani pressoché legate, in quanto avrebbe potuto coordinare una politica comune (ammesso, peraltro, che il suo presidente avesse saputo farlo) soltanto se i singoli governi, ma soprattutto quelli principali, le avessero consentito di esercitare il suo potere-dovere d’iniziativa. In pratica, non le rimaneva perciò che cercare di mediare in continuazione le istanze dei vari governi nazionali e dei loro gruppi di pressione, con il rischio di esserne perennemente condizionata. Un sistema sociale in sofferenza Le credenziali dell’Unione a livello popolare s’erano assottigliate anche in seguito alla corrosione del welfare. Dal 2008 gli stanziamenti per la sanità, la previdenza e gli interventi a sostegno dei disoccupati avevano subìto ulteriori amputazioni. Se negli anni Novanta il welfare era stato oggetto soprattutto di dispute ideologiche, in seguito all’avvento sulla scena di un neo-liberismo radicale e alle enunciazioni del dottrinarismo mercatista che avevano messo in discussione i postulati dello «Stato sociale», il rallentamento di marcia dell’economia europea aveva poi ristretto le possibilità di sostenerne i relativi costi. Da allora ci si era ingegnati nel rivedere l’impostazione e l’architettura del welfare, cercando di non incrinarne le fondamenta. Ma all’atto pratico era risultato arduo costruire una rete di protezione sociale, diversa da quella del passato, che garantisse comunque una giustizia distributiva adeguata alla nuova articolazione dei redditi, dei bisogni e delle aspettative. Chi s’era incamminato per primo su questa strada, come il governo olandese per iniziativa del Partito del lavoro, aveva dimostrato che era possibile modificare i meccanismi tradizionali del welfare. Nell’ambito dei partiti socialisti europei quello olandese non figurava comunque in primo piano e il piccolo regno degli Orange aveva inoltre caratteristiche così peculiari da non far testo. Bisognava insomma elaborare un nuovo codice del welfare, che spezzasse le chiusure corporative, affrancasse il sistema dall’iperprotezionismo di alcune categorie e fornisse adeguate coperture a quanti ne erano del tutto sprovvisti. Sebbene la costruzione del modello sociale europeo fosse stata opera anche dei partiti cristiano-democratici e di alcuni esponenti liberali progressisti, il problema di preservarne le strutture portanti aveva coinvolto soprattutto la sinistra riformista. Nel suo ambito esistevano peraltro due anime: quella «continentale», facente capo ai socialisti francesi e ai socialdemocratici tedeschi; e quella d’Oltremanica, impersonata negli ultimi anni dal New Labour di Tony Blair. Ed era stato quest’ultimo, in particolare, a impegnarsi per ridisegnare i tratti distintivi del welfare, in sintonia con i mutamenti strutturali emersi nel frattempo. Determinante a questo riguardo erano le idee del sociologo Anthony Giddens. A suo giudizio, solo adottando nuovi strumenti di lettura della realtà la sinistra avrebbe potuto misurarsi con i problemi posti dalla rivoluzione tecnologica e dal processo di globalizzazione, che stavano trasformando l’assetto economico e influenzando il modo stesso del vivere individuale. Di qui la necessità di concepire la redistribuzione del reddito e l’equità sociale in base a nuovi parametri. Da un lato, si sarebbero dovute assicurare alle leve più giovani opportunità di lavoro idonee a una realtà economica più fluida e mutevole, e quindi tali da corrispondere alle esigenze di conoscenza e di mobilità indotte dalle trasformazioni in corso. Dall’altro, occorreva stabilire nuove regole e istituzioni che non solo consentissero a quanti fossero rimasti senza lavoro di trovarne un altro, ma mettessero in grado quanti fossero sprovvisti di una sufficiente preparazione di procurarsi comunque un impiego decoroso. Assai diversa da questa visione delle cose, fatta propria dal New Labour, era quella di Lionel Jospin, in quanto egli aveva continuato ad attribuire un ruolo fondamentale allo Stato in fatto di sicurezza e coesione sociale. Se il diritto alla salute, alla previdenza e all’istruzione andava considerato una conquista imprescindibile, e se la progressività delle imposte costituiva una delle leve principali per garantire un’equa distribuzione del reddito, tuttavia mancava ancora un tassello, ossia l’«eguaglianza delle opportunità». Occorreva perciò che le istituzioni pubbliche s’impegnassero a ridurre le disparità sociali. A sua volta Schröder, collocandosi in una posizione intermedia fra Blair e Jospin, aveva sostenuto che, per assicurare la continuità del welfare, in base a nuovi canoni, si dovevano rendere più flessibili i congegni del sistema economico e predisporre nuove forme d’intervento pubblico affinché ognuno potesse accedere al sapere e al lavoro e avesse quindi uguali chances di affermarsi. A tal fine egli attribuiva particolare importanza ai programmi di riqualificazione professionale e a una «flessibilità contrattata» del salario in sintonia con i livelli di produttività, mantenendo comunque un «ombrello» protettivo come i sussidi di disoccupazione. Per il resto, fermi restando i capisaldi del welfare, lo «Stato sociale» avrebbe dovuto garantire soprattutto i ceti più deboli. Ma se i precetti di Schröder non si distinguevano per particolare originalità, avevano in compenso il vantaggio della praticabilità. Sta di fatto che la riduzione di risorse, dovuta tanto alle crescenti difficoltà economiche quanto all’innalzamento degli indici di longevità della popolazione europea, aveva intanto ridimensionato la sfera dello «Stato sociale». Lo squilibrio generazionale, causato dal calo delle nascite e dalle accresciute speranze di vita, aveva posto serie ipoteche sulla possibilità di mantenere immutato il sistema pensionistico e di sorreggere una rete di protezione sociale per ogni genere di cura e per tutti i cittadini. A ogni modo, per scongiurare il rischio di un ulteriore deterioramento del welfare, ci sarebbe voluta una crescita delle attività produttive e dell’occupazione, in quanto essenziali per assicurare un’adeguata copertura finanziaria dello «Stato sociale» nel corso degli anni successivi. Ma questa prospettiva sembrava adesso gravemente compromessa, se non annullata, dalla drastica frenata dell’economia europea. Le matrici tedesche della politica di austerità Nel dibattito apertosi in Europa sulle misure da adottare tanto sul versante finanziario che su quello sociale gli orientamenti di Berlino avevano acquisito sempre più influenza. Erano trascorsi quasi vent’anni dalla riunificazione tedesca. E sebbene esistesse ancora una forte disparità di condizioni fra le due diverse parti del paese, la Germania godeva in compenso di una salute vigorosa ed era divenuta la nazione europea su cui s’era andata concentrando l’attenzione sia di Washington che di Pechino. Tuttavia, un evento del loro lontano passato i tedeschi avevano seguitato a ricordare, non perdendone mai la memoria. Ed era l’iperinflazione, una sequenza di mostruose spirali inflattive (a cominciare da quella del 1923) che avevano ridotto il marco pressoché a carta straccia e decimato redditi e risparmi del ceto medio. Ma era stata poi una drastica politica deflazionista, attuata dal governo Brüning, dopo la Grande crisi del 1929, a ingrossare le file della disoccupazione e a innescare una grave depressione, che aveva finito per aprire la strada all’avanzata del movimento nazista e per provocare la caduta della Repubblica di Weimar. Lo spettro dell’inflazione aveva perciò seguitato ad affliggere i tedeschi. Tanto più da quando il marco era stato sacrificato, nel 1998, sull’altare dell’euro, suscitando un mare di rimpianti. Anche per questo i governanti tedeschi e i loro concittadini erano risoluti nel presidiare la moneta unica, senza ammettere alcuna variante seppur minima alle norme del Trattato di Maastricht. C’era dunque più di un motivo che induceva il governo tedesco a essere determinato nel far valere una politica di rigida austerità. E non solo per gli orientamenti personali più volte manifestati da Angela Merkel. Era dominante in Germania il timore che, qualora Berlino avesse acconsentito a un indirizzo meno ortodosso di quello sostenuto a spada tratta dalla Bundesbank, l’euro avrebbe finito per scivolare dal suo piedistallo di moneta forte e sarebbe stata compromessa irrimediabilmente la stabilità dei prezzi. Ma se la Germania era giunta a esercitare nell’ambito dell’eurozona una sorta di magistero pedagogico, era perché aveva conquistato negli ultimi anni una preminenza economica indiscutibile. Parigi non era più in grado di funzionare, come in passato, da contrappeso a Berlino. E non c’era alcun paese in Europa che reggesse il confronto con la Repubblica federale tedesca quanto a stabilità economica. Forte di queste sue credenziali, il governo di Berlino era così salito in cattedra, ammonendo i partner che riteneva in difetto o sospettava di lassismo nella gestione dei loro conti pubblici. Avrebbero dovuto perciò garantire in modo tangibile e convincente la tenuta in ordine delle proprie finanze statali, misurandosi con la dura realtà dei numeri. CAPITOLO 6 IN MEZZO AL GUADO Le conseguenze delle bolle speculative europea. E rilevavano che una politica ferrea d’austerità sarebbe risultata talmente soffocante da impedire tutti i possibili sforzi per rimettersi in carreggiata: ciò che avrebbe finito in pratica per risolversi in un danno per tutti. In ogni caso, si riteneva che la Germania non poteva impartire delle lezioni ex cathedra come se fosse del tutto immune da certe pecche vecchie e nuove. Sia perché, dopo la fine della seconda conflagrazione mondiale i governi alleati erano stati generosi nei suoi riguardi riducendo notevolmente, col Trattato di Londra del 1953, la somma per le riparazioni di guerra dovuta dalla Germania. Senza poi contare il fatto che nel 2003 la Germania aveva ottenuto, sia pur in compagnia della Francia, una dilazione di due anni per rientrare nel parametro di Maastricht riguardante il disavanzo di bilancio rispetto al Pil. Per contro, alcuni circoli politici e i mass media tedeschi si spingevano a sentenziare che il debito pubblico di Spagna, Portogallo e Italia era il frutto di un’indolenza congenita ai paesi di fede cattolica, al confronto dell’innata disciplina dei paesi segnati dalla riforma luterana o calvinista. Il fatto che quelli dell’area latino- mediterranea fossero fortemente indebitati andava perciò imputato al loro dna, a uno status di scarso senso civico e di torpore morale tramandatosi dall’epoca della Controriforma. È evidente perciò come un clima del genere, avvelenato da astiose polemiche frammiste a reciproci pregiudizi e stereotipi, rendesse più difficile la gestione intergovernativa della Ue, su cui già pesavano da tempo profonde divergenze di opinioni su vari dossier. Una soluzione controversa Infine, il Consiglio europeo decise nel marzo 2011 di istituire il «Meccanismo europeo di stabilità finanziaria», detto anche «salva Stati», destinato a rimpiazzare il Fondo varato nel maggio dell’anno prima, e di dotarlo di 700 miliardi di euro, per i salvataggi nell’eurozona a cui si dovesse fare ricorso in caso di necessità. L’Esm, con sede in Lussemburgo, era abilitato a emettere prestiti per assicurare assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà e ad acquisire titoli pubblici sul mercato primario, ma con prescrizioni molto severe che potevano andare da un programma di correzioni macroeconomiche alla scrupolosa osservanza di particolari condizioni di ammissibilità predefinite. Il suo statuto prevedeva inoltre interventi sanzionatori nei confronti degli Stati che non avessero rispettato le scadenze previste per il rimborso degli aiuti. Il fondo salva Stati non era comunque entrato ancora in funzione quando cedette pure il Portogallo. Ma ciò che più preoccupava era il rischio di un collasso della Spagna. Esisteva una radicale differenza di posizioni sulle modalità di attuazione del fondo salva Stati. Il governo tedesco s’era già detto contrario, nel dicembre 2010, all’introduzione degli eurobond, proposta da Jean-Claude