Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

La società di antico regime, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto La società di antico regime

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 09/11/2020

domenico-tucci-1
domenico-tucci-1 🇮🇹

4.2

(9)

15 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica La società di antico regime e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! 1 La società di antico regime Gian Paolo Romagnani Il lavoro dello storico 1. Storia e storiografia La parola storia nel vocabolario italiano è una parola ambigua e possiede vari significati, possiamo definirla sia come realtà oggettiva, cioè il divenire degli eventi nel tempo , sia come prodotto soggettivo, cioè per come è narrata e interpretata dagli uomini, e come racconto. Il termine deriva dal latino historia che a sua volta deriva dal greco antico, traducibile come osservare, informarsi, indagare. L’idea greca di storia è inscindibile da quella di ricerca. Non è un caso se i due più importanti storici greci, Erodoto e Tucidide, abbiano intitolato le loro opere “Le ricerche” e “i fatti”, che rappresentano due modelli distinti di approccio alla storia. Al primo modello si ispira la ricerca, la problematizzazione, al secondo la narrazione di fatti politici e militari. La storiografia invece è il primo approccio alla storia, qualsiasi approccio è infatti veicolato dai libri degli storici, noi non conosciamo nulla della storia che non sia passata dall’interpretazione di uno storico. La storiografia risponde pertanto ad un bisogno della società che è quello di ricercare un’identità, che è ciò che definisce i tratti comuni con chi definiamo come nostri simili. Oggetto della ricerca dello storico pertanto non è dunque l’uomo isolato, ma gli uomini e quindi le società nelle loro trasformazioni nel tempo. 2. Storia e memoria Una persona, se privata della propria memoria è privata della propria identità, senza memoria un individuo non si riconosce più, lo storico è quindi inizialmente il testimone o colui che può risalire alla memoria dei testimoni, la memoria cerca sempre di addurre prove, che però valgono solo per quanti abbiano riconosciuto la validità della testimonianza. La trasmissione della memoria è dunque necessaria e può manifestarsi solo attraverso la storiografia, basti pensare alle celebrazioni per le feste nazionali. 3. Scrivere di storia Lo storico Furet, nel 1975, pubblicava un articolo nel quale sosteneva l’importanza per lo storico di avvicinarsi all’approccio scientifico mettendo da parte la descrizione degli eventi e delle individualità. Nel 1979, con Stone, enfatizzava il ritorno al modello di storia basato sulla descrizione delle grandi personalità, il ritorno alla narrativa implicava quindi non una rinuncia all’analisi, ma l’importanza da dedicare alla narrazione. La storiografia nasce infatti proprio come racconto, fare storia significa raccontare una storia. Il discorso storico si svolge quindi su due piani distinti, quello della descrizione o della narrazione dove lo storico fa parlare i documenti, e quello dell’analisi o della interpretazione, con le relative considerazioni. Sul piano della narrazione lo storico ricorre in genere allo stile e alle tecniche mutuate dalla letteratura che giocano sull’emozione del lettore, sul piano dell’analisi invece ricorre ad uno stile più razionale. Inoltre bisogna considerare come l’autore storico aspira alla veridicità, quindi a far riconoscere un testo come veritiero. I documenti hanno il compito di provare la verità, la spiegazione ha il compito di certificarla e di far credere che ciò che dice è vero. 2 4. Le fonti I libri storici vogliono dare quindi un’idea sul fatto storico, tuttavia il sapere storico non è mai definitivo, ma la continua ridefinizione di temi e problemi, la rilettura in chiave diversa delle medesime fonti e la scoperta di nuove fonti portano all’impossibilità di dare per acquisiti i fatti storici. Conoscere tuttavia le società di antico regime ci porta quindi alla conoscenza delle fonti, che vanno comunque distinte dai documenti, perché se il documento si riferisce rispetto al passato, la fonte lo fa rispetto al futuro, in quanto è ciò che lo storico vuole ricavare dal documento. Le fonti possono essere primarie, se sono testimonianze dirette, secondarie se indirette, manoscritte o a stampa, ma possono essere anche tracce sul territorio o oggetti. Per svolgere ben il suo lavoro lo storico si affida inoltre ad altre discipline, come la paleografia, cioè lo studio delle antiche scritture, l’araldica, lo studio degli stemmi, la diplomatica, cioè lo studio di antichi diplomi e documenti istituzionali, e altre scienze. Ciò che lo storico cerca, lo può comunque trovare negli archivi, dove è presente la memoria di una istituzione. 5. Le interpretazioni Tra 800 e 900 cominciarono i dibattiti storiografici. La prima interpretazione vede l’inizio dell’età moderna con la nascita del Rinascimento e dell’Umanesimo, in quanto è presente una rottura con il passato medievale e oscurantista e vista la volontà di fondare una nuova civiltà su valori laici e individualistici, che viene messa in contrapposizione al fatto che il Medioevo non fu un secolo buio. La seconda interpretazione è quella relativa alle crisi religiose del 500, è inizialmente la storiografia protestante tedesca a indicare la riforma di Lutero come fattore determinante capace di segnare il passaggio alla modernità. All’interno di questa interpretazione troviamo le descrizione della Riforma protestante e della Controriforma cattolica esaminate sia secondo una spinta positiva della Riforma e negativa della Controriforma e viceversa. Interessante è inoltre il dibattito avvenuto sulla cosiddetta crisi del 600, tra chi sosteneva come fosse comunque un epoca di sviluppo e di crescita economica e sociale e chi lo considerava come un secolo di crisi. Un altro stereotipo è quello che identifica il 700 con l’illuminismo e con razionalismo filosofico, senza tener conto che fu un fenomeno di minoranza e che la maggior parte degli uomini credeva ancora all’esistenza del demonio e delle streghe. Le molte dimensioni della modernità 1. La periodizzazione storica Le periodizzazioni servono a rendere pensabili i fatti, per costruire una periodizzazione seria è necessario definire dei punti di partenza, impiegare unità di misura temporali comparabili (mesi, anni, secoli), costruire categorie storiche sulle quali fondare ipotesi interpretative (Umanesimo, Illuminismo, ecc.) e individuare epoche caratterizzate da un segno comune. 5 che per l’uomo rappresentava l’unico modo per assicurarsi il mantenimento del figlio e per una donna evitava il disastro, in quanto una donna sola e con dei figli a carico difficilmente poteva procurarsi un reddito. Le cause di morte erano diverse, si moriva per malattie polmonari, cardiopatie, infezioni, ma anche peste, colera, lebbra. Alcune malattie come la peste colpivano tutti i ceti, mentre alcune dipendevano dall’ambiente malsano delle paludi o dalla sottoalimentazione. Si moriva anche a causa delle guerre, visti i possibili saccheggi dei villaggi e la rispettiva distruzione dei terreni dovuta al transito dell’esercito, ma si poteva morire anche per le risse in osteria, maltrattati da genitori o dai mariti oppure per banali incidenti di lavoro come la mutilazione di una mano con una falce. Quei pochi che raggiungevano la vecchiaia venivano rispettati in quanto portatori di esperienza. Rispetto alla mortalità, la natalità è da sempre molto più soggetta alle scelte individuali, possiamo infatti analizzare come in antico regime si mettevano più figli al mondo rispetto ad oggi. Ai tempi infatti i controlli sulle nascite erano logicamente meno efficaci di oggi. Possiamo analizzare come nelle società più povere e arretrate si facevano figli in quanto venivano considerati come investimenti sul futuro, perché mancavano efficaci contraccettivi, per motivi religiosi e per reagire ad una eventuale morte. L’età media delle nozze si attestava sui 24 anni per le donne e 28 per gli uomini, un po’ più precoci i matrimoni nobiliari, che vedevano l’uomo sposarsi intorno ai 25 anni e le donne intorno ai 19. Per quanto concerne la fecondità quindi, a volte venivano esercitato un determinato controllo sulla nuzialità ritardando il matrimonio nei momenti di difficoltà economica, inoltre la fecondità veniva controllata attraverso forme di contraccezione naturale, come il coito interrotto, o meccanica con profilattici di budello di pecora ma anche ricorrendo all’aborto o all’infanticidio. Oltre ai matrimoni tardivi anche la precoce mortalità del coniuge è un fattore che limita la natalità, ma anche il fatto che le figlie secondogenite o terzogenite della nobiltà erano indotte a farsi monache limita la natalità. Va inoltre osservato che il tasso di illegittimità delle nascite era assai basso e che si attestava intorno al 2%, e in campagna era generalmente più basso che in città. Per quanto riguarda i concepimenti prematrimoniali è importante notare come nei paesi protestanti il tasso era molto alto a differenza dei paesi cattolici, visto che il matrimonio era un sacramento a cui si dava molto peso. 3. Il mondo rurale Il mondo rurale è un luogo di produzione di beni agricoli, destinati in maggior parte all’autoconsumo e in minima parte allo scambio. La terra lavorata dai contadini appartiene però in primo luogo al sovrano o al principe territoriale, quindi ai nobili che la detengono in beneficio feudale o in proprietà, ai proprietari terrieri ma anche alla Chiesa, solo in minima parte ai contadini. In campagna vive l’oltre l’80% della popolazione, qui possiamo incontrare dal basso verso l’alto della gerarchia, mendicanti, vagabondi, banditi, servi della gleba, in una fascia un po’ più alta piccoli proprietari agricoli, bottegai e artigiani, in una terza fascia ecclesiastici, amministratori dei grandi beni aristocratici e grandi proprietari terrieri e infine i signori feudali. La comunità rurale invece era costituita da famiglie che vivevano al centro di un’area coltivata. Si può inoltre constatare come i componenti delle famiglie diminuiscono rispetto alla gerarchia sociale, anche perché bisogna considerare come della famiglie facevano parte non solo i consanguinei ma tutti quelli che abitavano sotto lo stesso tetto, servi compresi. All’interno della famiglia contadina esisteva una precisa divisione del lavoro, con donne e ragazze che gestivano la casa e preparavano da mangiare e ragazzi e adulti che lavoravano la terra. Spesso inoltre la 6 famiglia rurale comprendeva anche genitori, fratelli e sorelle non coniugati del capofamiglia. Dal punto di vista contadino il soggetto principale del mondo rurale è la comunità di villaggio, che è la persona giuridica che rappresentava i vari contadini, compresi tra i 50 e i 500. Ogni singola comunità è dotata di statuti che regolano e distribuiscono i carichi fiscali con criteri proporzionali ai redditi agricoli e organizzano le corvée, cioè le prestazioni dovute al signore feudale. Organo decisionale è per lo più l’assemblea dei capifamiglia che amministrano i beni della comunità. In genere la comunità rurale si identifica inoltre nella parrocchia, che rappresenta la comunità di anime affidata alla cura di un parroco, i beni della parrocchia sono distinti da quelli della comunità e non sono soggetti a carichi fiscali, le parrocchie possono possedere proprietà terriere ma anche vivere dei soli contributi dei fedeli che si mostravano attraverso il pagamento della decima, che era in origine la quota di un prodotto agricolo. 4. Le basi agricole dell’economia. Il feudo In antico regime i prelievi si abbattevano sulla terra lavorata dai contadini a vantaggio dei ceti superiori. Nei paesi cattolici la forma di prelievo più diffusa era la decima ecclesiastica, destinata in origine solo alle parrocchie ma successivamente anche a enti come monasteri, conventi, diocesi e abbazie. Un villaggio poteva dunque esser costretto a pagare più di una decima, oltre alla decima i contadini pagavano la rendita signorile che si articolava attraverso le corvées, i pedaggi su strade e ponti, i diritti sui mulini, sui forni, sulla produzione del vino ecc. I contratti agrari più diffusi inoltre sono affittanza, mezzadria e soccida. In alcuni casi il padrone fornisce solo la terra e la casa, in altri anche il bestiame e gli attrezzi agricoli. Il rapporto contrattuale più avanzato era l’affitto, il grande affittuario era per lo più un grande imprenditore agricolo che versava al padrone un canone fisso in cambio di denaro in cambio della possibilità di vendere i prodotti sul mercato, oltre al canone fisso l’affittuario doveva fornire anche prodotti agricoli in natura, le cosiddette regalie. Un’ulteriore rendita è l’usura, cioè la rendita derivata da ipoteche sui terreni e quindi dagli interessi da pagare sul terreno. Nella prima età moderna le forme di possesso sono principalmente due: il feudo e l’allodio. Il feudo appartiene al patrimonio della corona, concesso temporaneamente ad un vassallo come remunerazione per un servizio, è quindi sottoposto al doppio dominio di feudatario e del signore, feudatari possono però essere solo i nobili o le istituzioni come enti e Chiese. L’allodio invece è un bene goduto in piena proprietà, allòderi sono nobili, borghesi ma anche contadini, da queste due forme si distingue il demanio, cioè le terre del principe territoriale. L’economia signorile è un sistema regolato da rapporti diversi dall’economia di mercato, la maggioranza dei produttori, i contadini sono esclusi dagli scambi commerciali perché non possiedono eccedenze, inoltre alla base delle scelte economiche signorili non grava tanto la necessità di profitto, quanto la volontà di mantenere un alto livello di spesa per la propria casa. In Polonia, secondo quanto studiato dallo storico Kula, solo i nobili potevano essere proprietari terrieri e potevano accedere al commercio, mentre i contadini si limitavano allo scambio di beni agricoli, se il lavoro contadini fosse stato retribuito la tenuta feudale avrebbe avuto un bilancio in passivo considerando anche la bassa produttività. Nell’Europa settentrionale i vincoli feudali si sono per lo più trasformati in vincoli economici, contributi in denaro da pagare al signore, in questa aerea inoltre si diffonde l’affitto. Nell’Europa orientale e meridionale invece i vincoli feudali sono più forti e le condizioni di servaggio sono gravose per i contadini che sono tenuti a svolgere le corvées, nell’area mediterranea abbiamo in Francia invece una distinzione tra 7 domaine, parte del signore, e tenures, parte dei contadini, nello Stato Pontificio e nel mezzogiorno italiano la feudalità è dominante sia a livello fondiario che baronale. La città e il mondo del lavoro 1. Lo spazio urbano in età preindustriale La città di antico regime aveva una fisionomia che vedeva entro la cinta muraria un centro amministrativo, quindi un palazzo municipale e relativa piazza, un centro commerciale, con piazza del mercato ed eventuale palazzo o casa dei mercanti, un centro religioso con chiesa cattedrale e palazzo vescovile. All’interno dello spazio urbano si distinguono spesso ampi spazi vuoti coltivati ad orti, vigneti e frutteti, utili ad alimentare la città in caso di assedio. Le dimore aristocratiche e borghesi posseggono spesso orti e giardini, botteghe artigiane si affacciano spesso su vie all’insegna dell’Arte, come la via dei Calzaiuoli o la via dei Pellicciai. I palazzi signorili si affacciano sulle vie principali e attorno ad esse sorgono le dimore delle principali famiglie patrizie, mentre le borgate popolari spesso sorgono fuori dalle mura. Visitando una città si può infatti definire la presenza delle varie istituzioni del governo e dell’amministrazione civile e militare, spiegandoci inoltre le varie gerarchie nonché la struttura corporativa che si è quindi impressa nell’urbanistica e nella toponomastica della città. Fu attorno alle Arti e alle Corporazioni che si disegnò il quadro economico ed istituzionale della civiltà moderna. Gli artigiani medievali forgiarono non solo strumenti da lavoro ma anche il linguaggio della politica e le categorie entro le quali l’uomo europeo si mosse fino alla rivoluzione francese. L’esercizio di un’arte era il prerequisito per poter svolgere qualsiasi attività, basta vedere Dante che era immatricolato nell’Arte fiorentina dei medici e degli speziali. Una città di antico regime inoltre possiede delle mura difensive, una guarnigione, uffici giudiziari, un mercato. Può essere o meno sede di un principe o di un vescovo. Ciò che caratterizza una città inoltre è la presenza di privilegi di carattere giuridico e finanziario concessi dal sovrano, privilegi che sono menzionati negli statuti che rappresentano la carta fondamentale, sia nel caso che essa sia auto amministrata sia che sia governata da un principe. Il privilegio di gran lunga più importante è comunque il diritto all’auto amministrazione, ossia eleggere i propri organi di governo, che dovranno rispondere all’autorità superiore, inoltre esercita il suo potere sul contado, cioè le comunità rurali e il territorio da essa dipendenti, il contado era in origine lo spazio di terre coltivabile necessario alla sopravvivenza della città e dei suoi abitanti. 2. La comunità urbana e le sue istituzioni Gli abitanti delle città di antico regime sono una minoranza della popolazione, circa il 15%. All’interno delle città, troviamo dall’alto verso il basso ad un primo livello il principe e nobili di corte, il vescovo ed i canonici della cattedrale, i signori feudali, gli alti funzionari dello Stato e gli esponenti dell’alto clero, ad un livello inferiore troviamo invece giuristi, prelati, ecclesiastici di ogni livello, professionisti come medici e avvocati, mercanti e negozianti, ad un livello ancora più basso abbiamo i segretari e gli impiegati alla pubblica amministrazione, precettori di nobili, scrivani, contabili al servizio di grandi mercati, maestri artigiani e bottegai, infine troviamo servi, lavoratori a giornata e piccoli bottegai, al di sotto poveri e vagabondi. Gli abitanti della città non sono però da considerare cittadini, la cittadinanza è infatti considerata un privilegio, solo chi è in possesso del diritto di cittadinanza, un attestato, può considerarsi cittadino. Il principale organo 10 mestieri del denaro e i mestieri del sapere, nel primo gruppo troviamo i proprietari e gli uomini d’affari, nel secondo gruppo i professionisti e i funzionari. 2. Fra economia naturale ed economia monetaria Nell’età moderna troviamo la presenza di due forme tipiche di economia, l’economia naturale, basata quindi sullo scambio dei beni prodotti in natura, e l’economia monetaria basata sulla moneta e che nel corso dei secoli si fa via via più significativi. Essendo la distribuzione del reddito fortemente sbilanciata in certi ambiti la moneta circolava ampiamente mentre in altri dominava lo scambio in natura. La moneta stessa veniva utilizzata di preferenza per certi impieghi, come per il pagamento di tributi o per la tesaurizzazione, l’accumulazione di ricchezze. 3. Le basi dell’economia monetaria Parlare di economia monetaria in una società di antico regime significa fare riferimento ad un aspetto marginale dell’economia. Per larga parte dell’età moderna la produzione finalizzata al diretto consumo prevale su quella rivolta al mercato, inoltre bisogna ricordare che in antico regime non esisteva alcuna moneta comune, ogni stato possedeva la propria moneta e tutte avevano libero corso comune, nessuna di esse aveva un valore facciale, cioè un valore scritto sulla sua faccia. Il valore ufficiale era stabilito dal signore, ma il valore reale corrispondeva al peso del metallo che la componeva. Operazioni come l’erosione e la limatura delle monete d’oro e d’argento, per ricavarne polvere preziosa da rifondere, diminuendo il valore reale della moneta, oppure la doratura o l’argentatura per farle apparire di un valore superiore, quella circolante era dunque una cattiva moneta. Si ritiene che la nascita del Capitalismo coincida con l’emergere delle lettere di cambio, il credito ai tempi era più che altro gestito dai grandi mercanti che prestavano o anticipavano soldi ad alti tassi d’interesse, con lettere di cambio si compivano trasferimenti di denaro a distanza. Furono proprio dei mercanti a prestare denaro anche ai sovrani, come possiamo vedere il caso di Jacob Fugger, che nel 1519 prestò a Carlo V d’Asburgo mezzo milione di fiorini per consentirgli di pagare i Grandi elettori e comprarsi l’elezione al trono imperiale. Se la finanza internazionale della prima metà moderna ha origini italiana, dai grandi banchieri fiorentini, a quelli livornesi e genovesi, verso la metà del 500 lo spostamento del baricentro è a favore dei Paesi Bassi. 4. Telai e altiforni. Manifattura e proto industria È difficile determinare la data di nascita della fabbrica moderna, in età moderna possiamo trovare grandi concentrazioni di lavoro per i poveri nelle cosiddette case di lavoro. Se definiamo fabbrica uno stabilimento industriale dotato di macchinari con una grande concentrazioni di lavoratori la troviamo solo in Inghilterra alla fine dei Seicento, un’organizzazione simile la si può trovare solo nei Grandi cantieri navali dell’Arsenale di Venezia. Con il termine rivoluzione industriale gli storici indicano la trasformazione realizzatasi in Europa a partire dalla metà del 700, prima in Inghilterra e poi nel resto d’Europa. Strettamente connessa con la nascita del Capitalismo la rivoluzione Industriale è considerata come l’economia basata sull’energia naturale, ossia sulle nuove fonti energetiche come petrolio, carbone e coke. La macchina a vapore brevettata da James Watt è il simbolo più evidente di tale trasformazione. Negli ultimi decenni il concetto tradizionale di rivoluzione industriale è stato sottoposto a revisione critica, con gli storici che pongono la loro attenzione sul caso inglese e sul modello universale che ne deriva, così decisero di porre la loro attenzione sulla cosiddetta protoindustrializzazione, (la fase antecedente 11 all'industrializzazione), con l'avvento delle enclosures (ovvero la privatizzazione e la recinzione delle terre comuni) che prima erano "open fields" (terre comuni a cui ognuno poteva avere accesso per pascolare il proprio bestiame) i contadini non riuscirono più a vivere solo grazie all'agricoltura e cominciarono a filare la lana e a produrre tessuti per i mercanti, i quali pagavano i contadini. La produzione non era meccanizzata, dato che le macchine industriali non erano ancora state inventate, ma si basava sui tradizionali metodi artigianali. Si creò quindi un'industria rurale gestita dalle imprese familiari. La loro principale fonte di sostentamento rimaneva (ancora per poco) l'agricoltura. Col passare degli anni la crisi agricola si inasprì e la lavorazione tessile divenne perciò la principale fonte di reddito per queste imprese familiari. Con l'invenzione delle macchine industriali, i contadini si spostarono nelle città per lavorare nelle prime fabbriche. È questo l'embrionale impulso che portò alla rivoluzione industriale, e sulle molteplici vie verso l’industrializzazione intraprese dai vari paesi europei, mostrando come la via inglese fosse solo una delle possibili vie verso l’industrializzazione ma non l’unica. La prospettiva nuova apertasi in seguito a queste ricerche ha consentito di valorizzare maggiormente casi di realtà periferiche, come la filatura della lana nello Yorkshire, di lini delle Fiandre e della Westfalia, o ancora di lana del Biellese, si tratta quindi di produzioni manifatturiere con basi saldate al mondo agricolo, caratterizzate da una produzione dispersa sul territorio e un massiccio impiego di lavoro a domicilio, ma in grado di rapportarsi con il mercato internazionale. 5. La rivoluzione dei consumi La capacità di consumare dipende da una quantità di vincoli che non si riferiscono solo alla disponibilità di beni sul mercato, ma anche ad elementi sociali, culturali e simbolici, un bene prodotto ad esempio, come un paio di scarpe, può non essere prodotto finché il contesto sociale in cui si colloca non lo rende fruibile da gruppi che precedentemente lo escludevano dal proprio utilizzo. Il 700 è il secolo nel corso del quale si afferma un consumo di massa, rendendo le differenze sociali meno marcate, almeno nei consumi di base, abbigliamento, riscaldamento, illuminazione, arredo, cibo, trasporti, cultura, diventano poco a poco a disposizione dei vari centri sociali. Questo modello si instaura per primo nella giovane società americana, caratterizzata da una forte mobilità sociale e priva delle gerarchie consolidate della Vecchia Europa nobiliare. D’altro canto si impose, anche nei ceti inferiori la necessità del superfluo, ossia l’esigenza di possedere beni non necessari alla sopravvivenza. Nel corso dei vari millenni gli uomini hanno soddisfatto i loro bisogni essenziale senza il problema della disponibilità delle risorse, l’acqua in particolare è stata sempre considerata come risorsa inesauribile. Con l’età moderna l’acqua corrente si afferma come la principale risorsa energetica, capace di imprimere il movimento alle pale di un mulino o alle ruote di un telaio, nel 700 l’acqua sarà l’elemento dinamico di nuove macchine a vapore e pompe idrauliche. La stessa abitudine di curare l’igiene personale e di lavarsi il corpo più volte alla settimana si affermerà nel 700, non solo i cittadini, ma anche i nobili nonostante cambiassero fino a sei camicie al giorno non si lavavano più do una volta l’anno, addirittura anche il Re Sole. La rivoluzione dell’igiene rappresentò dunque un miglioramento nelle condizioni di vita favorendo una minor diffusione di malattie e un alzamento della vita media, la disponibilità di biancheria in cotone più economica e sana rispetto alla seta, sarà uno dei fattori determinanti. La diffusione inoltre di nuovi metodi di riscaldamento e di illuminazione nelle grandi città europee, è un’altra delle trasformazioni più importanti che investono larghe fasce della 12 popolazione nel corso del XVIII, così come l’introduzione dei vetri trasparenti nelle dimore. L’illuminazione delle strade determina sia una percezione di maggior sicurezza, sia la possibilità di allungare l’orario di lavoro, le stufe in ceramica o in ghisa entrano a far parte dell’arredo domestico sostituendosi a focolari e caminetti, ma tutto ciò implica l’utilizzo del carbone e quindi di un costo regolato dal mercato. All’interno dell’abitazione avvengono importanti trasformazioni nelle dimensioni che rendono le case più simili alle nostre, la zona notte viene sempre distinta Dalla zona notte, appaiono i primi servizi igienici nelle case e le prime poltrone e i primi divani. Le cucine e le eleganti sale da pranzo si ornano di credenze dove vengono riposte stoviglie e vasellami, nelle dimore degli uomini di cultura inoltre non può mancare una biblioteca o una scrivania. Decisive sono le trasformazioni nell’abbigliamento, in ambito urbano infatti i borghesi diventano protagonisti del mercato della moda diversificando i costumi. I prodotti in cotone soppiantano quelli in panno e in lana consegnando la seta ai lussi. A metà 700 un nobile possiede circa un’80 di capi d’abbigliamento, un borghese una decina e un popolano almeno cinque. Il polsino di pizzo non è solo prerogativa dei ceti nobili, il bottone sostituisce la spilla e i lacci e il corpetto femminile come i tacchi si affermano anche tra le donne del popolo. La parrucca inoltre subentra estendendo il suo uso oltre che ai nobili, anche a ceti medi e borghesi. Le nobiltà europee 1. Nobiltà: la genesi di un concetto Il termine aristocratico deriva dal greco aristòs e significa governo dei migliori, nel mondo greco infatti aristocratico era colui che si distingueva per valore, non era quindi nobiltà di sangue ma di virtù, nel mondo romano invece l’élite era rappresentata dal patriziato, che vantavano la discendenza di un pater, gli appartenenti ad una di quelle famiglie che potevano sedere in Senato. Nel mondo antico e medievale i nobili, dal latino notabilis, cioè conosciuti, erano coloro che per nascita o per un titolo concesso dal sovrano godevano di uno statuto speciale, cioè un privilegio, da cui derivavano prerogative che ad altri non erano concesse, come portare la spada o possedere un cavallo. I tre elementi costitutivi della nobiltà antica erano la nobilitas, cioè natali illustri, da dimostrare attraverso l’albero genealogico, la virtus, ossia virtù e coraggio militare, e la certa habitatio, ossia il possesso di una casa e di una terra, la nobiltà è quindi un ceto o uno stato. Il concetto di classe distingue un gruppo sociale per la sua posizione economica all’interno del processo produttivo. Il concetto di ceto, distingue un gruppo sociale per la sua posizione all’interno della gerarchia sociale. Il concetto di ordine o stato distingue un gruppo sociale per la sua posizione giuridica all’interno di una gerarchia prestabilita. Mentre le società borghese si autodefiniscono in termini di classe, quelle di antico regime si autodefinivano per ceti, ordini o stati. La tripartizione sociale ha origini nella civiltà indoeuropea antica e medievale, derivante dall’originaria distinzione di tre funzioni fondamentali di ogni società, sovranità, forza e fecondità, prerogative rispettivamente di oratores, bellatores e laboratores. I primi, re-sacerdoti governavano la cosa pubblica ed erano impegnati nella preghiera e nella difesa della comunità, i secondi, i guerrieri, erano impegnati nell’esercizio delle armi e nella difesa attiva dai nemici, i terzi, i lavoratori erano impegnati nel mantenimento e nella riproduzione della comunità. Questo schema va visto prendendo in considerazione più fattori, lo status, presenza-assenza di privilegi, la quantità, la produzione percentuale dei nobili rispetto alla popolazione totale, la stratificazione 15 creati in età medievale per combattere gli infedeli e difendere il Santo Sepolcro, ma per lo più istituiti nel 500 per rispondere alla richiesta delle nobiltà più antiche di distinguersi. Il più prestigioso fra gli Ordini cavallereschi fu sicuramente l’ordine degli Ospedalieri di San Giovanni, ma anche l’Ordine Teutonico. 5. La cultura nobiliare La nobiltà di antico regime non si è mai caratterizzata come un ceto colto, nella stragrande maggioranza i lord erano quindi profondamente ignoranti, apprendevano però fin dalla tenera età l’arte della guerra, della caccia, dell’equitazione. I giovani nobili erano spesso rozzi e violenti e segnalati per duelli o stupri, solo nel 500 con la pratica del Grand Tour si iniziavano a formare le elite culturali. A partire dal 600 i giovani aristocratici iniziano la loro formazione nei collegi Gesuiti, diverso il discorso per i figli della nobiltà di toga, indotti a seguire un percorso di apprendimento della filosofia, dell’economia, del diritto per poter accedere alle cariche pubbliche 6. Nobiltà europee a confronto Il caso francese si caratterizza per la presenza di due nobiltà distinte, la noblesse d’épée, (di spada) di origine più antica, che deriva il suo potere dall’esercizio delle armi, dotata di titolo ereditario, e la nolese de robe (di toga), di origine più recente che deriva il suo potere dall’esercizio delle cariche di giustizia e di finanza, Luigi XIV consegna loro la gestione dello Stato. Anche il caso inglese vede due nobiltà distinte, al vertice della gerarchia troviamo i Lords, detti anche Pari, di origine feudale militare e terriera, dotata di titolo ereditario, di orientamento conservatore (tory), dall’altro lato troviamo i gentry, una nobiltà di fatto, al quale vengono attribuiti i titoli di knight, esquire e gentlemen ( cavaliere, baronetto e gentiluomo), dotata di minor prestigio sociale rispetto ai Pari che esercita una notevole autorità in sede locale, spesso svolge anche attività imprenditoriali, sono di orientamento politico progressista (Wighs). Il caso russo vede invece un’aristocrazia di origine feudale formata dai Boiardi, dotata di immense proprietà terriere, in grado di armare piccoli eserciti. A partire dal regno di Pietro I il Grande la situazione muta con le nobiltà che vengono sottoposte al potere assoluto dello Zar, dopo Pietro I quindi la nobiltà russa non è più né feudale né proprietaria, in quanto la terra appartiene allo zar. A livello più alto della gerarchia troviamo comunque i Kniazata, i Principi, legati alla famiglia imperiale, grandi proprietari terrieri che possiedono incarichi di alto comando militare, ad un livello più basso troviamo i Druzina, i Boiardi, che hanno posti di Governatori delle provincie. Il risultato della riforma di Pietro I è la creazione di un sistema burocratico-militare su base aristocratica. Il caso polacco è quello della nobiltà in sovrannumero, con la nobiltà che rappresenta oltre il 10% della popolazione. Gli esponenti maschi maggiorenni hanno diritto di far parte della Dieta, luogo di rappresentanza della nobiltà e supremo organo legislativo, la Polonia è infatti una monarchia elettiva, ma di fatto è una monarchia nobiliare, il re di Polonia non trasmette infatti alcuna dignità ai suoi figli che sono nobili come tutti gli altri, la Dieta ha quindi il potere di giudicare il re e di sorvegliarlo. Al vertice della nobiltà polacca troviamo i Magnati, che controlla la maggior parte delle terre e dei villaggi e che comanda la Dieta, che possono assoldare proprie milizie, al secondo livello si colloca la nobiltà media che possiede il resto della terra, ad un terzo livello si collocano i frazionari, possessori di piccole frazioni terriere, al livello più basso si colloca la nobiltà povera, 16 Zaganowa, costituita da piccolissimi proprietari, esenti da imposte ma a volte costretti a lavorare la terra con le proprie mani. Sovranità e potere politico 1. Una definizione di Stato moderno L’espressione Stato moderno compare agli inizi dell’800, in presenza di un processo di crescita e di consolidamento degli apparati statali. Per capire al meglio lo Stato moderno conviene concentrarci su sei linee di tendenza. La prima linea di tendenza è l’affermazione del monopolio statale della forza attraverso la costituzione di eserciti professionali e permanenti in sostituzione delle milizie cittadine e temporanee, reclutate prima di ogni guerra ed immediatamente sciolte alla fine del conflitto, i nuovi eserciti vedono lo sviluppo dell’artiglieria dotata di armi da fuoco, questo mutamento mette in crisi in ruolo della cavalleria, e quindi della nobiltà che ne rappresentava il nerbo esclusivo, il ruolo dell’artiglieria, arma borghese affidata alle capacità tecniche dei fabbri, vanno a discapito del codice d’onore della cavalleria,fondato sul coraggio, è l’opera del Don Quijote che testimonia perfettamente questa situazione. Questi eserciti sono formati da professionisti provenienti per lo più da altre nazioni, fattore che aumenta diffidenza nella popolazione. La seconda linea di tendenza vede la presenza di una burocrazia permanente e specializzata, dotata di competenza professionale ed amministrativa, si tratta inizialmente di notai e cancellieri legati al sovrano, a conoscenza di nozioni di diritto, economia e diplomatica, quelli che oggi chiameremmo funzionari pubblici, che veniva reclutati o attraverso la chiamata diretta di uomini capaci o in seguito alle vendite delle cariche e degli uffici, la cosiddetta venalità, che avrebbero detenuto anche a titolo ereditario. La terza linea di tendenza è data dalla presenza di una diplomazia permanente presso le corti straniere, che sostituisce gli inviati temporanei, l’invio di residenti stabili presso le corti straniere implicava disponibilità di denaro, di conoscenze e capacità di agire e di sapersi muovere negli ambienti di corte. La quarta linea di tendenza è la progressiva affermazione del monopolio statale del prelievo attraverso il fisco, l’appartenenza ad uno Stato comincia ad identificarsi con il pagamento delle tasse e del servizio militare, il cambiamento sta nel fatto che una volta la tassazione era concepita come un aiuto concesso al sovrano, tasse straordinarie erano accordate in caso di guerra, ragion per cui molti sovrani tennero aperti teatri di guerra solo per questo. La quinta linea di tendenza è il tentativo di affermare una legislazione unitaria su tutto il territorio statale. La sesta e ultima è data dall’affermazione di un mercato ampio ed esteso attraverso il mercantilismo. 2. Dal patto fra poteri autonomi alla rappresentanza politica Se si prende in considerazione la formazione dello Stato moderno possiamo individuare tre fasi principali successive, una prima fase, corrispondente al medioevo, caratterizzato dal patto sancito fra poteri autonomi, una seconda fase, corrispondente all’età moderna, segnata dall’affermazione del dominio del sovrano sugli altri poteri, una terza fase, corrispondente all’età contemporanea, caratterizzata dall’affermazione del principio di rappresentanza politica alla base di ogni governo. La storia dello Stato moderno è dunque una storia di lotte e compromessi fra poteri diversi fino all’affermazione di un potere sovrano superiore. In tutti gli stati europei, fin da Medioevo, sono esistite norme di rappresentanza che stavano alla base del patto sancito tra sovrano e ceti, in tutti questi stati esistevano infatti organi di rappresentanza dei ceti come Diete, Stati Generali, Parlamenti, Cortes di origine medievali. Nella Dieta imperiale si distinguevano 8 grandi elettori e 17 300 rappresentanti nobiliari e 85 delle città imperiali. In altri contesti troviamo parlamenti bicamerali come Inghilterra e Polonia o tricamerali come gli Stati generali in Francia. Almeno fino alla Rivoluzione inglese 1641-49 gli organi rappresentativi sono portatori di privilegi dei corpi di cui sono l’espressione, con le assemblee rappresentative che avevano il compito di prestare consiglio e aiuto al sovrano, come ad esempio l’entrata in guerra con i propri eserciti a favore del sovrano. In altre realtà come l’Impero, alle Diete territoriali erano demandate alcune funzioni legislative e giudiziarie, in Inghilterra ogni legge dello Stato doveva essere ratificato dal Parlamento. A causa degli indebitamenti statali dovuti alle guerre, i sovrani cominciarono a non chiedere più in consenso parlamentare che opponevano una forte pressione affinché non alzassero le tasse, e decisero di rinunciare alla convocazione delle rappresentanza, sarà ad esempio la decisone di Carlo I a non convocare più il Parlamento che portò allo scoppio della Rivoluzione. 3. Monarchie composite Esaminando le dinamiche della statualità di antico regime tra 400 e 700, possiamo individuare quattro tendenze di medio periodo.  La razionalizzazione del potere che porta alla riduzione del numero dei piccoli stati generali che verranno inglobati nei grandi stati nazionali, agli inizi del 1500 in Europa troviamo circa 500 entità politiche, agli inizi del 1900 erano solo 25.  La progressiva autonomizzazione dei più forti poteri territoriali come i principi sovrani rispetto alla suprema autorità feudale, cioè l’Impero.  La progressiva marginalizzazione dei poteri locali, come città, chiese, delle magistrature e degli organismi rappresentativi, come Parlamenti, Diete, Stati Generali ecc rispetto al potere dei principi, unite alla nascita di capitali stabili, sedi dei sovrani.  La concentrazione quindi dei poteri che suscita una risposta da parte dei vari soggetti colpiti. Le monarchie composite, tornando alla prima tendenza, sono quelle monarchie apparentemente unitarie, all’interno delle quali sopravvivono e si intrecciano varie giurisdizioni, dalla monarchia inglese, oggi Regno Unito che vede la presenza anche di Scozia, Galles e Irlanda, alla Spagna, formatasi nel 1469 dall’unione dei regni di Castiglia e Aragona e poi quelli di Portogallo e di Navarra. È proprio per questo che il concetto di monarchia nazionale è fuorviante, in quanto essendo composite, difficilmente veniva fuori l’idea di nazione. L’idea di nazione è tipicamente ottocentesca ed è bene riservarla ai fenomeni del XIX e del XX secolo, lo stesso concetto di Patria veniva impiegato in riferimento alla città d’origine ma non allo Stato d’appartenenza, oggi è quindi meglio utilizzare la categoria di Stato territoriale per definire quegli Stati. Per mantenere e sviluppare uno Stato territoriale, in età moderna erano necessarie sei condizioni. Una buona disponibilità di risorse economiche sfruttabili, in questo caso fu fondamentale la scoperta del Nuovo mondo, soprattutto per quanto riguarda la Monarchia spagnola, una posizione geografica protetta e garantita dalla presenza di confini naturali, l’Inghilterra dal mare e la Francia a sud-ovest dai Pirenei e ad est della Valle del Reno, una successione ininterrotta di abili statisti, fossero essi sovrani come nel caso di Elisabetta I Tudor o Maria Teresa d’Austria o di ministri forti come il Duca di Olivares e il Cardinale Richelieu, il successo in guerra è inoltre un fattore importantissimo, in quanto porta prestigio , l’omogeneità della 20 dipendevano tutti gli altri tribunali. Il sistema giudiziario inglese quindi, sebbene complicato era probabilmente il più efficace. Bisogna ricordare come inoltre i sistemi penali dell’antico regime si fondavano sul metodo inquisitorio o accusatorio che prevedeva tre figure, l’accusatore, che portava in giudizio un reo esibendo le prove della sua colpa, l’accusato, al quale spettava il diritto di difesa, e il giudice, figura terza al quale spettava il giudizio finale. In tutti i tribunali d’antico regime i processi non erano pubblici ma privati, con testimoni ed imputati che venivano interrogati separatamente. 2. La fiscalità in età moderna: verso il monopolio del prelievo Con la parola fisco si indicava in età romana la cassa privata dell’Imperatore, distinta dall’aerarium, ossia la cassa dello Stato, destinata a finanziare esercito e opere pubbliche. Successivamente, il termine è venuto a connotare lo Stato ed in particolare un sistema di prelievo esercitato sui sudditi, al punto che l’attributo fiscale indica tutto ciò che riguarda lo Stato nel suo complesso. Oggi è solo lo Stato ad avere il monopolio del prelievo, mentre in antico regime i soggetti del prelievo erano maggiori, oltre al sovrano i vari signori feudali, feudatari, le città, le Corporazioni ecc. In molti casi un suddito doveva versare tributi a diversi enti. Fin dal tardo Medioevo uno degli elementi che caratterizzavano la maggiore o minore autonomia delle amministrazioni cittadine, rispetto al potere del principe territoriale, era l’estimo, ossia la capacità di determinare l’entità del prelievo fiscale da imporre ai propri cittadini o estimati. Erano presenti due modi diversi di effettuare il prelievo, la tassazione diretta, cioè il prelievo del fisco, e la tassazione indiretta, ossia il prelievo del fisco di una quota del prezzo di un prodotto. Le forme utilizzate per attuare il prelievo erano: l’imposizione diretta mediante tributi e tasse imposte dal sovrano ai sudditi, seguivano poi le tassazioni indirette sui consumi, come le imposte sul grano, sul pane, sul vino, pagate da tutti in modo uguale, e ancora i dazi, i pedaggi e le gabelle, ossia tributi di origine comunale imposti sui beni importati, un altro modo di ricavare denaro dai sudditi era la vendita di beni della corona, pagati acaro prezzo da nobili e ricchi borghesi interessati a mettersi in vetrina. 3. Fermes e appalti I contributi erano oggetto di periodica contrattazione tra il sovrano ed il rappresentante dei ceti. Con l’aumento delle spese militari, di corte e per il mantenimento dell’apparato statale, i sovrani cercarono sempre più spesso modi per svincolarsi dal controllo degli organi rappresentativi. Dovendo raccogliere denaro con urgenza i sovrani stipulavano dei contratti con singoli finanzieri che anticipavano loro la somma di denaro necessaria ad armare un esercito o una flotta, ottenendo in cambio una serie di concessioni quali rendita fissa in denaro in denaro sui beni demaniali, il diritto di sfruttamento dei beni del sovrano e la concessione di alcuni monopoli, in questo modo nella maggior parte dei casi il prelievo fiscale veniva esercitato dai privati. Gran parte delle rivolte di metà 600 sono qualificate come rivolte fiscali in quanto furono determinate dall’aggravarsi del peso del fisco sulla popolazione. Luogo comune della modernità fu proprio il vedere sovrano come non responsabile delle malversazioni del fisco, ma gli esattori, situazione che i sovrani gestivano a proprio vantaggio. Possiamo prendere in considerazione il caso francese per capire al meglio questa situazione. In Francia infatti, gli élus, cioè gli eletti, diventano tra 1400 e 1500, funzionari del fisco regio, per evitare gli abusi i generali delle finanze sottoposero gli élus al controllo degli Intendenti, commissari provinciali dipendenti dal sovrano. 4. Fisco e conflitti sociali 21 Se la nobiltà ed il clero godevano del privilegio dell’esenzione fiscale ed i contadini più poveri non potevano essere spremuti più di tanto, erano i ceti medi a essere gravati particolarmente. Il tratto comune nelle rivolte nelle monarchie europee di metà 600 lo possiamo trovare proprio nell’opposizione alla crescente pressione fiscale causata dall’aumento delle spese per il mantenimento delle corti e dai costi di lunghe guerre continentali. Le plebi urbane furono protagoniste di episodi insurrezionali assaltando ville e castelli ma furono ceti borghesi e strati nobiliari a sfruttare la situazione contrattando ulteriori privilegi, è inoltre interessante citare ad esempio il caso di Napoli, e della rivolta capeggiata da Masaniello contro l’insurrezione spagnola, ebbe origine dal furore popolare contro la gabella sul sale. Superata la crisi di metà 600, nella seconda metà del secolo in molti Stati europei vengono elaborati progetti di riforma del fisco volti a razionalizzare un sistema sperequato. 5. Le riforme fiscali e i catasti Il cardine delle riforme settecentesche è il catasto, strumento essenziale di conoscenza per ogni intervento fiscale. Il catasto può essere definito come un sistema di schedatura il più completo possibile dei beni immobili posseduti dai contribuenti e finalizzato alla ripartizione del carico fiscale sulla base della quota della proprietà immobiliare posseduta da qualcuno. Un catasto è costituito da una serie di mappe sul territorio dello Stato con la descrizione delle singole proprietà, da una serie di registri, periodicamente aggiornati, con l’indicazione del nome dei proprietari di ogni lotto di terreno. Ricerche storiche hanno dimostrato che la prima comparsa del catasto fu nei territori della Repubblica di Firenze, per poi essere abbandonata. I principali scopi che si prefiggeva il catasto erano la conoscenza precisa dei redditi reali dei soggetti tassabili, l’estensione del peso delle imposte dirette sui ceti privilegiati che avevano sempre goduto di esenzioni fiscali, la tassazione dei ceti privilegiati, una tassazione più equa dei beni dei ceti non privilegiati. Per realizzare e mantenere un catasto erano necessarie quattro condizioni: una forte volontà politica da parte del sovrano e degli uomini di governo al suo servizio, mezzi finanziari considerevoli, notevoli competenze tecniche, da formare come agronomi, geometri, contabili, la collaborazione dei soggetti tassabili e in primo luogo dei ceti privilegiati. I catasti sono dunque uno strumento essenziale per realizzare qualsiasi politica fiscale e al tempo stesso una fonte di informazioni economiche per gli storici, nella maggior parte dei casi la realizzazione dei catasti veniva ostacolata dalla resistenza dei ceti privilegiati che temevano l’aumento del peso fiscale a suo carico. Le riforme più significative in materia fiscale furono avviate nella Lombardia austriaca sotto il regno di Maria Teresa d’Asburgo, la riforma del catasto teresiano sarebbe stata apprezzata anche all’estero, ma solo vincendo gli interessi dei ceti privilegiati e le resistenze locali l’opera avrebbe potuto essere messa in pratica. Nel 1765 si sarebbe avviata la riforma della ferma, ponendo per la prima volta gli appaltatori delle tasse sotto il controllo di una commissione di governo presieduta dall’’illuminista Pietro Verri, nel 1770 infine sarebbe arrivata l’abolizione della Ferma sottraendo agli appaltatori il compito di provvedere al prelievo fiscale ed affidandolo alle mani di funzionari alle dirette dipendenze dello Stato, in questo modo i soldi prelevati dal fisco sarebbero entrati direttamente nelle casse dello Stato. La guerra e gli eserciti 1. Dalle milizie feudali agli eserciti permanenti 22 La categoria di rivoluzione militare come categoria per comprendere la modernità a partire dalle profonde trasformazione in atto nel modo di fare guerra fra 500 e 600, con la nascita della polvere da sparo. Successivamente il concetto di rivoluzione militare lo si è studiato individuando sette fattori chiave di trasformazione:  Una trasformazione organica segnata dal passaggio dagli eserciti temporanei a quelli permanenti.  Una trasformazione tattica che vede prevalere la fanteria sulla cavalleria, dopo l’introduzione delle armi da fuoco.  Un mutamento strategico derivante dalla necessità di retribuire, alimentare e spostare sul territorio masse crescenti di uomini.  L’accresciuta importanza del militare in seno alla società, soprattutto in rapporto allo Stato e alla finanza  Il ruolo della tecnologia applicata alla guerra.  La funzione dell’architettura militare in grado di ridisegnare il volto delle città fortificate.  Il nuovo ruolo della marina militare, decisivo nell’espansione coloniale delle grandi potenze europee. Il primo problema da affrontare è relativo alla trasformazione degli eserciti da feudali a professionali. Nella maggior parte dei paesi europei, tra XV e XVI gli eserciti mutano la propria natura diventando dei gruppi organizzati e gerarchizzati di guerrieri, e assume un ruolo più importante la fanteria, a discapito della cavalleria, tipicamente composta da nobili armati a proprie spese. I picchieri già dal 1400 cominciano a sostituirla fanteria leggera e i soldati mercenari sostituiscono le milizie volontarie. Il modello degli eserciti interarmi, ossia composto da vari gruppi specializzati, si afferma come soluzione efficace ma più costosa, in quanto i professionisti della guerra vanno retribuiti. Il testimone più efficace di tale trasformazione è Niccolò Machiavelli, tra l’altro autore nel 1521 del celebre trattato sull’Arte della guerra nel discute l’alternativa tra milizie cittadine di tradizione repubblicana e le compagnie mercenarie di quella signorile. Da un lato egli rimpiange le milizie cittadine composte da cittadini in armi, mobilitati in difesa della propria città, ma riconosce anche la loro inadeguatezza di fronte ai progressi nell’arte della guerra, solo queste compagnie specializzate potranno rispondere all’esigenza di queste guerre europee durature. Lo stesso Machiavelli sembra non cogliere le trasformazioni in atto dopo l’introduzione delle armi da fuoco. La lunga stagione delle guerre d’Italia, fra il 1494 e il 1530, si svolge in una fase di transizione da una modalità bellica all’altra e ciò spiega anche il carattere incerto dell’esito di molte campagne di guerra, alcune si svolgono all’insegna del carattere medievale venendo decise dalla cavalleria, altre invece da picchieri e fanteria. Emblematica è la battaglia di Governolo, dove Giovanni de’ Medici, comandante delle “Banda nere”, al servizio di Papa Leone X, e padre del futuro granduca di Toscana Cosimo I, venne ucciso da una palla di cannone. La guerra nelle Fiandre, per citare un altro esempio, che vede la più importante potenza del secolo, la Spagna combattere contro gli indipendentisti olandesi, vede i contendenti all’avanguardia nell’adottare nuove tecnologie e nuove architetture militari, qui si provvede per la prima volta al sostentamento dei reduci, alla costruzione delle prime caserme. Viene inoltre predisposta da parte degli spagnoli un corridoio militare che consentisse un itinerario per il rifornimento delle truppe. Per quanto concerne 25 viene utilizzata in avanscoperta, nascono quindi i corpi dei dragoni francesi, degli ussari. Fra il 1792 e 1814, successivamente alla Rivoluzione francese, Napoleone riesce a mobilitare fino a 800.000 uomini, il doppio rispetto al più grande esercito di antico regime. La Grande Armée napoleonica è fondata sulla selezione meritocratica degli ufficiali, riesce a far scendere il nemico sempre in campo aperto. Povertà, criminalità e controllo sociale 1. Il pauperismo Con il termine pauperismo gli storici indicano un fenomeno di massa a cui si assiste a partire dal 1500 e che vede una grande quantità di poveri, disoccupati e vagabondi spostarsi dalle campagne verso le maggiori città europee. Sebbene la miseria fosse sempre esistita, soprattutto nelle campagne, solo occasionalmente, aveva generato situazioni di grave tensione sociale. A partire dagli inizi dell’età moderna invece il pauperismo diviene una delle principali piaghe sociali connesso all’aumento della popolazione, con conseguente pressione demografica sulle campagne le cui risorse non bastano a sfamare tutti, all’aumento dei prezzi, a causa dell’afflusso di metalli preziosi dall’America, con conseguente riduzione del valore reale della moneta, riduzione dei salari e aumento della miseria, all’eccesso di manodopera con conseguente crollo della domanda di lavoro e della disoccupazione di massa, e a causa dell’avvio in Inghilterra di una trasformazione agraria in senso capitalistico e con concentrazione della proprietà nei confronti dei pochi. La struttura stessa dell’economia agraria di antico regime genera povertà in quanto la campagna espelle molto più facilmente la manodopera che si riversa in città dove comunque la richiesta di lavoro è pur sempre differenziata. Il risultato strutturale è la crisi della piccola proprietà contadina e la crescita di una massa di poveri concentrata nelle città, questo perché, sebbene in città le opportunità di lavoro siano maggiori, manca quella solidarietà presente nelle comunità di campagna che assicura la vita anche ai più poveri, inoltre nelle città la presenza di vincoli corporativi tende a respingere gli esterni. Il luogo d’origine del Pauperismo è quindi la campagna ma si manifesta maggiormente nelle città. Secondo alcuni, il povero è chi non possiede una rendita ed è costretto a lavorare per vivere. Quindi una grande fetta della popolazione urbana è da annoverare tra i poveri. La loro presenza è sicuramente considerevole, davanti ad ogni chiesa soggiornavano poveri e invalidi alla ricerca di carità. Lo storico francese Gutton, pioniere degli studi sul pauperismo, ha per primo delineato una tipologia di povertà distinguendo tra poveri strutturali e poveri congiunturali. Nella prima categoria rientrano i poveri impossibilitati ad uscire dalla loro condizione di povertà perché non in grado di lavorare, quindi rientrano vecchi, malati, vedove. La seconda categoria vede rientrare tutte quelle persone spinte verso la povertà dalla crisi, ma capaci di risollevarsi nei momenti di benessere. Prendendo in esame la povertà urbana del 1500-1600, possiamo vedere come poveri sono una quota che varia dal 75% al 90% della popolazione, a sua volta divisa in poveri non indigenti tra il 50 e il 70%, composta da artigiani, piccoli impiegati ecc, collocati sotto la soglia minima di sussistenza, una seconda fascia pari al 20% di poveri occasionali, composta da salariati, disoccupati, lavoratori occasionali ecc, ed un ultima fascia composta dai poveri strutturali oscillanti fra il 4 e l’8%, composta da anziani, disabili, malati ecc. La povertà è un concetto relativo e variabile dipendente anche dalla soglia di povertà. Oggi in un paese africano si può parlare di povertà assoluta, cioè chi muore di fame e non possiede nulla, 26 mentre in Italia di povertà relativa, ossia chi pur possedendo varie cose ha una famiglia da mantenere, non ha un lavoro stabile ed è costretto spesso ad indebitarsi. Tornando all’età moderna si può distinguere una quota di poveri oscillante fra il 90 e il 100% della popolazione rurale, a sua volta divisa in una prima fascia di povertà fluttuante dal 20 al 60%, composta da emigrati stagionali, lavoratori salariati, una seconda fascia di povertà ricorrente variabile dal 30 al 40%, soggetta alle carestie temporanee, a cicli stagionali, una terza fascia di poveri occasionali, pari ad un altro 30-40% della popolazione, soggetta a cadere sotto la soglia minima di sussistenza, un’ultima fascia del 10% di povertà strutturale, composta da mendicanti, inabili, vagabondi. Bisogna comunque sempre tenere a mente che in campagna il povero è nella comunità, mai ai margini. 2. Uomini senza padrone Oggi gli storici utilizzano l’espressione marginale per indicare gli individui o i gruppi che per varie ragioni si collocano ai margini della società, mentre utilizzano la definizione di emarginati per indicare quelli espulsi o respinti ai margini. Entrambi i concetti implicano una concezione della società con un centro e con un margine e con regole condivise dalla maggioranza. Si possono dunque individuare forme di marginalità o di emarginazione. A livello economico, considerando chi non partecipa al processo produttivo o ne viene escluso. A livello sociale, chi non rispetta le regole. A livello spaziale, chi viola le regole dell’habitat o non vi partecipa. A livello culturale, considerando chi non condivide valori dominanti o prevalenti nel gruppo di appartenenza. In antico regime ai marginali veniva attribuito il marchio d’infamia, come agli ebrei, ai delinquenti, alle prostitute, ai vagabondi. La condizione di marginale viene facilmente attribuita dai poteri dominanti a quanti non rispettano le regole sociali ed i valori condivisi dalla maggioranza. Quindi la marginalità può verificarsi su due piani distinti, quello dell’assenza e quello del rifiuto. Nel primo caso si sancisce l’assenza di certi legami che la società ritiene normali, come l’assenza di una famiglia, di un credo religioso, di un vicinato. Nel secondo caso si sancisce il rifiuto di quei legami e di quelle regole, considerato come volontà di rompere con la società. In antico regime la diffidenza nei confronti dei forestieri o di chi apparteneva ad una minoranza etnica o religiosa generava sentimenti xenofobi. È il caso degli zingari o delle donne ritenute streghe. Ecco perché il vagabondaggio è la marginalità per eccellenza, sarà la legislazione napoleonica a definire il vagabondaggio come colui nella cui borsa non sono presenti le minime risorse personali, la mancanza di dimora fissa, quindi, non è ancora considerabile come elemento discriminante per un vagabondo. I vagabondi sono quindi uomini senza padrone e viaggiatori senza itinerario. 3. Il povero: da “immagine di Cristo” a delinquente potenziale Uno dei capisaldi della dottrina cristiana fino alla fine del 1400 era l’idea che i poveri fossero l’immagine di Cristo sofferente e che per questo dovessero essere aiutati. Per la Chiesa l’esistenza dei poveri era stata tollerata da Dio così che i ricchi peccatori potessero acquistare meriti attraverso la pratica della carità cristiana. Donare ai poveri significava farsi perdonare per altri peccati e riscattarsi agli occhi di Dio e della società. Il ricco generoso era degno della gratitudine e della fedeltà di chi aveva avuto benefici, quindi facendo carità il nobile acquisiva consensi e rafforzava la sua posizione di preminenza sociale. I successivi passaggi dalla carità alla beneficenza 27 e quindi all’assistenza sono la conseguenza di una desacralizzazione del povero, raffigurato come ozioso e come elemento potenzialmente pericoloso. Non è dunque il singolo a farsi carico della responsabilità, ma sono le istituzioni benefiche a dover raccogliere il contributo dei fedeli per poi destinarlo ai poveri. L’ulteriore passaggio dalla beneficenza all’assistenza prevede che non siano solo le istituzioni religiose a doversene occupare ma istituzioni pubbliche appositamente create. Solo con la fine del 1700 si comincia a parlare dell’assistenza come di un diritto del cittadino. Possiamo quindi dire che la carità individuale è richiesta, che la beneficenza organizzata è concessa e che l’assistenza istituzionalizzata è assicurata. L’immagine del povero cambia quindi con il manifestarsi del pauperismo, come fenomeno di massa non più controllabile, sul piano dottrinale ha inciso la Riforma protestante con il principio luterano della “giustificazione per sola fede”, in base al quale il credente non deve cercare il favore di Dio compiendo opere di bene per salvarsi l’anima ma deve solo confidare nella buona fede e nel perdono gratuito da parte di Dio. Abolendo il Purgatorio Lutero consegna alla coscienza del cristiano la possibilità di salvezza eterna. Di conseguenza in Europa la mendicità viene bandita ed in molti casi la carità individuale vietata, lasciando agli istituti benefici il compito di provvedere ai poveri, il mendicante che non si rivolge a loro ma chiede la carità individualmente te è considerato ozioso e vagabondo. La distinzione inoltre tra povero locale e povero forestiero derivava dalle licenze di mendicità, per ottenere le quali il bisognoso doveva portare l’attestato di povertà e il certificato di battesimo, rilasciati dal parroco. La reclusione era per la Chiesa la sola risposta possibile e la povertà si doveva dichiarare bandita in presenza di pubblici istituti dedicati al soccorso dei poveri. Che il popolo fosse composto comunque da elementi buoni e meno buoni era un’idea sollecitata da alcuni illuministi quali Voltaire, il quale, pur manifestando un istintivo disprezzo per il popolaccio, era ben cosciente delle trasformazioni in atto nella società europea e della differenza tra proletariato e un’aristocrazia operaia e artigiana. Altrettanto consapevole era l’abate illuminista Antonio Genovesi che imputava alla pigrizia e all’ignoranza di quelle popolazioni contadine il degrado dei colli dell’entroterra napoletano, ma non gli sfuggiva la necessità di un intervento diretto del governo per risolvere la situazione di degrado. In ogni caso entrambi imputavano la colpa a chi non sapeva uscire dal proprio stato di ozio o di ignoranza, mentre il lavoro viene assunto come valore etico capace di riscattare le persone dalla miseria. Inoltre possiamo tranquillamente osservare come le origini della classe operaia inglese le troviamo nella modernità, in quanto sta proprio nei lavoratori a domicilio come sarti, calzolai, sellai, librai, muratori, l’anticipazione di molte idee del movimento operaio. 4. Le istituzioni per i poveri: assistere e recludere Nel corso dell’età moderna si assiste a diverse ondate migratorie dalle campagne alle città. La prima e più significativa si colloca tra il 1523 e il 1529, in corrispondenza con una crisi agraria che coincide con la prima fase delle guerre di religione. Nel 1522 a Norimberga viene per la prima volta deliberata la centralizzazione dell’assistenza ai poveri, l’anno successivo analogo provvedimento è adottato a Strasburgo in Alsazia, divieto assoluto per la mendicità, organizzazione pubblica dell’assistenza, istituzione di case di lavoro con fondi comuni. La laicizzazione dell’assistenza diventa un tratto comune dei paesi cattolici e di quelli protestanti, in molti casi vengono utilizzati per rinchiudere i poveri i cosiddetti lazzaretti, ampie recinzioni costruite all’esterno delle mura per ricoverare gli ammalati contagiosi. Nell’Italia settentrionale nel 1500 assistiamo alla fondazione di 30 vita, battesimo, matrimonio e sepoltura. La figura del parroco riveste un’importanza particolare in quanto in essa si concentrano una serie di funzioni diverse, sia religiose che civili, in quanto rappresentava un mediatore tra la società contadina e il sistema di poteri di cui la Chiesa fa parte, egli è innanzitutto l’amministratore dei sacramenti e della liturgia, ma è anche confessore e quindi potenzialmente al corrente dei segreti dei parrocchiani, è il mediatore dei conflitti famigliari e sociali del villaggio ed è inoltre un ufficiale di stato civile, e nella maggior parte dei casi l’unica persona del villaggio alfabetizzata. Il concilio di Trento per la prima volta definisce i doveri del parroco imponendo quindi un nuovo modello di sacerdote, residente nella parrocchia ed impegnato nella cura delle anime, in modo da colpire gli abusi e spezzare i legami che legavano i parroci alle comunità, la comunità era infatti disposta a perdonare i peccati dei parroci a patto che loro perdonassero quelli della comunità stessa, inoltre loro dovettero disciplinarsi evitando anche il concubinato con le donne, molto frequente prima del Concilio. Lentamente quindi il parroco avrebbe cominciato a distinguersi dalla comunità di appartenenza. Il controllo sui parroci si effettuava anche attraverso periodiche visite pastorali che ogni vescovo teneva nella sua diocesi, la visita del vescovo rappresentava il momento della stesura di una relazione, scritta in base agli archivi della parrocchia e attraverso informazioni che quest’ultimo o i suoi rappresentanti avrebbero voluto controllare. La diffusione dei manuali per confessori ci fornisce quindi un’idea del modello di comportamento che i buoni cristiani dovevano tenere. Ordinati al loro interno per stati d’animo, mestieri e pratiche peccaminose possiamo notare come con il tempo le trasgressioni sessuali cominciano a prendere il sopravvento. 4. La Chiesa come carriera Fino alla metà del 1400 l’autorità della Chiesa cattolica si era retta soprattutto sull’autorità dei Concili, cioè l’assemblea dei vescovi, che non sull’autorità dei Papi. Col tempo però l’autorità dei Papi va comincia a rinforzarsi, fino a diventare quasi il sovrano assoluto della Chiesa, tanto da prendersi il compito di riordinare le finanze pontificie e di contrastare le feudalità minori come quella dei Montefeltro, duchi di Urbino, sconfitti da Cesare Borgia nel 1503, in particolare Giulio II della Rovere, che preferiva farsi ritrarre con la corazza che con la tiara pontificia, riconquistò città come Ravenna, Faenza, Bologna e Perugia. Papi come Callisto III e Alessandro VI Borgia, Leone X non sono certo figure di alta spiritualità, ma sono grandi uomini di Stato interessati soprattutto a favorire interessi famigliari e territoriali. All’interno della Chiesa infatti, dominava l’alto Clero italiano per lo più nepotista e legato alle fazioni nobiliari e dinastiche che prevedevano la presenza di un rappresentante della Curia per ogni grande famiglia nobile della penisola. Fino al Concilio di Trento si poteva essere vescovi non titolati, e quindi godere delle rendite di una diocesi senza avere cura d’anime. Nonostante il Concilio di Trento avesse riportato un po’ di fede all’interno della Chiesa, dal 1600 furono gli interessi famigliari a governare la Chiesa di Roma, ci rendiamo quindi conto che ai tempi la carriera ecclesiastica era anch’essa una carriera subordinata all’ambizione e al potere, essa poteva rappresentare per il figlio cadetto di una famiglia nobiliare una carriera importante e con molta possibilità di guadagno. I legami famigliari comunque continuarono ad essere molto importanti, considerato che chi aveva legami di famiglia con vescovi, cardinali o papi, raggiungeva i vertici velocemente e in giovane età. 5. Differenze religiose 31 È bene ricordare che l’Europa cristiana non si identifica con l’Europa cattolica, già divisa dal 1054 fra Chiesa cattolica di rito latino e Chiesa ortodossa di rito greco, l’Europa cristiana si spacca ulteriormente con la crisi religiosa del 1500, contemporaneamente con la cacciata dei musulmani dalla Spagna del 1492 si sancisce anche la frattura con le minoranze religiose. Si apre quindi la stagione dell’intolleranza. Nell’Europa cattolica le minoranze religiose sono aspramente perseguitate, negli stati tedeschi, dopo la Pace di Augusta del 1555, i sudditi sono costretti ad aderire alla religione del proprio principe, secondo il principio, cuius regio eius religio. Solo in Francia la monarchia accetta l’esistenza di più religioni e con l’editto di Nantes del 1598 stabilisce il principio della tolleranza religiosa, garantendo però il privilegio di religione di Stato alla Chiesa cattolica, nell’Europa protestante le minoranze cattoliche vengono per lo più tollerate, ma in alcuni casi perseguitate, come nel caso dell’Inghilterra di Elisabetta I, che arrivò a condannare a morte la cugina, regina di Scozia, Maria Stuart, accusata di essere all’origine del complotto contro Elisabetta. Gli ebrei perseguitati dalla ed espulsi da Spagna e Portogallo sono invece rinchiusi nei ghetti e controllati dalle autorità di polizia, i musulmani sono costretti alla conversione o vengono espulsi dalla Spagna per poi essere perseguitati, a loro fu dato l’appellativo di moriscos, a chi invece si convertì solo apparentemente, fu dato l’appellativo di marranos. Si è sostenuto da più parti che il Protestantesimo abbia meglio interpretato la modernità rispetto al cattolicesimo, da sempre oppostosi a grandi mutamenti, di sicuro il mondo protestante favorì la formazione di un universo mentale caratterizzato da soggettività e senso di responsabilità. Il mondo protestante ad esempio non conosce conventi o ordini religiosi, ma da pastori e dalle loro famiglie, laicamente inseriti nella modernità. Per l’uomo protestante il senso del peccato è presente solo nel suo rapporto con Dio, non con la Chiesa o i suoi sacerdoti, la confessione non esiste e i peccati sono riferiti direttamente a Dio, il mondo protestante non conosce ne il culto dei santi ne quello mariano, l’arte si connota in senso profano e l’arte sacra è fortemente svalutata. La stessa riforma nasce dalla coscienza del carattere ineliminabile del peccato e dell’impossibilità da parte dell’uomo di liberarsene se non affidandosi a Dio. 6. La diaspora ebraica Dagli inizi del 1500 l’Europa deve far i conti anche con il mondo ebraico. Con la cacciata degli ebrei dalla Spagna ha inizio un periodo di intolleranza nei confronti degli ebrei che culminerà poi con le leggi razziali in Germania e Italia. La storia dell’Europa moderna è la storia dell’antisemitismo che Ha fatto degli ebrei le vittime preferite di ogni persecuzione. Parlando degli ebrei dobbiamo comunque innanzitutto distinguerli in due grandi famiglie, i Sefarditi e gli Askenaziti. I Sefarditi sono gli ebrei occidentali e del mondo mediterraneo originari della Spagna e del Portogallo, e presenti in Italia, Egitto e Medi oriente, prendono il nome dalla biblica terra di Serafad, identificata con la Spagna, luogo di esilio degli ebrei di Gerusalemme cacciati da Tito nel 70 d.C. e per questo si ritengono gli ebrei più antichi con una forte coscienza di élite. Gli askenaziti sono invece gli ebrei dell’Europa centro-orientale, originari della Germania e presenti in Ungheria, Polonia, Lettonia, Russia. Ashkenaz era infatti il nome della Germania in ebraico medievale. Un gruppo a parte sono gli ebrei del sultano, presenti in Nordafrica fin dal medioevo. In seguito al bando di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona tra i 70.000 e i 100.000 ebrei emigrarono dalla Spagna e tra i 50.000 e i 70.000 si convertirono al Cristianesimo prendendo il nome di nuovi cristiani. Un ruolo importante nel soccorso agli ebrei espulsi fu svolto dal sovrano turco Bayezid che inviò sulle coste 32 spagnole una piccola flotta comandata da Kemal rais, che portò in salvo quanti più ebrei possibili ai quali venne concesso di stabilirsi nei territori dell’Impero Ottomano senza pagare le tasse per 15 anni, queste comunità ebraiche furono molto fiorenti e portarono vantaggi economici sul piano commerciale. In tutto l’Impero ottomano gli ebrei sono tollerati e accettati e svolgono funzioni amministrativi, e diversamente dall’Europa cattolica godono di libertà di culto, di movimento, possono esercitare ogni mestiere e possedere proprietà, l’unico obbligo è quello di portare segni distintivi, di pagare forti tasse a garanzia della protezione, inoltre è loro proibito portare armi, montare a cavallo e sposarsi con i musulmani. Diversamente dal mondo islamico in Spagna i nuovi cristiani vengono ben presto perseguitati ed emarginati. Nel 1536 Carlo V approva gli statuti spagnoli sulla limpieza de sangre, purezza di sangue, che colpiscono chi non dimostra di avere sangue cristiano da almeno quattro generazioni. Fra 1400 e 1500 l’Italia accoglie molti ebrei provenienti da Spagna e Germania, che crescono fino a formare un’élite di mercanti e banchieri. Sulla spinta della diaspora si formano comunità ebraiche concentrate in Italia a Venezia, Ferrara, Padova e Verona, ma soprattutto in alcune grandi città commerciali come Amsterdam, Amburgo, Praga, Strasburgo, Varsavia e Cracovia. 7. Convertiti, rinnegati e “cristiani di Allah” Per quanto riguarda i cosiddetti Cristiani di Allah, tra 1500 e 1600 gran parte dei comandati delle navi corsare nel Mediterraneo erano dei rinnegati, in origine calabresi, siciliani, sardi, pugliesi, toscani o genovesi, catturati dai corsari e convertiti all’Islam, loro avevano trovato nella società ottomano una possibilità di riscatto che mai l’Occidente avrebbe offerto loro. Uno di loro, noto in Italia come Occhialì, ma in realtà Ulugh Alì, era un semplice mozzo calabrese catturato e convertito all’Islam, che finì per comandare un’unità di flotta turca nella Battaglia di Lepanto del 1571. Un’altra affascinante storia è quella di Kayreddin, noto in Italia come il Barbarossa, comandante corsaro e poi grande ammiraglio dell’Impero Ottomano, che convertitosi all’Islam, dove ottiene la protezione del sovrano in cambio di una decimo del bottino catturato sulle navi cristiane. In pochi anni accumula una grande fortuna, finché nel 1513 si impadronisce di Algeri, cacciando gli spagnoli e divenendo governatore. Nel 1533 Solimano il Magnifico lo nomina Kapudàn pascià, ossia comandante in campo di tutte le flotte ottomane, quasi leggendaria è il suo bombardamento alla fortezza pontificia di Gaeta, seguito dal fallito rapimento della principessa Giulia Gonzaga da offrire in dono al sultano, fino ad arrivare a minacciare direttamente Roma. Di ritorno a Istanbul viene accolto come un eroe, ricevendo diversi doni dal sultano fra cui un magnifico palazzo sul Bosforo. L’Islam si rivela quindi un veicolo di ascesa sociale, a differenza del cristianesimo che non permetteva alcuna possibilità di riscatto. Una delle vicende più importanti è quella di Leone l’africano, prigioniero di un pirata spagnolo donato al papa Leone X de’ Medici, si tratta di un importante diplomatico battezzato cristiano con il nome di Giovanni Leone in onore del papa che ottiene la protezione di quest’ultimo, occupandosi anche della traduzione della Bibbia in arabo. Il suo è l’esempio di come un uomo proveniente da un altro mondo riesce a trasformarsi in mediatore culturale e a superare le differenze tra confessioni religiose. Figure e spazi della cultura Gli intellettuali solo dalla fine del 1800 sono stati identificati con questo nome, è solo dalla fine del 1600 che si inizia a far riferimento a uomini di cultura impiegando termini come dotti o intellettuali 35 si afferma come componente essenziale del frontespizio. In assenza di diritti d’autore, qualunque stampatore poteva stampare le opere di chiunque, è solo con l’introduzione della privativa che si incomincia ad affermare la proprietà letteraria dell’autore, diritto istituzionalizzato nel 1710 in Inghilterra con il copyright, ossia il diritto d’autore. Appare evidente che la rivoluzione inavvertita riguardò solo una minoranza della popolazione. Nelle campagne europee circolavano pochissimi libri e quei libri erano tipicamente religiosi. La lettura non era un fatto individuale ma collettivo. In ambienti dominati dall’analfabetismo si leggeva in Chiesa, in osteria, al mercato grazie alla presenza di una persona alfabetizzata, il possesso di un libro era considerato un elemento di distinzione sociale. Parlare di libri significa parlare anche del loro controllo, con l’introduzione della stampa, le autorità politiche e religiose si resero conto di quanto un libro fosse pericoloso, lo si sperimentò soprattutto con la Riforma Protestante e quindi con i libri di Lutero. La Chiesa cattolica intervenne ben presto per disciplinare la stampa, prevedendo il divieto di stampare ma anche di diffondere e possedere libri non autorizzati. Tra il 1544 e il 1555 vennero pubblicati cataloghi di opere proibite raccolti da Papa Paolo IV nell’Indice de libri proibiti, dove figuravano gli scritti di Lutero, Calvino, Ariosto, Machiavelli e successivamente di Bruno e Galilei. 4. La circolazione delle idee Chi studia la circolazione delle idee deve tener conto dei movimenti in verticale, ossia fra l’alto e il basso e in occidentale, ossia tra lo spazio e il tempo. Con l’invenzione della stampa e il miglioramento delle vie di comunicazione la circolazione delle idee si fa più intensa. Già nel 1500 le idee della Riforma circolano più velocemente di quanto non consentivano i tempi della loro ricezione. Nel secolo successivo saranno soprattutto i grandi centri di potere come la Chiesa a dominare l’informazione. Nel 1700 infine con la laicizzazione della cultura consentirà alle diverse espressioni dell’Illuminismo di penetrare anche negli stati intermedi della popolazione. Tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 comparvero in Europa numerosi periodici eruditi o scientifici che rappresentavano i primi veicoli di comunicazione del sapere. Si può dire che una comunità scientifica e intellettuale nacque proprio a partire dalle reti di abbonati. Accanto ai giornali si diffusero anche le gazzelle di notizie, attraverso di esse un pubblico assai vasto e meno selezionato di quello dei soli letterati e scienziati cominciò ad essere informato settimanalmente su quanto avveniva in ogni parte d’Europa. Non è un caso che il più celebre periodico italiano dell’età dei Lumi sia stato intitolato da Pietro Verri e da Cesare Beccaria “Il Caffè”, luogo di scambio e di socializzazione per eccellenza. Educazione e istruzione 1. Leggere, scrivere, far di conto Le società di antico regime erano dominate dall’analfabetismo, basti pensare che secondo ricerche che prendono in considerazione il periodo 1680-1700 oltre 4/5 dei sudditi francesi erano completamente analfabeti, con prevalenza di donne 86 % sugli uomini 71 %. A distanza di poco meno di un secolo la percentuale si abbassava di circa dieci punti il 76 % le donne e il 58 % gli uomini. L’oralità dominava sulla scrittura, ma la comunicazione era fatta anche di immagini, simboli, emblemi il cui significato oggi stentiamo a comprendere. Un nome o un titolo nobiliare poteva essere dipinto su uno scudo, l’appartenenza ad una Corporazione letta nell’abbigliamento. La storia dell’alfabetizzazione in età moderna dovrebbe tener conto anche dei vari linguaggi e 36 codici espressivi presenti nella società. Per quanto riguarda istruzione e alfabetismo bisogna ricordare che leggere, scrivere e far di conto erano tre abilità diverse che non si apprendevano nello stesso momento del processo educativo, ma costituivano in punto d’incontro di processi educativi separati. Chi era in grado di leggere per lo più non sapeva scrivere, chi sapeva scrivere difficilmente sapeva leggere, mentre la capacità di fare i conti era più che altro acquisita sul campo e non implicava saper leggere e scrivere. I luoghi dell’apprendimento erano solo raramente le scuole, spesso si apprendeva a leggere in famiglia o durante un viaggio, o durante il servizio militare. Nelle campagne poi la maggior parte delle famiglie considerava la scuola come un modo per sottrarre i giovani al lavoro e ne ostacolava quindi la frequenza. La pagina scritta non è mai stata letta allo stesso modo, la lettura silenziosa infatti è un acquisto della modernità, gli uomini del Medioevo leggevano ad alta voce. Ugualmente la scuola medievale e l’università inoltre incoraggiavano una lettura approfondita dei testi, incoraggiando a ritornare più volte sulle stesse pagine per capire il significato più profondo dei concetti espressi, la cosiddetta esegèsi, lettura che risultava particolarmente efficace per le Sacre Scritture, la lettura intensiva favoriva l’apprendimento mnemonico, addirittura si pensava che imparare a memoria un testo facesse bene alla salute. Solo con il 1700 inizia ad affermarsi un diverso tipo di lettura di tipo estensivo basato sulla capacità di scorrere, sfogliare, consultare testi per trattenere l’essenziale. 2. Alunni e insegnanti Parlare di studenti significa parlare di scuole e di maestri, va detto comunque che in antico regime le scuole erano presenti soprattutto nelle città mentre nei villaggi e nelle campagne erano poco diffuse, visto che le famiglie contadine non volevano togliere braccia al lavoro agricolo, ma che anche la Chiesa vedeva nell’istruzione dei ceti inferiori un potenziale pericolo e un incoraggiamento all’insubordinazione sociale. Solo nel 1700 una parte della popolazione rurale comincia ad accedere all’istruzione di base. Nella maggior parte dei villaggi di Germania, Francia e Inghilterra vengono create le scuole elementari a classe unica dove si poteva imparare a leggere e scrivere, altra cosa erano le scuole di matrice cristiana, finalizzate sia all’apprendimento della lettura e della scrittura, sia alla formazione di fedeli sudditi e buoni cristiani. I maestri di villaggio erano per lo più preti o parroci in quanto erano le uniche figure alfabetizzate, solo a partire dalla seconda metà del 1700 i maestri iniziavano ad avere una formazione professionale specifica. In Austria, Lombardia, Francia si richiedeva ai maestri elementari un diploma di abilitazione e il loro reclutamento avviene attraverso concorsi pubblici, il concorso è tipico del mondo cinese. All’istruzione elementare, non obbligatoria, accedevano in città i figli di artigiani e commercianti, oltre che i figli della piccola e media borghesia, gli alunni delle scuole avevano inoltre età diverse comprese tra i 6 e i 15 anni, l’apprendimento era essenzialmente mnemonico. Nelle scuole latine si apprendeva a leggere e scrivere in latino e in volgare, a cantare e fare esercizi di aritmetica, nelle scuole tedesche si imparava per lo più a leggere in volgare e far di conto e solo qualche volta anche a scrivere. Gli studenti più grandi godevano comunque di privilegi particolari, tra cui il diritto di viaggiare spostandosi da una città all’altra per proseguire gli studi, il diritto di non essere arrestati se non per delitti gravi o reati di sangue. Per frequentare la scuola gli studenti dovevano pagare una tassa corrispondente al vitto e alloggio presso un maestro ed in qualche caso potevano godere anche di una borsa di studio. L’apprendimento della lingua era principalmente fonetico e avveniva attraverso la ripetizione dei testi, la lingua di base era il latino, una volta appresa la 37 lettura si passava all’esercizio di scrittura che implicava abilità manuali e competenze tecniche non indifferenti, le regole grammaticale venivano apprese a memoria in quanto non era essenziale comprenderle, con l’invenzione della stampa vennero progressivamente introdotti i manuali di testo e le punizioni corporali erano invece all’ordine del giorno, e la verga utilizzata per indicare la lettera ma anche per colpire l’alunno divenne l’elemento distintivo dell’universo scolastico del tempo. 3. Collegi e università Per quanto riguarda l’istruzione dei figli dei ceti elevati erano affidate a precettori privati alle dipendenze della famiglia. Solo a partire dalla seconda metà del 1500 l’istruzione dei ceti elevati comincia a svolgersi all’interno di alcuni collegi, antenati dei nostri odierni licei. Il modello più celebre è quello della Compagnia di Gesù fondata nel 1550 dal prete Ignazio di Loyola e destinata ad imprimere un’impronta all’istruzione della nobiltà. In pochi anni i Gesuiti istituiscono collegi di istruzione superiore in quasi tutte le città più importanti definendo un programma di studi che nel 1599 sarà codificato nella Ratio studiorum, composta da tre classi di grammatica, due di filosofia, una di umane lettere e una di retorica e aperta a discipline quali la musica, il canto, la danza e il teatro, per la prima volta si realizza quindi un dettagliato programma di studi. Durante i sette anni di studio i ragazzi venivano allontanati dalle famiglie e inseriti in una comunità separata destinata a formare il carattere. Se le scuole di villaggio si affermano solo nel corso del 1700 e i collegi d’istruzione superiore nel 1500 le università hanno origine più antica ed erano in numero assai ridotto. Nell’Europa medievale le università erano costituite da tre Facoltà. Giurisprudenza, Teologia e Medicina, destinate alla formazione delle tre uniche professioni allora riconosciute. Nate quasi sempre come studi teologici e successivamente aperte all’insegnamento del diritto le più antiche università erano sempre sottoposte all’autorità religiosa e solo debolmente controllate dallo Stato. In Italia possiamo trovare università di diritto come Padova e Bologna, in Francia la Sorbona come scuola di Teologia, in Inghilterra troviamo la rivalità tra l’università di Oxford e quella di Cambridge. Va inoltre ricordato come nei paesi protestanti alle università venne attribuito il patrimonio derivante dalla soppressione dei monasteri e degli enti religiosi. Nelle università di antico regime studenti e dottori laureati avevano un ruolo molto importante tanto da essere considerati veri custodi delle università. Le singole facoltà erano governate da collegi dei dottori che nominavano i docenti, che presiedevano agli esami di laurea e percepivano le sportule (tasse) per esami e lauree. Il rettore era eletto fra gli studenti anziani e a lui spettava la sovraintendenza sulla vita dell’ateneo, da qui ha origine la tradizione del Pontifex Maximus, eletto fra gli studenti dell’Università di Bologna. Gli studenti retribuivano i docenti che si preoccupavano di alloggiare in casa propria e mantenere gli studenti iscritti ai corsi. Le lezioni prevedevano la dettatura dei trattati in latino, il commento dei testi degli autori, cioè le cosiddette glosse, l’apprendimento mnemonico dei testi, le dimostrazioni pratiche guidate dal docente, nel caso delle discipline mediche definiti come teatro anatomico, e infine le dispute fra studenti e maestri sul passo dell’autore nelle discipline teologiche, filosofiche e giuridiche. Al docente si affiancava spesso la figura del ripetitore, incaricato di far ripetere a memoria i testi agli studenti. Momento conclusivo del percorso di studi era la cosiddetta dissertazione finale, di matrice Corporativa, dove il candidato si presentava di fronte al Collegio dei dottori che gli ponevano di fronte un quesito, a
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved