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LA SMATERIALIZZAZIONE DELL’ARTE 1967-1973 A. Troncone, Appunti di Storia dell'arte contemporanea

LA SMATERIALIZZAZIONE DELL’ARTE 1967-1973, riassunto completo

Tipologia: Appunti

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Scarica LA SMATERIALIZZAZIONE DELL’ARTE 1967-1973 A. Troncone e più Appunti in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! LA SMATERIALIZZAZIONE DELL’ARTE 1967-1973 Introduzione – La mostra come medium Una mostra è un avvenimento, con un proprio tempo e luogo. Ha la capacità di restituire interessi e problematiche che attraversano il proprio contesto storico e geografico, portando alla ribalta vecchie e nuove proposte ma anche indicando inedite soluzioni per presentarle. Una mostra è un prodotto culturale, ma anche un evento mediatico che diviene anche occasione per il curatore di dar forma al proprio discorso critico. Si mettono in moto dal sistema espositivo poi altri meccanismi:  Attenzione della critica  Il riscontro sul mercato Allo stesso tempo una mostra è un’insostituibile occasione di incontro tra critici – curatori – artisti, artisti – artisti, opere – pubblico. Affrontare in quest’ottica gli avvenimenti a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 (due decenni caratterizzati da vitalità e sperimentazione in ogni campo e dai complessi rapporti tra arte, ideologia, politica) vuol dire abbracciare una metodologia di indagine che non tiene più conto solo dell’opera o dell’artista ma anche delle relazioni che questi intrattengono nell’ambito di un più complesso sistema, di cui la mostra diviene lo specchio immediato. L’arco temporale scelto: 1967 – 1973 circoscritto alla situazione italiana  vede un processo di s- definizione dell’arte e smaterializzazione dell’oggetto artistico che costringe a ripensare le categorie critiche ed estetiche consolidate, mettendo in crisi il rapporto forma-contenuto nonché l’idea di perdurabilità dell’opera nel tempo. Il rifiuto delle definizioni tradizionali di pittura e scultura, l’introduzione di nuovi linguaggi quali la performance e il video, l’attenzione ai processi formativi dell’opera e la ricerca di una dimensione ambientale, nonché il primato della fase progettuale su quella realizzativa proposto in ambito concettuale, pongono nuovi ed inevitabili problemi di trasporto, allestimento, mercificazione e conservazione che emergono studiando le mostre che hanno decretato il successo di tali pratiche artistiche. Allo stesso tempo la profonda esigenza di rinnovamento che attraversa l’arte investe anche la critica, determinandone uno stato di crisi: la critica è costretta a rivedere il proprio ruolo, i propri metodi e strumenti, instaurando un nuovo dialogo che si risolve proprio sul piano pragmatico della scrittura espositiva. La capacità dell’evento espositivo di farsi caso-studio  filone di studi focalizzato sulla storia delle esposizioni:  Sulla rivista “The Exhibitionist”  Ian Dunlop, “The shock of the new: seven historic exhibitions of modern art” 1972 e Donald Gordon “Modern art exhibitions 1900-1916” 1974  le avanguardie storiche vengono affrontate a partire dalle mostre.  Brian O’Doherty una serie di saggi su “Artfortum” dal 1976, raccolti poi in “Inside the White Cube” 1986  Il convengo “Histoire d’expo” a Parigi nel 1983  Sergio Polano “Mostrare” 1988  Lo studio delle esposizioni in chiave sociologica, Walter Grasskamp su Dokumenta e Bruce Altshuler  Antologie dedicate alla scrittura espositiva “Die Kunst der Ausstellung” “Thinking about exhibitions” “El arte del siglo XX en sus esposiciones”. 1  In Italia “la vita delle mostre” 2007, “l’arte in mostra” 2011 di Antonello Negri, “Nuove geografie artistiche” 2012 Roberto Pinto. Fenomeno interessante sono mostre sulle mostre  gioco metalinguistico come strumento per una riflessione su mostre storiche, di cui si presenta al pubblico la documentazione e/o le opere. L’attenzione che di recente si è scelto di riservare alla storia delle esposizioni e ai loro reenactment diviene emblematica nel riconoscere alla mostra una funzione di medium/mezzo attraverso cui gli artisti enunciano la propria poetica. Bastano pochi esempi per rilevare come le mostre d’avanguardia abbiano segnato non solo la nascita di movimenti e tendenze ma anche dettato nuovi format espositivi, andando sempre di più a coinvolgere lo spazio circostante e lo spettatore fino a configurarsi come eventi da ricordare quanto tali, piuttosto che per le singole opere esposte: - La Fiera Dada a Colonia nel 1920 - Esibizione internazionale del Surrealismo a Parigi nel 1938 - First Papers of Surrealism, a NY nel 1942 - Art of this century, a NY nel 1942 A grandi passi verso gli anni 60 sono due mostre di rilievo internazionale ad anticipare non solo una presa di coscienza dell’importanza del medium esposizione ma anche un modello di collaborazione tra gli artisti implicati e altre figure professionali come critici o direttori di musei: - This is tomorrow, a Londra nel 1956 nella Whitechapel Gallery. Direttamente collegata alla nascita dell’Indipendent Group. Rappresenta il momento in cui “il medium dell’esposizione viene elevato a rango di opera d’arte autonoma”. - Dylaby, allo Stedelijk Museum ad Amsterdam nel 1962 che annuncia l’importanza del lavoro site specific. Queste due mostre mostrano come al lavoro degli artisti nel concepire e realizzare l’evento, si affianchi la collaborazione e supervisione dei critici e dei direttori museali impegnati nel gestire le varie fasi di organizzazione e co-autori nel proporre nuovi format espositivi. Sono i primi forti segnali del delinearsi di una professionalità curatoriale che ben presto troverà in Szeemann una figura decisiva. Si delinea così un approccio fortemente e visibilmente autoriale nell’ideazione e impaginazione del prodotto-mostra in relazione alle ricerche d’avanguardia, con le scelte riguardanti il momento espositivo che si fanno non più appannaggio unico degli artisti. Non è un caso che il processo che porta il curatore a farsi creatore della mostra prenda avvio in questi anni, da una parte caratterizzati dalla sperimentazione a tutto campo della ricerca artistica, dall’altra attraversati da una crisi della critica che ridefinisce il proprio ruolo e i propri strumenti. Anche in Italia è in atto lo stesso processo di ridefinizione della figura curatoriale, sebbene prenda avvio dalla militanza della generazione più giovane di critici d’arte come Germano Celant, Achille Bonito Oliva. Per entrambi il percorso espositivo diviene la spazializzazione del proprio punto di vista teorico, costruita sulle basi del dialogo e della condivisione con gli artisti al punto che pratica artistica e pratica curatoriali sembrano convergere nella realizzazione di un unico prodotto. Parallelamente allo spettatore viene assegnato un ruolo di prim’ordine nell’attivare la mostra e nel renderla un evento unico, come luogo dove si interagisce con le opere. 2 Restando a Roma un’altra mostra collettiva è “Realtà e strutture della visione” presentata da Maurizio Calvesi alla galleria il Cerchio nel gennaio 1967 con gli artisti Alviani, Bignardi, Castellani, Ceroli, Colombo, Massironi, Pascali, Schifano, Tacchi. Sul superamento della bidimensionalità insiste anche il titolo della mostra presentata da Marisa Volpi alla galleria Qui Arte Contemporanea nel mese di giugno “la terza dimensione” con opere di Kounellis, Livi, Lorenzetti, Lombardo, Pascali, Uncini. Seguono poi la VI Biennale di San Marino “Nuove tecniche dell’immagine” ed “Arte Povera – Im spazio”. La prima si ritrova spesso associata alla mostra a Foligno e condivide con essa un’attenzione all’environment e alle strutture nello spazio. A differenza però di Foligno l’invito è esteso ad artisti stranieri. Si combina poi anche la volontà di esporre le nuove tecniche di immagine ovvero fotografia e film, con una sezione di industrial design. La seconda è invece strettamente collegata a “Lo spazio dell’immagine” tramite il contributo critico di Celant. Il concetto di “im-spazio” compare infatti nel catalogo di Foligno per descrivere la tendenza delle immagini; ed inoltre grande merito si deve anche alla mostra “Fuoco immagine acqua terra”, da cui si riprendono alcune opere. Altre opere presenti sono un’installazione con carbone di Kounellis, una Catasta di tubi di eternit di Boetti, Pavimento tautologico di Fabro, lo spazio di Paolini e Perimetro d’aria di Prini. La scelta di strutturare la mostra in due sezioni con rispettivi testi in catalogo, segna il processo di separazione dei poveristi dalle altre ricerche > costrette allora a rapportarsi con nuove soluzioni di allestimento, le mostre si trasformano in casi studio esemplari del dibattito critico, dando vita ad un intenso dialogo tra la scrittura critica e quella espositiva. 1.2 La mostra delle sorprese: lo spazio dell’immagine Foligno 1967 A Palazzo Trinci. Dal titolo è chiaro che l’accento è definitivamente caduto sulla problematica spaziale. A farsi carico dell’ideazione ed organizzazione sarà un artista Gino Marotta che rivenda chiaramente il suo ruolo di promotore dell’iniziativa e ricorda la fondamentale collaborazione con l’architetto Radi cui si deve il restauro della scala gotica di Palazzo Trinci e la rinascita dell’edificio nel contesto umbro. Grazie alla testimonianza di Marotta e al testo della conferenza tenuta da Radi nel 2004 è possibile ricostruire le fasi che hanno portato alla realizzazione della mostra  due fatti vengono citati che ebbero un ruolo fondamentale nella decisione di organizzare una mostra così innovativa in un piccolo centro:  Arrivo dell’industriale del mobile Dino Gavina: la nuova fabbrica fu da subito un luogo di passaggio per artisti ed architetti, permettendo un continuo scambio di idee.  