Juncker, presidente dell’Eurogruppo, che riuniva i ministri dell’Economia e delle Finanze dei paesi che avevano adottato la moneta unica. A suo giudizio, l’emissione di eurobond avrebbe potuto contribuire a stabilizzare la situazione mettendo in sicurezza i debiti pubblici nazionali contro la speculazione finanziaria dei mercati. Non si vedeva comunque il motivo per cui veniva esclusa a priori da Berlino l’emissione di eurobond, dato che i paesi più a corto di liquidità se ne sarebbero avvalsi per attuare le riforme necessarie a rilanciare la loro crescita, riducendo così i propri debiti. D’altronde essi sarebbero stati emessi con clausole corroborate da precise garanzie reali. Ciò che sia l’ex presidente della Commissione Prodi sia il ministro italiano dell’Economia Giulio Tremonti avevano tenuto a ribadire. Ma la Merkel e i suoi ministri continuavano a mostrarsi refrattari a un passo del genere, sebbene gli esponenti della Spd fossero propensi all’istituzione degli eurobond. Il governo tedesco avrebbe comunque seguitato a non sentirci da quest’orecchio. Non solo perché la Bundesbank era recisamente contraria a un’eventuale apertura agli eurobond, ma perché lo erano pure alcuni paesi forti, anche nel caso si fosse trattato di una soluzione in via transitoria. D’altra parte, l’accordo siglato fra la cancelliera tedesca e il presidente francese Sarkozy nell’ottobre 2010 (che prevedeva di coinvolgere gli istituti di credito per una soluzione condivisa della crisi) non aveva sortito effetti concreti. Perché consisteva soltanto in un «pagherò», e fin quando quest’impegno non si fosse tradotto in un vero e proprio «assegno» che fosse stato staccato, la Bce non avrebbe potuto intervenire, dati gli stretti limiti operativi a cui doveva attenersi, per cercare di arginare la frana dei titoli bancari, in mancanza di effettive garanzie reali. Sia per Berlino che per Parigi, il fondo salva Stati sarebbe perciò servito a salvare anche le banche: a cominciare da quelle di loro afferenza nazionale, in quanto coinvolte ampiamente nel vorticoso giro di affari immobiliari e di altre speculazioni che, una volta sgonfiatosi, aveva concorso alla crisi dei debiti sovrani di alcuni paesi del Sud Europa. Senonché francesi e tedeschi sostenevano che l’Esm dovesse venir finanziato dagli Stati a seconda del loro Pil, calcolato in base alla percentuale di partecipazione al capitale della Bce. I crescenti interrogativi sulla credibilità dell’Italia La diffidenza verso i titoli pubblici spagnoli stava estendendosi a quelli del nostro paese. A Roma si riteneva comunque che la spesa per gli interessi da corrispondere ai sottoscrittori dei titoli di Stato fosse sostenibile, dato che lo spread con i Bund tedeschi non s’era alzato, e continuava perciò ad aggirarsi intorno ai 120 punti base, come negli ultimi tre anni. Ma intanto si sarebbero dovuti utilizzare i risparmi sugli interessi man mano realizzati dopo l’entrata in funzione dell’euro per ripagare il debito, invece che per aumentare la spesa o per ridurre le imposte. La principale malattia di cui soffriva l’Italia consisteva comunque nella sua bassa produttività, per cui si sarebbero dovute varare per tempo, quando ancora non era sopraggiunta la crisi internazionale, efficaci riforme strutturali. Che occorresse adottare provvedimenti più incisivi e organici a tal fine era quanto la Confindustria aveva continuato a sollecitare, dato che su gran parte delle imprese stavano riversandosi i colpi sempre più duri della crisi. Nel marzo 2010, durante le assise a Parma della Confederazione presieduta da Emma Marcegaglia, un coro di critiche aveva infatti investito il governo, a cui si addebitava di non aver dato corso ad alcuna delle riforme necessarie per un cambio di marcia: da quella fiscale, alla riduzione della spesa pubblica corrente, al taglio dei costi della politica. Inoltre s’erano ulteriormente accumulati i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese, e non si sapeva quando sarebbero stati del tutto saldati. Senonché il governo non era più saldo in sella. Dopo il divorzio, nel maggio 2010, dal Partito della libertà del presidente della Camera Gianfranco Fini e di una trentina di parlamentari suoi sodali, s’era allontanata dalla maggioranza ministeriale anche l’Unione dei democratici di centro. Frattanto dal Consiglio europeo, tenutosi nell’ultimo week-end di marzo del 2011, erano emersi, con un sigillo marcatamente rigorista, ulteriori precetti su questioni sino ad allora considerate di carattere nazionale (come l’aumento dei salari nei contratti collettivi di lavoro, le privatizzazioni, la concorrenza interna, il grado d’efficienza delle amministrazioni pubbliche) che sarebbero state valutate perciò in sede comunitaria, e non più dai singoli Parlamenti e governi dei paesi membri. Inoltre vennero rese automatiche le sanzioni per chi violava il parametro riguardante il 3 per cento nel rapporto deficit/Pil. A Roma si era badato pertanto, nell’impostare il Documento di economia e finanza, a rivedere i conti limando le previsioni per il futuro. In base ai dati del primo trimestre, si stimava infatti che nel corso dell’anno il Pil sarebbe cresciuto, nella migliore delle ipotesi, di appena l’1 per cento; che il saldo commerciale avrebbe subìto una perdita addebitabile soprattutto alla «bolletta energetica» e che sarebbero calati ancora gli investimenti. Inoltre, dovendo tener conto delle reiterate raccomandazioni della Commissione europea, il governo s’era impegnato a varare la riforma del mercato del lavoro e a completare quella delle pensioni, nonché a liberalizzare il settore dei trasporti e ad attuare un piano energetico. Fortemente pessimista sullo stato di salute dell’Italia era soprattutto il governo tedesco. E, con l’aggravarsi della congiuntura, era cresciuta la sua sfiducia nella possibilità che il governo Berlusconi riuscisse a raddrizzare la situazione. A Berlino si ritenevano insufficienti le misure adottate a Roma, come uno «scudo fiscale» per il rientro dei capitali detenuti all’estero ma non dichiarati e l’istituzione dei cosiddetti «Tremonti Bond» (dal nome del ministro dell’Economia), utilizzabili dalle banche per continuare a garantire il credito alle imprese. D’altro canto, non era bastato ad arginare le critiche degli ambienti economici il fatto che il Pil fosse cresciuto nel 2010 dell’1,3 per cento, in linea con quanto era avvenuto in Gran Bretagna e poco meno che in Francia (che s’era tuttavia avvalsa di incentivi finanziari in deficit). Il 27 luglio la Confindustria, l’Associazione delle banche italiane e i sindacati avevano firmato un documento congiunto, in cui si diceva che il governo doveva dar prova concreta di «discontinuità» per evitare che la situazione divenisse «insostenibile». E questa presa di posizione delle parti sociali, senza precedenti, aveva reso evidente come la fiducia nell’esecutivo fosse ormai ridotta al lumicino. Il punto di svolta Ad accentuare le tensioni sui mercati non erano soltanto le voci correnti su un’uscita della Grecia dall’euro. Erano anche le voragini nei flussi di capitali privati e i conseguenti squilibri che stavano avvenendo nella bilancia dei pagamenti di alcuni paesi del Sud Europa. E fra questi figurava sempre più l’Italia. Tra gli ultimi mesi del 2010 e il febbraio 2011 le maggiori banche tedesche avevano infatti disimpegnato man mano il loro portafoglio dai titoli pubblici italiani. Inoltre lo spread, era salito nel frattempo, per la prima volta, sopra i 200 punti. E ciò significava che sui mercati la fiducia nel governo di Roma s’era andata ormai deteriorando, in quanto si riteneva che fosse sempre più malfermo sulle gambe e non avesse piena consapevolezza dello stato d’emergenza in cui versava il paese. Di qui la riluttanza degli investitori stranieri ad acquistare nuove emissioni e un’ulteriore ondata di vendite da parte, per lo più, delle banche tedesche. Ma era in piedi il contenzioso riguardante le contribuzioni al fondo salva Stati, dato che da Roma ci si opponeva alla loro ripartizione, quale era stata congegnata a Bruxelles, in quanto (come sosteneva il governo italiano) essa mirava a trasformare l’Esm in un fondo salva banche, a precipuo vantaggio di quelle tedesche e francesi. Sta di fatto che, in seguito alle vendite in massa dei titoli pubblici italiani (giunte in sei mesi alla cifra di circa 160 miliardi), che stavano innalzando lo spread, s’era diffusa sui mercati l’opinione che il nostro paese non sarebbe stato più in grado di onorare i propri debiti. E pertanto che fosse a un passo dal tracollo: ciò che avrebbe provocato anche quello dell’euro. A questo punto, la Bce decise di procedere a un acquisto massiccio di titoli italiani sul mercato secondario, oltre a quelli già effettuati. Pose tuttavia quale condizione, per questo suo ulteriore intervento di sostegno, che il governo di Roma attuasse al più presto una serie di misure di ordine strutturale, ritenute indispensabili per la riduzione del deficit. E il board della Banca centrale europea le elencò in un memorandum «strettamente confidenziale» trasmesso il 5 agosto al governo italiano, in cui si sollecitava l’immediata messa in cantiere di severe riforme (innanzitutto quelle delle pensioni e del mercato del lavoro), unitamente alla liberalizzazione dei servizi pubblici locali. In pratica, solo con la piena attuazione di questi impegni la Bce avrebbe continuato ad acquistare i nostri titoli pubblici sul mercato secondario. Avendo ottenuto da Roma, due giorni dopo, un assenso informale a queste richieste, il direttivo della Bce provvide ad acquistare fin da subito uno stock di titoli decennali italiani. Nel contempo, il Consiglio dei ministri confermò l’impegno di anticipare al 2013 il pareggio di bilancio. A tal fine, in seguito a ulteriori misure di carattere fiscale annunciate il 7 settembre (fra cui l’aumento dell’Iva dal 20 al 21 per cento e un contributo di solidarietà del 5 per cento sui redditi oltre 300 mila euro), il piano di austerità venne rafforzato. Sembrava perciò che si fosse neutralizzato il rischio di una caduta sotto gli attacchi dei mercati. Ma s’era trattato solo di una tregua. A spezzarla fu il rinvio della riforma delle pensioni d’anzianità, per la contrarietà della Lega Nord, nonché un’ulteriore emorragia della maggioranza parlamentare, mentre non era più un mistero il fatto che esistesse una divergenza di orientamenti fra Berlusconi e il ministro dell’Economia Tremonti. L’11 ottobre il governo era stato battuto alla Camera sul rendiconto generale dello Stato. E tre giorni dopo con un solo voto in più della maggioranza, l’esecutivo aveva ottenuto la fiducia a Montecitorio, e ciò grazie a un pugno di voti raccattati qui e là tra i banchi del Parlamento. In questo scenario politico sempre più instabile, a Berlino e a Parigi si credeva che il governo Berlusconi non sarebbe riuscito a gestire la crisi facendo passare le riforme chieste dalla Bce. D’altronde, a giudicare dagli umori diffusi in vari circoli politici europei, non erano soltanto loro a escludere che il premier italiano ce l’avrebbe fatta a raddrizzare la situazione. Perciò la lettera ufficiale, inviata il 26 ottobre ai presidenti della Commissione e del Consiglio europeo, con cui il governo s’impegnava ad anticipare il pareggio di bilancio al 2013, non era valsa né a rassicurarli né, tantomeno, a far retrocedere i mercati (venuti frattanto a conoscenza del memorandum della Bce) dall’attacco ai titoli pubblici italiani. Sull’orlo del precipizio Malgrado le misure assunte in extremis dal governo italiano, lo spread continuava a salire, e lo stesso faceva il debito pubblico. E ciò nonostante un aumento delle tasse, a sua volta, la spesa corrente era cresciuta perciò s’era registrato dal 2000 in avanti, un aumento «bipartisan» della spesa pubblica. Inoltre, i Gli affanni di Madrid e i crucci dell’Eliseo Dopo le elezioni del novembre 2011 la Spagna era passata sotto la guida di un governo di centro-destra presieduto dal leader del Partito popolare Mariano Rajoy. Anche a Madrid la Bce aveva inoltrato nell’agosto 2011 un memorandum analogo