Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

La società di antico regime Romagnani, Sintesi del corso di Storia Moderna

Sintesi libro La società di antico regime (XVI-XVIII secolo) Gian Paolo Romagnani

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 01/10/2020

simona-gallucci
simona-gallucci 🇮🇹

4.6

(27)

5 documenti

1 / 57

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica La società di antico regime Romagnani e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Cap.1: IL LAVORO DELLO STORICO STORIA E STORIOGRAFIA La parola “storia” è piuttosto ambigua e possiede molteplici significati. Con lo stesso vocabolo della lingua italiana indichiamo infatti: a) il concreto divenire degli eventi nel corso del tempo, ossia una realtà oggettiva; b) la storia così come è narrata e interpretata dagli uomini, ossia un prodotto soggettivo; c) un racconto. In italiano possiamo distinguere tra“storia” e “storiografia”. Il termine italiano “storia” deriva dal latino historia che a sua volta deriva dal greco antico historéin, traducibile come “osservare, cercare di sapere, informarsi, indagare”. La storia è in primo luogo storiografia. Qualsiasi approccio alla conoscenza storica è infatti veicolato inizialmente dai libri degli storici, noi non conosciamo nulla della storia che non sia passato attraverso il filtro dell’interpretazione e della narrazione di uno storico. Tre sono le principali forme e funzioni dell’attività storiografica: - ricordare - ammaestrare - spiegare La storiografia risponde pertanto ad un bisogno sociale fondamentale, presente in tutte le epoche e in tutte le civiltà: la ricerca di identità. L’identità è la ricerca della comune origine. La storiografia è una disciplina eminentemente sociale che ha come coordinate fondamentali lo spazio e il tempo. STORIA E MEMORIA Senza memoria un individuo non si riconosce più, si perde, è senza identità quindi ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a recuperarla raccontandogli chi è. Lo storico è testimone, o colui che può risalire alla memoria dei testimoni. Egli fornisce una lettura del passato, ma sempre in chiave soggettiva e suscettibile di essere smentita. Infatti la memoria è sempre selettiva. La trasmissione della memoria è per le società umane qualcosa di essenziale e necessario e può manifestarsi sia attraverso la storiografia, sia attraverso riti collettivi condivisi. Lo storico infatti 2 deve essere solo un interprete critico dei fatti. Il distacco è dunque necessario per poter formulare un giudizio storico. Secondo lo storico francese François Furet, lo storico doveva avvicinarsi sempre di più all’approccio scientifico, sforzandosi di costruire modelli interpretativi multidimensionali. Per convertirsi in scienza la storia avrebbe dovuto eliminare gli avvenimenti, o più esattamente ciò che per tanti storici ne costituiva l’aspetto più importante: il carattere singolare, unico, individuale. Lo storico quindi si limita a descrivere accadimenti particolari e limitati. Lo storico deve credere e far credere che ciò che dice è la verità, sapendo però che non si tratta mai di una verità assoluta e indiscutibile. LE FONTI Conoscere le società di antico regime significa conoscere quindi: a) le fonti b) la storiografia c) gli schemi di periodizzazione; d) i grandi dibattiti Partiamo dalle fonti. Spesso si impiegano i due vocaboli “fonte” e “documento” come se fossero sinonimi. In realtà non sono la stessa cosa. Il documento si definisce rispetto al passato, la fonte si definisce rispetto al futuro . Le fonti sono l’insieme di ciò che ci consente di capire qualcosa delle società del passato di cui ci interessiamo. Possono essere primarie osecondarie, possono essere manoscritte o a stampa ma possono essere anche oggetti o tracce presenti sul territorio,nella lingua, nelle tradizioni, nelle leggende, nella musica e nelle canzoni. Per lo storico le fonti sono l’oggetto principale della sua ricerca. La bibliografia invece è tutto ciò che è stato scritto sul problema di cui lo storico si occupa: è lo strumento principale della ricerca. Può distinguersi in bibliografia primaria e secondaria. Per svolgere bene il suo lavoro di ricerca lo storico dovrebbe conoscere, i risultati delle principali discipline che un tempo venivano definite “ausiliari della storia” ossia: la filologia, la codicologia, la paleografia, la diplomatica , la grafologia , l’epigrafia ecc. L’archivio è il luogo canonico della ricerca storica, luogo di conservazione dei documenti ed è quasi 5 6. La rivoluzione militare che trasforma completamente i modi di fare la guerra. CAP. 3: GLI SPAZI DELLA VITA E IL MONDO RURALE I QUADRI AMBIENTALI La campagna è lo spazio di vita della stragrande maggioranza della popolazione europea. Le campagne europee tra Cinque e Settecento sono caratterizzati dalla presenza di aree coltivate e di aree incolte. Le vie di comunicazione stradali e vie navigabili, sono limitate e i mezzi di trasporto sono lenti, scomodi e costosi. Per raggiungere qualsiasi metà bisognava percorrere molti chilometri a piedi, perdendo giorni interi in viaggio. Viaggiare è dunque un’impresa scomoda e in molti casi rischiosa. Raramente i contadini vivevano isolati, ma per lo più raggruppati in villaggi circondati da campi, prati e boschi. La maggior o minore dimensione delle case è legata alla struttura della famiglia e alle sue condizioni lavorative: casolari e fattorie più ampie anche isolate accolgono famiglie numerose, composte da diversi nuclei parentali. Le abitazioni sono costruite con legno, terra e paglia, pietra, raramente in muratura. L’unico combustibile impiegato per cucinare, per riscaldarsi e per lavorare è il legno. Gli indumenti sono prodotti in casa con sostanze animali o vegetale. Le finestre delle case contadine non hanno i vetri, ma solo gli scuri o assi di legno per proteggere dal freddo. La casa è dotata di un unico focolare, per lo più centrale senza camino, utilizzato per illuminare l’ambiente, per cucinare e per riscaldarsi. Gli armadi sono del tutto assenti. I letti sono per lo più sostituiti da pagliericci o sacchi riempiti di foglie secche o lana e solo nelle case dei contadini agiati. NASCERE E MORIRE In assenza di periodici rilevamenti statistici come i censimenti, possiamo basarci solo sugli archivi parrocchiali, presenti in tutte le parrocchie dell’Europa cattolica a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento. Gli archivi parrocchiali sono oggi considerati dagli storici una fonte importantissima per la storia demografica in quanto svolgono la funzione di una vera e propria anagrafe della 6 popolazione. Il fattore determinante per comprendere l’andamento demografico di un paese è dato dalla mortalità. La morte è fortemente condizionata da fattori sociali e ambientali. Un alto tasso di mortalità è per lo più indizio di miseria e di disagio sociale. In antico regime si moriva molto più frequentemente in giovane età e la stessa percezione della morte era assai diversa da quella attuale. Per certi aspetti era meno drammatica. Si moriva più frequentemente di malattia, in quanto la maggior parte delle malattie erano incurabili,si poteva morire a causa del clima, di fame, a causa delle guerre, per banali incidenti di lavoro, per le percosse subiti in famiglia dal marito o dai genitori (se bambini), per una accoltellata da un ubriaco o essere vittima di un’aggressione o in un duello (se nobili). Pochi raggiungevano indenni la vecchiaia e quei pochi erano oggetto di rispetto in quanto portatori di una memoria e di un’esperienza che non tutti possedevano. La natalità invece è più condizionata da fattori sociali e culturali. In antico regime si mettevano al mondo più figli, poiché i metodi di controllo delle nascite erano più rudimentali e meno efficaci di oggi. In genere si facevano i figli nelle società più povere ed arretrate perché erano considerati un investimento sul futuro; per reagire alla presenza della morte; per motivi religiosi, riconducibili alla dottrina cattolica; o perché mancavani contraccettivi efficaci. La famiglia di antico regime era basata, sulla gerarchia e la diseguaglianza dei suoi componenti: gli uomini dominavano sulle donne, i mariti sulle mogli e sui figli, gli anziani sui giovani. Fra i figli si definiva prestissimo una gerarchia d’età: il primogenito era l’erede del patrimonio famigliare, mentre i figli cadetti erano spesso destinati al celibato per consentire ai fratelli maggiori di godere dell’intero patrimonio; la figlia primogenita era destinata al matrimonio, mentre le altre figlie potevano essere destinate al nubilato o al convento. IL MONDO RURALE Il mondo rurale è un luogo di produzione di beni agricoli, destinati per la maggior parte all’autoconsumo, quindi dominato dalla terra e dai suoi prodotti. La terra appartiene in primo luogo al sovrano o al principe territoriale, ai nobili, ai proprietari terrieri liberi, o alla Chiesa. Solo in minima parte e in determinate 7 situazioni la terra appartiene ai contadini. La comunità rurale era costituita dalle famiglie che vivevano al centro di una data area coltivata. I componenti delle famiglie diminuivano in rapporto alla gerarchia sociale: i più ricchi avevano famiglie più numerose dei poveri. Col termine “famiglia” si indicavano coloro che vivevano sotto lo stesso tetto, servi compresi. Le uniche famiglie nucleari composte da due genitori e uno o due figli erano quelle dei braccianti e dei poveri. All’interno della famiglia contadina vigeva una divisione del lavoro abbastanza rigorosa. I ragazzi e adulti facevano i lavori pesanti, mentre le donne e ragazze curavano la casa e preparavano da mangiare. Dal punto di vista dei contadini il soggetto principale del mondo rurale è la comunità di villaggio. Ogni singola comunità è dotata di statuti riconosciuti dagli altri soggetti, primo fra tutti il signore territoriale. L’organo decisionale è l’assemblea dei capofamiglia che amministrano i beni della comunità. Fra i compiti amministrativi assegnati alle comunità di villaggio il più delicato è sicuramente il riparto del carico fiscale fra le