Recupero della scala gotica: la ritrovata bellezza dell’edificio colpisce a tal punto Marotta da proporre il palazzo come possibile sede dell’evento. Marotta accenna a Radi del progetto di una mostra di ambienti la prima volta nel gennaio del 1967 cercando il suo appoggio e quello del fratello allora segretario del gruppo della DC. Proprio l’entrata in campo del partito è fondamentale per ottenere i finanziamenti necessari alla realizzazione dell’iniziativa. Il 29 maggio l’ufficio stampa annuncia la manifestazione attraverso un primo comunicato fino a giungere alla data del 2 luglio. L’inaugurazione prevede la partecipazione di moltissime personalità del sistema dell’arte, insieme alle autorità. Nei mesi d’apertura la mostra riscuote un successo di pubblico e di critica straordinario. Uno dei principali motivi di tale fortuna fu ricercato nel suo presentarsi come una mostra a tema, con la delineazione di un concept ben preciso per la scelta degli artisti. Punto focale è la progettazione e realizzazione di un lavoro plastico-spaziale, la creazione di uno spazio unico dove opera e contesto espositivo dialogano in maniera aperta e dove sia possibile rintracciare i punti di raccordo tra arte visiva, architettura ed urbanistica. Elemento innovativo diviene dunque la realizzazione di lavori site specific concepiti per gli spazi del Palazzo, 5 o riadattati, in linea con quella che era stata la traccia di “Sculture nella città” la rassegna di Carandente nel 1962 a Spoleto. L’assegnazione degli ambienti all’interno del palazzo viene studiata sulla base delle indicazioni fornite dagli artisti al momento dell’adesione e quelle contenute nei progetti inviati. L’incipit della mostra è affidato a Ettore Colla le cui sculture popolano il cortile di Palazzo creando uno spazio colloquiale. Altro omaggio è quello reso a Fontana, del quale viene presentato “Ambiente spaziale a luce nera”. La scelta di esporlo è funzionale a raccontare uno degli snodi fondamentali nelle ricerche dell’artista; andando ad identificare una paternità delle ricerche spaziali e della idea di vocazione ambientale. Il primo incontro con l’arte cinetica nel percorso espositivo avviene con “Interpretazione speculare” 1965 di Alviani progetto site specific per la mostra di Foligno. Si tratta di un contenitore cilindrico bianco all’interno del quale si diffonde la luce che proviene dall’alto. Al centro sette semicilindri di alluminio speculare ruotano assorbendo il colore bianco e stimolando diversi stati psicologici a seconda del punto di vista. Anche Alberto Biasi, Gabriele de Vecchi, e Gianni Colombo giocano sull’instabilità fisica e percettiva delle superfici per creare una sensazione di movimento, utilizzando a questo scopo linee e colori nello spazio a loro disposizione. Biasi costruisce il proprio ambiente installando 4 pannelli trapezoidali, dipinti a fasce ortogonali fluorescenti verdi e rosse di diversa larghezza e intervallate da righe sottili nere di spessore costante. La visione strutturata varia a seconda del punto di vista modificando le caratteristiche dello spazio che appare come un perfetto tronco di piramide. De Vecchi e Colombo presentano un progetto unitario con due piccoli spazi: ciascun ambiente sfrutta una pianta quadrata nella quale è inserita una pedana a piani inclinati che grazie agli effetti di luce contribuisce a rendere l’ambiente instabile dal punto di vista ottico e psichico. Davide Boriani presenta la Camera stroboscopica multidimensionale: un ambiente a forma cubica con nove proiettori stroboscopici > lo spettatore viene posto in una condizione di spaesamento percettivo, non riuscendo a cogliere le reali dimensioni dello spazio in cui si trova e vedendo la propria immagine moltiplicata all’infinito. Sulla stessa linea l’intervento del gruppo MID che sfrutta diversi colori delle luci stroboscopiche in relazione al movimento delle persone, e quello del Gruppo N un fascio di elementi tubolari che pende dal soffitto e si presta ad essere attraversato con luci. All’opera di Fontana si riallacciano anche altri tipi di ambienti abitati da strutture che nella loro plasticità rifiutano la bidimensionalità e un’idea statica dell’opera. Esempi: il Blu abitabile di Bonalumi, l’ambiente bianco di Castellani, e l’intercamera plastica di Scheggi. Lontano dalle ricerche cinetiche e programmate, altri lavori a Foligno promuovono lo spostamento di accento dal movimento alla presenza oggettuale anticipando elementi della poetica poverista. Luciano Fabro espone in Cubo: un’esile struttura in legno e metallo ricoperta di tela di cotone bianco e chiusa ad altezza d’uomo in modo da essere abitabile > è l’actio umana a farsi spazio. Nell’Ambiente o Cinque Pozzi di Pistoletto si colloca cinque pozzi cilindrici in fibra di vetro con fondo riflettente in modo che gli specchi restituiscano non solo la figura dello spettatore ma anche gli affreschi trecenteschi del Palazzo. Romano Notari con Processo Spaziale Religioso invita lo spettatore a rivolgersi verso il soffitto della sala, qui trova posto il suo elaborato pittorico con inserti aggettanti dal valore simbolico di pietre-stimmati di un giallo solare che si proietta verso lo spettatore per condurlo ad un raccoglimento verso l’alto. Gabbia di Mario Ceroli realizzata grazie a murali di abete e rete metallica da pollaio, composta da 3 grandi cubi posti l’uno dentro l’altro e perimetrati da reti, la gabbia è praticabile dallo spettatore che dopo aver 6 percorso una sorta di labirinto va a prendere posto davanti a una figura ritagliata nel legno, presenza silenziosa ed immobile. Pino Pascali espone 32mq di mare circa, una superficie composta da 30 vaschette quadrate accostate le une alle altre e riempite con liquido colorato con anilina a creare una tonalità cerulea. Al lavoro di Pascali è legato un aneddoto inerente le fasi di allestimento della mostra: come racconta Radi nel fare pulizia generale prima dell’inaugurazione della mostra uno strato di polvere si depositò sull’acqua e rese necessaria la pulizia delle vasche. A tal scopo vennero chiamati i pompieri. Al Mare di Pascali sembra far eco il Cielo di Tano Festa. Inquietante è la presenza del Tubo di Mattiacci > l’opera più innovativa rispettando il debito tributo verso i materiali industriali e allo stesso tempo rendendo omaggio a Fontana grazie alla materializzazione degli impulsi energetici. Un oggetto in posizione fissa ma in perenne tensione dinamica, una forma curvilinea biomorfa che seppure in plastica ripropone un’attenzione all’organico. Se l’allestimento della mostra di Foligno mette in campo le possibili modalità di confronto con lo spazio da parte degli artisti coinvolti, il catalogo raccogli i contributi dei critici più autorevoli impegnati a dare una veste teorica alle nuove problematiche spaziali. Il tema della mostra è già esplicito in un’immagine scelta da Marotta per la copertina > un particolare della Pala di Brera di Piero della Francesca raffigurante l’uovo sospeso sulla testa della Vergine, un espediente tecnico che suggerisce la profondità spaziale della volta a cassettoni sovrastante la Sacra Conversazione urbinate. Per quanto riguarda gli apparati iconografici il catalogo introduce una prima considerazione: la non corrispondenza tra le riproduzioni fotografiche e le opere effettivamente esposte. Essendo infatti molti ambienti realizzati appositamente per gli spazi di Palazzo Trinci e quindi in allestimento in fase di stampa, in alcuni casi le immagini pubblicate fanno riferimento a esposizioni precedenti oppure esponendo solo i progetti. Nella diversità delle voci critiche chiamate ad esprimersi su Lo spazio dell’immagine, e i suoi artisti è comunque possibile rintracciare delle linee e dei temi comuni:  Tutti gli autori concordano con la metamorfosi della nozione di spazio rintracciabile nell’esperienza artistica degli anni Sessanta, che vuole essere il motivo portante dell’esposizione. De Marchis e Dorfles insistono su una spinta all’oggettualizzazione che trasforma la rappresentazione dello spazio in un ambiente reale o vissuto o anche in un campo di accadimenti. La necessità di creare uno spazio attivo e operante si sposa con la scelta di realizzare la mostra nella città di Foligno > garanzia di sperimentazione contro l’immobilità museale.  Trasformazione del ruolo dello spettatore > ora messo al centro dell’opera-ambiente e chiamato ad una partecipazione attiva, divenendo con-creatore dell’opera. Christopher Finch intuisce un possibile parallelo con la mostra allestita da Hamilton alla Whitechapel nel 1956: si sofferma sull’ampio sfruttamento delle tecniche percettive ricercato dalla mostra britannica ed ottenuto grazie all’impiego di ingrandimenti fotografici di grosse proporzioni, alla scelta di un pavimento morbido e alla proiezione di film in contemporanea. La massa di sensazioni stimolate nello spettatore annuncia le soluzioni successive e Finch rileva proprio nella mostra di Foligno un consolidamento di tali sperimentazioni, dove al mostrare si sostituisce l’esperire.  Volontà da parte degli autori di costruire una linea storica che tocchi le varie tappe del cambiamento. Tuttavia se la paternità delle ricerche spaziali è attribuita a Fontana, discordi sembrano essere le opinioni sul ruolo giocato dall’esperienza dell’informale. 7 Un’attività simile sempre a Torino è svolta dal Piper Pluriclub dove dal 1965 sono esposte opere di Warhol, Schifano, Manzoni, Cintoli. Diviene una vera e propria sede espositiva segnando anche la ricerca di una contaminazione tra le arti visive e le altre discipline. L’interdisciplinarietà contraddistingue anche l’attività del DDP > nella ultima fase di vita e in accordo con il Teatro Stabile diventerà palcoscenico di alcune performance dello zoo di Pistoletto, di alcuni spettacoli pasoliniani. Inaugurazione > tra gli artisti figurano Anselmo, Boetti, Calzolari, Gilardi, Mario e Marisa Merz, Nespolo, Paolini, Penone, Pistoletto, Zorio. Il coinvolgimento degli artisti avviene tramite invito, ad ognuno si chiede di portare 3 lavori. La massiccia presenza poverista fa della prima mostra presso il DDP una mostra del gruppo, sebbene non compaiano ne l’etichetta, ne la firma di Celant che comunque frequenterà lo spazio. Tra i lavori vi sono: il Bagno barca di Pistoletto, i Piombi di Gilberto Zorio, l’Igloo di Giap di Merz, un Tavolo di Piacentino, Senza Titolo di Anselmo, il Panettone in alluminio e i Legnetti colorati di Boetti. Sembra dunque che il polo torinese sia favorito rispetto a quello romano; l’appartenenza di Pascali e Kounellis al gruppo poverista si affermerà in misura maggiore negli anni a seguire. L’allestimento delle opere riflette la natura di deposito con una sovrapposizione quasi caotica dei lavori che privilegia una visualizzazione comunitaria, specchio di quello che doveva essere il senso dell’operazione torinese. L’impaginazione della mostra al DDP acquista dunque valore non solo visivo, ma ideologico e avrà grande influenza su situazioni successive. Warehouse di Castelli > si trattava di un magazzino ad Harlem, nel dicembre del 1968 diviene palcoscenico di una mostra ricordata come Nine at Castelli nella quale nove artisti propongono un tipo di ricerca in linea con nuove tendenze processuali. Tra questi al fianco degli americani Serra e Nauman compaiono anche poveristi come Anselmo e Zorio, presenti con le loro opere nel Deposito e indice della collaborazione con la galleria di Sperone già avviata negli anni precedenti. Al di la delle presenze è significativo constatare la scelta di uno spazio anch’esso povero quale il magazzino. Non si esclude che Castelli visitando il DDP a Torino abbia intuito le possibilità di uno spazio che era già di sua proprietà e che poteva essere trasformato in un’altra sede espositiva della galleria. La tipologia di allestimento sperimentata nel DDP apre inoltre la strada alle soluzioni adottate nelle grandi mostre del 1969 di Amsterdam e Berna. Anche Harald Szeemann è a conoscenza dell’attività del DDP; tuttavia il curatore non ricorda esplicitamente la visita a Torino mentre cita quella di Castelli. Inoltre si può richiamare una funzione fondamentale del DDP > possibilità offerta agli artisti di lavorare in uno spazio adeguato per sperimentare nuovi materiali. Il fatto che funzionasse a tutti gli effetti anche come studio lo rende un laboratorio in continua metamorfosi situazione che Szeemann e Beeren vorranno ricreare nelle mostre successive. Svolgendo una funzione di deposito, l’esperienza non si articola secondo una precisa programmazione espositiva, dunque non esistono cataloghi, è possibile però citare almeno 3 mostre collettive annunciate da volantini e locandine: - Inaugurale - 16 dicembre 1968 - InventarioI Viene ricordata anche la presentazione di singoli artisti. Nella primavera del 1969 poi una locandina