a quello trasmesso all’Italia. E Madrid aveva finito per sottostare a un Diktat, sia pur meno pesante di quello imposto alla Grecia, in cambio degli aiuti di Bruxelles e di Francoforte, nonché del Fondo monetario internazionale. Il nuovo governo si trovava perciò a percorrere una strada comunque lastricata da duri sacrifici per cercare di risanare tanto i suoi conti pubblici che le grosse falle patrimoniali di alcune importanti banche. Tant’è che ci si chiedeva se Madrid ce l’avrebbe mai fatta a risollevarsi dal tonfo che aveva annullato di colpo le sue fortune economiche degli ultimi anni. Tanto più che la Germania e i paesi del Nord Europa non erano disposti, anche nel suo caso (come per l’Italia), ad adottare una linea un po’ più elastica, pur nel quadro del Patto di stabilità. L’insediamento all’Eliseo, nel maggio 2012, di François Hollande, dopo il successo della sinistra nelle elezioni presidenziali, aveva suscitato sulle prime molte aspettative su un passo del leader socialista presso il governo tedesco che valesse ad ammorbidirne i postulati rigoristi più rudi e spigolosi. Ma il presidente della Bundesbank Jens Weidmann era intervenuto immediatamente ad ammonire il capo di Stato francese perché si attenesse strettamente al patto fiscale sottoscritto dal suo predecessore. Era stata respinta da Berlino anche la proposta, rilanciata nell’agosto 2011 dall’ex presidente della Commissione europea Prodi e condivisa poi da alcuni partner della Ue, di introdurre uno strumento come gli eurobond non solo per agevolare il consolidamento dei debiti sovrani, ma anche per assecondare il finanziamento di un programma di investimenti in importanti infrastrutture e dare così più ossigeno all’economia dell’eurozona. La Merkel seguitava a opporvisi. Eppure l’euro, la cui solidità Berlino affermava per prima di avere a cuore, sarebbe rimasto debole senza un sistema di mutuo soccorso tra i paesi membri dell’eurozona. Inoltre la cancelliera tedesca non si fidava del nuovo inquilino dell’Eliseo. Per Hollande era scontato che la Merkel non avesse visto di buon occhio l’uscita di scena di Sarkozy, con cui, anche per via della stessa appartenenza politica, aveva agito pressoché concordemente in sede comunitaria. Nella morsa di un circolo vizioso Crisi dei debiti sovrani, fallimenti bancari e una recessione in atto o alle porte avevano determinato una situazione insostenibile nei paesi più in difficoltà. E questa sorta di «tempesta perfetta» stava mettendo a rischio la sorte dell’eurozona. Nelle ultime settimane del 2011 la Banca centrale europea era corsa ai ripari estendendo gli acquisti di titoli pubblici nell’ambito del «Securities Markets Programme», riducendo i tassi ufficiali in due riprese e dimezzando il coefficiente di riserva obbligatoria. Inoltre il direttivo dell’Eurotower aveva deciso, su iniziativa del nuovo presidente Mario Draghi (insediatosi il 1° novembre, dopo esser stato fino ad allora governatore della Banca d’Italia), di effettuare in dicembre e poi a fine febbraio due operazioni di rifinanziamento delle banche a scadenza eccezionalmente lunga, quasi tre anni, con un’integrale aggiudicazione degli importi richiesti. Il sistema bancario europeo aveva potuto così avvalersi di un’ingente immissione di liquidità, per un totale di mille miliardi. Perciò le banche italiane non si trovavano più nella situazione degli ultimi cinque mesi del 2011, quando la loro provvista netta presso i non residenti, nell’interbancario estero e in obbligazioni, era diminuita di oltre un centinaio di miliardi. Avevano potuto disporre di 255 miliardi (140 al netto dei rimborsi) per sostituire la raccolta all’ingrosso venuta meno e investire la maggior parte di tali fondi in titoli di Stato156. Anche le banche spagnole, che erano sull’orlo della bancarotta e minacciavano di trascinare con sé lo Stato iberico (come avevano fatto un anno e mezzo prima quelle irlandesi), avevano potuto tirare il fiato. Ma il vistoso aumento degli spread avvenuto negli ultimi mesi aveva intanto messo a repentaglio il mercato unico, in quanto le imprese dei paesi periferici dell’eurozona erano state costrette a finanziarsi a tassi molto più alti dei loro concorrenti. Perciò gli stimoli monetari della Bce sarebbero stati vanificati se gli spread avessero ripreso a volare alto, sospinti dai movimenti speculativi. E così pure gli sforzi intrapresi in Italia e in Spagna per porre sotto stretto controllo le finanze pubbliche. CAPITOLO 8 UNO SCUDO PER L’EURO La «lunga notte» di Bruxelles Avendo avviato il consolidamento dei conti pubblici, il governo Monti riteneva di avere adesso le carte in regola, non già per rinegoziare il Patto di stabilità, bensì per ottenere un po’ più di respiro in sede comunitaria, così da poter dar corso al piano «Cresci Italia» impostato a gennaio. Ma per non continuare a subire le scorribande dei mercati non c’era che un unico frangiflutti: un intervento della Banca centrale europea che arginasse gli attacchi speculativi sui debiti sovrani di quegli Stati che rispettavano le indicazioni dell’Unione europea. Per ottenere che alla Bce venisse riconosciuta la facoltà di intervenire in modo da stabilizzare i mercati sul debito pubblico, Monti cercò di convincere i governi tedesco, olandese e finlandese (che vi si opponevano) della necessità ormai inderogabile di un passo del genere. E, non avendo ottenuto riscontro alla sua richiesta, decise di porre il veto al varo di un «Patto per la crescita». Nel summit del 28-29 giugno 2012 dell’eurozona il premier italiano dichiarò pertanto che non avrebbe firmato il progetto in questione se prima non si fosse consentita la creazione di uno «scudo antispread» per calmierare l’andamento dei titoli pubblici dei paesi presi di mira dalla speculazione. Di fronte alle obiezioni della Merkel fu determinante l’appoggio alla proposta di Monti del presidente francese Hollande, oltre a quello, naturalmente, del premier spagnolo Rajoy. Non s’era comunque presa alcuna decisione in attesa che la Merkel tornasse da Berlino, dove il Parlamento stava procedendo alla ratifica del Fiscal Compact. Probabilmente la cancelliera s’aspettava che Hollande ci ripensasse; ma, al suo rientro a Bruxelles, l’atteggiamento del presidente francese non era cambiato: del resto, egli non era disposto a considerare l’asse fra Parigi e Berlino allo stesso modo di Sarkozy, che aveva reso l’Europa una compagine a esclusiva trazione tedesca. Si giunse così a un accordo politico unanime sull’istanza avanzata dal governo italiano. La firma apposta dalla Merkel all’intesa siglata nel vertice di fine giugno non significava tuttavia che si arrivasse automaticamente a un esplicito pronunciamento dell’Eurotower. I tedeschi, dopo aver respinto il progetto degli eurobond, ed essendo diffidenti anche nei riguardi dei «project bond», avevano lasciato capire che non era detta l’ultima parola quanto allo «scudo antispread». Del resto, in Germania l’opinione pubblica non voleva neppure che si procedesse al salvataggio delle banche spagnole, anche se il loro naufragio (che stava provocando una caduta verticale delle Borse europee) avrebbe comportato un duro colpo per quelle tedesche. In effetti, s’era infoltita in Germania la schiera di quanti ritenevano che, dopo il «lasciapassare» della Merkel al salvataggio delle banche spagnole, oggetto di forti critiche, il governo tedesco dovesse escludere tassativamente qualsiasi altra forma di soccorso nei riguardi dei paesi in difficoltà. Per di più, il presidente degli industriali Hans-Olaf Henkel avrebbe voluto una scissione dell’euro in due monete ben distinte: una (quella «buona») per i paesi «virtuosi» del Nord, l’altra (quella «cattiva») per i paesi «reprobi» del Sud, sebbene le imprese tedesche avessero ricavato fino ad allora notevoli vantaggi esportando in paesi che non potevano più svalutare. L’antispread di Draghi In seguito ai ripetuti attacchi dei mercati e alla crescente incertezza sul futuro, la situazione era divenuta così grave che l’eurozona rischiava ormai il naufragio. A scongiurare questo pericolo, e a rianimare il plotone altrimenti diviso e sfiduciato dei leader politici, era rimasta unicamente la Banca centrale europea. Il suo presidente Mario Draghi, che aveva dichiarato ripetutamente come l’euro fosse «irreversibile», aveva lasciato intendere che la Bce era pronta a intervenire «senza tabù» in difesa della moneta unica. In pratica, due erano gli strumenti di cui la Bce avrebbe potuto avvalersi: il primo consisteva nell’acquisizione sul mercato secondario di titoli pubblici dei paesi sotto attacco; il secondo in una nuova iniezione di liquidità alle banche per consentire loro di acquistare titoli pubblici sul mercato e ridurre in tal modo lo spread. Fra queste due soluzioni appariva più efficace la prima, in quanto aveva assai più probabilità di contrastare ulteriori manovre speculative, allentando le tensioni e normalizzando le condizioni del mercato. Nel board della Bce i rappresentanti tedeschi non avevano condiviso l’ipotesi ventilata da Draghi. E la Bundesbank aveva confermato il proprio dissenso. In sostanza la Bundesbank riteneva, appellandosi a un articolo del Trattato di Maastricht che vietava il finanziamento monetario dei debiti e dei disavanzi pubblici degli Stati aderenti mediante l’acquisto diretto di titoli di debito da parte della Bce, che l’Eurotower avesse violato questa disposizione. A parte il fatto che l’Eurotower non aveva reso operativo l’annunciato programma delle «Outright monetary transactions» (Omt), i banchieri tedeschi seguitavano a non capire quello che avrebbe dovuto risaltare invece a chiare lettere dopo le vicissitudini della Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo: ossia, il pericolo che l’eurozona avrebbe corso nel caso di una capitolazione della Spagna e dell’Italia. Pur ammesso che a ciascuno di questi paesi si dovesse imputare la responsabilità della crisi del proprio debito sovrano, era comunque inutile continuare a perder tempo in acrimoniose polemiche. D’altronde, la perpetuazione di una rigorosa politica di austerità, che tanto piaceva agli elettori tedeschi e al partito della cancelliera, non era più sostenibile senza un minimo di flessibilità. Altrimenti si sarebbe infoltita la corsia europea degli ammalati in gravi condizioni e sarebbe divenuto sempre più incombente il pericolo di una disgregazione dell’eurozona. Secondo Draghi, era perciò indispensabile creare un cordone di sicurezza attorno alla Spagna e all’Italia per mettere una museruola ai mercati finanziari affinché non destabilizzassero il sistema con ricorrenti manovre speculative che rendevano sempre più divergenti gli spread fra i titoli pubblici dei diversi paesi. Superando la pregiudiziale opposta dalla Bundesbank, secondo cui la Bce non era abilitata ad agire come prestatore di ultima istanza, e avendo ottenuto il consenso di tutti gli altri membri del board (tranne Jens Weidmann), Draghi ribadì perciò che, qualora fosse perdurata una situazione d’emergenza, l’Eurotower avrebbe dato vita a uno «scudo antispread». In pratica, la Bce si sarebbe impegnata ad acquistare titoli dei paesi più deboli, al fine di ridurre il loro differenziale rispetto a quelli tedeschi e di bloccare così nei mercati la deriva verso un’instabilità sistemica. E le Borse avevano premiato la soluzione patrocinata dal presidente della Bce. All’occorrenza l’Eurotower avrebbe infatti provveduto ad acquistare (senza limiti quantitativi ex ante, ma in base a precisi controlli e a severe condizioni)165 titoli di Stato con scadenza da uno a tre anni. La dichiarazione che la Bce sarebbe ricorsa, nel caso di gravi turbolenze sui mercati, all’istituzione di uno «scudo antispread» era valsa a scongiurare il peggio. Anche se il programma di acquisto dei titoli dei paesi presi di mira non venne mai attivato in concreto, bastò il suo annuncio a bloccare il rialzo degli spread. Questa manovra servì a guadagnare tempo per la prosecuzione delle politiche di aggiustamento dei conti pubblici, non già, naturalmente, a risolvere la crisi dei debiti dei paesi in sofferenza. Essi avrebbero dovuto pur sempre portare a compimento incisive riforme strutturali, in modo da accrescere la produttività e porre le basi per una crescita sostenibile e durevole. Nel contempo avrebbero potuto ricorrere al fondo salva Stati. Un «percorso di guerra» Raffreddatesi le tensioni sui mercati che avevano tenuto in fibrillazione l’eurozona, rimanevano tuttavia sul tappeto i problemi di ordine strutturale che affliggevano gran parte delle economie europee. L’idea che prima o poi funzionassero determinati meccanismi automatici di stabilizzazione e ripresa del sistema andava accantonata alla luce dell’esperienza degli ultimi anni e di quanto si continuava a registrare. In pratica, se la Bce aveva assicurato con la sua sortita stabilità e credibilità all’eurozona, occorreva adesso un’efficace politica, a livello comunitario, di rilancio dell’economia reale. Si era così posto il problema di ridare impulso all’industria manifatturiera. Il suo motore s’era talmente inceppato che ormai era in gioco la sorte di una miriade di imprese. A Bruxelles il commissario al Mercato unico Michel Barnier aveva perciò chiesto, nell’ottobre 2012, che venisse adottato dalla Ue innanzitutto un provvedimento, in merito alle relazioni commerciali con altre aree, che salvaguardasse gli interessi dei produttori del Vecchio Continente facendo valere concretamente il rispetto di un effettivo regime di reciprocità negli scambi. In secondo luogo, sottolineando il fatto che l’80 per cento delle innovazioni avveniva nell’ambito dell’industria e che essa assicurava due terzi dell’export europeo, Barnier aveva sostenuto che nel nuovo budget settennale dell’Unione europea doveva figurare un piano finanziario per portare entro il 2020 la quota del settore manifatturiero dal 15,6 per cento a una media del 20 per cento del Pil aggregato. D’altra parte, la disoccupazione nell’eurozona seguitava a crescere e ci si chiedeva fino a quando una situazione del genere scongiurare prospettive così rovinose. E la nostra delegazione riuscì a contenere a non più di un miliardo i tagli della propria quota sul versante agricolo e a ridurre in complesso, sia pur di poco, lo scarto fra quanto l’Italia avrebbe dato e ricevuto dall’Unione europea. Quella raggiunta a Bruxelles, era stata comunque un’intesa al ribasso, in quanto aveva partorito, per la prima volta nella storia della Ue, un bilancio settennale più striminzito di quello precedente. Eppure, il budget comunitario era già di per sé una frazione irrisoria del Pil dell’Unione. Qualora lo si fosse voluto ridurre ulteriormente, sarebbe bastato sì e no a coprire la politica agricola e qualche altro programma. E ciò proprio quando occorreva provvedere a un rilancio dell’economia europea, sfiancata da una lunga fase recessiva e dalla caduta della produzione e dell’occupazione. Non si era pertanto giunti a parlare di un pacchetto di misure per investimenti nell’innovazione, nelle infrastrutture e in campo energetico, oltre che a sostegno della «green economy». CAPITOLO 9 LE IPOTECHE DEL MOBBILISMO Il tabù della mutualizzazione dei rischi Nel corso del 2012 negli Stati Uniti non pochi analisti consideravano inevitabile una frana prima o poi dell’euro, a causa tanto della crisi dei debiti sovrani quanto delle confuse vicende politiche. Gli operatori americani avevano diluito i loro investimenti sull’altra sponda dell’Atlantico e alcuni fondi pensione s’erano alleggeriti notevolmente di titoli in euro, mentre altri avevano preso le distanze dai paesi mediterranei in sofferenza per dirigersi, ma solo in parte, verso i paesi «forti» (Germania, Olanda, Finlandia, Austria, Danimarca). In questa situazione l’impegno esplicito di Mario Draghi a fare «tutto il necessario» per salvare l’euro e l’annuncio della Bce del suo piano di transazioni monetarie dirette erano valsi ad allentare la morsa nel momento di massima tensione dei mercati e a proteggere i paesi più vulnerabili dall’incubo di un’ulteriore ascesa degli spread. Il board della Banca centrale europea, supplendo all’inerzia o alla miopia di Bruxelles, aveva così evitato il rischio che una speculazione aggressiva dei mercati finanziari, estendendo il fuoco delle sue artiglierie, finisse per incrinare anche le fondamenta di eurolandia. E che questo suo intervento avesse indotto anche i governi più arroccati su posizioni rigoriste ad aprire infine gli occhi sul pericolo di una deriva, lo attestava il fatto che Draghi fosse riuscito a convincere sia la Merkel, ad onta dei tabù opposti dalla Bundesbank, sia i rappresentanti dei paesi nordici, altrimenti restii ad accettare l’idea di uno scudo antispread. A ogni modo, pur avendo mostrato di sapere come proteggere l’euro meglio di quanto andavano proclamando i governi europei più ortodossi, Draghi era convinto che il futuro della moneta unica fosse legato al compimento di un’effettiva integrazione politica e perciò che occorresse stringere i tempi per raggiungere questo traguardo. Nell’ambito delle proprie funzioni egli aveva fatto del suo meglio per difendere l’euro: tanto più se si considera che gli Stati Uniti non avevano mai visto di buon occhio l’esistenza di una moneta concorrente alla loro e che nel frattempo si era estesa l’area di pertinenza del rublo russo e quella dello yuan cinese in competizione con lo yen giapponese. Anche per questo non si sarebbe potuto assicurare più di tanto l’affidabilità e la saldezza di una moneta priva di un soggetto politico che, in ultima istanza, garantisse il valore e la forza dell’euro come unico circolante nei paesi che lo avevano adottato. In sostanza, a detta di Draghi, se spettava innanzitutto ai governi acciaccati dalla crisi dei debiti sovrani (perché la loro politica economica era stata per troppo tempo «fiacca e incerta») attuare adeguate riforme strutturali e «riconquistare credibilità», stava però agli Stati membri dell’unione economica e monetaria, nel loro insieme, rendere «irreversibile» l’esistenza dell’euro. E ciò comportava, a suo giudizio, la realizzazione di una «casa europea» a dimensione federale, altrimenti, ogni singolo paese correva il rischio di perdere la sua identità «se si rimaneva esposti» senza protezione, senza un saldo scudo europeo, alle «forze globali che sono violentemente e spudoratamente sovranazionali» e «ignorano i temi e le specificità locali». Naturalmente, il presidente della Bce non pensava che si sarebbe dovuto raggiungere questo traguardo di colpo. Ma non si poteva rimandarlo a «un tempo infinito». L’obiettivo doveva essere comunque, a suo avviso, la formazione di un’Europa con uno statuto federale. A tal fine l’unione bancaria poteva costituire un notevole passo avanti, sia pur «tecnico», ma con importanti risvolti sul piano politico. Riteneva perciò che occorresse procedere fin da subito verso l’istituzione di un’unica autorità di vigilanza; poi verso l’unione fiscale, per correggere i bilanci «non sostenibili»; infine verso l’unione economica, in modo da migliorare la competitività del sistema europeo, necessaria a implementare crescita e occupazione. Ma la cosa essenziale era che questi tre passaggi avvenissero per fasi temporali più brevi possibili. Altrimenti, c’era il rischio che l’ondata di critiche e d’insofferenza nei confronti delle dure misure assunte a presidio della stabilità finanziaria all’interno dell’eurozona si trasformasse in un moto incontenibile di disaffezione e ripulsa della causa europeista. Ripensare a Keynes e addirittura a Marx? Lo European Stability Mechanism era senz’altro un’ancora a cui aggrapparsi in caso di estrema necessità. Era infatti abilitato a emettere strumenti finanziari e titoli e ad acquistare titoli di Stati dell’eurozona sul mercato primario e secondario. Ma, a parte il fatto che occorreva sottostare a condizioni iugulatorie, l’Esm non poteva certo rimettere in marcia il sistema economico. Inoltre la Corte costituzionale di Karlsruhe aveva posto un limite alla partecipazione del governo di Berlino al fondo salva Stati. Nei paesi più in difficoltà si continuava perciò a fare affidamento, per una svolta, sulla leva della politica monetaria. Ma c’era chi accusava di «interventismo» il presidente della Bce. Tanto che circolava la tesi che Draghi non avesse mai accantonato certi suoi lontani orientamenti culturali di sapore keynesiano. E ciò spiegava il suo comportamento che, a detta dei suoi critici, aveva travalicato la sfera del proprio ruolo istituzionale nell’intento di acquisire un potere del tutto personale d’indirizzo politico. Il gruppo tedesco «Più democrazia», nel ricorso presentato alla Consulta di Karlsruhe contro il progetto di uno «scudo antispread», era giunto infatti ad accusare il suo promotore di prevaricazione. In realtà, se Draghi riteneva che la Bce potesse assecondare l’uscita dalla crisi dei paesi più malmessi con un’azione ponderata di stimolo, era tuttavia fermamente convinto che dovevano essere innanzitutto i governi ad assumere a tal fine le iniziative più idonee, ma congegnate pur sempre in termini compatibili con le norme del Fiscal Compact. Non era il caso, dunque, di stare a discutere se intendeva riportare in auge Keynes – i cui precetti egli considerava del resto impraticabili nel quadro di un ordinamento normativo sovranazionale come quello dell’unione economica e monetaria –. La Bce non era la Fed americana che, dopo aver immesso dosi massicce di liquidità per ricapitalizzare le banche colpite dalla crisi e spegnere così l’incendio del sistema finanziario, ne aveva fornito altre per attivare i lavori pubblici e assecondare la ripresa di alcune grandi imprese, al fine di contrastare la disoccupazione e rivitalizzare l’economia reale. Sta di fatto che nel Vecchio Continente, in mancanza di misure che ridessero impulso alla domanda interna, la situazione economica s’era fortemente deteriorata. Al punto che il lussemburghese Jean-Claude Juncker, presidente dell’Eurogruppo ed esponente autorevole del Partito popolare, oltre che totalmente concorde fino ad allora con gli orientamenti della Merkel, sottolineando quali dimensioni «drammatiche» avesse assunto in complesso la disoccupazione, era giunto a evocare Karl Marx e le avvilenti condizioni del proletariato che avevano innescato la lotta di classe nei primi decenni dell’Ottocento. Juncker era dell’avviso che si dovesse istituire un «salario minimo obbligatorio» in tutti i paesi della zona euro. Altrimenti, con la compressione dei salari e la diffusione di lavori sottopagati, l’Europa avrebbe finito col perdere «il sostegno della classe operaia». Sui sindacati i loro militanti stavano premendo affinché chiedessero ai governi di attribuire un’assoluta priorità agli autoctoni, rispetto agli extracomunitari, nell’accesso alle opportunità di lavoro e ai sussidi di disoccupazione. In realtà, per garantire concretamente i «diritti sociali» dei lavoratori e scongiurare il loro impoverimento, ci sarebbe voluta da parte della Ue una strategia concertata per uno sviluppo economico competitivo, unitamente all’adozione di apposite politiche di formazione del capitale umano. E ciò richiedeva sia l’incentivazione di determinati settori industriali di media-alta tecnologia e creativi di prodotti di qualità, sia l’implementazione delle infrastrutture e validi programmi di riqualificazione professionale. Ma seguitava a far difetto una politica del genere, si sarebbero pertanto assottigliate ancor più le risorse destinate a processi d’integrazione fra industria e ricerca e a politiche attive del lavoro. Eppure sarebbe stato possibile introdurre in Europa nuovi strumenti finanziari (come i «Labor bond» e altri congegni) per coprire investimenti che servissero al rilancio dell’attività produttiva e al riassorbimento della disoccupazione. C’era il pericolo di uno strisciante processo di deindustrializzazione. La perenne anomalia delle Länderbanken Quando i leader europei s’erano ritrovati in un summit tenutosi nella terza settimana di ottobre del 2012, la loro attenzione era stata assorbita da un’altra questione: la ricapitalizzazione, tramite l’Esm, di quelle banche che versavano ancora