famiglie, definito con criteri proporzionali ai redditi agricoli. LE BASI AGRICOLE DELL’ECONOMIA. IL FEUDO In antico regime, nei paesi cattolici la forma di prelievo più diffusa è la decima ecclesiastica destinata a tutti gli enti ecclesiastici presenti sul territorio. Abolita al tempo della Riforma in tutti i paesi protestanti, la decima avrebbe caratterizzato ancora a lungo l’economia dell’Europa cattolica, almeno fino alla Rivoluzione francese. Accanto alla decima in tutti i paesi troviamo la rendita signorile articolata in varie forme. Un’ulteriore rendita è quella che potremmo definire “di usura”, ossia la rendita derivante da ipoteche sui terreni, o da crediti concessi precedentemente. Quindi le basi economiche della società di antico regime sono essenzialmente rurali e fondate su un’economia dominata dalla grande proprietà terriera. Nella prima età moderna le forme del possesso territorio sono essenzialmente due: il feudo e l’allodio. Il feudo è un bene detenuto in concessione e sottoposto al “doppio dominio” del feudatario e del signore. Feudatari possono essere solo i nobili o le istituzioni (le città o gli enti religiosi). L’allodio è invece un bene 10 produttive bensì professionali. Tutti costoro avevano come obiettivo ultimo il riconoscimento di un titolo nobiliare e l’ingresso a pieno titolo nell’élite degli ordini privilegiati. All’interno di ciascuna bottega la piramide gerarchica è strutturata: alla base stanno i garzoni, per lo più adolescenti, non salariati; poi i lavoratori, salariati e con dimora propria; infine i maestri ossia i capi o i titolari delle botteghe artigiane. I contratti di apprendistato erano per lo più a carico della famiglia dell’apprendista. La bottega era prima di tutto una scuola e il maestro era un docente. Periodicamente la commissione dei maestri si costituiva in collegio giudicante i “capi d’opera”, ossia i prodotti del lavoro presentati al giudizio per ottenere il titolo di maestro. Questa è l’antica origine della nostra tesi di laurea che rappresenta ancor oggi il capo d’opera dello studente il quale, concluso il suo ciclo di studi, dev’essere in grado di produrre e discutere, di fronte ad una commissione di docenti, un saggio scientifico autonomamente elaborato nell’ambito della disciplina prescelta. CAP. 5: I CETI BORGHESI E LE ORIGINI DEL CAPITALISMO CHI SONO I “BORGHESI” DI ANTICO REGIME? Nel medioevo con il termine borghesi si indicavano inizialmente gli abitanti dei borghi o delle città per distinguerli dai contadini. Successivamente fra Quattro e Cinquecento la qualifica di borghese è stata attribuita ai soli abitanti di una città dotati di privilegi e di diritti di cittadinanza. Il ceto borghese si collocava ad un livello inferiore rispetto al patriziato urbano, ed era formato dagli esponenti delle famiglie mercantili che facevano parte delle Corporazioni di mestiere, o dai professionisti (medici, notai ecc.) che si riconoscevano nei Collegi delle Arti e che erano, rappresentati nel Consiglio cittadino. La qualifica di borghese diventava un titolo onorifico per i cittadini più eminenti. Le borghesie di antico regime sono composte essenzialmente da due gruppi di riferimento che potremmo definire come: i “mestieri del denaro” sono i proprietari (proprietari terrieri, proprietari di manifatture, armatori navali ecc..) e gli uomini d’affari (commercianti, banchieri, negozianti ecc.); e i “mestieri del sapere” in questo gruppo possiamo annoverare i professionisti 11 (notai, avvocati, medici, ingegneri ecc.) e i funzionari ( ufficiali, giudici, professori ecc.). LE BASI DELL’ECONOMIA MONETARIA In antico regime non esisteva un’unità monetaria comune. Ogni territorio (Stato, contea città) possedeva la propria moneta e tutte avevano libero corso ovunque. Nessuna moneta aveva un valore facciale, ossia un valore “scritto sulla sua faccia”: il suo valore ufficiale era stabilito dall’autorità regia o dal signore, ma il valore reale era intrinseco e corrispondeva al valore e al peso del metallo che la componeva. Quella circolante in Europa era dunque, per lo più una cattiva moneta. Nell’economia di antico regime essa aveva del resto una funzione completamente accanto ai beni in natura: raramente un contadino pagava o veniva pagato interamente in denaro, ma più spesso lo scambio avveniva parte in natura (attraverso prodotti agricoli/generi alimentari) e parte in denaro. Inoltre non esisteva un sistema bancario e creditizio. Il credito era per lo più gestito dai grandi mercanti (chiamati negoziatores) che prestavano o anticipavano il denaro ad alti tassi d’interesse. Molto diffuso era il sistema delle lettere di cambio con le quali si compivano trasferimenti di denaro a distanza. Ad esempio un mercante di Anversa poteva trasferire con una lettera il proprio debito nei confronti di un commerciante di Amsterdam ad un mercante di Lione. Il commerciante di Amsterdam sarebbe stato rimborsato dal mercante di Lione, mentre il mercante di Anversa avrebbe saldato il proprio debito con il mercante di Lione mediante un ulteriore scambio di merci, senza sborsare nulla. La finanza internazionale della prima età moderna ha origini italiane (i grandi banchieri di Firenze, di Livorno e di Genova) al punto che fino alla metà del cinquecento i banchieri italiani continuarono a dominare le fiere commerciali di Lione e di Francoforte, verso la metà del secolo lo spostamento del baricentro dell’economia mondiale ad Anversa, fece loro perdere il primato a favore dei banchieri dei Paesi Bassi. Il genovese Banco di San Giorgio, fondato nel 1408, fu di fatto la prima grande banca di Stato. 12 TELAI E ALTIFORNI. MANIFATTURA E PROTOINDUSTRIA È abbastanza difficile determinare la data di nascita della fabbrica moderna. In età moderna le più grandi concentrazioni di lavoratori sono in genere stabilimenti per i poveri: le cosiddette case di lavoro (Workhouses) istituite a partire dalla fine del Cinquecento in Inghilterra, in Olanda e in altri paesi del nord Europa. Se definiamo “fabbrica” uno stabilimento industriale dotato di macchinari, nel quale è concentrato un gran numero di lavoratori salariati, allora ci riferiamo ad una tipologia che compare solo in Inghilterra alla fine del Seicento, che si diffonde poi nella seconda metà del Settecento per svilupparsi soprattutto nel secolo successivo. Fino alla metà del Settecento, infatti la tipologia più diffusa in Europa è quella della bottega artigiana o della manifattura diffusa. Di fatto tutto incomincia a cambiare solo nel Settecento con l’impetuoso sviluppato dall’industria tessile e con quel fenomeno che gli storici hanno chiamato la “rivoluzione industriale”. Con il termine “rivoluzione industriale” introdotto nel 1880 dallo storico britannico Arnold Toynbee, gli storici indicano la trasformazione epocale realizzatasi in Europa a partire dalla metà del Settecento, prima in Inghilterra e poi in gran parte del mondo occidentale, in seguito all’affermarsi dell’economia di mercato, del macchinismo e del sistema di fabbrica. La macchina a vapore inventata dal francese Denis Papin nel 1691 è il simbolo più evidente di tale trasformazione. LA RIVOLUZIONE DEI CONSUMI Da alcuni anni l’attenzione degli studiosi si è spostata dalla produzione al consumo, connotando la grande trasformazione economica del Settecento non solo come rivoluzione industriale, ma anche come rivoluzione dei consumi. L’opera di Daniel Roche Il linguaggio della moda. Alle origini dell’industria dell’abbigliamento (1989) ha aperto la strada in questo senso. Roche sostiene infatti che “nella società d’Ancien régime al pari che in altre società, il rapporto tra produzione e consumo appare basato su una relazione asimmetrica: non si può consumare null’altro oltre a ciò che si è prodotto, ma la trasformazione dei beni precede la domanda. La capacità di consumare dipende da una quantità di vincoli che sono riferibili alla disponibilità di beni sul mercato, ma anche ad elementi sociali, culturali e simbolici. Il 15 Che cosa sono le nobiltà? Le nobiltà sono i ceti privilegiati che detengono l’egemonia politica e sociale nelle società di antico regime e che ne costituiscono le élite. Esse posseggono uno statuto giuridico particolare, si perpetuano per via biologica e rinnovano i propri ranghi in base a regole prestabilite. Rappresentato una minoranza della società, ma nella maggior parte degli Stati europei raramente superano il 2% della popolazione. Che cosa distingue la nobiltà di antico regime? La nobiltà è un ceto distinto dal privilegio, i suoi tratti costitutivi sono la nascita, il ruolo sociale, il possesso; la sua propensione naturale è volta alla conservazione e alla difesa della tradizione. I principali titoli della nobiltà imperiale europea sono quelli dei duchi, marchesi, conti, Visconti, visdomini e baroni. Duchi sono in età romana e longobarda, i comandanti militari (duces) e poi i governatori militari dei territori conquistati. Marchesi sono i governatori delle Marche, ossia delle province di confine o di importanza strategica. Conti sono i più fedeli collaboratori del sovrano, quindi in età carolingia, feudatari inviati a governare una contea. Visconti sono i sostituiti dei conti, quindi feudatari con titoli ereditario di livello inferiore a quello dei conti. Visdomini sono i feudatari laici ai quali il vescovo delega la propria autorità temporale. Baroni nel medioevo sono tutti i detentori di “alta signoria” in età moderna il titolo viene ad indicare una nobiltà feudale di natura inferiore. Questo significativo antico dei titoli nobiliari si trasforma con l’inizio dell’età moderna quando le monarchie territoriali si creano fedeltà distribuendo titoli alle maggiori famiglie. Che cos’è un privilegio? Un privilegio è qualsiasi esenzione o distinzione rispetto ad un serie di leggi o norme valide per gli altri individui o gruppi sociali: ad esempio l’esenzione parziale o totale dal pagamento delle tasse. Conseguenza del privilegio è la diseguaglianza, che è uno dei fondamenti delle società di antico regime. Chi è nobile? È nobile solo chi dimostra di possedere “titoli di nobiltà” ossia privilegi o esenzioni sancite dal sovrano. Tanto è più antica la nobiltà, ossia il possesso di tali privilegi, tanto maggiore è il rispetto dovuto a chi li possiede. Come si diventa nobili? Si è nobili essenzialmente per nascita, per diritto ereditario; ma lo si può diventare anche per servizio ottenendo dal sovrano un titolo in segno di ricompensa per i servizi prestati, o per venalità acquistando un 16 titolo in cambio di denaro. Quali sono i principali tipi di nobiltà europea? Ne possiamo individuare almeno 5: 1) La nobiltà terriera di antica origine feudale, altrimenti nobiltà “di sangue” (ereditaria) o nobiltà “di spada” (di origine militare). 