con il Teatro Stabile annuncia la mostra Materiali scenici, esposizione della scenografia usata da Kounellis per I testimoni, spettacolo teatrale. Viene citata una mostra personale di Penone, il suo esordio. Si ricorda poi l’idea di preparare una mostra in memoria di Pascali che non ebbe mai luogo. Una nota a parte merita Play di Pistoletto svoltosi il 18 dicembre 1968 > la performance realizzata in collaborazione col Teatro Stabile, 10 vede inoltre cooperare lo Zoo con il MEV (musica elettronica viva). Lo spettacolo dura 5 ore e si basa su una serie di improvvisazioni teatrali e musicali aperte anche alla partecipazione dello spettatore. La scena è illuminata da fari di un’auto collocata all’ingresso. Nonostante il suo impatto sulla scena torinese, il DDP non avrà una lunga vita: le sue attività si interrompono nell’aprile del 1969 prima della scadenza dei due anni di affitto. Due sono le cause: - Lo spettacolo di Pasolini Orgia che costringe allo smantellamento di alcune opere ma più reinstallate. Era un esperimento del “teatro della parola”, - Il suo configurarsi come associazione aveva portato ad una ricerca di possibili soci tra le fila della borghesia ed aristocrazia > ma la natura borghese del DDP aveva posto alcuni problemi con gli artisti che al contrario vivevano l’esperienza del DDP come occasione di affermazione di un momento comunitario svincolato al sistema dell’arte, e come possibilità di esporre e creare opere in piena libertà. - Inoltre Sperone aveva appoggiato l’iniziativa ottenendo il vantaggio di uno spazio aggiuntivo dove poter ospitare le opere e le installazioni di grandi dimensioni che in galleria non avrebbero trovato posto. Gli si offriva anche l’occasione di allargare la propria cerchia di acquirenti, promuovendo artisti che erano protagonisti della sua programmazione espositiva. Tale approccio mercantile si sposava male con l’esigenza di sperimentazione degli artisti che vivevano il DDP come luogo per svincolarsi dalle logiche del mercato. Alla radice dei problemi del DDP stava una mancata chiarezza su chi avrebbe dovuto gestire gli spazi. Dal momento in cui il Teatro Stabile entra nell’attività sembra prenderne le redini a discapito degli stessi artisti. Alla base del fallimento dell’esperienza del Deposito sembrano dunque esserci le divergenze esistenti nei vari modi di concepire il rapporto tra arte e politica – con il rapporto tra arte e sistema dell’arte – tra gli stessi artisti; alcuni continuavano a lavorare con le gallerie, altri non accettavano che queste avessero il controllo su una situazione libera come doveva essere il DDP. Va ricordato inoltre un progetto arenatosi nel 1968 che come il DDP nasceva con l’intento di mettere a disposizione degli artisti uno spazio in cui creare ed esporre liberamente. Si tratta del Parco Magico di Ivrea. Non fu mai realizzato, ma è significativo in quanto anch’esso porta l’attenzione sulla necessità avvertita dagli artisti di lavorare in relazione a luoghi che sembravano rispondere meglio delle gallerie alle novità linguistiche e materiche messe in campo dalle loro ricerche. 11 +2 2.1 Dallo spazio all’azione: la mostra come evento Entra in gioco la riflessione sul tempo > fondamentale laddove nuove pratiche artistiche scelgono la performance o happening, smaterializzando ancor più l’oggetto artistico. È significativo constatare come negli stessi titoli delle mostre la parola spazio lasci emblematicamente il campo alla parola azione che ricorre sia nel titolo della mostra torinese Con Temp l’azione, sia nella rassegna di Amalfi Arte povera più azioni povere. Il coinvolgimento delle gallerie private porta alla luce nuove problematiche legate tanto alla promozione degli artisti, quanto ai risvolti di mercato costringendo alla ridefinizione del concetto stesso di galleria. È ciò che accade nel maggio del 1968 con Teatro delle mostre presso la Tartaruga di Roma > data l’inutilità della galleria dal punto di vista commerciale questa diviene un luogo di sperimentazione, sostituendosi agli spazi istituzionali che invece faticano a star dietro alle nuove tendenze artistiche. Altro gallerista romano a concepire la galleria come laboratorio è Fabio Sargentini il quale rileva in questo una specificità tutta europea; dopo un viaggio a NY annoterà che mentre le gallerie americane lavorano esclusivamente come spazi espositivi, in luoghi asettici intrappolati nei grattacieli, quelle europee hanno la tendenza a configurarsi come spazi vivi di lavoro. Non è difficile da credere guardando anche all’attività di altre gallerie a Roma negli stessi anni come la Salita di Gian Tomaso Liverani e l’Arco d’Alibert di Mara Coccia > la prima si impone sulla scena d’avanguardia presentando nel 1966 la mostra personale di Serra; la seconda rientrerà nelle vicende poveriste con la mostra Il percorso tenutasi nel 1968 dove si presentano 9 artisti grazie alla collaborazione di Pistoletto, la mostra si presenta come una successione di happening, e opere realizzate appositamente per gli spazi della galleria. 2.2 Dai prodotti agli atti: Con temp l’azione Torino 1967 Inaugurata contemporaneamente nelle 3 gallerie torinesi Il Punto, Christian Stein e Sperone nel dicembre 1967 e curata da Daniela Palazzoli > rappresenta uno snodo fondamentale per la scena artistica torinese e non solo. Tuttavia sulla mostra non esiste una documentazione organica e la sua storia è affidata alla memoria dei protagonisti. Ripercorrendo gli aspetti fondamentali della mostra, il primo elemento su cui focalizzare l’attenzione è senz’altro il titolo dove la parola contemplazione viene smembrata in tre parti con/temp/lazione, preceduta da per un’ipotesi di. Tale scomposizione racchiude il processo in atto nelle arti visive  non più opere da contemplare dove lo spettatore è passivo e la fruizione vincolata a un tempo specifico, ma azioni che si svolgono in un preciso arco temporale coinvolgendo attivamente il fruitore e chiamandolo ad interagire. La dialettica tra una finalità naturale e una artificiale riporta a un uso consapevole di oggetti e materiali, adoperati in vista di un determinato effetto e di obiettivi autonomi. Tale condizione accomuna sia gli artisti che lavorano sulla percezione sia i poveristi > si ripropone così ancora un doppio binario di ricerca. Tuttavia la presenza dell’arte povera assume ormai nella tripla mostra torinese un peso di assoluto rilievo, se non una vera predominanza sulle ricerche coeve. Si situa così al centro di una serie di esposizioni collettive dedicate al fenomeno arte povera curate da Celant. Realizzate in gallerie private tra Genova e Bologna, nessuna delle mostre dichiaratamente poveriste approda tra il 1967 il 1970 a Torino ragion per cui Con temp l’azione rappresenta una tappa fondamentale. Il dato assume una sua importanza ragionando sulle tappe di affermazione e coesione del gruppo, almeno per ciò che riguarda il versante torinese. Racconta Anselmo come Con temp l’azione sia stata l’occasione per conoscere Merz e gli altri, insistendo sull’importanza della mostra come momento sociale, di scambio e confronto, nel quale l’esperienza individuale confluiva in quella collettiva. 12 cui centro vi è anche la mostra torinese. Va riconosciuto a Con temp l’azione un ruolo fondamentale nel proporre nuove questioni teoriche e nuove modalità espositive collegando le 3 gallerie più impegnate a Torino nella ricerca e nella sperimentazione e costituendo un riferimento per gli sviluppi successivi, a cominciare dalla mostra amalfitana. 2.3 Una mostra al giorno: Teatro delle mostre Roma 1968 Estetici ed artistico divengono le due categorie tramite le quali inquadrare le tendenze artistiche del periodo; facendo riferimento al saggio di Migliorini (Conceptual Art) l’oggetto viene valutato in quanto estetico (= dunque come sistema di elementi sensibili) o in quanto artistico (= come sistema di momento poietici, ovvero di impulsi non connessi al piano della sensibilità). L’autore fonda il suo studio sulla dialettica struttura/elemento che si ripropone nelle due coppie sensibilità/esteticità e poiesis/artisticità. Si sofferma sul passaggio dal Minimalismo alla Conceptual Art che vede lo spostamento dal piano del sensibile a quello della poiesis, dall’oggetto alla sua assenza. Entrambi gli orientamenti artistici hanno però come obiettivo la riduzione > in quanto tendenti alla parte atomica della coppia e non a quella strutturale. L’analisi di Migliorini è focalizzata sull’esperienza concettuale in quanto artistica, identificata come momento nel quale viene a mancare l’aisthesis dell’oggetto, la sua sensibilità. La stessa idea attraversa le riflessioni sull’arte concettuale nell’ambito della critica americana: Kosuth nel suo articolo Art after philosophy del 1969 affronta il problema della separazione dell’estetica dall’arte; Lucy Lippard e John Chandler parlando dell’arte dematerializzata come di un’arte post-estetica. Il concetto di artisticità come concetto opposto a quello di esteticità compare anche nel testo di Tomassoni dove l’autore cerca di fare il punto sulle esperienze da lui definite mentaliste in relazione sia all’arte concettuale che a quella di comportamento. Tesi del critico è dimostrare che la mancanza dell’oggetto è una condizione necessaria ma non sufficiente perché si possa parlare di arte concettuale. Partendo dalla Conferenza sul niente di John Cage del 1948, agli happening di Allan Kaprow, Gutai e Fluxus, afferma che queste esperienze non rinunciano all’estetico in quanto serie di dati sensibili mentre l’arte concettuale prevede l’eliminazione completa dell’estetico e il riassorbimento dell’estetico nell’artistico. Teatro delle Mostre  l’evento romano sembra situarsi al bivio cui oscillano le arti visuali secondo Lippard e Chandler nell’articolo del 1968, anno della mostra. La componente concettuale della manifestazione è ben evidente nei riferimenti scelti da Maurizio Calvesi per il suo testo in catalogo e in alcuni degli interventi degli artisti. Quella comportamentale, che potremmo dire estetica, emerge invece nelle operazioni che mirano ad un coinvolgimento della sensibilità sia dell’artista, che dello spettatore; emblematica la Spia ottica di Giosetta Fioroni e l’uomo imballato di Renato Mambor. La manifestazione porta l’attenzione sia su un nuovo concetto di partecipazione da parte del pubblico, sia su un’idea di temporalità che non è più solo artistica, ma soprattutto espositiva  è così la mostra a presentarsi come un evento estetico e non solo artistico. “Un lungo, ininterrotto, insonne, nevrotico, meccanismo temporale di creazione-distruzione” così Tommaso Trini definisce Teatro delle Mostre. Realizzato a poco meno di un anno da Lo spazio dell’immagine, l’esperimento di De Martiis intrattiene un forte legame con l’esposizione di Foligno. Si tratta di una mostra a tema che vede però l’accento spostarsi dallo spazio al tempo. Nella mostra romana agli artisti viene chiesto di confrontarsi con la dimensione temporale > ognuno di loro ha a disposizione un giorno per concepire un intervento, rimpiazzato da quello successivo il giorno seguente. Un precedente interazionale è la mostra 19:45 – 21:55. Dies alles Herzchen wird einmal Dir gehoeren, tenutasi nel settembre 1967 alla periferia di Francoforte. Curata da Paul Maenz, l’esposizione prevede una