in condizioni critiche. Si trattava di un’operazione che riguardava soprattutto la Spagna, l’Irlanda e Cipro. Ma alcuni governi (fra cui quelli olandese e finlandese) non volevano che la ricapitalizzazione riguardasse le attività precedenti l’istituzione di un organo unico di vigilanza. Insomma, a loro avviso, si sarebbe dovuto escludere qualsiasi genere di retroattività nell’applicazione dell’Esm. Altrimenti sarebbe stato necessario far fronte alle enormi perdite subite nel frattempo da alcune banche. Era però sorto il dubbio che questa pregiudiziale celasse una retromarcia di vari paesi nord-europei rispetto all’impegno assunto nel giugno dell’anno prima, ancorché fosse stato motivato dall’«imperativo» di «spezzare la spirale di un deterioramento, che si rafforza vicendevolmente, della situazione debitoria degli Stati membri più deboli e delle banche che in questi Stati hanno sede». Di conseguenza, si sarebbe dovuto procedere al trasferimento di gran parte dell’apparato preposto alla vigilanza bancaria dal livello nazionale a quello comunitario. E ciò significava un primo passo verso un’unione bancaria (come Draghi auspicava) in base a due step, il primo dei quali sarebbe consistito nell’attribuzione alla Bce di ampi poteri di supervisione in tema di vigilanza bancaria nei riguardi degli Stati membri. Ma la prospettiva che la Bce assumesse interamente nelle sue mani la vigilanza bancaria, e la esercitasse a tutti gli effetti, aveva indotto alcuni governi nordici a sollevare il dubbio che ciò potesse compromettere la sua indipendenza. Ma non era questa l’unica obiezione sopraggiunta in corso d’opera. Le casse di risparmio e le banche regionali tedesche, adducendo che erano istituti di credito locali soggetti a regole diverse da quelle delle banche commerciali, non intendevano essere sottoposte alla nuova autorità europea di vigilanza. Né avrebbero accettato eventuali sistemi specifici di vigilanza, riguardanti espressamente le banche di carattere locale non commerciali. Il governo tedesco era perciò sceso in trincea, nel corso di un vertice europeo tenutosi a ottobre, a difesa delle proprie Länderbanken e Sparkassen. Non solo. La Merkel, pur riconoscendo l’urgenza di soccorrere con l’Esm la Spagna e l’Irlanda, aveva posto un alt su quasi tutta la linea per quanto riguardava la questione più generale dell’unione bancaria. Berlino voleva infatti che la vigilanza europea si concentrasse solo su una trentina di grandi banche e non sugli oltre seimila istituti operanti nell’eurozona. Inoltre era restia al varo di un sistema europeo di liquidazione delle banche insolventi e alla messa in comune dei fondi di garanzia dei depositi. E ciò perché considerava sia l’uno che l’altro di questi due meccanismi come un passo verso l’utilizzo a favore altrui dei denari dei contribuenti tedeschi. Uno stato di torpore economico La Germania aveva cominciato intanto a rallentare il suo passo di marcia. A Berlino si prevedeva che nel corso del 2013 il Pil sarebbe cresciuto solo di mezzo punto, la produzione industriale sarebbe rimasta in pratica pressoché al palo e la disoccupazione sarebbe aumentata dal 6,8 al 7 per cento. Era insomma illusorio pensare che la Germania sarebbe rimasta del tutto immune dal contagio della recessione in corso in mezza Europa, dove figuravano pur sempre i principali mercati di sbocco per l’export delle imprese tedesche. Perciò una politica d’austerità così eccessiva come quella che Berlino e i governi del Nord avevano continuato a sostenere stava trasformandosi in un boomerang, destinato a colpire anche la Germania. Per rianimare un’economia anemica, ancora lontana dalla guarigione o comunque lenta a riprendersi, il direttore generale del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde aveva auspicato che i paesi «virtuosi» si avvalessero dei loro più ampi spazi di manovra per promuovere apposite misure orientate alla crescita degli investimenti, in modo da produrre, di riflesso, effetti positivi in altre aree di eurolandia. Spagna e Italia rappresentavano importanti piazze commerciali per le esportazioni della Germania. Nelle difficoltà in cui versava la Spagna e nelle more di una convulsa transizione politica in Italia), era parso che la cancelliera, ritenesse possibile l’utilizzo di certi margini consentiti dal Patto di stabilità per investimenti finalizzati appunto a un rilancio dell’economia, da concertare in sede comunitaria. Ma il giorno dopo il presidente della Bundesbank Weidmann s’era affrettato a pronunciarsi contro quest’apertura critiche e obiezioni da varie parti, tranne che dalla Francia. La stessa Spd aveva trovato da ridire, in più di un’occasione, sulla forzatura impressa all’export, che, a suo giudizio, contribuiva a tenere bassi i salari e non assecondava perciò la domanda interna. Alcuni suoi esponenti si chiedevano inoltre se le esportazioni avrebbero potuto continuare a tirare nello stesso modo qualora i paesi mediterranei sulla china della recessione avessero diluito ulteriormente, per forza di cose, le loro importazioni. Eppure a metà novembre del 2013 la Commissione europea aveva deciso, sebbene con notevole ritardo, di aprire una procedura per esaminare se l’elevato surplus commerciale tedesco avesse un impatto negativo sul funzionamento e la ripresa economica dell’eurozona. A Bruxelles come in altre sedi non si pensava naturalmente che la Germania dovesse porre un freno alle sue esportazioni; quel che risultava discutibile era che seguitasse a importare poco. E perciò che si fosse creata una notevole eccedenza dei risparmi pubblici e privati rispetto agli investimenti e ai consumi interni. Anche il board del Fondo monetario internazionale e il governo statunitense avevano manifestato riserve e preoccupazioni nei confronti della linea di condotta del governo tedesco a sostegno del suo export e di freno invece alla domanda interna, anche per il tramite di una politica d’austerità che concorreva al contenimento dei salari reali. Ai primi di gennaio del 2014 il segretario americano al Tesoro Jack Lew, in un incontro a Berlino col ministro delle Finanze Schäuble, aveva auspicato che la Germania riducesse l’eccessiva dipendenza della sua economia dalle esportazioni. E ciò non solo per un riequilibrio delle partite correnti nell’ambito dell’eurozona, ma pure in considerazione dell’interesse stesso di Berlino, dato che non avrebbe potuto più contare alla lunga su un consistente acquisto delle proprie merci da parte dei suoi partner, sempre più alle prese con pesanti angustie economiche anche per le ricadute su di loro della restrizione dei consumi interni perseguita dalla dirigenza tedesca. Ma la risposta di Schäuble aveva ricalcato in sostanza l’indirizzo tradizionale del suo governo, adducendo che negli ultimi anni erano cresciute le esportazioni della Germania verso altre aree mondiali al di fuori dell’eurozona. Inoltre la stampa tedesca, in base a uno studio condotto per conto dell’Associazione degli imprenditori della Baviera, sosteneva che la Germania, ordinando manufatti e forniture all’insieme degli altri partner europei, aveva contribuito a creare nella Ue ben tre milioni e mezzo di posti di lavoro. In particolare, secondo questo rapporto, erano stati l’Olanda, il Belgio, la Francia, il Regno Unito, l’Italia e la Repubblica Ceca i paesi che avevano tratto i maggiori benefici dalla performance dell’industria tedesca. Di fatto, nel 2012 le esportazioni costituivano il 34 per cento del Pil tedesco. La Commissione europea si era perciò decisa a intervenire, stabilendo un tetto massimo per il surplus commerciale pari al 6 per cento del Pil. Se un paese importante, per la sua consistenza economica, avesse superato questo limite, gli squilibri che ne sarebbero derivati avrebbero infatti messo a repentaglio, a giudizio di Bruxelles, la stabilità dell’eurozona e le finanze di altri Stati membri. Berlino avrebbe dovuto quindi, senza per questo dover rinunciare alle sue capacità competitive, potenziare gli investimenti e i consumi interni. Questa raccomandazione era stata recepita dalla «Grosse Koalition», ma le misure assunte a tal fine erano state congegnate in modo da evitare soltanto di incorrere nella procedura d’infrazione di Bruxelles, riducendo marginalmente lo squilibrio dei conti correnti delle bilance dei pagamenti dei suoi partner. Il rischio di una deindustrializzazione Le riduzioni del costo del danaro attuate dalla Banca centrale europea negli ultimi due anni avevano sortito effetti di segno positivo, ma troppo limitati per rimettere in moto l’economia europea. A una massa monetaria che era andata crescendo faceva ancora riscontro una domanda scarsa, dato che, invece di circolare, i soldi non venivano richiesti in prestito da imprese e da famiglie, e quindi le banche continuavano a investirne la maggior parte in titoli di Stato, quando non a ricollocarli presso la Bce. Con un sistema economico che stentava a ripartire, e i prezzi ormai fermi pressoché al palo, s’era accentuato perciò il timore di una deflazione. Si riteneva che ci sarebbe voluto un aumento dei prezzi intorno al 2 per cento per invogliare i produttori a investire contando su apprezzabili margini di redditività. Invece il tasso d’inflazione in eurolandia continuava a veleggiare, mediamente, intorno allo 0,7 per cento. Che fosse indispensabile riavviare il motore dell’industria, per uscire dal tunnel della recessione, era quanto stava scritto in un appello firmato nel dicembre 2012 dai ministri di cinque paesi della Ue (Italia, Francia, Germania, Spagna e Portogallo), che auspicavano perciò il varo di un’efficace politica industriale, trasversale e integrata, compatibile con le norme del Patto di stabilità. Ma da allora quella richiesta non aveva trovato udienza nel Consiglio europeo. Eppure incombeva il rischio di una diffusa deindustrializzazione. Gli stessi imprenditori tedeschi, le cui aziende avevano proceduto per tanto tempo col vento in poppa, ritenevano che prima o poi ne avrebbero risentito le conseguenze. S’erano pertanto ribaltate le previsioni che circolavano a Bruxelles agli esordi del nuovo secolo, quando dominava la convinzione che la Ue sarebbe cresciuta sempre più d’importanza economica, oltre che di statura politica. E ciò grazie all’allargamento delle proprie istituzioni ai paesi dell’Est e all’introduzione di una moneta unica. Al punto che si riteneva possibile realizzare una sorta di staffetta tra Europa e Stati Uniti nel ruolo di traino dell’economia mondiale e nello sviluppo delle relazioni con l’Asia e l’America Latina. In pratica, per rianimare l’attività industriale, occorreva una strategia a livello comunitario che valesse a stimolare la crescita della produttività e della competitività e assicurasse un maggior coordinamento delle normative riguardanti il mercato unico, la liberalizzazione dei servizi, le fonti energetiche, la digitalizzazione nelle imprese. Nell’ottobre 2012 le misure da adottare per l’impostazione di una politica industriale articolata su questi punti erano state compendiate in un apposito documento del vicepresidente della Commissione per l’Industria Antonio Tajani, in cui si poneva l’accento soprattutto su quelle più idonee alla crescita degli investimenti in ricerca e innovazione, alla valorizzazione delle competenze e del capitale umano, allo sviluppo dei trasporti e delle infrastrutture. Nel contempo il Commissario al Mercato interno Michel Barnier aveva sottolineato che l’80 per cento delle innovazioni avveniva nel settore manifatturiero (con importanti ricadute sul terziario) e che esso assicurava due terzi dell’export europeo. S’era augurato perciò che il budget comunitario, in discussione di lì a qualche mese, contemplasse un piano per investimenti e incentivi in un arco di medio periodo per un aumento entro il 2020 di cinque punti della quota dell’industria nel Pil aggregato. L’esigenza di un «Industrial Compact» fra i governi della Ue s’era affacciata ai primi di febbraio 2013, alla vigilia di un summit di Bruxelles dedicato appunto all’esame del bilancio della Ue per il settennato 2014-2020. Ma la questione non era poi stata presa in considerazione dal Consiglio europeo. Anzi, gli orientamenti prevalenti erano per una riduzione degli investimenti in ricerca, infrastrutture e innovazioni. Dopo che la Commissione aveva redatto, nel gennaio 2014, una relazione circostanziata in materia, il Consiglio europeo aveva deciso infine di inscrivere il tema della reindustrializzazione nell’agenda di un suo vertice che si sarebbe tenuto due mesi dopo. Ma intanto la situazione s’era aggravata: molti posti di lavoro erano andati in fumo e altri erano in bilico, sempre più numerose imprese si trovavano in condizioni d’emergenza, e anche la «locomotiva» tedesca aveva rallentato la sua marcia. Di fatto, stando a un rapporto di BusinessEurope, la quota degli investimenti europei a livello mondiale era calata fra il 2000 e il 2012 dal 40 al 24 per cento, il costo dell’energia era cresciuto fra il 2005 e il 2012 del 37 per cento, e si erano accentuati i divari fra i paesi del Nord e quelli del Sud d’Europa quanto al contributo delle imprese alla catena di valore. La minaccia di una crisi sociale L’Europa s’era impoverita, era calato il reddito delle famiglie e s’era diradata la loro fiducia nel futuro. D’altronde, stando alle previsioni della direzione degli Affari economici e finanziari della Ue, la ricchezza media degli europei, ossia il Pil pro capite, si sarebbe ridotta al 60 per cento rispetto a quella degli Stati Uniti, cioè tre punti al di sotto di quella di cinquant’anni prima. Intanto la disoccupazione era giunta nell’eurozona, alla fine del 2013, a una media dell’11,3 per cento, ed era cresciuta in termini esponenziali quella delle leve più giovani. Per di più si dava per scontato che fosse destinata ad aumentare, in quanto numerosi paesi si trovavano ancora nel mezzo della recessione e anche le persone occupate temevano di perdere il lavoro o di subire una riduzione dei loro salari. Certi malanni cronici di ordine strutturale e le gravi perturbazioni susseguitesi dopo la crisi esplosa nel 2008 avevano fiaccato soprattutto le economie dei paesi periferici dell’eurozona. In particolare, la Spagna e l’Italia avevano lasciato sul terreno molti punti del Pil complessivo e di quello pro capite. Ma era divenuta più difficile anche la situazione della Francia, che aveva perso competitività nei beni intermedi. E non è che in Germania, in Olanda o in Belgio la gente se la passasse tanto bene. In complesso, secondo le statistiche ufficiali, ammontavano a oltre 25 milioni le persone senza un’occupazione, su una cifra potenziale di forza lavoro di 240 milioni. Ed erano in gran maggioranza giovani. Inoltre metà dei nuovi posti di lavoro erano occasionali e quindi precari. È vero che negli Stati Uniti era divenuto abissale il divario fra il top della piramide sociale (dato che non più dell’1 per cento deteneva gran parte della ricchezza nazionale) e la maggior parte della popolazione, in quanto anche la classe media aveva subìto nel frattempo un declino dei suoi redditi. Ma in Europa si erano comunque aggravate le diseguaglianze sociali, come mai era successo prima degli ultimi anni. Al vertice figurava infatti una ristretta cerchia di famiglie abbienti, mentre si era ampliata l’area di quelle sull’orlo della povertà o scivolate al di sotto di questa soglia. Di conseguenza, s’era riaffacciata la prospettiva di una radicalizzazione dei conflitti sulla redistribuzione del reddito: anche perché i governi, di qualsiasi colore politico fossero, s’erano trovati, in seguito all’insostenibilità delle precedenti spese del welfare, a dover restringerne sensibilmente gli spazi e il volume. Insieme alla differenziazione di status e di orientamenti fra lavoratori garantiti con contratti a tempo indeterminato e quanti non erano nelle stesse condizioni, si stava profilando un nuovo genere di conflittualità: quello fra giovani e anziani. Il forte aumento della longevità, che era stato uno dei progressi più tangibili dell’evoluzione civile e sociale dei paesi europei, aveva avuto infatti per corollario, in coincidenza con la diminuzione del tasso di natalità, che un numero di persone attive inferiore rispetto a quello del periodo antecedente si trovava a finanziare il trattamento previdenziale di una popolazione in quiescenza caratterizzata da più lunghe speranze di vita. E non era detto che, anche col passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo, esse avrebbero usufruito in futuro delle medesime prestazioni dei loro predecessori. Una politica estera evanescente All’indomani del crollo dei regimi comunisti e dell’Unione Sovietica, era opinione diffusa che la Comunità europea avrebbe acquisito, in quanto non più vincolata dalle logiche della Guerra fredda, una crescente autonomia nei rapporti con gli Stati Uniti e, al tempo stesso, un ruolo più importante nello scacchiere mondiale. Di qui la forte attrattiva che la Comunità europea aveva esercitato nei riguardi degli ex paesi comunisti dell’Est, appena affrancatisi da un regime totalitario e afflitti per lo più da un basso tenore di vita. Tanto che gran parte di loro avrebbe voluto essere ammessa fin da subito nell’Unione europea. Sebbene questa richiesta non fosse stata accolta immediatamente, la prospettiva di un ampliamento delle frontiere della Ue aveva costituito in pratica il «fil rouge» della politica estera di Bruxelles, anche se più volte, lungo la strada, era sembrato che s’interrompesse o si sdrucisse. Sta di fatto che nel 2010 l’Unione europea era giunta a includere ventisette Stati e che s’era ripromessa nel frattempo di darsi un assetto non solo economico ma anche politico unitario. Senonché, a questa sua ambizione non era corrisposta una strategia univoca e omogenea sul versante della politica estera. I principali Stati membri avevano seguitato ad agire per lo più in base ai propri specifici orientamenti e in funzione dei loro particolari interessi. E questo non solo era stato uno dei motivi di fondo del fallimento della Convenzione da cui avrebbe dovuto emergere un nuovo ordinamento costituzionale dell’Unione europea. Aveva concorso anche a incrinare le chances della Ue di acquisire in sede internazionale un maggior peso specifico nella soluzione delle controversie in atto e di alcune importanti questioni nell’agenda delle relazioni internazionali. In Europa seguitavano, del resto, a coabitare orientamenti diversi o comunque non convergenti. Per Londra quel che più contava erano le sue «speciali relazioni» bilaterali con gli Stati Uniti, anche se non avevano più per Washington l’importanza che in passato veniva loro attribuita dal Dipartimento di Stato, diffidente nei confronti della Francia gollista per le sue divergenze col Patto Atlantico e dell’Italia di centro- sinistra per le sue simpatie terzomondiste. Londra aveva mantenuto comunque la sua tradizionale vocazione insulare, marcando a Bruxelles in più d’una circostanza la propria specifica identità rispetto all’Europa continentale. A sua volta, la Francia aveva tenuto da sempre ad agire da guida e capofila della Comunità europea. Ed era riuscita per molto tempo a far valere la sua leadership nella politica estera della Ue, non trovando in pratica alcun emulo fra i suoi partner. Del resto, la diplomazia francese aveva badato a mantenere o a rafforzare i legami con alcuni Stati nord-africani e sub-sahariani appartenenti al suo ex pieno le divergenze che da tempo covavano fra i vari governi in tema di immigrazione. Nei paesi del Nord dominavano sia la convinzione che quelli del Sud non facessero abbastanza per tenere sotto controllo il proprio territorio, sia il sospetto che fossero portati a chiudere più d’un occhio sull’afflusso e il soggiorno di un folto numero di immigrati irregolari, ritenendo che molti di loro si sarebbero spostati altrove. Per contro, nei paesi del Sud si puntava il dito contro i governi nordici perché non partecipavano in alcun modo al presidio e alla sicurezza dei confini meridionali della Ue. A complicare ulteriormente le cose c’era stata di mezzo per lungo tempo anche la questione riguardante la libera circolazione di lavoratori da alcuni paesi dell’Est che, non essendo stata ancora sancita definitivamente la loro entrata nello spazio di Schengen, venivano bloccati ai confini dell’Austria o della Germania. E cercavano perciò varchi più accessibili, spostandosi verso l’Italia e la Grecia. Di certo, la Germania aveva le sue buone ragioni nel sostenere di non poter aprire più di tanto le sue frontiere, dato che alla fine del 2012 ospitava quasi 590.000 rifugiati, seguita dalla Francia, e dal Regno Unito. La Svezia e l’Olanda erano dello stesso avviso. E ciò anche per non fornire ai movimenti xenofobi ulteriori motivi di cui avvalersi per accrescere la loro influenza sull’opinione pubblica. Alla fine di settembre del 2013 si era infine giunti in sede comunitaria ad omologare le norme sul diritto d’asilo e la Germania aveva accettato di aprire, dal gennaio successivo, le sue frontiere a immigrati bulgari e rumeni. Senonché un ennesimo naufragio di un barcone stracolmo di profughi, avvenuto ai primi di ottobre in prossimità di Lampedusa, tornò a imporre drammaticamente la questione. Come già era accaduto in passato, anche all’origine di questa tragedia stava il turpe traffico sulla pelle di gente in fuga da zone in preda ad atroci guerre civili e a un’estrema miseria, gestito da bande di schiavisti rapaci e brutali. Ma questa volta erano state assai più vibranti un po’ dovunque le reazioni di orrore e indignazione suscitate dalla sciagura avvenuta a poca distanza dall’isola siciliana. Eppure, non si era poi mosso un dito a Bruxelles per cercare di risolvere il problema, lasciandolo così di fatto alle unità della Marina militare italiana che, con la missione «Mare Nostrum», dall’ottobre 2013, salveranno dalla morte migliaia di disperati, intercettando i barconi dei trafficanti e arrestando gli scafisti. Ma non era comunque compito delle navi militari occuparsi di operazioni permanenti di soccorso, estranee alla loro attività ordinaria e tali da comportare spese ragguardevoli. D’altro canto, per la catena di vicissitudini susseguitesi dall’altra parte del Mediterraneo, si era in presenza già da tempo di una situazione di assoluta emergenza: ancor prima che la Libia divenisse, dopo la caduta di Gheddafi, un paese allo sbando, privo di un governo centrale con poteri effettivi. Nel contempo s’era moltiplicato il numero dei rifugiati approdati in Italia così che in complesso ne risultavano arrivati oltre 64.000. E la Sicilia s’era andata trasformando in una specie di «Lampedusa diffusa» per il numero di centri d’accoglienza strapieni, con i Comuni che li ospitavano allo stremo delle risorse necessarie a tal fine; mentre i servizi d’intelligence prevedevano che, in periodi di bel tempo, si sarebbe riversata sulle coste dell’isola una massa ancora maggiore di immigrati, tra profughi e clandestini. Come era poi puntualmente avvenuto per mano di centinaia di schiavisti che, oltre a derubare le loro vittime, le affamavano e le sottoponevano a ogni genere di violenza (compreso lo stupro) prima di stiparle come bestie nei loro barconi. Inoltre la gestione di così ingenti flussi migratori andava affrontata di concerto fra l’Unione europea, l’Unione africana e le Nazioni Unite, in quanto occorreva un’opera su più fronti per estirpare la mala pianta del traffico di esseri umani. In Libia, dove non esisteva più una catena di comando centrale del governo, alcune zone del paese erano intanto sprofondate in condizioni di semianarchia, quando non di totale caos; ci sarebbe voluta perciò la ricostituzione di un esercito nazionale per tenere sotto controllo le zone in cui diverse milizie, insieme alla criminalità organizzata, traevano cospicui lucri dal traffico migratorio e inoltre bloccavano la produzione ed esportazione di gas e petrolio. E in Siria, da cui s’era infittito l’esodo di profughi, risultavano sempre più strazianti le vicende della guerra civile che dilaniava il paese. Senonché da Bruxelles si era continuato a chiudere più di un occhio su quanto accadeva in quella martoriata regione sull’altra sponda del Mediterraneo, in balia, da un lato, di un regime dispotico e, dall’altro, di fanatiche fazioni jihadiste. Tantomeno ci si preoccupava del pericolo che l’estremismo islamista si diffondesse nell’Africa sub-sahariana, imponendosi con una catena di gravi soprusi e attentati terroristici. CAPITOLO 12 UNA ROTTA ANCORA INCERTA L’ombra della deflazione Negli ultimi mesi del 2013 s’era diffusa la convinzione che l’eurozona stesse infine uscendo dalla fase recessiva. Nel corso dell’anno, per cercare di dare impulso all’economia, la Banca centrale europea aveva abbassato per due volte il tasso d’interesse nominale. Ma ciò, naturalmente, non poteva bastare. Occorrevano riforme strutturali e un clima di fiducia che contribuissero a ravvivare gli investimenti e la mobilità dei fattori produttivi, ai fini di una crescita meno fievole. La minaccia di deflazione era ormai dietro l’angolo. Al volgere del 2012 l’inflazione nell’eurozona, su base annua dei prezzi al consumo, era scesa allo 0,9 per cento e si prevedeva che avrebbe continuato a calare per i prezzi dei prodotti con maggior frequenza d’acquisto. Nel gennaio 2014 il board del Fondo monetario internazionale aveva rilevato che si correva il rischio di una strisciante deflazione. L’economia dell’eurozona risultava al di sotto delle sue effettive potenzialità, a causa di uno scarso livello degli investimenti e di una disoccupazione che s’aggirava mediamente intorno al 12 per cento. Anche la «locomotiva» tedesca aveva subìto una battuta d’arresto, dato che nell’ultimo anno il suo saggio di crescita s’era ridotto alla metà, e non si prevedeva che avrebbe potuto risalire prima dell’introduzione nel 2015 del «salario minimo», e quindi di un’espansione dei consumi. Si guardava perciò alla Bce per capire se riteneva di dover intervenire, e come intendeva farlo, per neutralizzare lo spettro della deflazione: tanto più in quanto il tasso di cambio dell’euro continuava a rafforzarsi. Negli ultimi tre anni l’Eurotower aveva prestato mille miliardi alle banche e nella seconda metà del 2012 era bastato un suo annuncio che avrebbe agito contro le turbolenze dei mercati a calmierare gli spread. Ma adesso, in presenza di un «supereuro» che s’era rivalutato, era indispensabile che da Francoforte si ponesse un freno all’ascesa dell’euro; ma ci si chiedeva come avrebbe la Bundesbank e il suo presidente Jens Weidmann. Sta di fatto che una persistente quotazione eccessiva dell’euro avrebbe non solo determinato l’innesco di una spirale deflattiva, ma anche concorso ad aggravare il divario fra i paesi più forti e quelli più deboli del Sud Europa: sia perché questi ultimi, con addosso un ingente carico di debiti e mutui fissi in valore nominale, avrebbero visto aumentare il peso complessivo del debito; sia perché le loro imprese esportatrici avrebbero dovuto vedersela, da un lato, con paesi a industria forte e valute deboli e, dall’altro, con la crescente competitività di talune produzioni dei paesi di nuova industrializzazione e con monete svalutate. A metà marzo del 2014 Draghi aveva fatto capire che la Bce non escludeva il ricorso ad apposite misure per raffreddare le aspettative dei mercati su un ulteriore rafforzamento del cambio. D’altra parte l’afflusso in Europa, dopo parecchio tempo, di capitali provenienti dall’Asia e dall’America stava contribuendo a rafforzare l’euro e perciò sarebbe divenuta sempre più difficile un’azione di contrasto alla deflazione. Intanto metà dei paesi dell’eurozona era ancora intrappolata nelle spire della recessione; e l’altra metà accennava a crescere ma molto debolmente; la massa di quanti si trovavano senza lavoro continuava a essere elevata, soprattutto nei paesi periferici; Grecia e Cipro erano scivolati in piena deflazione, Spagna, Italia e Portogallo rischiavano la stessa sorte; e altri paesi (compresa la Germania) risentivano comunque di un’inflazione troppo bassa. Stentava ancora a decollare un po’ dovunque la domanda interna; e, per gli effetti dell’accoppiata fra austerità e recessione, la produzione, i redditi e i consumi accusavano per lo più un sensibile calo. Di fronte alla minaccia di una deriva deflattiva Draghi aveva annunciato, ai primi di aprile del 2014 che l’Istituto di Francoforte avrebbe adottato, se necessario, «misure non convenzionali», come un ampio programma di acquisto di titoli pubblici e privati per allargare la base monetaria e immettere liquidità nelle vene dell’economia. Il pericolo da scongiurare era, appunto, che l’eurozona finisse per scivolare verso la stagnazione, perché invischiata in una mortificante spirale tra bassissima inflazione, contrazione del credito e stallo prolungato degli investimenti in attesa di una lievitazione dei prezzi. La fronda calibrata di Hollande Partito di La Pen in ascesa, Francia in crisi, non rispettava il deficit di bilancio, ottiene un prolungamento come avvenuto 10 anni prima, fine. Nelle trincee del «made in Italy» In coincidenza con l’annuncio dell’Eurotower che non si escludeva un’immissione di liquidità per reagire al rischio di deflazione, lo spread dell’Italia era sceso ai minimi dal maggio-giugno 2011. Si era trattato di una boccata d’ossigeno nel mezzo di una situazione economica estremamente critica. Il suo rafforzamento, se da un lato aveva contribuito ad alleviare i costi dell’energia e di vari beni importati dall’estero, dall’altro aveva concorso a erodere il potenziale competitivo dell’export, senza un contrappeso nella domanda interna, precipitata in seguito al calo vistoso dei redditi e dell’occupazione. Tant’è che erano in molti a preconizzare per l’Italia una stagnazione. Nonostante la continua ascesa dell’euro e la crescente concorrenza dei paesi emergenti nei circuiti di mercato internazionali, le nostre imprese ce l’avevano fatta negli ultimi anni a tenere in complesso la barra dritta. L’Italia aveva tante piccole imprese, si spiega perciò come il sistema produttivo italiano, pur arrancando col fiato grosso, sotto il peso di eccessivi carichi fiscali e di una congerie di vischiosità burocratiche, avesse seguitato a realizzare un attivo nell’export manifatturiero. Senonché era divenuta adesso insostenibile una situazione economica segnata dalla perdita di oltre dieci punti di Pil in termini reali, dall’inizio della crisi, e da una disoccupazione giunta a quasi il 13 per cento. Da troppo tempo mancava un’efficace politica industriale che incentivasse la mobilità dei fattori produttivi (capitale e lavoro) e l’attività dei settori più innovativi. Inoltre, dopo la rinuncia al nucleare, era comparso soltanto nel 2012, durante il governo Monti, un nuovo Piano energetico nazionale, rimasto però sulla carta perché privo di impegni concreti. Né si era provveduto a sintonizzare con le dinamiche del mercato globale, per renderlo più competitivo, l’assetto delle telecomunicazioni e neppure quello della logistica. Per non parlare del fatto che s’erano bloccati i progetti per l’utilizzo dei giacimenti di gas e petrolio esistenti nei fondali dell’Adriatico al largo delle nostre coste, data la prevalenza, in gran parte delle amministrazioni locali, di orientamenti ecologisti. Di fatto, dall’inizio del Duemila l’industria italiana aveva perso dieci punti in termini di competitività. E questo non tanto perché fosse meno capitalizzata, in media, al confronto di quella tedesca e francese, ma perché era mancato appunto un disegno moderno e illuminato di politica industriale. Invece, mentre la macchina amministrativa continuava a rendere difficile fare impresa, erano ricominciate presto le fibrillazioni all’interno della maggioranza parlamentare e anche il governo Letta aveva dovuto, dopo soli dieci mesi dalla sua comparsa, farsi da parte per lasciare il passo nel febbraio 2014 a un altro esecutivo, guidato dall’ex sindaco di Firenze Matteo Renzi. Il nuovo premier intendeva porre mano innanzitutto a una serie di riforme istituzionali, da troppo tempo disattese e tra le cause perciò di una vasta ondata di antipolitica fra la gente. Tanto che dalle elezioni del febbraio 2013 era emerso un nuovo forte movimento, quello di «Cinquestelle», le cui fortune erano dovute alle sue irruenti quanto ambigue polemiche iconoclaste nei confronti del «sistema» nel suo insieme. Quanto al versante strutturale, nel programma dell’esecutivo figuravano, oltre a un piano di privatizzazioni, l’alleggerimento delle tasse sulle buste paga dei lavoratori dipendenti, una riduzione del cuneo fiscale delle imprese, nonché significative agevolazioni fiscali sugli investimenti aggiuntivi in beni strumentali e asset intangibili. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan aveva peraltro chiesto alla Ue uno slittamento del pareggio di bilancio al 2015, quando si prevedeva che le riforme strutturali avrebbero prodotto un impatto positivo così da centrare l’obiettivo di una crescita dell’1,3 per cento. La Commissione europea s’era riservata di esprimere un giudizio di merito dopo aver accertato l’effettiva consistenza degli annunciati tagli alla spesa pubblica e delle coperture di bilancio necessarie all’attuazione dei provvedimenti varati dal nuovo governo. D’altra parte, ci si chiedeva come fosse realmente sostenibile un debito pubblico con tassi di crescita del Pil esigui, quando non negativi, come quelli susseguitisi negli ultimi dieci anni. L’Italia era un paese afflitto non solo da antichi mali (come una vasta rete di cosche malavitose) e da nuove vistose forme di corruzione. Era anche notevolmente indebolita e spossata da una crisi prolungata, con le regioni del Nord che avevano perso La nostalgia imperiale di Vladimir Putin era già emersa al tempo dell’intervento armato in Cecenia e in Abkhazia. Ma ben altro fu il suo impatto quando tornò a manifestarsi, nei primi mesi del 2014, con l’esibizione di muscoli del leader del Cremlino nei confronti dell’Ucraina. È vero che la Crimea, su cui il Cremlino aveva puntato gli occhi, era appartenuta alla Russia degli zar fin dal Settecento e che la sua integrazione nell’Ucraina (inglobata nel 1939 nell’Unione Sovietica) era avvenuta in seguito alla decisione di Chruščëv, nel 1954, di «donarla» a Kiev in occasione del terzo centenario del trattato fra russi e cosacchi. Ma, dopo il crollo dell’Urss, Russia e Stati Uniti avevano stipulato nel 1994 un trattato in base al quale le frontiere dell’Ucraina erano state rese inviolabili in cambio della rinuncia di Kiev al suo arsenale nucleare. Perciò Putin avrebbe dovuto evitare di esercitare forti pressioni militari al confine dell’Ucraina e di assecondare in modo diretto il pronunciamento della comunità russofona della Crimea a favore di Mosca, avvenuto tramite un referendum nel marzo 2014. In pratica, il Cremlino aveva violato apertamente la sovranità dell’Ucraina e le norme del diritto internazionale, per acquisire il pieno controllo della penisola sul Mar Nero davanti alla quale, nella base navale di Sebastopoli, era alla fonda una delle sue flotte militari. Inoltre, dopo la caduta a Kiev del presidente, spodestato dalle manifestazioni di piazza popolari contro il suo indirizzo autoritario e allineato a Mosca, non era affatto escluso che anche l’aggregazione di alcune regioni del Sud-Est del paese, abitate per lo più da genti di etnia russa, rientrasse nei piani del Cremlino, pronto a fomentare a tal fine l’azione eversiva di milizie paramilitari locali. Sta di fatto che quest’improvvisa reviviscenza delle tensioni fra la Russia e l’Occidente, quasi come ai tempi della Guerra fredda, mise in luce impietosamente sia la debolezza che la vulnerabilità della Comunità europea. Da un lato, essa era infatti andata a rimorchio degli Stati Uniti, senza un proprio contributo sul piano politico e diplomatico; dall’altro, s’era preoccupata per lo più di non mettere a repentaglio le relazioni d’affari esistenti con il Cremlino, a causa principalmente della dipendenza da Mosca per una consistente quota del fabbisogno energetico di vari Stati membri. Era soprattutto la Germania ad avere più d’un motivo per cercare un «modus vivendi» con il Cremlino. Essa dipendeva infatti per oltre un terzo del suo fabbisogno energetico dalle forniture russe e aveva tutto da perdere da una rottura con la Russia. Ma non era soltanto la Germania a dipendere da Mosca. Lo erano quasi tutti i paesi della Ue: chi in misura pressoché totale (Slovacchia, Lituania, Polonia e Bulgaria), chi un po’ meno ma comunque ampiamente (Finlandia, Repubblica Ceca, Lettonia ed Estonia), chi per quasi metà del proprio fabbisogno (Romania, Svezia, Grecia, Olanda, Belgio). L’Italia importava dalla Russia il 28 per cento di gas e, grazie anche ai suoi approvvigionamenti dalla Libia e dall’Algeria tramite l’Eni, contava su un approvvigionamento più sicuro. L’ex cancelliere Helmut Schmidt, padre storico della Spd, aveva ammonito l’Europa a non assumere «una linea dura» con Mosca, ritenendola sbagliata e controproducente. Meglio comportarsi, in fondo, come i cinesi, che al Consiglio di sicurezza dell’Onu s’erano astenuti da una risoluzione di condanna nei confronti del comportamento di Putin. A ogni modo, l’Unione europea non aveva valutato sino in fondo le conseguenze della sua decisione di proporre un «patto d’associazione» a un paese come l’Ucraina, politicamente ed etnicamente diviso, privo di un sistema politico federale e largamente sostenuto dai prestiti finanziari del Cremlino. Per di più il cosiddetto «triangolo di Weimar», che riuniva due grandi paesi come Francia e Germania con la Polonia, non era poi giunto a esercitare una funzione di rilievo sul versante diplomatico; mentre la Gran Bretagna, con l’occhio rivolto più alla City che a Washington, aveva fatto sapere che non avrebbe sottoscritto misure economiche più restrittive nei confronti della Russia. Insomma, per poter far sentire la propria voce nei confronti di Mosca, la Ue non avrebbe dovuto avere una palla al piede come la sua dipendenza energetica, addebitabile anche alla mancanza da sempre di una propria strategia omogenea ed efficace a questo riguardo. Da parte sua, Washington, preoccupata com’era della sicurezza energetica dell’Europa ma anche interessata a piazzare le eccedenze del suo shale gas, s’era impegnata ad assicurare in futuro agli alleati d’Oltreatlantico una quota prioritaria delle sue esportazioni di gas naturale liquefatto. Ma, naturalmente, occorreva che prima l’Europa costruisse sulle proprie coste adeguati e costosi impianti di rigassificazione. In pratica, se una «guerra economica» sarebbe costata cara alla Russia (interessata agli investimenti esteri e a integrarsi nell’economia globale), non è che l’Unione europea l’avrebbe potuta affrontare a cuor leggero. Era evidente che l’intera Europa avrebbe risentito pesantemente, su vari fronti, dei contraccolpi imprevedibili di un aggravamento delle tensioni con il Cremlino. Intanto l’accordo siglato il 17 aprile a Ginevra fra russi e americani, che contemplava il riconoscimento dell’integrità territoriale dell’Ucraina sulla base di un sistema istituzionale più articolato, non era servito a bloccare il precipitare della situazione verso una guerra civile fra l’esercito di Kiev e i separatisti delle province sud-orientali, sostenuti da Mosca. Il governo tedesco si era perciò smarcato da una posizione sostanzialmente neutralista. Dopo le elezioni presidenziali del 25 maggio il futuro dell’Ucraina era rimasto incerto e preoccupante, tanto più dopo l’autoproclamazione della repubblica popolare di Donetsk. È vero che non mancavano strumenti più robusti di persuasione-dissuasione nei confronti dell’avventurismo di Putin: anche un «guerriero riluttante» come Obama s’era infatti impegnato a fornire aiuti militari alla Polonia e ad altri paesi dell’Est che si sentivano minacciati da Mosca. E l’Unione europea poteva garantirsi dalle conseguenze economiche della crisi ucraina mediante una serie di proficui investimenti nella regione industriale di Donbass. A ogni modo, sotto il profilo politico, l’intesa diplomatica di Ginevra restava l’unica leva per scongiurare il baratro, in quanto aveva indicato quale soluzione concreta la trasformazione dell’Ucraina in uno Stato federale. Il «patriottismo economico» di Parigi Proprio quando la General Electric era sul punto di concludere, a metà aprile del 2014, un accordo che l’avrebbe portata ad acquisire il controllo del settore energetico dell’Alstom, era giunto inaspettatamente un alt perentorio dell’Eliseo all’operazione. Per il governo di Parigi era inammissibile che il colosso francese del settore energetico passasse in mano a una multinazionale straniera, tanto più d’Oltreatlantico. Ne andava di mezzo l’interesse nazionale, dopo che già alcuni pezzi preziosi dell’industria transalpina come Peugeot, Pechiney e Arcelor erano finiti rispettivamente ai cinesi, ai canadesi e agli indiani. Già nel 2004 Sarkozy, quand’era ministro dell’Economia, s’era impegnato a salvaguardare l’Alstom sotto l’egida dell’Eliseo, ingaggiando un braccio di ferro con l’Antitrust europeo, ed era riuscito a spuntarla. Per Parigi la sorte dell’Alstom doveva dunque restare oggetto di una «valutazione patriottica». Di qui l’intervento «a gamba tesa» dell’esecutivo, che aveva bloccato in extremis il compimento dei negoziati, facendo intravvedere nel contempo una soluzione alternativa, come quella di un accordo con la tedesca Siemens. Chiamato in soccorso da Parigi, il potente gruppo bavarese sarebbe stato disposto a mettere sul piatto dell’Alstom pressoché l’intero suo comparto dei trasporti, tenendone per sé solo una quota pari al 19 per cento, oltre a sborsare una somma in contanti superiore a quella offerta dalla General Electric. La Siemens non poteva infatti restare alla finestra di fronte al tentativo della corporation americana di rafforzare la sua presenza in Europa scalando il settore energetico dell’Alstom. Ma ciò che più contava, nel caso di un’intesa con Parigi, era che si sarebbe venuta a creare una sorta di diarchia: un campione energetico europeo a guida tedesca e un campione europeo dei trasporti a guida francese. E ciò sul modello del matrimonio esistente nel campo dell’Airbus fra Germania e Francia. SUPER INCASINATO, STI CAZZIIIIIIIIIII CAPITOLO 13 TRE PROVE DECISIVE La sfida della competizione mondiale Alla vigilia delle elezioni per il Parlamento di Strasburgo, erano apparsi alcuni barlumi di luce al fondo del tunnel della crisi, ma troppo esili per sperare in una ripresa su tutta la linea. Si confidava perciò in un indebolimento del tasso di cambio dell’euro e in un intervento della Bce per una maggiore liquidità destinata dalle banche a fornire più credito alle piccole-medie imprese. Continuando a restare inchiodata per tanto tempo a una rigida politica di consolidamento fiscale, quale suo principale obiettivo, l’Europa aveva finito per non ricaricare i motori dello sviluppo tramite adeguati investimenti in ricerca e formazione, innovazioni tecnologiche e infrastrutture nei settori dell’energia, dell’ambiente e delle comunicazioni. L’economia europea aveva così perso man mano in efficienza e competitività, proprio quando sarebbe stato necessario stare al passo con i mutamenti geoeconomici in corso su scala mondiale, e anzi anticiparli per non essere costretti a rincorrerli. D’altro canto, non essendosi realizzata una maggiore integrazione politica, erano venuti a mancare adeguati e condivisi strumenti finanziari di sostegno e mutualizzazione. In sostanza, all’unione monetaria non aveva corrisposto una strategia in linea col ciclo economico, imperniata su una batteria di incentivi che accrescessero lo stock e la mobilità dei fattori produttivi. Si era così giunti alla scadenza del mandato dei vertici istituzionali dell’Unione senza rimettere al centro della politica comunitaria l’economia reale, la valorizzazione delle sue risorse e potenzialità. Risultava pertanto ben difficile che l’Europa, pur includendo il 25 per cento del Pil mondiale, fosse in grado di mantenere questa sua posizione preminente, senza un decisivo cambio di passo per affrontare in maniera più consistente e meno frammentaria le sfide di un mondo globalizzato. Quanto fosse cruciale la posta in gioco nel nuovo scenario economico internazionale lo confermavano le stime della Banca mondiale. Dopo che il Pil della Cina era arrivato nel 2011 a una quota corrispondente, a parità di potere d’acquisto, all’87 per cento di quello degli Stati Uniti, si prevedeva che entro la fine del 2014 potesse raggiungere e persino superare la quota degli Usa. Ma Pechino da un lato continuava a compiere investimenti diretti e ad acquistare partecipazioni in imprese all’estero; dall’altro, stava avviando infine una politica volta all’incremento dei consumi interni. Inoltre, grazie anche all’accordo firmato nel maggio 2014 con Mosca per una fornitura trentennale di grossi quantitativi di gas russo, la Cina era in grado di accrescere il suo potenziale economico e di sostituire gran parte delle sue vecchie e inquinanti centrali a carbone. Che fosse in corso da tempo un significativo cambiamento di direzione dell’economia mondiale lo dimostravano le performance di altri paesi. Sia pur con qualche battuta d’arresto, l’India, in particolare, era divenuta una potenza economica di rilievo e a ruota stavano avanzando Brasile, Corea del Sud e Indonesia. Se il Giappone aveva ricominciato a correre grazie a una politica monetaria espansiva e all’ottimo livello tecnologico delle sue industrie, la Russia a sua volta era tornata nel firmamento economico in forza delle sue ingenti risorse energetiche. E nel maggio 2014 aveva siglato con il Kazakistan e la Bielorussia un trattato per la formazione di un mercato unico. Questa sorta di Unione euroasiatica, tenuta a battesimo da Putin subito dopo lo «storico accordo» per un asse energetico fra Mosca e Pechino, era destinata a ingrandirsi ulteriormente con l’ingresso nelle sue file del Kirghizistan e dell’Armenia. Non per questo si può dire che gli Stati Uniti stessero perdendo terreno, malgrado qualche frenata del loro Pil. Continuavano infatti a detenere la preminenza in campo tecnologico e nelle innovazioni sistemiche, oltre a un potenziale militare senza paragoni. È vero che erano alle prese con molti problemi: un debito pubblico in costante aumento, un sistema previdenziale a rischio per il pensionamento dei «baby boomers», una riforma della sanità ancora in attesa di decollare, le infrastrutture nei grandi centri urbani per lo più in cattive condizioni. Ma erano in procinto di conseguire l’indipendenza energetica, grazie allo shale gas; il settore della difesa e della sicurezza militare era uno dei volani della ricerca e, per le sue economie di scala, un fattore importante di crescita dell’economia civile; la disoccupazione aveva invertito la rotta, tornando al 6,3 per cento, ai minimi storici antecedenti la crisi del 2008; l’attività manifatturiera in alcuni distretti industriali era in forte ripresa. Una crescita inclusiva e sostenibile È indubbio che le istituzioni comunitarie europee, in quanto concepite in tempi normali, fossero assolutamente impreparate ad affrontare un cataclisma come quello provocato dalla crisi esplosa nel 2008. Ma è anche vero che solo la Germania e alcuni paesi nordici sarebbero stati in grado di reggere una ferrea disciplina monetaria e fiscale come quella attuata da Bruxelles. Sta di fatto che, sebbene il consolidamento dei conti pubblici costituisse un requisito essenziale per il rafforzamento del mercato unico europeo e per il mantenimento in vita dell’euro, non poteva tuttavia continuare a rappresentare l’obiettivo esclusivo o assolutamente prioritario dell’eurozona, se si voleva evitare che l’Europa finisse col deperire, vittima di una prolungata sclerosi economica. Nei primi mesi del 2014 ammontavano a 27 milioni le persone senza lavoro. E si prevedeva che nel corso del 2015, nel migliore degli scenari, l’economia europea nel suo complesso avrebbe registrato in media un saggio di sviluppo intorno all’1,5 per cento: troppo poco per riassorbire la disoccupazione, rinvigorire la domanda, evitare il peggioramento degli standard di vita e ridare speranza a
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