2) I patriziati urbani, ossia famiglie “di Consiglio” che derivano i loro privilegi dall’esercizio delle più antiche cariche amministrative cittadine. 3) La nobiltà di toga, nobiltà acquisita per diritto in seguito all’esercizio di alte cariche di giustizia. 4) La nobiltà di servizio, nobiltà acquisita o confermata in seguito a servizi resi al sovrano (servizio militare, servizi di Stato ecc.). 5) La nobiltà di fatto, nobiltà riconosciuta “per consuetudine”. Che cosa può privare della nobiltà? La nobiltà può anche essere perduta, se chi è nobile non rispetta alcuni requisiti imposti al suo ceto. In particolare si può perdere la nobiltà se qualcuno dimostra l’impurità del sangue. Ad esempio in Francia può essere privato del titolo a anche chi esercita arti meccaniche, o lavori manuali, chi pratica il commercio chi è colpito dal disonore o tradisce il proprio sovrano. Ricchezza, potere e cultura nobiliare La maggior parte dei nobili era ricca, ma non tutti i nobili erano ricchi e la ricchezza non fu mai l’elemento decisivo per connotare un nobile. Semmai lo erano l’antichità di origine, il prestigio, le strategie matrimoniali, i legami con la corte, l’apparenza grandiosa, il possesso della terra. Addirittura una significativa minoranza di nobili era decisamente povera, rasentando, in alcuni casi estremi, la miseria. Tuttavia, se nel medioevo la nobiltà povera viveva in stretto rapporto di vassallaggio e di dipendenza da quella ricca, venendo spesso adibita a funzioni amministrative presso i grandi feudi, a partire dal Quattrocento la condizione della nobiltà povera si fece più difficile, mentre i patti di protezione e fedeltà fra diversi strati nobiliari persero l’antico significato sacrale, trasformandosi semmai in rapporti clientelari e parassitari. Nel Seicento nobili ricchi e nobili poveri faticavano sempre più a sentirsi parte di uno 17 stesso ceto, ormai consapevoli di ciò che li divideva. Dopo il 1650, in Francia, sorsero numerosi istituti destinati ad assistere i nobili poveri mediante borse di studio per i figli e costituzione di doti per le figlie. A Venezia fu lo Stato a farsi carico del patriziato impoverito, assegnando una pensione annua di circa 50 Ducati a quei patrizi che per vari motivi si fossero ridotti in uno stato di indigenza. Ciò che caratterizzava la nobiltà era il possesso di terre nobili collegate ad un’antica giurisdizione feudale e ad alcune funzioni (come l’esercizio della giustizia) delegate dal potere sovrano, oltre che a diritti signorili e a privilegi. L’attività bancaria, di prestito e commerciale è esercitata da molti nobili, anche se ai nobili erano in genere vietati tali attività. La parola “ricchezza” per un nobile di antico regime, significa certamente guadagno, ma soprattutto spese. Spese come necessità, ma anche spese come elemento di prestigio per riaffermare il proprio privilegio. Per la maggior parte delle famiglie aristocratiche fra Cinque e Seicento le spese sono superiori alle entrate. Contrarre debiti non è un’eccezione, ma quasi una necessità. Il vero nobile non bada a spese, il debito in molti casi è un simbolo di potere. Nei casi più difficili, quasi sempre, i nobili indebitati sono salvati dal sovrano che provvede personalmente alla cancellazione del debito, o al pagamento di una parte di esso. La nobiltà è sempre connessa con il privilegio e con il potere; sicuramente con il potere giurisdizionale. In molti territori europei infatti, i nobili esercitano il potere giudiziario in sede locale o indirettamente attraverso giudici da loro nominati. In altri casi i nobili possiedono giurisdizione di polizia con la facoltà di comminare ammende e pene pecuniarie nell’ambito dei loro feudi. Quasi ovunque i signori percepiscono una quota su tutte le transazioni (acquisti e vendite immobili) e gli atti notarili (testamenti, eredità, doti) rogati sulle loro terre. Spesso i nobili hanno diritti esclusivi sui mulini e sui forni. In età moderna è il sovrano a creare la nobiltà, a mantenerla e ad integrarne i ranghi, quando necessario, come strumento di coesione del potere. La nobiltà non viene esplicitamente privata del potere politico, ma il suo ruolo viene per lo più delimitato nell’ambito della corte e separato da quello del governo, affidato a funzionari amministrativi di origine non nobile. Nella maggior parte delle grandi monarchie europee, la 20 Governatori delle province e comandi militari. Ad un livello ancora più basso si colloca la nobiltà burocratica composta da alti dignitari, magistrati e funzionari di Stato. Al livello inferiore è la piccola nobiltà di provincia che conserva il suo potere grazie a ruoli burocratici ereditati nell’apparato ministeriale, nella magistratura. Il risultato di questa operazione attuata da Pietro I è la creazione di un sistema burocratico-militare che consentirà alla nobiltà russa di acquisire sapere e cultura, ma non reale potere e capacità di governo. La Polonia: il caso polacco è unico in Europa, in quanto la nobiltà rappresenta oltre il 10% della popolazione. Tutti gli esponenti maschi maggiorenni della nobiltà (circa 100.00 persone) hanno accesso al potere politico, siedono di diritto nella Dieta. La Polonia è una monarchia elettiva, ma di fatto è una repubblica di nobili che eleggono il loro re. Al vertice della nobiltà polacca si distingue un’élite nobiliare costituita da Magnati da cui provengono tutti i re di Polonia che controlla la maggior parte delle terre e dei villaggi del paese e che domina politicamente la Dieta. Ad un secondo livello si colloca la nobiltà media che possiede il resto della terra suddivisa in piccoli appezzamenti, e qualche villaggio. Al livello più basso i colloca la nobiltà povera (Zaganowa) costituita di piccoli e piccolissimi proprietari, a volte costretti a lavorare la terra con le proprie mani, del tutto dipendenti dalla nobiltà maggiore di cui sono clienti e spesso servitori. Cap. 7: Sovranità e potere politico Una definizione di Stato moderno Definire cosa si intende per Stato moderno non è impresa facile. L’espressione “Stato moderno” compare infatti solo agli inizi dell’Ottocento per affermarsi pienamente nel corso del secolo. Si deve allo storico e giurista tedesco Otto Hintze il merito di aver per primo indicato fin dal 1906 l’espressione “Stato moderno” come tipo ideale, ossia come modello astratto. Proviamo allora a definire uno schema interpretativo utile a capire le complesse dinamiche della statualità di antico regime, concentrando l’attenzione su sei linee di tendenza che la maggior parte degli storici ha individuato come caratteristiche del cosiddetto Stato moderno. 21 1) la progressiva affermazione del monopolio statale della forza attraverso la costituzione di eserciti professionali e permanenti. I nuovi eserciti presenti in quasi tutti gli Stati europei a partire dalla fine del Quattrocento, vedono infatti lo sviluppo della fanteria e dell’artiglieria, dotate di armi da fuoco leggere o pesanti. Questo mutamento epocale determinato dall’invenzione della polvere da sparo, inizia a mettere in crisi il tradizionale ruolo della cavalleria. L’importanza crescente dell’artiglieria, arma borghese e plebea vanno a scapito del codice d’onore della cavalleria, arma nobile per eccellenza, fondata sull’ideologia del coraggio e del valore, del disprezzo del pericolo e del confronto corpo a corpo con l’avversario. 2) la presenza della burocrazia permanente e sempre più specializzata, dotata di competenza professionale ed esperienza amministrativa. Si tratta di notai e cancellieri al servizio permanente del sovrano; quelli che oggi chiameremmo funzionari pubblici. Nei primi due secoli dell’età moderna erano reclutati in maniera diversa: o attraverso la chiamata diretta degli uomini più capaci; o in seguito alla vendita delle cariche e egli uffici (la cosiddetta venalità); o attraverso la concessione di titoli nobiliari ereditari ai funzionari più capaci o più fedeli, da cui ebbe origine la cosiddetta nobiltà di servizio. 3) La presenza di una diplomazia permanente presso le corti straniere. La politica d’immagine di un sovrano, utile ad intrecciare alleanze politiche o strategie matrimoniali, era determinata in molti casi dall’abilità o dalla magnificenza di un diplomatico e dalla sua capacità di stabilire buone relazioni presso la corte straniera di residenza. Da ciò deriva la codificazione delle regole della diplomazia, ossia i primi elementi su cui sorgerà in seguito il cosiddetto “diritto delle genti” o diritto internazionale. 4) La progressiva affermazione del monopolio statale del prelievo attraverso il fisco attraverso cui l’autorità fiscale viene a sostituirsi a quella militare come elemento caratterizzante lo Stato. La stessa idea di appartenenza ad uno Stato si identifica col pagamento delle tasse e con il servizio militare. 