serie di interventi nell’arco temporale suggerito dal titolo, insistendo sulla condizione effimera delle 15 ricerche artistiche contemporanee. Il concept temporale suggerisce un interessante antecedente della rassegna romana, in cui l’avvicendarsi così rapido delle mostre comporta una riflessione sullo stesso spazio espositivo > Calvesi “è emersa la potenzialità infinita di quello spazio, che in se ha dimostrato di non esistere, se non appunto come schema abituale”. Teatro delle mostre si impone subito per il suo carattere interdisciplinare al quale prendono parte non solo artisti visivi ma anche scrittori e musicisti, sintomo di una dimensione sempre più vicina a quella dell’happening. Il legame con il teatro è emblematico nel definire il nuovo approccio proposto dalla mostra. “La strategia del festival è quella di voler proporre un ricambio quotidiano, superando così la dimensione canonica della mostra che fino ad ora ha sempre richiesto un luogo particolarmente adibito all’esposizione, un tempo lungo di contemplazione”. Alla volontà di un nuovo modo di far mostre, fa eco la possibilità di presentare lavori non mercificabili nel luogo di eccellenza per la compravendita: la galleria privata. La mostra che si trasforma in teatro sfugge alle regole del mercato e ridefinisce tanto il ruolo dell’artista che quello della galleria. Mostra a La Tartaruga, molti artisti erano già nella scuderia di De Martiis come Franco Angeli, Renato Mambor, Giosetta Fioroni, Fabio Mauri, Cesare Tacchi. Altri furono coinvolti per l’occasione come Giulio Paolini, Pier Paolo Calzolari, Alighiero Boetti. Non compaiono i nomi di Pascali e Kounellis: la loro assenza è da ricollegare alla rivalità in atto tra La Tartaruga e l’Attico galleria alla quale erano legati. Fabio Sargentini ha ricordato che il festival di De Martiis provocò una discussione con i suoi artisti: mentre Kounellis non fece pressione per partecipare, Pascali avrebbe voluto. Alcuni artisti che avrebbero dovuto prendere parte erano Fabro, Schifano, Tano, Pistoletto. Una nota a parte merita la corrispondenza con Germano Celant relativa al principio dei rapporti tra il critico e De Martiis risalenti al marzo 1968 pochi mesi prima di Teatro delle Mostre. Celant nella lettera ringrazia il gallerista per l’accoglienza a Roma, confessandogli di essersi fatto un’idea sbagliata su di lui prima di conoscerlo. Celant poi non potrà partecipare, ma il suo interesse a distanza rivela che il critico non vi partecipò ma che ne intuiva bene lo spirito, oltre a conoscere gli artisti partecipanti. È eclatante che poco dopo sarà inaugurata a Torino la mostra Conceptual Art, Arte Povera, Land Art alla Galleria Civica di Arte Moderna. Il progetto della mostra alla GAM era stato presentato da Celant ad Aldo Passoni vicedirettore del museo nel dicembre 1969. È probabile quindi che la proposta di Celant a De Martiis sia poi confluita nell’evento torinese (gli aveva proposto una mostra ma poi la galleria romana aveva chiuso) segno di consolidamento istituzionale delle ricerche sostenute dal gallerista. Teatro delle mostre non è una vera e propria mostra ma un contenitore atto a contenerne diverse, una al giorno per circa un mese. Si tratta dunque di interventi che si succedono indipendenti senza una direttiva tematica se non quella di stare nei tempo e nello spazio della galleria. Tuttavia nel tentativo di raggruppare diversi lavori in macro-aree di intervento è possibile enucleare alcune linee-guida principali, in parte suggerite da Calvesi nel suo testo in catalogo: un’attitudine comportamentale già spettacolarizzante; un’attitudine concettuale e smaterializzata; un’attenzione alla dicotomia natura/artificio; una riflessione sulla percezione dello spazio. Il ciclo comincia con Giosetta Fioroni (la Spiaottica) la mostra più menzionata dalla stampa anche perché evento di apertura > crea uno spazio chiuso nella galleria all’interno del quale l’attrice Giuliana Calandra compie gli atti di una giornata qualsiasi. Gli spettatori come voyeurs si avvicendano all’esterno della stanza e osservano da uno spioncino contribuendo a trasformare il privato in pubblico. Altro intervento che mette in relazione la presenza umana con il pubblico è quella di Renato Mambor (Dovendo imballare un uomo) > ispirandosi alla nota fotografia di Che Guevara sul tavolo dell’obitorio, 16 l’artista chiude Previtera in una casa inchiodata che porta sul coperchio uno stampino riproducente una figura umana; i fori sulla cassa permettono la respirazione dell’uomo imballato. La cassa è posizionata in un angolo della galleria fino a quando l’uomo non viene sballato e aiutato ad uscire. Cesare Tacchi mette in campo il proprio corpo per cancellarsi in una vera e propria azione (Cancellazione artista) > sfruttando una nicchia all’interno della galleria, l’artista si colloca dietro una lastra di plexiglass che dipinge di bianco finche la sua figura non diviene invisibile. Trini mette in relazione la mostra della Fioroni con quella di Tacchi sottolineando che mentre la prima pone ogni spettatore nella condizione di vivere un’esperienza diversa, la cancellazione di Tacchi si rivela un’esperienza univoca, predestinata e quindi meno provocatoria. Questi tre interventi appaiono comunque correlati per la presenza corporale ma soprattutto per il volerla nascondere o cancellare. Si tratta di azioni che mettono in scena un vero spettacolo, in linea con l’idea di teatralità. L’attitudine concettuale si rivela nell’intervento di Giulio Paolini che espone il proprio Autoritratto serigrafato, raffigurandosi come doganiere Rousseau attorniato dai protagonisti degli anni 60. Sylvano Bussotti (la più rararara) propone la registrazione della sua Passion selon Sade eseguita a Palermo nel 1965 e corredata dagli insulti del pubblico, e Goffredo Parise (Conversazione su nastro) che va considerato a consuntivo dell’intera mostra: lo scrittore presenta la registrazione delle impressioni su Teatro delle Mostre raccolte durante le varie serate. Intervento da scrittore è quello di Nanni Balestrini (i muri della Sorbona) che di ritorno da Parigi detta al telefono alcune scritte lette sui muri dell’Università in pieno clima di contestazione. Lo spazio espositivo appare alla fine ricoperto da scritte in gesso di diversi colori, slogan che raccontano le tensioni delle rivolte studentesche nel maggio parigino. Gli interventi di Prini, Calzolari, e Boetti sollevano nuove questioni. Emilio Prini arriva con Paolo Icaro da Genova portando con se un sacco pieno di legnetti sui quali sono annotati i nomi delle persone incontrate durante il viaggio. Prini percorre la stanza leggendo ad alta voce alcune frasi serigrafate su lastre di piombo e i nomi trascritti sui pezzi di legno > riflessione sull’identità e sulle relazioni umane, evidente nel momento in cui l’artista non si accontenta della trascrizione ma elenca alla presenza del pubblico gli incontri che lo hanno portato alla mostra. Calzolari presenta un parallelepipedo trasparente sospeso contenente un blocco di ghiaccio rosso che sciogliendosi lascia cadere gocce in un altro contenitore sottostante di forma cubica, mentre dal basso si leva una colonna di fumo viola > la smaterializzazione ricercata è stavolta fisica e segna il trapasso dal fisiologico all’ideologico. Boetti con Un cielo > fissa un grande strato di carta blu su un telaio, illuminato dal retro. Il pubblico può prendere dei chiodi e forare la superficie in modo che dalle aperture fuoriesca la luce disegnando inedite costellazioni. Fabio Mauri con la sua Luna può considerarsi a metà tra i due approcci, cui si associa anche un’evidente rilettura dello spazio. L’artista restituisce quella che è la superficie lunare illuminando obliquamente la stanza, riempiendo lo spazio di perline bianche e creando un accesso dalla forma ovoidale che simula la forma di un’astronave. Gli spettatori accedono alla sala togliendosi le scarpe e trovandosi risucchiati in un insolito interno ovattato. L’artista coglie uno dei temi più attuali del momento: le ricerche in campo astronomico. Marotta persegue l’idea di un ambiente naturale/artificiale e realizza la Foresta di menta riprodotta con fili verdi che pendono dal soffitto come fossero liane e invitano lo spettatore ad attraversarle. Nella sala è percepibile un forte odore di menta. 17 L’anno seguente è il turno di Alberto Boatto e Filiberto Menna che per la seconda edizione della rassegna curano la mostra L’impatto percettivo > illustrare all’interno del più diramato e complesso contesto delle attuali ricerche artistiche, la convergenza su una linea di oggettualità percettiva di esperienze di origini diverse e cioè New Dada e Pop Art, visualità pura e astrazione lirica. L’orizzonte geografico si allarga con la partecipazione di artisti americani. Proprio lo spazio diviene il principale argomento del convengo che accompagna la mostra, dal titolo Il problema dello spazio nella ricerca artistica odierna. Il confronto si da stimolante sia per lo scontro tra due generazioni di critici ma anche per la loro appartenenza a scuole diverse. Come nota Barilli è possibile distinguere due scuole: - Scuola romana composta dagli allievi e seguaci di Argan > approccio essenziale-eidetico che intende l’arte come orgoglioso atto costruttivista, - Scuola non romana (Barilli, Celant, Palazzoli…) > indirizzata ad un’interpretazione fenomenico- esistenziale. Inoltre il convegno di Amalfi introduce il problema dello spazio così come interpretato dalle nuove ricerche artistiche, facendo da preambolo alla mostra Lo spazio dell’immagine inaugurata qualche mese più tardi. Nel 1968 si arriva all’ultimo appuntamento affidato da Rumma alla cura di Germano Celant. Il titolo è didascalico: Arte Povera più Azioni Povere > la mostra intende fare il punto sull’arte povera. Rispetto alle edizioni precedenti cambia lo spirito della rassegna e il colpo d’occhio dell’allestimento presso gli Arsenali dell’antica Repubblica dove le installazioni dialogano direttamente con l’ambiente integrandosi nello spazio espositivo. Si aggiunge inoltre la novità delle azioni, che invadono gli Arsenali e il paese, infine anche questa mostra è accompagnata da un convegno che si svolge nei 3 giorni dell’evento. Gli appuntamenti ad Amalfi si chiudono dunque nell’autunno del 1968 complice la morte di Rumma. A raccogliere la sua eredità sarà la moglie Lia che aprirà la galleria a Napoli nel 1971 con la mostra di Kosuth L’ottava investigazione. Arte Povera più Azioni Povere appare impostata su un doppio binario ovvero su due momenti apparentemente distinti: - Gli oggetti - Le azioni Un terzo momento è identificabile nell’assemblea. La separazione tra oggetti ed azioni si fa presupposto di due letture diverse dell’evento: la prima vede una fluidità tra i due momenti, segno dell’invenzione di uno spazio comunitario; la seconda denuncia proprio la scissione tra le due forme artistiche. Saranno infatti poi le azioni a catalizzare l’attenzione del pubblico in misura maggiore suscitando il malcontento di chi invece esponeva agli Arsenali. Ma oltre che alla separazione il titolo insiste sulla definizione “povero” ed è per questo che RA3 rappresenta la prima manifestazione pubblica dell’arte povera al di fuori del circuito delle gallerie. La presenza di Celant in veste di curatore rinsalda la forza del gruppo, la cui poetica viene descritta in catalogo rimettendo in campo una serie di elementi già emersi nei testi di accompagnamento alle mostre precedenti  si parla di un’arte povera impegnata con la contingenza, con l’astorico; si insiste sull’importanza dell’idea visualizzata che non rappresenta ma presenta; si annuncia il nascere di un’attività crito-estetica dove azioni contingenti si distaccano dall’apologia oggettuale. L’etichetta “povero” di estende in questa fase a raccogliere alcune esperienze non italiane: Dibbets, Van Elk, Long che contribuiscono allo slancio internazionale dell’iniziativa. 20 Insieme alla consacrazione, istituzionalizzazione e internazionalizzazione del fenomeno poverista Amalfi rappresenta anche uno spartiacque tra una fase di tacita accettazione dell’etichetta coniata da Celant e la presa di coscienza di quanto fosse riduttiva rispetto alla varietà delle ricerche. Non solo Amalfi rappresenta il punto di passaggio da una condizione materiale ad una mentale che sconfina nell’happening e nella performance, ma è anche un punto di svolta per la critica chiamata a partecipare in modo attivo e pragmatico al farsi dell’opera. Amalfi rappresenta in ogni caso il coronamento di tutta una serie di esperienze ed esperimenti espositivi analoghi realizzati in Italia prima; Gilardi cita 24no-stop-theatre a Varese, Scoop a Gallarate, il Festival di Anfo, quello di Fiumalbo, e Teatro delle Mostre. Allo stesso tempo RA3 rappresenta un esempio che sarà seguito da kunsthalle e musei stranieri come Berna ed Amsterdam  vi è infatti un filo diretto che corre tra Amalfi e le due esposizioni europee ovvero la presenza degli artisti Dibbets, Van Elk e Boezem. Oltre a costituire un momento di conoscenza diretta e confronto tra artisti italiani e non, RA3 rappresenta il tentativo di creare una comunità artistica temporanea > la manifestazione doveva trasformarsi in un forum dove poter scambiare opinioni in vista di un più ampio progetto politico e sociale. L’idea della comunità si sposava bene con l’addensamento di opere ed artisti. La contiguità fisica e l’intensità emotiva che Gilardi riconosce come temi portanti nell’esperienza di Amalfi perderanno terreno a contatto con l’istituzione museale nelle successive esposizioni europee. Inoltre Gilardi rileva l’assenza ad Amalfi dei galleristi, e dunque di interessi puramente commerciali; gli stessi galleristi non mancheranno invece a Berna richiamati proprio dal contenitore museale. La libertà e la precarietà assunte a concept dell’evento fanno si che la partecipazione amalfitana sia aperta anche alle compagne degli artisti invitati e ai critici, chiamati a far propria l’esperienza degli artisti. In realtà il bilancio finale apparirà negativo: il confronto tra artisti e critici mette in campo problemi irrisolti e mostra come le due parti siano ferme su posizioni diverse, per certi versi inconciliabili. All’interno dello stesso gruppo si verificano fratture, in parte legate proprio a quella che dovrebbe essere la posizione dell’arte povera nel contesto generale. Per comprendere la portata dell’evento è d’obbligo uno sguardo alle opere e azioni che lo hanno reso protagonista. Interrogativi su alcune partecipazioni: Kounellis, Pascali, Marisa Merz. Ma tornando all’allestimento presso gli Arsenali il resoconto di Gilardi restituisce il clima di tensione e di fermento che attraversava la preparazione della mostra. Le opere vengono montate ed installate lungo le due navate, raggruppate o poste in sequenza per affinità materiche o per rapporto di amicizia o comprensione intellettuale. Pistoletto, grande protagonista sul versante delle azioni, è in mostra agli Arsenali con una serie di opere allestite in uno spazio in cui si trovano alcune rovine romane, integrate nell’installazione (Strada romana). Un antico sarcofago è ricoperto di stracci multicolore, alcuni mattoni vengono foderati di stracci e impilati con in cima una scatola contenente una scarpa e uno ionizzatore elettrico in funzione circondata da una striscia di DDT. Poi con l’opera Mappamondo; e Candele dove trenta candele sono allineate su una striscia specchiante e accese il giorno dell’inaugurazione > processione silenziosa dove le fiamme sono destinate ad estinguersi lentamente. Infine allestisce Tenda di lampadine. Boetti stende un quadrato di tessuto bianco al suolo, ed allestisce su di esso una serie di oggetti e materiali dando all’installazione il titolo Shaman/Showman > l’espressione può significare sia gemelli, sia specularmente sciamano/uomo di spettacolo in linea coi giochi linguistici e sdoppiamenti. Gianni Piacentino propone una selezione di opere che occupano sia il pavimento che le pareti. La Vedova Blu di Pascali si fa ideale monumento dell’artista. Luciano Fabro presenta Mezzo specchiato mezzo trasparente > una lastra rettangolare di vetro, sostenuta da un semplice appoggio in metallo e divisa in due 21 quadrati uno trasparente e l’altro a specchi. La lastra amplia lo spazio riflettendolo e insieme permette di attraversarlo con lo sguardo. Di carattere processuale: Merz presenta Sit in, un contenitore nel quale la scritta al neon che da il titolo è posizionata su un blocco di cera, quest’ultima è destinata a sciogliersi a causa del calore, creando un fine rigagnolo lungo il pavimento in pendenza. Il tentativo è quello di evocare le riunioni studentesche con la gente seduta per terra. Sempre di Merz sono Cono, struttura in legno di salice a forma conica al cui interno bolle una pentola di fagioli e Lance. Zorio con Rosa Blu rosa, un semicilindro di eternit come una conca, contiene un impasto al cloruro di cobalto che muta colore dal rosa al blu in relazione ai cambiamenti dell’umidità. Il contrasto tra la stabilità del contenitore e l’instabilità del contenuto da il via a un processo energetico in perenne trasformazione dove il tempo diviene elemento costitutivo. Di Zorio sono inoltre presenti Il fuoco è passato, Spugna fluorescente, Senza titolo. Anselmo espone Direzione, un lenzuolo bagnato steso sul pavimento al cui centro vi è un cilindro di vetro contenente una bussola, le ali del panno sono indirizzate verso nord > un omaggio a Flavio Gioia il più illustre navigatore di Amalfi conosciuto per l’invenzione della bussola nel 1303. Nella seconda navata è anche riportata la presenza di Plinio Martelli, di cui è esposta un’installazione composta da piastrelle, vasi di vetro, e lampadine verdi. Ed infine Giulio Paolini è presente con due cartoni bristol bianchi sui quali riportati i nomi de suoi amici a carattere minuscolo. Oltre alle presenze agli Arsenali, sono le azioni a far da protagoniste, ma a dispetto della povertà intesa come rifiuto della spettacolarizzazione, alcune azioni si presentano talmente spettacolarizzate tese ad un grande coinvolgimento del pubblico. A rafforzare l’idea di un vero e proprio spettacolo in atto contribuisce la presenza della troupe televisiva e dei fotografi chiamati a documentare la rassegna, al punto che molti artisti leggeranno tale partecipazione come condizionante rispetto alle intenzioni originarie dei loro interventi. Ciononostante, gli artisti godono della massima libertà di disporre di tutto il paese e il circondario. A riscuotere il successo maggiore sono gli interventi di Marotta e di Pistoletto. Il primo realizza una costruzione di balle di paglia sulla piazza del paese, un insolito giardino all’italiana ma anche una coda di paglia che richiama alla relativa espressione idiomatica. Marotta fu l’unico a subire delle limitazioni > venne dissuaso dal bruciare i cumuli per la presenza di un attiguo distributore di benzina. Più complesso è lo spettacolo messo in scena da Pistoletto con i protagonisti dello Zoo > l’uomo ammaestrato racconta con l’ausilio di un telone dipinto alla maniera dei cantastorie medievali, la storia di un uomo selvatico: nato dal peto di un asino e allevato da un serpente, il bambino non sa ne leggere ne scrivere. I guitti incrociano il suo percorso e decidono di raccoglierlo per insegnargli tutte le nozioni della civiltà. Altre azioni vengono realizzate sulla spiaggia: qui l’appena diciannovenne Riccardo Camoni liscia un rettangolo di sabbia di circa 100 mq, calpestandolo e Marisa Merz depone coperte arrotolate e imballate con filo di rame o scotch insieme ad opere legate all’infanzia della figlia. Anne Marie Sauzeau suona il piffero con Ableo sulla spiaggia di notte, poi usa delle lastre di polistirolo prese nello stand del marito per cucire una zattera precaria e abbandonarla nel mare al gioco dei bagnanti… Appena fuori dal paese agiscono Long e Dibbets: il primo scala una piccola montagna sovrastante la cittadina per impiantarvi un’asta bianca. Dibbets prende invece la via del mare, allontanandosi su una barca e andando a collocare una linea bianca in un’insenatura tra le rocce. Infine all’interno degli Arsenali l’altro olandese Van Elk stende una striscia di lucido per scarpe per terra e poi traccia un cerchio lo riempie di vinavil e vi spazza dentro la spazzatura rastrellata per quale metro tutto 22 La prime due mostre erano state curate da Franco Solmi: il presente contestato e il tempo dell’immagine. Come racconta Barilli, l’attenzione della Biennale si concentrava in primis sul Nazionalsurrealismo (un tipo di linguaggio che affondava le radici nel Realismo sociale pur apparendo edulcorato rispetto a questo, meno crudo, più malizioso). Le mostre inoltre si proponevano una ricognizione internazionale, chiamando anche artisti stranieri che praticavano la stessa ricerca. Il coinvolgimento di Barilli cambierà decisamente la linea assunta nelle edizioni precedenti; al critico venne richiesto di indicare dei garanti per costituire il comitato scientifico ed organizzatore della Biennale. Un primo progetto di mostra venne presentato nel giugno 1969 con la collaborazione di Trini, Calvesi ed Emiliani. Il comitato continua nella presentazione del progetto rilevano due polarità all’interno della ricerca artistica: da una parte l’uso degli strumenti mediati ed indiretti forniti dalla tecnologia, dall’altra la ricerca di mezzi immediati e spontanei. In questa fase sembra che il concept della mostra debba essere costruito su quelle che appaiono come strade diverse. Le modalità attraverso cui le nuove ricerche possono essere presentate sono 3: - Creazione di ambienti realizzati sul luogo, - Documentazione di comportamenti talmente dematerializzati e mentali da dover essere registrati a livello di mezzi fisici, fotografici, televisivi e da dover vivere soltanto nella dimensione di progetti, - Ricerca di nuovi canali di contatto col pubblico. La necessità di un rapporto diretto col pubblico implica anche la necessità di una documentazione didattica appropriata. Si annuncia la partecipazione di artisti internazionali per mostrare la comunanza di intenti. A questa prima presentazione, ne segue un’altra, più dettagliata nel 5 novembre 1969. Compare qui la proposta di date e titolo provvisorio. In allegato viene proposta una lista di artisti, andando a privilegiare artisti che lavoravano con gallerie italiane e per i quali le spese di trasporto sarebbero risultate ridotte. In realtà a causa dei costi più alti, gli artisti stranieri non saranno più coinvolti. L’assenza di inviti internazionali farà molto discutere rispetto alle aspettative risposte nella Biennale. Gli artisti sono lasciati liberi di decidere come occupare lo spazio a sua disposizione, e se spedire pezzi già realizzati o creare qualcosa sul posto. Si fa accenno per la prima volta alla possibilità di registrare in ampex azioni e comportamenti degli artisti per poi renderli visibili in mostra con trasmettitore a circuito chiuso. Infine viene introdotta l’importanza del catalogo che oltre alle consuete notizie bio-bibliografiche, ciascun artista avrà a disposizione un quartino da elaborare come meglio crede, riproducendo poi foto, progetti, schizzi in fotolitografia. È poi necessario che il costo del catalogo sia accessibile al più vasto pubblico per una comunicazione e diffusione efficace. Il progetto così presentato viene approvato il 3 dicembre 1969. Ad una settimana dall’apertura si registrano 5mila visitatori tra critici, studenti, pubblico generico. A chiusura della mostra il bilancio è 30mila. Il grande successo della mostra si spiega in primo luogo grazie all’attenzione mediatica anche se non mancheranno le polemiche. A partire dal titolo tautologico Gennaio 70 annuncia la volontà di operare una ricognizione del panorama artistico italiano a cavallo tra due decenni fondamentali > la mostra vuol fare il punto su una situazione estrema che è maturata attraverso un processo che parte dai movimenti d’avanguardia del dopoguerra, dall’informale all’arte degli elementi. Primo obiettivo è mettere a fuoco una situazione che vede la crisi della pittura come una superficie dipinta. Gennaio 70 si presenta come una delle prime mostre ufficiali dei poveristi, la cui vicenda era già seguita con interesse a Bologna dalla galleria De’ Foscherari. All’arte povera vengono affiancati altri indirizzi di ricerca con la volontà di non privilegiare un gruppo. 25 Vengono quindi proposte due strade della giovane arte italiana: - Tendenza antiformale > poveristi - Tendenza che guarda al recupero dell’immagine, all’iconosfera Le immagini dell’allestimento mostrano la preferenza per un dialogo tra artisti appartenenti alla stessa linea. In molti casi si lavora site specific con gli artisti che scelgono di intervenire direttamente nello spazio a loro disposizione. Alcuni artisti invece rinunciano all’ingombro fisico per partecipare solo con i video. Tra gli interventi antiformali si distinguono quelli dei poveristi di cui un buon nucleo è concentrato nella terza sala del museo: Calzolari spalma a terra uno strato di margarina che pone fin da subito problemi di manutenzione; Anselmo presenta Indefinite migliaia di anni, una barra di ferro interamente coperta di grasso che appoggiata a una parete scivolerà lentamente e in modo impercettibile fino a inciderla nel corso degli anni, lasciando traccia del processo. Sempre sua è presente Un giro in più del ferro, una lastra quadrata in ferro con una zona circolare coperta da vernice protettiva, quando la ruggine avrà completato la distruzione del ferro non protetto, la stessa zona apparirà come un giro di ferrò in più. La stessa idea di processualità si legge nell’intervento di Mattiacci, una vasca piena di calce viva con un tubo di rete metallica, fino a che la rete non sprofonderà. Zorio sceglie di mettere in tensione elementi naturali ed artificiali, grandi pelli di vacca sono situate vicino all’incandescenza di una resistenza elettrica accesa che però non le distruggerà perché questa risulta bloccata da un pezzo di amianto. L’artista poi presenta un tubo di canapa disposto in forma circolare sul pavimento imbevuto di alcool, e il visitatore può parlare da questo purificando le proprie parole. Giuseppe Penone Scrive Legge ricorda, consiste nella documentazione fotografica che vede l’artista conficcare un cuneo di ferro con incise le lettere dell’alfabeto nel tronco di un albero, in modo che la pianta assorba il messaggio ed impari a leggere. Presenta poi 5 disegni realizzati con la tecnica del frottage nel tentativo di leggere la pianta stessa. Ancora suo espone il Libro di cera. Mario Merz espone delle lastre di vetro recanti la serie di Fibonacci > l’introduzione di questa porta l’artista all’individuazione della vis o energheia interna, sviluppando in maniera concettuale la ricerca portata avanti in un primo momento sugli oggetti d’uso comune attraversati o trafitti da tubi al neon. L’intervento di Pistoletto vede l’artista ricostruire il suo Atelier: due pannelli posizionati ad angolo sono ricoperti da grandi stampe che riproducono l’interno del suo studio, con lavori degli anni precedenti. Al centro di questo ufficio bidimensionale, trova posto Mappamondo. Nell’ufficio di Pistoletto è inoltre collocato un pilastro bianco con un monitor nel quale vengono trasmesse le azioni registrate dagli artisti appositamente per la mostra. Tra gli interventi smaterializzai va ricordato quello di De Dominicis un cerchio bianco sul pavimento che accoglie i visitatori. La presenza di Paolini è rappresentata da un dipinto Picabia assicurato per un valore di 12 milioni di lire> intervento alla seconda, occasione di riflessione sul senso della pratica artistica. Marisa Merz presenta 35 metri di grigio orizzontale telefonati da Krefeld a Milano il 24.01.1970 > una serie di fogli bianchi con righe orizzontali le cui misure sono dettate per telefono a Trini riprendendo una tipologia di intervento già sperimentata in Italia da Balestrini in Teatro delle Mostre e concept di una mostra a Chicago dell’anno precedente dal titolo Art by telephone. Infine Boetti è presente con Breve passeggiata di un pulcino su una Rank Xerox modello 3600 la mattina del 29 gennaio 1970 e con 6 studi per cimento dell’armonia e dell’invenzione. 26 Altri partecipanti a Gennaio 70 presentano dei lavori in cui la componente processuale o l’attenzione nei confronti di materiali poveri emerge con una certa evidenza. In alcuni casi questi sono associati all’elemento tecnologico come nel Tronco al neon di Vasco Bendini. Nella stessa sala presenta Torrentino. Gianni Ruffi riempie il suo ambiente di paglia disposta in modi diversi; Carlo Bonfà con attrezzi, oggetti e decorazioni rurali donatagli da contadini e massaie tenta una sorta di recupero agricolo e naturalista ready made. Livio Marzot sfrutta le possibilità del site specific ordinando un carico di tufo orvietano con l’obiettivo di ricostruire una necropoli etrusca. Anche Giuseppe Uncini decide di lavorare in relazione con lo spazio, presentando pareti e arcate costruite in mattoni e cemento. La presenza di lavori dal retaggio povero è accompagnata da alcune opere che al contrario mettono l’accento sulla possibilità di far interagire una componente tecnologico-meccanica. Come Ugo Nespolo che presenta una macchina inutile ma ingegnosa, un compressore in azione che mette in moto delle spazzole in moto ritmato. Maurizio Mochetti espone una generatrice che emette un fascio di luce. Sull’apporto del fruitore insiste Mario Nanni proponendo dei nastri metallici disposti a spirale sul pavimento, entro i quali il visitatore può camminare producendo un clangore quasi di tuono. Degli artisti che fanno capo all’iconosfera: Carlo Gajani il quale nei suoi scatti fotografici sceglie soggetti primari (donne e farfalle) procedendo poi ad una scarnificazione dell’immagine che lascia sussistere solo fluidi reperti di luci e di ombre. Le ricerche in campo della scultura si ritrovano nell’altare in plastica di Marotta e nella scultura componibile in legno dipinto di Del Pezzo. Giuseppe Del Franco presenta una pedana bianca sulla quale si ripete in modo circolare la formula chimica dell’acqua con il nome di Icaro, in riferimento al mito che lo vede annegare per essersi voluto avvicinare al sole. Sul versante delle assenze si ricorda Mario Ceroli e Kounellis. Lasciando le opere presenti in mostra, è fondamentale portare l’attenzione su quella che è una delle novità di Gennaio 70 ovvero l’introduzione di un impianto televisivo a circuito chiuso che trasmette in varie sale della mostra e per tutta la durata video e registrazioni d’artista, la maggior parte realizzate apposta. La proposta viene da Trini che trova subito favorevole Barilli. L’introduzione del video in mostra è resa possibile dalla partecipazione della Philips che fornisce tecnici e strumentazione per le riprese. Operazioni di tal genere sono giustificate dalla volontà di offrire una panoramica completa sulla situazione esistente ovviando ai problemi inoltre di budget. Non ammettendo il montaggio inoltre il video recording ribadisce la stretta omologia con l’azione vissuta e reale respingendo l’autorialità delle scelte registiche. Il confronto video-film si esplicita in mostra con la proiezione di alcuni film: Land Art di Gerry Schum, Eurasienstab di Henning Christiansen sull’attività di Beuys, e Festival danza volo musica dinamite. A questa si aggiunge la proiezione del documentario su Pino Pascali girato da Luca Patella. L’intervento di Colombo introduce una prima distinzione tra un uso diretto del video, manipolato in forma creativa e un uso mediato dello strumento, utilizzato a scopi documentaristici. L’opera si presta a rappresentare il concetto di fluidità radicale. Titolo anche dell’opera di Zorio: dove l’artista si fa riprendere in un ambiente di grandi ventilatori in un essiccatoio mentre pronuncia quella frase paradigmatica. Tra le azioni registrate di ricorda quella di Kounellis Fiori di fuoco, l’artista dispone nel suo studio formelle di metaldeide, una su ogni piastrella accendendole come dei ceri ed illuminando la stanza. Boetti in Numerazione registra la conta dei numeri primi, ritornando ogni volta a zero e aumentando di uno, accompagnato dal battito di uno strumento a percussione. Calzolari blocca l’immagine su una delle sue scritte epigrafiche, Penone scrive con la telecamera delle lettere sullo sfondo del cielo, Mattiacci si fa 27 fondamentale presenza in loco per l’installazione delle opere. Accenna anche a un intervento in catalogo di Lucy Lippard per dare questa situazione internazionale. La risposta di Passoni riporta il curatore ai problemi di budget, inoltre la proposta del coinvolgimento di Lippard viene accettata. Il 6 marzo 1970 Celant scrive a Mallè una lettera ufficiale nella quale si impegna a curare la mostra Conceptual Art, Arte Povera. Un mese più tardi il 21 aprile Celant scrive ancora a Mallè chiedendogli di spostare la data di inaugurazione già fissata perché nello stesso giorno delle elezioni amministrative. Il curatore aggiorna il direttore sul reperimento delle opere e delle slide, annuncia di un altro viaggio a NY, comunica inoltre che ha preso accordi con testate internazionali che recensiranno l’evento. Dal 23 aprile partono dalla Galleria Civica le richieste per le immagini da inserire nel catalogo. Si incomincia a intravedere la fitta rete di rapporti che porterà alla realizzazione della mostra; oltre al coinvolgimento di Sperone, si chiede la collaborazione dei Lambert, dei Sonnabend, di Konrad Fischer, Weber, Leo Castelli, Fabio Sargentini, oltre che dei collezionisti. Il 25 aprile sempre scrivendo a Passoni, Celant accenna a un intervento di Richard Long appositamente per il museo, il progetto non sarà però realizzato. Un primo comunicato stampa datato 15 maggio 1970 illustra la mostra. Nei giorni immediatamente precedenti alla inaugurazione la stampa locale segnala a più riprese la mostra, annunciandone l’importanza. Seguirà una lista di recensioni pubblicate sulle riviste specializzate (articoli anche all’estero, e USA). L’ultimo scambio di lettere tra Celant e Passoni relativo a Conceptual Art, Arte Povera, Land Art avviene nel mese di settembre > Celant scrive di ritorno da un viaggio in Canada durante il quale ha parlato con direttori di musei che sarebbero interessati a riorganizzare la mostra di Torino e ripubblicare il catalogo. Chiede quindi a Passoni di inviare loro i cataloghi rimasti. Passoni risponde in tono distaccato: sta provvedendo a liquidare le fatture della mostra e constata che questa ha superato tutti i preventivi e limiti. Nomina però alcune opere che resteranno alla Galleria Civica: i dipinti di Sol Le Witt e Bochner, l’alfabeto di Penone. In merito ai musei canadesi, Passoni risponde che per far viaggiare la mostra i direttori stranieri devono prendere accordi con artisti e galleristi e non museo. Il fitto scambio di corrispondenza che precede e segue l’inaugurazione della mostra lascia emergere interessanti notazioni ed anche il concept generale. Conceptual Art, Arte Povera, Land Art si annuncia divisa in 3 momenti, ugualmente impegnati ad informare sulla situazione esistente: le opere esposte, la proiezione delle diapositive, la proiezione dei film. Dalle varie fasi di organizzazione emerge inoltre un altro dato interessante: le opere esposte sono già di proprietà di galleristi e collezionisti, dunque non realizzate appositamente, anzi in alcuni casi sono già state esposte. Se la scelta di opere già pronte pone la mostra di Torino un passo indietro, va comunque riscontrata la volontà da parte del curatore e degli artisti di lavorare in situ all’installazione delle opere. Infine dalla documentazione d’archivio emerge la volontà di presentare l’evento come internazionale coinvolgendo critici dall’Europa e dall’America > segno degli ottimi rapporti di Celant con la critica internazionale da cui il successo della mostra e in generale del fenomeno poverista. Le foto dell’allestimento conservate presso l’archivio dei musei civici di Torino, permettono di commentare sia l’impaginazione, sia l’esposizione. La mostra è montata dagli artisti e dal curatore, con la collaborazione del gallerista Sperone; l’allestimento ad opera degli artisti risponde all’assenza di personale ma soprattutto alla necessità degli artisti stessi di avere il pieno controllo sull’installazione. Nonostante la presenza in loco degli artisti, ad un primo impatto la mostra sembra congelata rispetto alle precedenti esperienze. Come nota Barilli nella sua recensione i lavori risultano dispersi nelle fredde stanze del museo torinese. Non viene dunque a crearsi quell’impatto caotico e vitale che aveva caratterizzato molte delle esperienze precedenti come il DDP, e Arte povera più azioni povere ad Amalfi. La manifestazione risulta statica, ciò probabilmente è dovuto a 4 fattori principali strettamente interconnessi: 30  La scelta di esporre lavori già editi, senza richiedere interpretazione dello spazio da parte degli artisti,  Peso del museo,  Apporto di Celant che insistendo sull’idea di una mostra informativa, sembra privilegiare il momento della documentazione rispetto a quello della sperimentazione,  Presenza di molti lavori concettuali che ingombrano poco e spesso impercettibilmente lo spazio, questi 4 elementi contribuiscono contribuiscono alla sensazione di una mostra fredda. Preso atto dell’elenco di artisti riportato in catalogo, è difficile stabilire chi abbia presentato delle opere e chi invece sia stato coinvolto solo tramite diapositive riguardanti il suo lavoro. Anche in questa situazione il catalogo non rispecchia la mostra; basti notare come Piero Manzoni e Yves Klein pur essendo nella pubblicazione non sono fisicamente alla mostra. Guardando le foto dell’allestimento si nota subito come a difesa dell’internazionalizzazione promossa dalla mostra, artisti italiani e stranieri condividano gli stessi spazi. Di grande impatto è il feltro di Robert Morris che dialoga idealmente con Tre modi di mettere le lenzuola di Fabro > entrambi i lavori insistono sulla forza di gravità e sulla flessibilità del materiale che assume forme casuali adattandosi all’ambiente. Ad accumunare altri due artisti è l’uso del neon: Giovanni Anselmo espone Neon nel cemento con la luce che fuoriesce da un blocco di cemento armato mentre Bruce Naumann usa il tubo luminescente per scrivere il suo nome di battesimo. La luce ricorre anche nell’opera di Walter de Maria, di Keith Sonnier e nell’opera Lampada annuale di Boetti. I minimalisti americani Carl Andre e Dan Flavin presentano due lavori emblematici: il primo una delle sue Floor-sculpture e il secondo una composizione al neon. Richard Serra è presente con Prop; Sol Le Witt impegna una parete del museo con un suo Wall Drawing, mentre Robert Ryman espone Whitney Revision Paintings, grandi pannelli di cartone su cui ha dipinto con la cementite. Ancora tra gli italiani di Kounellis è esposto Letto con fuoco, una rete da letto collegata ad una fiamma ossidrica, mentre di Pistoletto è ben visibile la Pietra Miliare un paracarro in pietra recante sulla sommità l’incisione 1967 con la quale l’artista aveva annunciato, esponendola da sola presso la galleria Sperone, l’apertura del suo studio. Mario Merz presenta l’Igloo di Giap; Zorio dispone penduli dal soffitto, vari microfoni che registrano le voci, le disperdono amplificate per il museo. Pane Alfabeto di Giuseppe Penone è invece installata sul prato, inserite le lettere dell’alfabeto di metallo in un pezzo di pane, l’artista ha fatto beccare agli uccelli la pagnotta in modo da far emergere lentamente l’alfabeto in essa contenuto. Jan Dibbets colloca delle strisce bianche su un prato determinando un gioco di false prospettive; Dennis Oppenheim da alle fiamme una zona incolta nella periferia di Milano e poi sparge veleno per topi allo scopo di creare una zona infetta; Douglas Huebler esegue una passeggiata secondo una scansione prestabilita di minuti fino a trovarsi in un posto imprevedibile. Si accompagnano le diapositive che documentano: Heizer, De Maria, Smithson. Altri lavori sul tempo sono quelli di On Kawara e Emilio Prini che allinea in una vetrina 11.000 fotografie corrispondenti alle immagini riprese da una macchina cinematografica nello spazio di 11 minuti > mettendo a nudo le molecole del mass media. I lavori concettuali: Bernard Venet espone grandi pannelli con l’indice del libro di Paul Roman; accanto a lui un piccolo testo incorniciato da Lawrence Weiner. Fred Sandback misura a suo modo lo spazio del museo tramite una serie di fili di ferro colorati, mentre Mel Bochner realizza un intervento dal titolo No Boundary 31 occupando con la scritta la parete che si trova in cima alle scale di accesso. Di Beuys un registratore trasmette il nastro Ja Ja Ja Nee Nee Nee. Robert Barry delimita un rettangolo a parete con 4 cubetti; Kaltenbach acquista un anno di inserzioni sulla rivista Art Forum. Gli inglesi Gilbert & George intervengono in occasione dell’inaugurazione presentandosi come sculture cantanti con il volto e le mani dipinte di polvere di bronzo e pittura argentata, inscenando la loro performance cantata e musicata in piedi su un tavolo davanti all’opera di Fabro sulle note della vecchia canzone Underneath the Arches. Infine Joseph Kosuth dispone uno striscione di tela nera tra due alberi “Arte come idea come idea”. Ci furono episodi di vandalismo sulle opere > l’accanimento nei loro confronti lascia intendere la difficoltà del pubblico a relazionarsi con questo tipo di lavori. La selezione dei film rispecchia la necessità di documentare le azioni degli artisti contemporaneamente, porta l’attenzione su come il mezzo filmico e video stia divenendo un medium artistico, cui spetta una sezione apposita all’interno della mostra. Anche il catalogo può considerarsi una sezione della mostra: si struttura in due parti: la prima comprende immagini ed è introdotta dal testo di Celant > il catalogo funge da oggetto di studio, testimonianza storica, strumento di espressione artistica. La seconda parte è dedicata ai testi ed è introdotta da un altro elenco di Celant > si sottolinea la doppia valenza del testo critico, da una parte studio accurato, dall’altra intervento autorevole e dimostrazione delle attitudini personali. La mostra ottiene un notevole riscontro sia sulla stampa locale, sia sulla stampa specializzata. La mostra desta sconcerto tra i giornalisti. In generale Conceptual Art, Arte Povera, Land Art permette di operare un bilancio sul fenomeno arte povera, motivo per cui molti contributi che dovrebbero nascere come recensioni divengono descrizione delle caratteristiche del gruppo; e nonostante il grande scetticismo viene compiuto uno sforzo per identificare gli elementi di cui si nutre l’arte povera: i giochi segreti dei bambini, la componente poetica di vaga origine zen, il rituale di carattere magico, il paradosso e l’ironia, il recupero della fantasia segreta delle macchine, della tecnica, della scienza moderna, il sentimento del tempo, il gusto della favola, la suggestione fisica di certi materiali, la modifica o il controllo dello spazio, il puro capriccio o arbitrio o sciocchezza. Buzzati e Barilli sottolineano come il catalogo rischi di diventare più importante della mostra stessa. Il catalogo si presta ad informare più della mostra, che invece sembra non riuscire ad assecondare il carattere processuale delle ricerche artistiche. Altro elemento che emerge con forza dai commenti è la volontà di storicizzazione che sembra rappresentare. 3.4 L’ufficialità dell’avanguardia: Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/1970 Roma 1970 Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/1970 così come Contemporanea farà tre anni più tardi, si impone da subito sulla scena artistica romana come mostra-evento, in grado di far parlare a lungo di se. Sono state ideate e realizzate nell’ambito delle attività dell’associazione degli Incontri Internazionali d’Arte nata a Roma nel 1970 per volere di Graziella Lonardi Buontempo, la cui presidenza viene affidata ad Alberto Moravia. Obiettivo degli Incontri > sperimentare un nuovo modello culturale e un nuovo rapporto col pubblico, motivo per cui il momento espositivo diviene uno strumento privilegiato nel promuovere l’attività dell’associazione. Inaugurano così una politica culturale nella quale privato e pubblico si intrecciano per la realizzazione di eventi di carattere sperimentale in spazi istituzionali. La storia di Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/1970 inizia con l’incontro di Lonardi con Achille Bonito Oliva già curatore della mostra Amore mio a Palazzo Ricci di Montepulciano nel 1970. In questa occasione Lonardi rimane colpita dall’idea di far interagire gli artisti con lo spazio. La mostra di Montepulciano si presenta come esperimento significativo nel contesto dell’epoca anche per la 32 Piramide della Metafisica > sulla cui soglia appare la lapide di ottone che reca la scritta della metafisica e suggerisce il passaggio dell’artista da una dimensione fisica a una concettuale. Davide Boriani e De Vecchi realizzano la Camera distorta abitabile > al cui interno le persone assumono proporzioni più grandi o piccole a seconda dei punti in cui si collocano, Gianni Colombo presenta Topoestesia e Campo praticabile > lavori legati alla percezione fisica che costringono il fruitore ad entrare in relazione con lo spazio in maniera inconsueta e destabilizzante grazie alla luce ultravioletta. La volontà di promuovere l’esperienza psico-sensoriale del pubblico caratterizza anche gli ambienti di Massironi e di Biasi. Di carattere concettuale sono gli interventi di Paolini, Boetti e Agnetti > a legarli dal punto di vista simbolico è la sala dedicata a Piero Manzoni emblematicamente al centro. Paolini > Quattro immagini uguali, quattro tele uguali sono posizionate ognuna al centro di una parete fronteggiandosi e annullandosi nella loro specularità. Boetti > Cimento dell’armonia e dell’invenzione, l’operazione del ricalco trasforma la mano dell’autore in un sismografo. Agnetti > Apocalisse nel deserto, ispirato all’apocalisse di San Giovanni dove pagine illeggibili sono sigillate in un contenitore di plastica posizionato su un pavimento di sabbia, sulla parete nera di staglia la frase in bianco “quando l’agnello ruppe il primo dei sette sigilli uno dei quattro viventi disse con voce di tuono: vieni”. Kounellis porta il pianista Rzewski chiedendogli di eseguire in continuazione l’aria del va pensiero dal Nabucco di Verdi > l’opera smaterializzata nel suono perde il suo splendore di oggetto. Mario Merz > Plant proliferation, realizza in loco un lavoro sulla serie di Fibonacci con scritte al neon posizionate ai diversi angoli della sala. Anselmo > Direzione e Neon nel cemento. Zorio > visualizza e concretizza l’idea di confine nelle sue opere Il confine è quella linea che si concretizza con la violenza e ce Ancora tra i poveristi di Fabro e Pistoletto vengono esposte opere famose. Per mostrare la rifondazione antropologica del mondo messa in atto da Pino Pascali sono esposte > Bianca Vela, l’arco di Ulisse, Ricostruzione del dinosauro. Sono presenti i protagonisti della giovane scuola di Roma, anche identificati come Scuola di Piazza del Popolo: Mimmo Rotella con i Decollages, Mario Schifano con i monocromi, Franco Angeli con le tele che riprendono emblemi politici, Tano Festa con le sue persiane neo-metafisiche, Cesare Tacchi che usa la stoffa come paesaggio, Renato Mambor con le sagome del calcio balilla a grandezza d’uomo, Giosetta Fioroni con i suoi Paesaggi disegnati sulle pareti. Sono poi presenti Alfano con la suggestiva installazione Delle distanze dalla rappresentazione, una goccia che cade da 3 metri in una vasca bassa agitando l’acqua, il cui movimento si riflette sulla parete e sul soffitto per una proiezione luminosa; Vettor Pisani con Tavolo caricato a morte; Giuseppe Uncini con i ferri- cemento; Francesco Lo Savio con le modulazioni spazio-luce. Vitalità del negativo sembra condividere con la mostra di Torino dello stesso anno la sua stessa esigenza di consolidare a livello istituzionale l’operato degli artisti, attraversando però in questo caso tutto il panorama delle ricerche degli anni 60. La scelta di Palazzo delle Esposizioni e il conseguente richiamo del grande pubblico, affermano l’importanza della mostra che si presenta come esperimento conclusivo di un decennio ricco di sperimentazioni. A questo scopo anche il catalogo occupa una sua posizione soprattutto per il contributo della critica e sembra inoltre rispettare abbastanza fedelmente l’esposizione. La selezione di testi si compone di una serie di brevi antologie. Achille Bonito Oliva si stacca dalla mostra per proporre un saggio di stampo teorico- critico che anticipa alcuni temi poi ripresi. Avviene quindi che in molti casi i temi dei saggi non siamo immediatamente vicini al concept della mostra, ne agli artisti coinvolti; alcuni critici scrivono 35 un’introduzione alla propria selezione di testi cercando in alcuni casi di identificare un tema. Dalla varietà e frammentarietà dei temi, che vanno dal dibattito sul Post-informale, al neo-figurativismo emerge una sorta di bilancio critico degli anni 60 così come l’esposizione intende restituire, attraverso le sue opere, il quadro delle ricerche artistiche del decennio. Tutti i quotidiani dell’epoca presentano l’esposizione come uno dei maggiori eventi culturali dell’anno, riportando cifre mai viste di affluenza. In generale a colpire i commentatori è l’eccezionale ricchezza di mezzi che contrasta con la “povertà” dell’arte. Vitalità del negativo viene spesso messa in relazione con la contemporanea mostra del Nouveau Realisme a Milano. Della mostra romana viene inoltre criticato l’alto prezzo del biglietto insieme al titolo, ai più incomprensibile. Quali sono dunque le motivazioni di alcuni attacchi specifici alla mostra? Tre sono le grandi critiche che vengono mosse: - Scelta di un concept troppo vago e generico, che lascia intuire dinamiche di potere nella selezione degli artisti, - La solennità e ufficialità dell’esposizione che contrasta con le tendenze artistiche che propone, - La presenza di opere per il 90% già edite, che rende la mostra pleonastica per gli appassionati d’arte. Vitalità del negativo porta quindi a galla una serie di questioni già emerse nelle precedenti mostre di Bologna e Torino, che pure avevano visto le ricerche d’avanguardia a confronto con gli spazi istituzionali. La questione dei finanziamenti, l’ufficializzazione dell’avanguardia e non ultimo, il rapporto con il pubblico (quello di massa dei musei) > pongono una serie di interrogativi che sembrano scavalcare le opere esposte per una riflessione più ampia sul ruolo del momento espositivo. Inoltre segna la definitiva entrata in scena di Achille Bonito Oliva, la presenza curatoriale è ormai forte e viene riconosciuta sia dagli artisti che dalla stampa. Per tutte queste ragioni la mostra romana costituisce un tassello all’interno del quadro espositivo italiano, rappresentando un punto di arrivo (consolidazione di alcune ricerche artistiche a livello costituzionale) e un punto di partenza (inaugurazione di politiche culturali nate da una sinergia pubblico- privato; affermarsi di una forte figura curatoriale). 3.5 Riepilogando: Contemporanea Roma 1973 Contemporanea è una della mostre più significativa della storia dell’arte italiana e nel contesto internazionale > una mostra kolossal alla quale, nelle cronache dell’epoca, vengono attribuiti gli aggettivi di labirintica, mastodontica, mostruosa, ma anche una mostra documentativa che attraversa trasversalmente tutte le discipline artistiche dalle arti visive al teatro, dal cinema alla danza, dalla fotografia all’architettura realizzata nel Parcheggio sotterraneo di Villa Borghese. Il motivo per cui Contemporanea chiude questo percorso va ricercato in una serie di elementi che caratterizzano la mostra e ne fanno un ideale punto di arrivo: la scelta di un luogo non deputato; l’idea di una mostra-evento; la commistione e presentazione di discipline diverse; la volontà di un confronto internazionale; l’apporto autoriale del curatore. Nel suo proporsi come inedito format espositivo sembra dunque racchiudere e riassumere alcune peculiarità delle mostre antecedenti; e tutto ciò si sposa con un preciso intento di storicizzazione delle ricerche artistiche dal 1955 al 1973. Il legame con Vitalità del Negativo è comunque evidente perché la macchina organizzativa è la stessa: gli Incontri Internazionali d’Arte di Graziella Lonardi. Rispetto però alla mostra di Palazzo delle Esposizioni, nella progettazione di Contemporanea viene compiuta un’ulteriore verifica sul piano internazionale e su quello interdisciplinare. Tra le due mostre di Bonito Oliva, qualche mese prima di Contemporanea apre a Roma la X Quadriennale importata come documentazione su La ricerca estetica dal 1960 al 1970 e 36 strutturata sulle indicazioni di una commissione di studio presieduta da Menna. Anticipa quindi l’interesse nel disegnare una mappa storica. Le linee guida di Contemporanea compaiono in un primo documento redatto dagli IIA dal titolo Mostra internazionale dell’arte d’avanguardia; in questa prima fase l’impostazione è ancora limitata alle arti visive e l’arco temporale è più ristretto, la volontà di un confronto internazionale è però ben evidente. Viene annunciato un elenco di galleristi che contribuiranno alla esposizione: Leo Castelli, Ileana Sonnabend, John Weber, Gian Enzo Sperone. Proprio la partecipazione di questi grandi mercanti d’arte susciterà delle polemiche a proposito della scelta degli artisti. Nello stesso testo si accenna alla volontà di coinvolgere il grande pubblico attraverso la creazione di un percorso che risulti pieno di stimoli. In un altro documento la mostra viene presentata come evento sociale, e servizio pubblico. L’inaugurazione avviene nel mese di novembre, presentandosi come evento anti-museale. La scelta del garage risponde all’esigenza non qualitativa ma quantitativa di tenere su una linea orizzontale tutte le presente artistiche. Progettato da Luigi Moretti e concesso agli IIA, il parcheggio suscita sensazioni contrastanti nei visitatori. L’allestimento interno viene affidato a Sartogo > che concepisce un intervento in grado di visualizzare l’idea di continuità, integrazione e sconfinamento disciplinare su cui è impostata la mostra: una serie di griglie, leggerissime pareti di rete metallica a maglia trasparente usate come elemento divisorio e dialogico; sottili tubi al neon di luce azzurra corrono lungo il soffitto come un filo di Arianna che orienta e guida i visitatori. Per quanto riguarda invece le Sezioni interne dedicate a Teatro, Musica, Danza, Cinema, viene costruito un auditorium temporaneo con 400 posti. La scelta del garage e la modulazione della sua vasta area sono in relazione con quello che è il concept della mostra  proposta di un confronto interdisciplinare che si snoda attraverso le 10 sezioni:  Arti visive  Cinema  Teatro  Architettura e design  Fotografia  Musica  Danza  Libri e dischi d’artista  Poesia visiva e concreta  Informazione alternativa Ognuna affidata a un proprio curatore. Si impone poi anche il confronto internazionale  parità numerica delle presenze  alla base sta il confronto tra avanguardie diverse Europa-America tra cultura della riflessione e cultura dell’evidenza. Il confronto che fa da snodo alla mostra si innesta nell’arco temporale scelto 1955-1973, riportato all’inverso nel catalogo > l’idea di un percorso a rebours è dettata dal porre l’accento sull’eterno presente dell’arte. Partire dal presente per arrivare al passato. Il 1955 viene giustificato come frontiera in cui si esce dall’informale e si stabilisce un rapporto più aperto, franco e cinico con la realtà > prevedendo l’esclusione di Fontana, Burri e Dorazio largamente criticata; ed inoltre Bonito Oliva afferma di aver tagliato fuori le correnti reazionarie che assumono il linguaggio come mimesi e duplicazione della realtà (neorealismo, realismo socialista, e Iperrealismo). Bonito Oliva compie il passaggio definitivo nell’affermazione del protagonismo del critico, sancito dall’affissione del ritratto fotografico fattogli da Claudio Abate in forma di poster in concomitanza con la mostra. Il momento espositivo diviene lo strumento attraverso il quale il pensiero critico diviene operativo, 37
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