5) Il tentativo di affermare una legislazione unitaria su tutto il territorio dello Stato, attraverso il 22 progressivo passaggio dal diritto comune (consuetudinario) ai codici scritti; la riduzione dei privilegi locali e quelli di ceto. 6) La progressiva affermazione di un mercato ampio ed esteso. Le politiche economiche messe in atto da molti governi europei a partire dalla metà del Seicento, ispirate al cantilismo, e quindi ad un maggior intervento dello stato sull’economia sono evidenti segnali di questa tendenza. Definite queste sei linee come parte di un unico schema interpretativo in base al quale i governi europei dei primi anni del Cinquecento appaiono molto più simili, si è assistito ad un netto ridimensionamento della categoria di “Stato assoluto” a favore di categorie interpretative più sfumate. Dal patto fra poteri autonomi alla rappresentanza politica La storia plurisecolare della formazione dello Stato moderno si possono individuare tre fasi successive: 1 fase: corrisponde al Medioevo è caratterizzata dal patto sancito fra poteri autonomi; 2 fase: corrisponde all’età moderna è segnata dalla progressiva affermazione del dominio del sovrano sugli altri poteri; 3 fase: corrisponde all’età contemporanea è caratterizzata dall’affermazione del principio costituzionale di rappresentanza politica come base di ogni governo. La storia dello Stato moderno è una storia di lotte e di compromessi fra poteri diversi, fino all’affermazione di un potere sovrano superiore. Nell’arco di alcuni secoli si passa infatti da un’idea di sovrano come vertice della scala feudale ed incarnazione dello Stato ad un’idea di Stato sovrano come entità superiore, autonoma e astratta. In tutti i territori europei esistevano organi di rappresentanza dei ceti (Diete, Stati Generali, Parlamenti, Cortes ecc.) di origine medievale. Nella Dieta imperiale si distinguevano inizialmente gli otto Grandi elettori (i principi-vescovi di Colonia, di Treviri e di Magonza, il re di Boemia, il principe di Palatinato, il duca di Sassonia, il principe di Brandeburgo, il re di Bavaria), i circa 300 rappresentanti della nobiltà (120 ecclesiastici, 30 principi, 140 signori) e gli 85 rappresentanti delle città imperiali. In altri contesti troviamo organi bicamerali, come il Parlamento inglese 25 l’insularità dell’Inghilterra ha sempre rappresentato un elemento di notevole vantaggio rispetto alle altre potenze, consentendo al Regno Unito di non subire mai un’invasione. 3. Una successione ininterrotta di abili statisti, fossero essi sovrani o ministri. Grandi monarchie come la Francia e la Spagna si sono consolidate nel corso del Seicento grazie all’opera di ministri forti come il cardinale di Richelieu. 4. Il successo in guerra è un fattore da non trascurare. 5. L’omogeneità della popolazione soggetta e l’assenza di conflitti interni di carattere etnico o religioso; si pensi alle guerre di religione in Germania e in Francia nel corso del Cinquecento. 6. La presenza di una robusta alleanza del potere centrale con le élite locali. Fra Cinque e Settecento queste condizioni si trovano e solo parzialmente in Inghilterra, in Francia e in Spagna. Ma quali sono stati i principali fattori che gli storici hanno indicato come ostacoli alla formazione di un unico Stato territoriale italiano? Potremmo indicarne, schematicamente sette: 1) l’arcaicità e la polverizzazione delle strutture statali; 2) la debolezza di un apparato burocratico; 3) l’indebolimento delle attività commerciali dalla fine del XV secolo, dovute sia alla crisi del Mediterraneo; 4) l’egemonia straniera sulla penisola; 5) la presenza di patriziati cittadini forti e radicati; 6) l’esistenza di Stati repubblicani (Venezia, Genova, Lucca) cristallizzati nelle loro istituzioni oligarchiche; 7) la presenza di uno stato della Chiesa autonomo e territorialmente esteso, unica vera monarchia assoluta. Monarchie assolute , repubbliche oligarchiche e burocrazia Il concetto di “assolutismo” sta ad indicare una monarchia sciolta da ogni vincolo, è stato introdotto per la prima volta dal giurista francese Jean Bodin nei Sei libri della Repubblica del 1576. Il termine “assolutismo” entra però a far parte stabilmente del lessico politico solo con la Rivoluzione francese. Impiegato a lungo con una connotazione negativa e identificato con “nepotismo”, l’assolutismo è stato in seguito recuperato con una valenza parzialmente positiva, unito all’attributo di “illuminismo”. L’assolutismo è una delle tendenze, a tratti prevalente, delle 26 grandi monarchie europee, mentre la forma più diffusa di governo rimane quella che la storiografa tedesca ha definito Ständesstaat (Stato Cetuale) fondato su una molteplicità di poteri e sulla condivisione della sovranità fra il principe, i ceti e i loro organi rappresentativi. Completamente diversa è la situazione delle antiche repubbliche oligarchiche e patrizie come Venezia, Genova e Lucca fondate su organismi rappresentativi delle élites cittadine e su complicati sistemi elettorali. Il termine “burocrazia” viene coniato a metà Settecento dall’economista francese Vincent de Gournay e poi impiegato dagli economisti fisiocratici per denunciare il potere crescente dei funzionari governativi nella vita della Francia. Il termine deriva dal vocabolo francese bureau (scrivania) ed indica sia un sistema di potere dominato dai funzionari e dalle loro regole poco trasparenti, sia l’insieme degli impiegati pubblici. Alla definizione del concetto di “burocrazia” il sociologo Max Weber la indica come espressione idealtipica dell’autorità e dell’organizzazione razionale e funzionario dello Stato moderno. Secondo Weber lo strumento principale attraverso cui i sovrani assoluti sarebbero riusciti ad esercitare il loro potere era la titolarità degli uffici, ossia la concessione agli ufficiali del possesso patrimoniale della carica. In molti casi gli uffici venivano messi all’asta dal sovrano ed erano gli ufficiali a doverli acquistare. La pratica della vendita degli uffici e delle cariche che consentiva allo stato di incamerare cifre notevoli prende il nome di venalità. Nella prima età moderna la maggioranza degli uffici ha carattere patrimoniale o venale, mentre nella seconda età moderna tra Seicento e Settecento i pubblici ufficiali divengono funzionari stipendiati sempre più direttamente dipendenti dal sovrano. Il servizio alle dipendenze dello stato, diventa così una vera e propria “carriera” che consente il passaggio dagli uffici inferiori a quelli superiori e da incarichi di minor prestigio a quelli più prestigiosi e meglio remunerati. Lo sviluppo di una burocrazia permanente e di conseguenza la definizione di un preciso percorso formativo che gli aspiranti burocrati avrebbero dovuto seguire per avanzare nella carriera nasce con lo Stato moderno, come conseguenza delle nuove necessità poste dalla guerra e dall’amministrazione di 27 territori sempre più ampi. I segretari di Stato originariamente i notai del re, tendono ad assumere un ruolo preminente in seno ai Consigli, mentre le funzioni amministrative tendono a differenziarsi e a specializzarsi, dotandoli di organi ad hoc (Consigli, segretarie, uffici ecc.). Ma come venivano selezionati i vari uffici che venivano a comporre la nascente burocrazia? I canali di reclutamento si riducevano a 3 modelli: a) si reclutavano esponenti della piccola nobiltà desiderosi di distinguersi agli occhi del sovrano; b) si procedeva al reclutamento di giuristi non nobili, scegliendoli in base alle loro competenze; c) si concedeva l’ufficio in beneficio, o lo si vendeva al miglior offerente, garantendo al titolare la possibilità di trasmetterlo in eredità ai propri figli. Nella maggior parte delle monarchie europee fu il terzo modello quello della venalità a prevalere tra Cinque e Seicento. L’ufficio era una titolarità non revocabile, diversamente dalla commissione che era solo un incarico temporaneo e revocabile. Il commissaire come l’intendente era solo un incaricato dalle dirette dipendenze del sovrano, mentre l’officier in quanto titolare di un beneficio era un dignitario. La venalità degli uffici rappresenta il punto di passaggio da una fase all’altra: può essere infatti definita come un contratto fra il sovrano e alcuni esponenti dell’élite, basato sullo scambio fra dignità e potere da un lato e denaro dall’altro. Il risultato è un rafforzamento numerico delle élite a spese della loro autonomia in quanto ceto sociale distintivo dello stato. Una parte della nobiltà si trasforma progressivamente da ceto autonomo, in corpo dello Stato, subordinato al sovrano e al sistema. Cap. 8: Giustizia e fiscalità in antico regime La giustizia in età moderna: verso il monopolio della giurisdizione Giurisdizione significava due cose: a) l’esercizio del diritto di punire (monopolio della giustizia); b) la capacità di imporre tributi (monopolio del fisco). In antico regime, la giustizia era per lo più espressione di un privilegio cetuale: esistevano tribunali feudali, tribunali ecclesiastici, tribunali militari, tribunali mercantili ecc.. all’interno dei quali si esercitava una giustizia diversa a seconda 30 essenzialmente fondato sulla giustizia locale. In antico regime i sistemi penali dei paesi dell’area mediterranea seguivano per lo più la tradizione del diritto romano-canonico, fondato sul metodo inquisitorio che prevedeva tre figure: a) l’accusatore, o inquisitore che doveva portare in giudizio un reo, estorcerne la confessione di colpevolezza, ed infine esibire le prove della sua accusa di fronte al giudice; b) l’accusato, al quale spettava il diritto alla difesa; c) il giudice, figura “terza” al quale spettava il giudizio finale. In tutti i tribunali d’antico regime i processi non erano pubblici, ma si svolgevano a porte chiuse e prevedevano che la corte pronunciasse la sentenza solo dopo aver interrogato testimoni ed imputati separatamente, senza la presenza di avvocati difensori. La fiscalità in età moderna: verso il monopolio del prelievo Con la parola “fisco” (dal latino fiscus, la cesta dove si raccoglievano i contributi) in età romana si indicava la casa privata dell’imperatore, ben distinta dall’aerarium, ossia la cassa dello Stato, destinata a finanziare l’esercito o le opere pubbliche. Successivamente, agli inizi dell’età moderna, il termine è venuto a connotare lo Stato ed in particolare un sistema di prelievo esercitato sui sudditi ed esteso ad un intero territorio, al punto che l’attributo “fiscale” indica, già fra Sei e Settecento tutto ciò che riguarda lo Stato nel suo complesso (col titolo di Gran fiscale). Oggi è infatti solo lo stato ad avere il monopolio del prelievo, mentre in antico regime i soggetti del prelievo erano diversi: il sovrano, i signori territoriali, i feudatari, la Chiesa, gli enti ecclesiastici, le città, le Corporazioni, le comunità locali ecc. Fin dal tardo medioevo uno degli elementi che caratterizzavano la maggiore o minore autonomia delle amministrazioni cittadine, era rappresentato proprio dall’estimo, ossia dalla capacità dei Consigli municipali di determinare l’entità del prelievo fiscale da imporre ai propri cittadini. Questa importante prerogativa consentiva di determinare chi aveva diritto alla cittadinanza e di definire una precisa gerarchia sociale basata sul reddito. Le principali cariche pubbliche venivano per lo più attribuite ai maggiori estimati a sedere in Consiglio comunale. Tanto maggiore era la quota di estimo che il comune tratteneva per le proprie esigenze, tanto maggiore era l’autonomia di cui l’amministrazione 31 locale poteva godere. Le forme attraverso cui si attuava il prelievo fiscale, in antico regime erano diverse: l’imposizione diretta mediante tributi e tasse ordinarie e straordinarie imposte dal sovrano ai sudditi; seguivano poi le imposizione indirette, ossia sui consumi come le imposte sul grano, sul tabacco, sul vino ecc., e ancora i dazi, i pedaggi e le gabelle, ossia imposti sui beni importati, esportati o trasportati su un dato territorio. Una modalità differente di ricavare denaro dai sudditi consisteva nella vendita di beni della corona (terre, gioielli, palazzi) che venivano acquistati a caro prezzo dai nobili e dai ricchi borghesi desiderosi di mettersi in vista. Acquistare un titolo nobiliare rappresentava per molti ricchi borghesi, o per gentiluomini non titolati, un lasciapassare per entrare a far entrare a far parte dell’élite del paese. Fermes e appalti Dovendo raccogliere denaro con urgenza, soprattutto in caso di guerra, i sovrani stipulavano dei contratti (denominati in francese fermes) con singoli finanzieri o appaltatori per lo più grandi mercanti, che anticipavano loro la somma necessaria ad armare l’esercito ottenendo in cambio una serie di concessione quali una rendita fissa in denaro sui beni demaniali, il diritto di esigere il denaro in nome del sovrano in un dato territorio (appalto dell’esazione), il diritto di sfruttamento di beni del sovrano (boschi, miniere, dazi ecc.), la concessione di alcuni monopoli (sale, zecca, commerci transoceanici ecc.). Sapendo che difficilmente la cifra loro prestata avrebbe potuto essere restituita, i sovrani facevano concessioni sempre maggiori agli appaltatori. In questo modo, il prelievo fiscale veniva interamente appaltato ai privati i quali ottenuto il monopolio della riscossione potevano esigere i tributi direttamente sul territorio e senza alcun controllo, incassando cifre ben maggiori di quelle prestate. Non era lo Stato o il sovrano ad esercitare il prelievo, ma i privati, gli appaltatori, nei confronti dei quali si concentravano le proteste dei sudditi vessati. Solo dalla seconda metà del 1600, i sovrani incominciarono a limitare il potere degli appaltatori, dapprima sottoponendoli ad un rigoroso controllo da parte dei funzionari statali, quindi riducendone il numero e vincolandoli a resoconti periodici dei loro profitti, infine abolendo l’appalto del prelievo ai 32 privati ed incaricando dell’esazione solo funzionari governativi. Inoltre in molti Stati europei si incominciarono ad elaborare progetti di riforma del fisco volti ad eliminare le peggiori storture e a razionalizzare un sistema fortemente sperequato. In Prussia l’introduzione di una tassa (l’ascissa) sui beni di largo consumo, come la birra, segnò l’avvio di una fiscalità sottratta ai ceti privilegiati, ma gestita dall’amministrazione centrale, che avrebbe aperto la strada alle successive riforme settecentesche. Le riforme fiscali e i catasti Il cardine delle riforme fiscali settecentesche è il catasto, strumento essenziale di conoscenza e base per ogni intervento in materia fiscale. Un catasto è in genere costituito: a) da una serie di mappe quanto più precise del territorio dello Stato, con indicati i confini e l’estensione delle singole proprietà immobiliari, la redditività dei terreni; b) da una serie di registri periodicamente aggiornati con l’indicazione del nome dei proprietari di ogni lotto di terreno. Mappe e registri costituiscono un archivio prezioso per determinare la ricchezza dei contribuenti. Per dare un’idea della complessità dei problemi connessi alla realizzazione dei catasti settecenteschi basta dire che i principali scopi che si prefiggeva chi realizzava un catasto erano: a) la conoscenza precisa dei redditi reali dei soggetti tassabili e quindi in primo luogo dei ceti privilegiati; c) la tassazione dei patrimoni dei ceti privilegiati; d) una tassazione più equa dei beni dei ceti non privilegiati. Per realizzare e mantenere una catasto erano quindi necessarie almeno 4 condizioni: a) una forte volontà politica da parte del sovrano e degli uomini di governo al suo servizio; b) mezzi finanziari considerevoli; c) notevoli competenze tecniche, come misuratori, geometri contabili ecc.; d) la collaborazione dei soggetti tassabili e in primo luogo dei ceti privilegiati, disponibili ad accogliere ed aiutare i misuratori, a subire accurate ispezioni sui propri terreni, ad esibire i libri contabili, a dichiarare i propri redditi ecc. I catasti sono dunque uno strumento essenziale per realizzare qualsiasi seria politica fiscale. Le più significative riforme settecentesche in materia fiscale furono avviate nella Lombardia austriaca sotto il regno di Maria Teresa d’Asburgo (1740-1780). 35 del Cinquecento e venne adattata per la prima volta in Francia, in Spagna e in Inghilterra. Guerre e fiscalità Dalla fine dell’Impero romano fino agli inizi dell’età moderna il servizio militare pesava in misura minima sulle finanze pubbliche in quanto si trattava di un servizio obbligatorio le cui spese (cavallo, armatura, spada e scudo per i nobili ecc..) erano a carico di ciascun combattente. Le spese di mantenimento dell’esercito e di foraggiamento del bestiame erano a carico del territorio dove l’esercito era di stanza. Gli oneri pur pesanti erano quasi sempre sostenibili, anche perché erano connessi con la difesa del medesimo territorio. È solo con la costituzione di eserciti permanenti e di mestiere, reclutati per lo più dal territorio e privi di stretti legami, che le spese crescono in maniera esorbitante inducendo principi e sovrani o ad indebitarsi o ad aumentare la pressione fiscale sui sudditi. Con l’invenzione delle armi da fuoco le spese per l’armamento si moltiplicano ed implicano sempre più la presenza di vere e proprie industrie belliche. Anche la costruzione di sistemi di difesa, di mura e di fortificazioni di nuovo tipo, più solide e resistenti ai colpi di cannone, implica competenze diverse e più raffinate. Sono necessari architetti e ingegneri, maestranze specializzate da reclutare all’esterno della città. A titolo di esempio ricordiamo che, tra il 1547 e il 1598, il costo delle guerre sostenute dal Regno di Spagna passa da meno di 2 milioni di Ducati all’anno a più di 9 milioni. La difficoltà di retribuire i soldati costringe i sovrani a delegare enormi poteri militari, politici e finanziari ai cosiddetti “signori della guerra”, veri e propri imprenditori militari. La pressione fiscale si fa più pesante, la raccolta del denaro viene spesso effettuata sotto la minaccia delle armi, mentre dal fisco l’esercito trae il suo principale sostentamento. Per farci un’idea approssimativamente delle risorse destinate al mantenimento degli eserciti fra Sei e Settecento possiamo citare il caso della Francia di Luigi XIV che nel 1700 destinava alla guerra il 75% delle entrate fiscali. Vita di truppa Proviamo ora ad osservare gli eserciti dal punto di vista della truppa, avvicinandosi alle decine di migliaia di soldati, mal pagati, mal equipaggiati, reclutati per lo più a forza e costretti a 36 combattere in terre lontane guerre le cui finalità erano per loro quasi sempre estranee. Chi sono questi soldati? Da dove vengono e come ha luogo il loro reclutamento? La professione delle armi è stata una risorsa per le popolazioni dei territori più poveri. Per garantirsi eserciti permanenti di grandi dimensioni i sovrani europei ricorrevano ad almeno due altri espedienti: a) l’arruolamento forzato di poveri, delinquenti e sbandati; b) l’arruolamento obbligatorio dei prigionieri di guerra. Quest’ultima pratica risultava da un lato più pericolosa, ma dall’altro lato costituiva una soluzione obbligata in quanto consentiva di inquadrare soldati già addestrati ed esperti. I grandi eserciti di antico regime erano composti da soldati ma anche da un seguito di personale di servizio in buona parte femminile come cuoche, cucinieri/e, infermieri/e; sarti/e e prostitute. L’aspetto di un esercito di antico regime era una massa raccogliticcia abbigliata nelle fogge più diverse, senza un’uniforme. Gli inglesi furono i primi ad adottare l’uniforme rossa, ma l’abitudine si generalizzò solo all’inizio del secolo successivo. Solo nel settecento ogni esercito nazionale si caratterizzò per un colore o per una Foggia d’abito particolare, rendendo facilmente distinguibili i soldati dei diversi eserciti nazionali (rosse le uniformi degli inglesi, verdi quelle dei francesi, blu quelle dei prussiani, bianche quelle degli austriaci ecc.). Un altro problema per un esercito era rappresentato dal problema degli alloggiamenti. Fino alla metà del 1700, quando in alcuni paesi compaiono le prime caserme, sia in tempo di pace che in tempo di guerra gli eserciti alloggiavano nelle città requisendo palazzi, case, stalle e granai per le loro necessità. Il problema degli alloggiamenti venne risolto costruendo le prime caserme ed i primi quartieri militari in muratura, separati nettamente dalla società civile. Fra 1500-1600 si concentrano anche le guerre più devastanti: per lo più guerre civili, o a sfondo religioso. La sola strage degli ugonotti della notte di San Bartolomeo, fra il 24 e il 25 agosto 1572, provoca in Francia oltre 11.000 morti. È nel 1700 che il modo di fare la guerra cambia radicalmente. Si parla di guerre more geometrico (guerre minuetto), per il carattere formalizzato dei 37 conflitti. La guerra settecentesca è principalmente una guerra di posizione, segnata da numerosi assedi e da pochi scontri campali che coinvolgono alcune migliaia di soldati. Rispetto al passato i conflitti incidono meno sulla vita della popolazione civile, si svolgono secondo schemi fissi, seguendo una stagionalità predeterminata, con lunghi intervalli fra una campagna e l’altra e con “campeggiamenti” caratterizzati da intense relazioni fra i due fronti. Una proposta di periodizzazione In conclusione di questo capitolo ci sembra utile proporre uno schema di periodizzazione per meglio inquadrare la rivoluzione militare nelle sue diverse fasi. Fra il 1450-1520 possiamo collocare la prima grande trasformazione degli eserciti europei, con l’introduzione delle armi da fuoco, il declino della cavalleria pesante e la comparsa dei corpi dei “picchieri” (i mercenari svizzeri). Negli anni compresi fra il 1530-1560 si colloca la riorganizzazione burocratica degli Stati e l’inizio delle guerre d’assedio in luogo delle guerre di conquista. Fra il 1620-1650 si affermano i grandi eserciti permanenti di mestieri, reclutati prevalentemente all’estero, gli eserciti acquistano una maggior agilità adottando un’artiglieria più leggera e disponendo i fucilieri su diverse linee parallele. Fra il 1672-1710 aumento nella dimensione degli eserciti che giungono ai 400.000 uomini in servizio permanente. Mentre le spese militari impegnano quote sempre maggiori (dal 60% al 90%) del bilancio statale, si generalizza l’impiego dell’artiglierie leggera. Fra il 1792-1814 il nuovo modello di esercito di popolo imposto dalla Rivoluzione francese, con la levée en masse di truppe politicizzate ed animate da forti sentimenti nazionali, sconvolge la tradizionale tattica militare degli eserciti di antico regime. Cap. 10: Povertà, criminalità e controllo sociale Il pauperismo Con il termine “pauperismo” gli storici indicano un fenomeno di massa cui si assiste a partire dal Cinquecento e che vede una grande quantità di poveri, disoccupati e vagabondi, spostarsi dalle campagne verso le maggiori città europee. Queste persone senza lavoro si muovono in cerca di un’occupazione stabile e di cibo che spesso non trovano, e si concentrano nei sobborghi creando situazioni di disagio, di miseria endemica e di 40 umani che per varie ragioni si collocano ai margini della società, mentre impiegano l’espressione “emarginati” per indicare coloro i quali ne vengono espulsi o respinti ai margini. Si possono individuare diverse forme di marginalità e di emarginazione: a) a livello economico es i disoccupati; b) a livello sociale, considerando chi non rispetta le regole; c) a livello spaziale, considerando chi viola le regole dell’habitat organizzato o non vi partecipa es chi vive in un ghetto; d) a livello culturale, considerando chi non condivide i valori dominanti o prevalenti del gruppo di appartenenza. In antico regime ai “margini” veniva in genere attribuito il marchio d’infamia come ai delinquenti, prostitute, vagabondi, ebrei. La condivisione di “marginale”, dunque viene facilmente attribuita dai poteri dominanti a quanti non rispettano pienamente le regole sociali ed i valori condivisi dalla maggioranza. Pertanto la marginalità può verificarsi su due piani distinti: quello dell’assenza e quello del rifiuto. Nel primo caso si sancisce la semplice assenza di certi legami che la società ritiene normali, ad esempio nell’ambito della famiglia (il matrimonio e i figli), della professione, del vicinato, del credo religioso; nel secondo caso si sancisce il rifiuto consapevole di quei legami e di quelle regole, considerato come indizio della volontà di rompere con la società o con il gruppo di cui si fa parte. Dalla condizione di marginale è dunque facile cadere in quella di emarginato. La diffidenza nei confronti degli invalidi, malati o malati di mente, che venivano tendenzialmente isolati e separati dalla comunità, si spiega solo come una misura di difesa contro un pericolo di contagio, ma con una necessità profonda della società moderna di depurarsi dagli elementi ritenuti estranei rispetto ad un ordine definito. Ecco perché il vagabondo rappresenta la marginalità per eccellenza. Sarà la legislazione napoleonica a definire per la prima volta il vagabondo come “colui nella cui borsa non sono presenti le minime risorse personali”. Il vagabondo non partecipa o rifiuta di partecipare ai legami sociali di un dato sistema e pertanto dev’essere punito, anche se non danneggia nessuno. Il povero: assistere e recludere Uno dei capisaldi della dottrina Cristiana fino alla fine del Quattrocento era l’idea che i poveri fossero “l’immagine di Cristo 41 sofferente” e per questa ragione dovessero essere aiutati. Donare ai poveri significava in qualche modo farsi perdonare per altri peccati e riscattarsi agli occhi di Dio e della società. Facendo la carità il nobile acquisiva consensi e rafforzava la sua posizione di preminenza sociale, creandosi una rete di fedeli debitori, pronti a servirlo all’occorrenza. I successivi passaggi dalla carità alla beneficenza e quindi all’assistenza nella prima metà del Cinquecento, sono la conseguenza di una desacralizzazione del povero, che non è più raffigurato come “immagine di Cristo”, ma come ozioso e come elemento potenzialmente pericoloso. Non è dunque il singolo a dover fare la carità, per salvarsi l’anima ma sono le istituzioni benefiche a dover raccogliere il contributo dei fedeli per poi destinarlo ai poveri. Solo con la fine del Settecento e poi con i movimenti sociali dell’Ottocento inoltrato si incomincia a parlare dell’assistenza come di un diritto di ogni cittadino. Che cosa ha cambiato, dunque così profondamente l’immagine del povero nella coscienza collettiva europea, agli albori dell’età moderna? Decisivo è stato il manifestarsi del pauperismo agli inizi del Cinquecento. Sul piano dottrinale ha sicuramente inciso la Riforma protestante, con il principio affermato da Lutero della “giustificazione per solo fede” e non attraverso le opere, in base al quale il credente deve solo confidare nella propria fede e nel perdono gratuito da parte di Dio. Nel nuovo contesto religioso, la carità non è più uno strumento di elevazione spirituale, ma la sola via della salvezza è la fede. Di conseguenza in gran parte d’Europa la mendicità viene bandita ed in molti casi la carità individuale vietata, lasciando agli enti benefici istituiti in ogni città il compito di provvedere ai poveri. In questo contesto, anche nell’Europa cattolica, prende piede la prassi di “discriminare”, ossia di distinguere fra poveri bisognosi (per lo più malati, fanciulli, anziani o donne sole) da sostenere con la beneficenza, e poveri oziosi (per lo più ragazzi o uomini in grado di lavorare) da avviare al lavoro negli ospizi o da bandire dal territorio. La distinzione fra il povero locale e quello forestiero derivava in molti casi dalle cosiddette licenze di mendicità, per ottenerle i bisognosi dovevano portare l’attestato di povertà e il certificato di battesimo, rilasciati dal parroco, il quale poteva concedere la licenza di mendicità solo a chi era nato nella giurisdizione in cui operava l’ufficio. Al contrario, al povero forestiero, cioè a chi 42 proveniva da un’altra giurisdizione, era negato qualunque aiuto. La reclusione era dunque la sola risposta possibile e la povertà si doveva dichiarare “sbandita” ossia abolita, in presenza di pubblici istituiti destinati al soccorso dei poveri. In ogni caso è presente l’idea tipicamente illuminista che la povertà sia in fondo, una colpa di chi non sa uscire dal proprio stato di ozio o di ignoranza, mentre il lavoro viene assunto come un valore etico capace di riscattare dalla miseria. Nel corso dell’età moderna si assiste a diverse e successive ondate migratorie dalle campagne alle città. In questi anni masse di contadini impoveriti si riversano nelle città europee alla ricerca di lavoro e di sostentamento, provocando immediate reazioni da parte delle autorità locali che adottano quasi ovunque provvedimenti per il respingimento dei poveri forestieri. Nel 1522 a Norimberga per la prima volta viene deliberata la centralizzazione dell’assistenza ai poveri. Nel 1526 viene pubblicato il trattato De subventione pauperum (Sull’assistenza ai poveri) dell’umanista spagnolo Juan Luís Vives nel quale si sostiene la necessità di passare dalla carità individuale all’assistenza organizzata e disciplinata. La laicizzazione dell’assistenza è un tratto comune sia ai paesi cattolici che a quelli protestanti. In Italia a partire dagli anni centrali del Cinquecento assistiamo alla fondazione di istituti assistenziali grazie ai fondi di privati cittadini e di confraternite, con l’appoggio di principi, Consigli municipali e vescovi. Il patrimonio amministrato delle istituzioni assistenziali si accrebbe al punto da rappresentare una quota analoga a quella di molti patrimoni nobiliari. In molti casi gli ospedali costituirono doti destinate ad aiutare le ricoverate a sposarsi, oppure fornirono contributi in denaro o in natura ai ricoverati più volenterosi che uscivano dall’istituto per aprire una piccola bottega. Fuori dall’Italia uno dei modelli più significativi è quello dell’Inghilterra, dove vengono istituite nel 1575 le prime Houses of Correction (case di correzione) destinate a rinchiudere vagabondi e assistere i poveri bisognosi; trasformate in Workhouses (case di lavoro), assumeranno nel Seicento il carattere di vere e proprie fabbriche alimentare dal lavoro forzato dei reclusi. A partire soprattutto dal 45 comunione pasquale era immediatamente sospettato di essere un miscredente o un peccatore con la coscienza sporca. Nella vita di un credente a ciascuna tappa della vita corrisponde un sacramento o un “rito di passaggio”: battesimo, comunione, matrimonio, estrema unzione. La parrocchia è il luogo della celebrazione di questi riti collettivi e di conservazione della loro memoria scritta (archivi parrocchiali). Il battesimo svolto dalla presenza dei padrini e non necessariamente dei genitori, era l’atto che consentiva di iscrivere alla comunità un suo nuovo componente, attribuendolo ad una coppia di coniugi e di conseguenza ad una famiglia. Era un atto civile e religioso, da cui dipendeva l’identità di ciascuno. La scelta dei padrini era di conseguenza un fatto di estrema importanza che determinava alleanze famigliari o rapporti di protezione (come il padrinaggio o patronato). Dopo il battesimo, la prima comunione rappresentava per il cristiano l’ingresso nella comunità dei fedeli. La confessione rappresentava la pacificazione con i propri nemici e la richiesta del perdono a Dio tramite la Chiesa. Solo a partire dal Concilio di Trento il matrimonio diventa il sacramento fondamentale in quanto rappresenta l’atto costitutivo di una nuova famiglia e in genere l’unione di due patrimoni. Esso deve quindi garantire il consenso dei coniugi, ma soprattutto delle due famiglie di origine che attraverso di esso stringono un patto di alleanza destinato a durare nel tempo. È bene ricordare che fino alla metà del Cinquecento il matrimonio era un atto eminentemente civile, celebrato di fronte al notaio o al giudice. Il matrimonio era essenzialmente un patto tra famiglie. In molti casi il matrimonio sanciva una pace fra due famiglie rivali che in questo modo dichiaravano la loro alleanza ed unione di fronte alla comunità. L’estrema unzione è un sacramento che ricevevano solo coloro i quali spirano nel loro letto con i conforti delle religione, mentre la maggior parte di coloro che muoiono lontano da casa (per strada, sul lavoro ecc..) non riceve i sacramenti e solo in alcuni casi può avere una degna sepoltura. Parroci e parrocchie. La chiesa come carriera Nella società di antico regime la parrocchia è il luogo dove vengono vissuti collettivamente i tre momenti chiavi della vita: 46 battesimo, matrimonio e sepoltura. La figura del parroco riveste pertanto un’importanza particolare. Nel mondo rurale egli rappresentava infatti il principale mediatore fra la società contadina e la Chiesa. Il parroco di villaggio fa organicamente parte della comunità nella quale è inserito e né condivide i problemi; è l’amministratore dei sacramenti e della liturgia, ma è anche confessore. È quasi sempre lui il mediatore dei conflitti famigliari e sociali del villaggio. Inoltre il parroco è ufficiale di stato civile, in alcuni casi può essere notaio, maestro di scuola, musicista, agente di prestito, comunque organizzatore della vita sociale della piccola comunità. Nella maggior parte dei casi, è una delle poche persone e in molti casi l’unica persona istruita e alfabetizzata del villaggio. Il concilio di Trento definisce per la prima volta in maniera inequivocabile i doveri del parroco, imponendo un nuovo ideale modello di sacerdote: residente nella parrocchia ed impegnato nella cura d’anime, preparato, obbediente e disciplinato, capace di rispondere sia alle rinnovate esigenze della chiesa, sia a quelle di una società in trasformazione. Al tempo stesso il parroco avrebbe potuto rafforzare il suo ruolo di mediatore in virtù della sua maggior preparazione professionale e della sua rinnovata capacità di rispondere prontamente ai bisogni della sua comunità, indirizzandoli e disciplinandoli secondo i precisi intendimenti della Chiesa. Il controllo sui parroci e sulla vita delle parrocchie si esercitava anche attraverso le periodiche visite pastorali cui ogni vescovo era tenuto nella sua diocesi. Il parroco confessore doveva essere consapevole che al contadino si poteva dimostrare sempre “umiltà e sottomissione”. Tra Quattro e Cinquecento i papi regnanti si dedicano a riordinare le finanze pontificie, a contrastare la feudalità minore dell’Italia centrale e a schiacciare l’autonomia di signorie territoriali. All’interno della chiesa, dominava l’alto clero italiano, per lo più nepotista e legato alle fazioni nobiliari e dinastiche che prevedevano la presenza di un rappresentante in Curia per ogni grande famiglia nobile della penisola, possibilmente vescovo o cardinale. Fino al Concilio di Trento, si poteva essere vescovi non titolari, ossia godere delle rendite di una o più diocesi senza avere cura d’anime, senza essere ordinati vescovi e addirittura senza essere sacerdoti. La 47 carriera ecclesiastica era una carriera come un’altra, riservata in primo luogo agli esponenti delle principali famiglie nobili romane, ma anche ai figli cadetti delle principali dinastie signorili italiane. I legami familiari restavano comunque fortissimi. Chi proveniva da una potente famiglia, o era legato da rapporti di parentela con papi e cardinali, spesso raggiungeva i vertici molto rapidamente ed in giovane età. In molti casi le cariche e i benefici erano ereditari, come dimostra lo stesso ruolo di “cardinal nipote”, ossia del nipote o del parente più stretto del papà (spesso si trattava di un figlio naturale) al quale veniva di diritto attribuito il titolo di cardinale. La carriera ecclesiastica consentiva di controllare ingenti patrimoni e di determinare la successione a decine di enti, abbazie, conventi e numerosi benefici ecclesiastici. Differenze religiose L’Europa cristiana non si identifica con l’Europa cattolica. Già divisa dal 1054 fra Chiesa cattolica di rito latino e Chiesa ortodossa di rito greco, l’Europa Cristiana si spacca ulteriormente con la crisi religiosa del Cinquecento. Contemporaneamente, la cacciata degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna nel 1492, sancisce la frattura con le minoranze non cristiane. La lunga stagione dell’intolleranza si apre dunque con gli inizi del Cinquecento, introducendo concetti come “minoranza religiosa”, “eterodossi”’ “eretici” o “infedeli” . Nell’Europa cattolica le minoranze protestanti sono duramente perseguitate e in alcuni casi, come nella Spagna di Filippo II, la loro presenza è addirittura estirpata. I musulmani presenti in Spagna fin dal medioevo, sono costretti alla conversione o espulsi dalla penisola iberica. Solo in Francia con l’Editto di Nantes promulgato nel 1698 stabilisce il principio della tolleranza religiosa, garantendo il privilegio di “religione di Stato” alla chiesa cattolica, e garantendo il diritto di culto alla minoranza protestante, pur con alcune restrizioni. Nell’Europa protestante, invece le minoranze cattoliche vengono per lo più tollerate anche se in molti casi private dei diritti politici e civili, e vengono perseguitate solo in casi estremi, come nell’Inghilterra di Elisabetta I. Come si può constatare, le condizioni delle minoranze religiose cambiano da luogo a luogo e cambiano anche nel corso del tempo. Si è sostenuto da più parti che il protestantesimo abbia favorito o 50 cattolicesimo; degli ebrei e dei musulmani (detti moriscos) convertiti al cristianesimo. Ma è anche il caso degli indios e dei nativi americani convertiti a forza al cristianesimo dai missionari europei. Tra Cinque e Seicento gran parte dei comandanti delle navi corsare, che incrociavano nel Mediterraneo facendo capo ai porti di Algeri, Tunisi o Biserta erano dei “rinnegati”, ossia erano in origine marinai cristiani calabresi, siciliani, sardi, pugliesi, toscani o genovesi, catturati dai corsari barbareschi e successivamente convertiti all’islam. Uomini di mare coraggiosi e spietati, ma di origine umilissime, che avevano trovato nella società ottomana una possibilità di riscatto che mai l’Occidente cristiano avrebbe offerto loro. Catturati dai corsari sulle coste settentrionali del Mediterraneo, o fatti prigionieri in guerra, i giovani cristiani che accettavano di convertirsi all’islam dopo aver servito per qualche tempo come schiavi dei turchi, potevano sperare davvero in un futuro migliore. I prigionieri musulmani catturati e condotti in Europa erano destinati al carcere a vita, o al massacrante lavoro di rematori sulle navi cristiane, o alla condizione di schiavi presso famiglie nobili europee. Sono rarissimi i casi di musulmani integrati nella società cristiana. Un esempio fu quello di Leone l’Africano. Nel 1518 un pirata spagnolo dona al papa Leone X de’ Medici un prigioniero musulmano catturato durante una spedizione navale nel mediterraneo. Si tratta di un colto diplomatico marocchino, Al- Hasan al-Wazzan, nato a Granada in Spagna, prima della cacciata dei musulmani. Incarcerato per un anno, dopo aver ricevuto un’istruzione religiosa, Al-Hasan viene battezzato cristiano con il nome di Giovanni Leone (in onore del papa) e liberato alla fine del 1519. Accolto nella corte pontificia, Leone l’Africano ottiene la protezione del papa ed entra in rapporto con i più importanti intellettuali dell’epoca, occupandosi anche della traduzione in arabo della Bibbia. Cap. 12: Figure e spazi della cultura Ecclesiastici e cortigiani. Accademie e biblioteche È solo tra la fine del Sei e la metà del Settecento che si incomincia a far riferimento agli uomini di cultura impiegando termini come “dotti” o “letterati”. Fra il Cinquecento e il Seicento 51 l’intellettuale per eccellenza è l’ecclesiastico. Il solo ad aver avuto un’istruzione superiore, a conoscere il latino e avvolte il greco, ad aver accesso ai libri delle grandi biblioteche monastiche, almeno fino all’invenzione della stampa. Fra gli ecclesiastici bisogna distinguere il clero regolare, ossia i frati e i monaci degli Ordini religiosi, per lo più legati alla vita conventuale, dal clero secolare cioè i preti attivi nelle parrocchie ed i semplici abati. Nel pieno Rinascimento, l’alto clero rappresentò uno dei settori più colti dell’élite, soprattutto in Italia. Dalla metà del Cinquecento la cultura sarebbe stata dominata invece dai potenti Gesuiti, in grado di monopolizzare la formazione dei ceti dirigenti di tutta l’Europa cattolica. La figura più tipica di questa stagione culturale è l’abate secolare settecentesco, impegnato come precettore o come segretario presso una famiglia aristocratica. L’altra figura intellettuale è quella del cortigiano. Uomini come Ludovico Ariosto, Tarquato Tasso e Leonardo da Vinci, furono al servizio di principi laici ed ecclesiastici dai quali ottenevano generose pensioni per svolgere le loro attività a corte. Sovrani, principi e cardinali, signori locali e potenti vescovi, tenevano volentieri al loro servizio poeti e pittori, bibliotecari e antiquari capace di arricchire e valorizzare le loro collezioni. La corte rinascimentale era un’istituzione di notevole interesse sulla quale l’attenzione degli storici si è concentrata a più riprese, per coglierne le connotazioni artistiche e culturali, quelle politiche, economiche ed antropologiche. Esempio di corte: quella piemontese di Rivoli o di quella napoletana di Caserta. La corte era soprattutto un potente strumento di organizzazione del consenso. Le accademie nascono fra 1400-1500 come luogo autonomo della ricerca, per iniziativa di piccoli gruppi di letterati, filosofi e scienziati, ed si affermarono nel Seicento come spazio privilegiato della sperimentazione scientifica. Organizzate secondo una precisa gerarchia, dotate di statuiti e distinte da un motto e da un’impresa (stemma). Per accademie si intendono quelle società di uomini stretti fra loro con certe leggi, a cui essi medesimi si soggettano, che radunandosi insieme si fanno a disputare su qualche questione, o producono e sottomettono alla censura dei loro colleghi qualche saggio del loro ingegno e dei loro studi. 52 Furono soprattutto le accademie scientifiche a segnare il clima di una nuova stagione: la più celebre ed antica accademia scientifica è l’Accademia dei Lincei, fondata a Roma nel 1603 e tuttora considerata la più prestigiosa istituzione accademica italiana. Nel corso del Settecento con la trasformazione delle antiche accademie in istituzioni più formalizzate, sostenute e finanziate dallo Stato ed investite di compiti di pubblica utilità, nascono le nuove accademie statali. Dapprima in Francia e poi nelle principali capitali dell’Europa monarchica (Londra, Berlino, Stoccolma, San Pietroburgo) tali accademie, promosse direttamente dai sovrani avevano il compito di fare ricerca nei diversi campi del sapere. Annessi alle accademie sorsero, tra 1600-1700 anche laboratori, giardini botanici, osservatori astronomici e alcune grandi biblioteche aperte agli studiosi e destinate a raccogliere i testi più importanti che si pubblicavano in Europa. Fino a quel momento non esistevano biblioteche pubbliche. Le biblioteche universitarie si diffusero nel corso del 1700, affidate alle cure dei professori o di bibliotecari. La professione del bibliotecario emerse solo allora come quella di un uomo di cultura e non di un semplice custode. La stampa e l’editoria. La circolazione delle idee L’importanza dell’invenzione della stampa a metà 1400 rappresentò davvero una “rivoluzione inavvertita”. Le prime aree di diffusione della stampa furono la Germania e la Valle del Reno (Colonia, Strasburgo e Magonza), la capitale culturale dell’editoria europea del 1500 fu sicuramente Venezia, con la figura di Aldo Manuzio (1450-1515), il maestro di scuola umanista divenuto raffinato stampatore. La diffusione della stampa implicò anche la nascita di nuovi mestieri (compositori, impaginatori, correttori di bozze) e la trasformazione di antichi mestieri in copisti, xilografi, illustratori, librai, rilegatori al servizio di un mercato in espansione. Il mondo dell’artigiano vide emergere al proprio interno la categoria dei tipografi come una sorta di élite alfabetizzata e spesso discretamente acculturata. Nei primi decenni dopo l’invenzione della stampa i libri prodotti erano prevalentemente testi in latino di autori 55 dei testi, ritornando più volte sulle stesse pagine e sulle stesse righe ed approfondendo via via il significato più profondo (esegèsi) dei testi espressi. Questa lettura risultava molto efficace per le Sacre Scritture. La lettura intensiva favoriva l’approfondimento mnemonico ed ogni studente universitario ricordava a memoria intere pagine della Bibbia. Nel Settecento con la diffusione della stampa, incomincia ad affermarsi un diverso tipo di lettura di tipo estensivo, ossia basato sulla capacità di scorrere, sfogliare, consultare più testi di cui si trattiene l’essenziale. È una lettura più superficiale, poiché i libri vengono letti in maniera selettiva o parziale, comunque finalizzata a domande o ad interessi precisi. Si diffonde inoltre la pratica dell’annotazione o dell’appunto; studenti e studiosi incominciano a prendere note sui margini dei libri, secondo la tradizione medievale delle glosse, ma su taccuini o su fogli sparsi. In antico regime le scuole erano presenti soprattutto nelle città, mentre nelle campagne e nei villaggi erano assai poco diffuse. Solo nel Settecento una parte della popolazione rurale dell’Europa occidentale e settentrionale poté accedere all’istruzione di base. Nella maggior parte dei villaggi della Francia, della Germania e dell’Inghilterra furono istituite infatti scuole elementari a classe unica, dove si poteva imparare a leggere e a scrivere. I maestri di villaggio, erano per lo più preti o parroci, le uniche figure alfabetizzate. Soltanto a partire dalla seconda metà del Settecento, i maestri incominciarono ad avere una formazione professionale specifica. L’apprendimento era essenzialmente mnemonico e in alcuni casi i più grandi aiutavano i più piccoli, affiancando il maestro nelle esercitazioni, come ripetitori. Le lezioni si svolgevano in una stanza annessa alla parrocchia, munita di panche e raramente dotata di banchi. L’apprendimento della lingua era principalmente fonetico ed avveniva attraverso la lettura e la ripetizione dei testi, per lo più di carattere religioso. La lingua di base era sempre il latino. I libri di testo non esistevano e solo il maestro possedeva alcuni libri. Con l’invenzione della stampa nelle scuole vennero progressivamente introdotti manuali, compendi e libri di testo. Le punizioni corporali erano all’ordine del giorno. Collegi e università 56 Sia per i ceti elevati che quelli inferiori, l’istruzione dei figli era affidata a precettori privati alle dipendenze delle famiglie: per lo più religiose, preti, abati o pastori protestanti, giovani laureati in cerca di impiego, segretari e scrivani. Solo a partire dalla seconda metà del Cinquecento l’istruzione superiore dei ceti elevati incomincia a svolgersi all’interno di apposite istituzioni: i collegi, antenati degli odierni licei. Il modello più celebre è quello della Compagnia di Gesù, fondata nel 1550 dal prete spagnolo Ignazio di Loyola (1491-1556). Poi i Gesuiti istituirono collegi di istruzione superiore in quasi tutte le città più importanti e definendo un programma di studi che nel 1599 sarà codificato nella Ratio studiorum (tre classi di grammatica, una di umane lettere, una di retorica e due di filosofia). Con questo grande modello per la prima volta nella storia si realizza un dettagliato programma di studi, secondo un preciso calendario da seguire contemporaneamente in tutti i paesi ed in tutti i collegi della Compagnia. Componente essenziale dell’educazione gesuita era il senso della disciplina e dell’obbedienza all’autorità. Anche altri Ordini religiosi (Barnabiti, Scalopi, Somaschi) aprirono collegi d’istruzione superiore fra Cinque e Seicento. Si formò così in tutta Europa un corpo docente. Le scuole di villaggio si affermarono solo nel corso del Settecento, i collegi d’istruzione superiore nel Cinquecento, le università invece hanno un’origine più antica. Gli studi universitari potevano essere condotti solo a Bologna e a Padova, a Parigi, a Salamanca o a Oxford. Alla fine del Cinquecento le università erano costituite da tre facoltà: Teologia, Giurisprudenza e Medicina, destinate alla formazione delle tre uniche professioni allora riconosciute: il teologo, il giurisperito e il medico. Ma come funzionavano le università di antico regime? Le singole Facoltà erano governate dai Collegi dei dottori che selezionavano e nominavano i docenti, presiedevano agli esami di laurea e percepivano le sportule (tasse) per gli esami e le lauree. Le lezioni si tenevano nelle case dei docenti o nei locali dell’università e prevedevano: a) la dettatura dei trattati in latino; b) il commento, a cura del docente dei testi degli autori (le cosiddette glosse); 57 c) l’apprendimento e la ripetizione mnemonica dei testi più importanti; d) il teatro anatomico o il teatro chimico per quanto riguarda le discipline mediche; e) le dispute fra studenti e maestri sul passo di un autore, nel caso delle discipline teologiche, filosofiche e giuridiche. Al docente si affiancava spesso la figura del ripetitore, per lo più uno studente anziano o un giovane laureato (pagato dal docente) incaricato di far ripetere a memoria i testi agli studenti. Momento conclusivo del percorso di studi era la dissertazione finale (cioè la tesi di laurea), ossia la prova che consentiva di riconoscere la validità dell’apprendimento. Il sistema universitario europeo incominciò a trasformarsi con modalità e tempi diversi a seconda del paese, a partire dalla metà del Seicento. Dapprima con l’introduzione di nuove discipline, come la storia naturale, la fisica, la botanica, la chimica, l’ottica, la geografia, la storia, l’economia, la scienza politica; quindi con la nascita di nuove facoltà: chirurgia, Farmacia, Veterinaria, Architettura, Ingegneria, nel quadro di una maggior differenziazione e specializzazione dei saperi. Con la fine del Seicento l’equilibrio dei saperi si spostò, progressivamente verso i saperi pratici e “utili”, ma solo nel pieno Settecento il “sapere utile” e le scienze applicate ottennero un pieno riconoscimento ed una pari dignità. Il latino Fino al Settecento inoltrato, il latino fu la lingua della Chiesa e del diritto, quindi principale strumento del potere, della diplomazia, dell’arte e dell’architettura, della scuola, della filosofia, della medicina, della scienza. In latino si svolgevano le lezioni nei collegi dei Gesuiti ed in quella lingua i ragazzi erano tenuti ad esprimersi in classe e con i docenti; in latino si tenevano i corsi universitari e in quella si redigevano le dissertazione di laurea. Il Concilio di Trento impose il latino come unica lingua della Chiesa e della lingua cattolica.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved