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La società di antico regime (XVI-XVIII secolo), Sintesi del corso di Storia Moderna

Si indaga sulla società di antico regime: i problemi storiografici, lo stile di vita, le trasformazioni in atto, le innovazioni belliche, la laicizzazione della cultura. Si ripercorre il punto di vista sociale politico ed economico di una società che arriva agli albori della Rivoluzione Francese del 1789.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 19/02/2019

Memolita96
Memolita96 🇮🇹

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Scarica La società di antico regime (XVI-XVIII secolo) e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Riassunto: La società di antico regime (XVI-XVIII secolo) – Temi e problemi storiografici 1.IL LAVORO DELLO STORICO 1. Storia e storiografia Il capolavoro di Marc Bloch, si apre con la domanda di un ragazzo al padre, professore di storia: “Papà spiegami a cosa serve la storia”. La parola storia è ambigua e ha molti significati. Indichiamo: a. Concreto divenire degli eventi nel tempo storia come realtà oggettiva (evento) STORIA b. La storia come è narrata e interpretata dagli uomini storia come prodotto soggettivo (narrazione) STORIOGRAFIA c. Un racconto reale o fantasioso Tale ambiguità tipica della lingua italiana è risolta facilmente dalla lingua inglese che distingue la story raccontata dalla historia, storia degli uomini. In italiano si distingue il 1° caso storia e il 2° caso storiografia. In italiano STORIA deriva dal latino historia, che a sua volta deriva dal greco antico historèin > osservare, indagare, informarsi. Infatti, Histor è colui che vede, che sa, il testimone. Historìe è l’indagine, la ricerca. L’idea greca è inseparabile da ricerca. Non è un caso che i due più grandi storici del mondo greco, Erodoto (484-425 a.C.) e Tucidide (460-404 a.C.), abbiano intitolato le loro opere Historie (Le ricerche) e Tà Èrga (I fatti). I 2 modelli sono alla base di due concezioni diverse della storia e della storiografia: • da un lato la storia come ricerca, osservazione, indagine richiama la storia sociale multidimensionale affermatasi a partire dai primi del 1900 collegata alla geografia e antropologia • dall’altro la storia come narrazione di fatti soprattutto politici e militari si richiama una storia prevalente fino al1900, centrata sulle grandi narrazioni di fatti e di avvenimenti politici, militari e istituzionali, meno attenta ai mutamenti delle società umane (M. Bloch la definisce storia evenemenziale). Cos’è la storiografia? Noi non conosciamo nulla della storia se non sia passato attraverso il filtro della interpretazione e della narrazione di uno storico. Ecco perché non è concepibile una storia che non sia inizialmente storiografia. Mentre la conoscenza del presente pretende di derivare dalla percezione, la conoscenza del passato è sempre storia della storiografia. Fin dai tempi più antichi 3 sono le principali funzioni dell’attività storiografica: 1. ricordare deriva la storiografia narrativa 2. ammaestrare deriva la storiografia pragmatica 3. spiegare deriva la storiografia scientifica La storiografia risponde pertanto ad un bisogno sociale fondamentale, presente in tutte le epoche e in tutte le civiltà: la ricerca di identità. L’attività storiografica rappresenta la memoria di una comunità, sia essa una famiglia, una gens, una tribù, un villaggio, uno Stato, una nazione. L’identità è ciò che definisce i tratti comuni con coloro che riteniamo nostri simili. Identità è anche ricerca della propria origine. “Lo storico è come l’orco della fiaba”: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda. L’interesse dello storico si concentra sugli uomini e sulla loro vita, di cui possiamo ritrovare tracce negli archivi, libri, quadri musica, ecc.. Oggetto della ricerca storica sono dunque le società umane nella loro molteplicità, nel loro divenire e mutare, quindi nelle loro trasformazioni nel corso del tempo. La storiografia considera il tempo e lo spazio. Soggetto e oggetto della storia è lo storico, che riflette e scrive di storia, ma è anche implicato nelle vicende del suo tempo. 2. Storia e memoria Lo storico è inizialmente il testimone, o colui che può risalire alla memoria dei testimoni. Il suo compito è come quello di chi ricostruisce i ricordi di uno smemorato: fornisce una lettura del passato, ma sempre in chiave soggettiva e quindi suscettibile di essere smentita. La memoria umana è infatti sempre selettiva. Ogni memoria ingloba e seleziona anche una parte di quella delle generazioni precedenti attraverso il racconto o la storia. Stesso discorso vale anche per la memoria collettiva (esempio: immigrati che si integrano in una comunità di cui non conoscono il passato). La trasmissione della memoria è dunque per le società umane essenziale e necessario, e può manifestarsi attraverso la storiografia e riti collettivi condivisi (racconti, festività). La pratica storiografica si fonda dunque sulla memoria, ma non deve identificarsi con essa. Lo storico non è testimone ma un loro interprete critico. A partire dal Rinascimento (1500-1600) lo storico non è più testimone dei fatti, ma un loro interprete critico: la presenza dello storico-testimone è considerata, infatti, un elemento di inquinamento delle prove e non più garanzia di veridicità. Questo cambiamento consentì il trapasso dall’atteggiamento fideistico nei confronti delle fonti alla ricerca della verità basata sullo studio critico di documenti e monumenti. La questione è più delicata quando si tratta di storia contemporanea (esempio: Primo Levi testimone e non storico!) 3. Scrivere di storia Nel 1975 lo storico francese Francis Furet dichiarava tramontata la cosiddetta storia-racconto (dominata da cronologia, evento, individualità), a favore della storia-problema (dominio di struttura, serialità, quantità) a favore della storia-problema, dominio della struttura, del seriale, del quantitativo: lo storico doveva avvicinarsi sempre di più all’approccio scientifico, lavorando più che sui singoli avvenimenti, sulle strutture e sui quadri socio-economici di lungo periodo, sforzandosi di costruire modelli interpretativi multidimensionali. Nel 1979 lo storico inglese Lawrence Stone constatava un ritorno alla narrativa che implicava non la rinuncia all’analisi, ma la consapevolezza che la narrazione e l’eleganza stilistica rappresentavano componenti ineliminabili del “discorso storico”. Alle spalle di Stone di Stone stava infatti una stagione di forte critica verso la storia narrativa o evenemenziale al quale gli storici nuovi aveva contrapposto un modello dove il dato quantitativo era protagonista assoluto. La storiografia nasce infatti come racconto, strettamente congiunta con i generi letterari (poesia, epica, retorica, narrativa ecc.) più diffusi nel mondo antico. Fare storia significa sempre e comunque, innanzitutto, “raccontare” una storia: storia vera anziché inventata, ma pur sempre storia. Il discorso storico si svolge su almeno due piani distinti: a. descrizione o narrazione: lo storico espone i fatti e “fa parlare” i documenti relativi, ricorrendo in genere a stile e tecniche mutuate dalla letteratura (descrizioni di ambienti, persone, drammatizzazione, si può far gioco anche sulle emozioni del lettore) b. analisi o interpretazione: lo storico espone le proprie considerazioni relative all’accadimento storico, ricorrendo invece allo stile più sobrio proprio della saggistica scientifica (conseguenze e argomentazioni). Ogni genere storiografico implica un’organizzazione del discorso storico diversa e quindi uno stile narrativo differente. Un buon storico non deve essere ignaro del tutto delle tecniche narrative. Più egli ne farà uso, più il suo prodotto storiografico sarà fruibile. L’autore di un testo aspira alla veridicità, ossia a far riconoscere il suo testo come veritiero e quindi storico. Per realizzare il suo obiettivo non solo fa sapere la verità su avvenimenti, ma prova con documenti e argomentazioni che si tratti di verità. I documenti hanno il compito di provare la verità, la spiegazione ha il compito di certificarla. Lo storico deve credere e far credere che ciò che dice è la verità, sapendo però che non si tratta mai di una verità assoluta e indiscutibile. La verità storica è dunque il prodotto di una costruzione di senso non priva di trabocchetti. 4. Le fonti Il concetto di antico regime è stato coniato nei giorni della Rivoluzione francese segnandone l‘atto di morte. Conoscere le società di antico regime significa conoscere: a. le fonti che gli storici hanno utilizzato b. la storiografia, ossia le principali opere storiche che le riguardano c. il significato delle principali categorie storiografiche (schemi di periodizzazione, parole chiave ..) d. i grandi dibattiti che hanno visto gli storici confrontarsi prima di giungere a conclusioni parzialmente condivise. Partiamo dalle FONTI. Spesso si impiegano i vocaboli “fonte” e “documento” come se fossero sinonimi. Non è così. Il documento si definisce rispetto al passato (il mondo di cui è testimonianza), la fonte si definisce rispetto al futuro (la conoscenza che lo storico vuole ricavare dal documento). Fonti non sono dunque solo i documenti d’archivio, ma l’insieme di ciò che ci consente di capire qualcosa delle società del passato. Per lo storico le fonti sono l’oggetto principale della sua ricerca. Le fonti possono essere: ■ primarie, ossia testimonianze dirette, e quindi: • manoscritte, reperibili per lo più negli archivi • 1453: fino a non molti anni fa alcuni manuali facevano iniziare l’età moderna con il 1453 (caduta di Costantinopoli e fine dell’Impero romano d’Oriente), adottando una data che richiamava per simmetria quella della caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476, convenzionalmente indicata come la fine del mondo antico e l’inizio del medioevo. Si tratta una data fortemente eurocentrica. • 1492: se si sceglie invece la data del 1492 il richiamo evidente è alla scoperta del Nuovo Mondo americano. Ma il 1492 è anche la data conseguente alla cacciata dei musulmani dalla Spagna, immediatamente seguita da quella degli ebrei: primo atto di una storia di intolleranza religiosa e che si sarebbe protratta per secoli. • 1517: se ci si sposta invece nel mondo tedesco si constaterà come i manuali indichino come data d’inizio il 1517, la data dell’affissione delle 95 tesi di Wittenberg da parte di Lutero. Se si guarda poi alle date ad quem, con le quali si chiude l’età moderna, anche qui le ipotesi interpretative sono diverse: • 1789: in Francia si indica la data dello scoppio della Rivoluzione francese come fine dell’antico regime, quindi fine della storia moderna e inizio di quella contemporanea, • 1815: in Italia si preferisce la data della Restaurazione • 1918: lo storico americano Arno J. Mayer indica addirittura come data di fine dell’antico regime il 1918 e come periodo di inizio della sua definitiva crisi il 1848 con le grandi rivoluzioni europee e l’emergere del movimento socialista e dei partiti liberali • 1861-70: alcuni storici italiani individuano nel 1861 (proclamazione del Regno d’Italia) la vera fine dell’antico regime per la penisola, altri ancora spostano ulteriormente la data al 1870, proponendo una periodizzazione meno italocentrica. 4. Età moderna o antico regime? Gli storici della società europea impiegano abitualmente la categoria storiografica di “antico regime” per distinguere il modello sociale prevalente in Europa nell’epoca compresa tra XVI e XVIII secolo. La categoria di antico regime per noi equivale a quella di età moderna. Nonostante l’origine francese del termine, la categoria di antico regime è ormai diventata una chiave storiografica in grado di caratterizzare un’epoca piuttosto lunga. Possiamo quindi affermare che: se la categoria di età moderna è tendenzialmente dinamica (in quanto suggerisce di osservare i mutamenti in atto nelle società europee nell’arco di 3-4 secoli, i cui effetti si risentono ancor oggi), la categoria di antico regime è invece una categoria tendenzialmente statica (in quanto descrive le caratteristiche di un sistema socio-politico affermatosi fra 1500 e 1700, spazzato via dalla rivoluzione francese). 5. I fattori della modernità Nello studio di qualsiasi società lo storico deve tener conto di almeno quattro fattori fondamentali: 1. Fattore economico dal quale derivano le condizioni materiali di una società. Lo storico deve comprendere: • le basi economiche della società, • i rapporti di proprietà prevalenti; • le forme ed i modi della produzione; • le dinamiche economiche in atto (sviluppo, espansione, crisi). 2. Fattore sociale. Lo studioso deve domandarsi: • su cosa si fondano le gerarchie sociali e quale è la loro natura (economica, militare, giuridica, religiosa) • se esistono (e quali sono) le forme della mobilità sociale dal basso verso l’alto • quali sono le dinamiche e i conflitti sociali in atto. 3. Fattore politico. Lo storico deve indagare: • i modelli prevalenti del potere politico; • le forme di governo più diffuse; • i fondamenti teorici e giuridici del potere. 4. Fattore culturale. Lo studioso deve comprendere: • i modelli culturali prevalenti di un’epoca, • i luoghi e le forme di elaborazione delle conoscenze, • le figure intellettuali di riferimento, • il livello di diffusione dei saperi e di alfabetismo. Relativamente alla società di antico regime si può caratterizzarla: ■ sul piano economico siamo in presenza di un regime a prevalente base agricola, fondato su un’economia preindustriale, ossia non determinata dallo sviluppo industriale ma dal commercio e dallo scambio di prodotti frutto di una lavorazione semi-artigianale. Prevale la grande proprietà feudale a bassa redditività, ma sono presenti importanti manifatture tessili. L’economia di scambio è limitata da vincoli di natura giuridica. I legami di tipo signorile prevalgono su quelli di tipo economico. ■ sul piano sociale la società di antico regime si riconosce per corpi, ceti, ordini e non per individui. Ciascun individuo ha personalità giuridica solo in quanto in parte di un gruppo (ceto o corpo), mentre raramente le qualità individuali consentono di superare le barriere sociali. Ogni corpo/ceto/ordine si distingue per i privilegi di cui gode. Il dominio dei ceti privilegiati è garantito da leggi e consuetudini. La mobilità sociale verticale è limitata e regolata da norme precise. ■ sul piano politico il modello prevalente di governo delle società di antico regime è l’assolutismo monarchico (Francia e Spagna), tuttavia sopravvivono governi repubblicani a carattere oligarchico (Amsterdam, Venezia..). Fa eccezione la monarchia parlamentare inglese dotata di organi di rappresentanza molto forti che non perdono mai le loro funzioni. Sul piano giuridico il potere si fonda quasi ovunque sul diritto divino o sul diritto naturale, ossia sulla convinzione che il potere monarchico e il diritto derivino direttamente dalla volontà di Dio. ■ sul piano culturale si intende il rispetto della tradizione. L’autorità degli antichi domina sui moderni, perché ritenuti fragili. Ne segue che la cultura è elaborata e fruita quasi esclusivamente dalle élite alfabetizzate, di cui il clero rappresenta una significativa componente e che gli intellettuali dipendono quasi sempre dal potere politico o ecclesiastico: la cultura e le arti, infatti, non hanno un mercato autonomo. La cultura scritta è ancora patrimonio di pochissimi uomini e solo con la Riforma protestante l’alfabetizzazione incomincia ad allargarsi. 6. I cambiamenti che introducono la modernità Si può provare a definire l’età moderna in base a 6 grandi cambiamenti fra il 1400 e 1700: 1. Le grandi esplorazioni geografiche (1492-1524) portano non solo alla scoperta del continente americano, ma alla mondializzazione della storia e dell’economia, allo spostamento dell’economia-mondo dal Mediterraneo all’Atlantico e alla prima grande crisi della coscienza europea. La comparsa di nuovi prodotti mutarono il regime alimentare (patata, pomodoro, tabacco,..) e la scoperta dei giacimenti di oro e argento indussero a sfruttare le risorse provocando degli squilibri sull’economia europea. 2. La rottura dell’unità del mondo cristiano (1517-1555) in seguito alla Riforma protestante e alla crisi del papato e della Chiesa di Roma, ha come conseguenza l’aprirsi di una stagione di conflitti religiosi gravissimi, ma anche la scoperta della possibilità di un pluralismo religioso all’interno del cristianesimo. L’Europa cristiana non si identifica più con l’Europa cattolica, ma si affermano diversi modi di vivere. Solo la Chiesa cattolica manterrà una struttura verticistica rafforzando il carattere monarchico del Papato, mentre le Chiese protestanti affermeranno un modello presbiteriano, fondato su pastori e Sinodi. 3. La nascita degli Stati moderni dotati di confini precisi, difesi da eserciti permanenti e amministrati da burocrati e funzionari mantenuti grazie ad un sistema fiscale, che continuano ad esistere e ad operare, seppure con un ruolo più limitato rispetto alla stagione precedente. 4. La nascita del capitalismo (economia di mercato) e la trasformazione dell’economia europea da agricola a commerciale, con le conseguenti rivoluzioni agricola e industriale, non vanno disgiunte da altri fenomeni come l’aumento demografico, dei prezzi, dell’urbanizzazione e lo sviluppo della manifattura 5. L’invenzione della stampa l’aumento della possibilità di ricorrere alla pagina scritta e di diffondere i frutti del sapere, il minor costo di produzione di un libro, la circolazione delle idee, sono fattori che rappresentano una rivoluzione inavvertita. Inoltre, sono state fondamentali nella propaganda e durante la Riforma. Con la diffusione del libro a stampa si afferma una nuova figura di intellettuale laico e si assiste alla progressiva professionalizzazione dei letterati. 6. La rivoluzione militare trasforma completamente i modi di fare la guerra a partire dalla polvere da sparo e avvia la crisi della cavalleria soppiantata dall’artiglieria, arma borghese per eccellenza, fondata sulla tecnica più che sul valore. La crisi della cavalleria sarà una delle espressioni più tipiche della crisi di ruolo della nobiltà feudale che investirà i ceti dirigenti europei fra 1600 e 1700. Il mutamento della guerra riguarda la tattica, strategia militare e la decisa crescita della dimensione degli eserciti. Inoltre cambia la struttura anche delle città: scomparsa delle mura medievale, ma comparsa di fortificazioni basse e spesse, più adatte a sopportare i colpi di cannone. Nel complesso le guerre saranno più devastanti e drammatiche. 3. GLI SPAZI DELLA VITA E IL MONDO RURALE 1. I quadri ambientali Descrivere la società di antico regime significa innanzitutto definire i principali quadri ambientali entro i quali si muovevano le donne e gli uomini del passato: la campagna e la città. La CAMPAGNA è lo spazio di vita della stragrande maggioranza della popolazione europea (la popolazione contadina costituiva il 75%-95% della popolazione europea, che nel 1500 toccava già quota 80 milioni (Russia compresa); nel 1700 163 mln, nel 1914 460 mln): un mondo basato sulla comunità di villaggio e sull’economia rurale, (ossia sulla produzione di beni agricoli) popolato da donne e uomini la cui voce raramente è stata registrata in documenti d’archivio. Lungi dall’essere “naturale”, il paesaggio agrario è un prodotto antropico, ossia rappresenta il risultato del secolare intervento dell’uomo sulla natura: pianure e colline sono densamente abitate e coltivate, mentre le zone montagnose presentano rare isole insediative circondate da foresta, roccia o incolto. Le VIE DI COMUNICAZIONE sono assai limitate e i mezzi di trasporto, sono lenti, scomodi e costosi. Il mezzo più rapido (il cavallo) permette di muoversi al massimo a 20 chilometri all’ora. Le strade (sentieri, mulattiere, carrarecce) sono per lo più sterrate e solo le principali arterie di comunicazione prevedono alcuni tratti lastricati in pietra. Sassi, fango e polvere ricoprono quasi tutte le strade, e i carri erano privi di sospensioni molleggianti. Le merci deteriorabili (grano, vino, frutta) e quelle più pesanti (legname) viaggiano preferibilmente lungo le vie d’acqua (canali e fiumi). Le piene autunnali, le secche estive, i ghiacci invernali ostacolano frequentemente i trasporti fluviali, rendendoli poco sicuri. Viaggiare è dunque un’impresa scomoda e rischiosa. Lo storico francese Daniel Roche ha dimostrato che la società era mobile e sostanziale, e si trattavano di viaggi a corto raggio. Inoltre, da alcune ricerche oltre il 50% della popolazione cambiava residenza passando da una parrocchia all’altra. Le campagne europee sono del resto caratterizzate da una bassa densità umana e insediativa. Raramente i contadini vivono isolati, ma per lo più raggruppati in villaggi circondati da campi, prati e boschi. I villaggi possono essere di varie dimensioni e forma: un aggregato casuale di abitazioni, un villaggio cresciuto sui lati della strada principale, o attorno ad una piazza. La dimensione della casa non è necessariamente legata al reddito dei suoi abitanti, ma alla struttura della famiglia: abitazioni molto piccole, di uno o due vani, ospitano in genere famiglie nucleari, mentre case, casolari e fattorie più ampie accolgono famiglie numerose. Le abitazioni sono costruite con legno, terra e paglia, raramente in muratura. Le case di montagna sono più spaziose per trascorrere al chiuso tutto l’inverno. La casa contadina era anche un riparo per gli animali o un deposito per gli alimenti a lunga conservazione. Il panorama materiale della casa contadina è costituito per lo più da sostanze vegetali o animali lavorate a mano per ottenere sia gli attrezzi da lavoro, sia gli arredi e le suppellettili domestiche. L’unico combustibile - impiegato per cucinare, per riscaldarsi e per lavorare - è il legno. Le finestre delle case contadine, per lo più, non hanno i vetri, ma solo gli scuri, o assi di legno per proteggersi dal freddo. Per case costruite in legno e paglia il fuoco rappresenta un pericolo e quindi lo si limita il più possibile, preferendo il calore animale per il riscaldamento, altrimenti la casa era dotata di un unico focale centrale per cucinare, riscaldare e illuminare l’ambiente. I mobili sono per lo più limitati ad un tavolo, ad alcune panche e sgabelli e ad una o più cassapanche dove vengono tenuti gli indumenti e gli oggetti di maggior valore. Il letto è considerato un oggetto di valore, prerogativa della coppia dei padroni di casa, mentre gli altri dormono su pagliericci. 2. Nascere e morire 4. Le basi agricole dell’economia. Il feudo In antico regime una gran quantità di prelievi si abbatte sulla terra lavorata dai contadini, a tutto vantaggio dei ceti superiori, non solo nobili ed ecclesiastici, ma anche possidenti. Nei paesi cattolici la forma di prelievo più diffusa è la decima ecclesiastica, originariamente in natura e destinata alle parrocchie, successivamente estesa a tutti gli enti ecclesiastici presenti sul territorio. Un villaggio poteva dunque pagare anche 4-5 cinque decime ecclesiastiche, oltre a quella destinata alla parrocchia, a seconda del numero di enti religiosi presenti sul suo territorio. Accanto alla decima troviamo la rendita signorile, articolata in varie forme, ma sempre determinata dalle consuetudini e ribadita nel corso dei secoli dalle carte di feudalità e consistente: • nelle corvées imposte ai contadini, • nei ricavi dei pedaggi su strade e ponti, • nei diritti di transito sulle merci che attraversano il feudo, • nei diritti su mulini, forni, frantoi, raccolta d’uva e produzione di vino e olio, pesca e utilizzo dei prodotti del bosco, • nei diritti sui mercati settimanali e sulle fiere annuali. I contratti agrari più diffusi sono affittanza, mezzadria ecc. In alcuni casi i contadini possono trattenere per sé una quota fissa del raccolto, in altri casi una quota proporzionale al prodotto agricolo. È evidente che consegnare al padrone la metà del raccolto è più gravoso che pagare una quota fissa di affitto, soprattutto nel caso di un buon rendimento del terreno. Il rapporto contrattuale più avanzato elaborato in età moderna era l’affitto. Il grande affittuario era per lo più un imprenditore agrario che versava al padrone un canone fisso in denaro in cambio della possibilità di far fruttare il terreno e di vendere sul mercato i suoi prodotti. Oltre al canone fisso in denaro, l’affittuario era tenuto a fornire ogni anno al padrone anche alcuni prodotti agricoli in natura, definiti “appendizi” o “regalie”, che in origine erano destinati alla mensa del signore (vitelli, maiali, formaggio, ecc..) La forza lavoro impiegata sui terreni dell’affittuario era costituita da braccianti salariati, ossia da contadini poveri o nullatenenti che vendevano il loro lavoro a giornata o a stagione. Mentre, i lavoratori stagionali venivano pagati in danaro, i giornalieri fissi vivevano una condizione molto simile a quella servile: solo una piccola parte del salario era in denaro, mentre il resto era costituito da vitto e alloggio. Se la paga era infima, la sicurezza del lavoro 250 giorni all’anno rappresentava comunque una garanzia. Un’ulteriore rendita è quella definita “di usura”, ossia la rendita derivante da ipoteche sui terreni, o da crediti concessi precedentemente e mai interamente saldati: diversi terreni agricoli erano gravati da ipoteche, i cui interessi continuava ad essere pagati a volte anche per secoli! Quindi le basi economiche della società di antico regime sono rurali e fondate su un’economia dominata dalla grande proprietà terriera. Nella prima età moderna le forme del possesso terriero sono, come nel medioevo, essenzialmente due: • il feudo Il feudo appartiene al patrimonio della corona, viene concesso temporaneamente ad un vassallo in beneficio, come remunerazione di un servizio prestato, ed è collegato con una giurisdizione, quindi con l’esercizio di poteri amministrativi e giudiziari su una porzione di territorio. Non è quindi una proprietà privata, ma un bene detenuto in concessione e sottoposto al “doppio dominio” del feudatario e del signore. Feudatari possono essere solo i nobili o le istituzioni (le città o gli enti religiosi), non i borghesi. • l’allodio un bene goduto in piena proprietà e non collegato con l’esercizio di giurisdizione: allòderi possono essere nobili o borghesi ed anche contadini Da queste due forme di possesso si distingue il demanio come insieme delle terre del principe territoriale. Nella società di antico regime, quindi, non c’è nessuna terra senza signore. Si trovano terre, villaggi, città vassalle che a loro volta esercitano il vassallaggio nei confronti di entità territoriali minori. Il legame vassallatico può vincolare singole famiglie di contadini o intere comunità e non esclude la possibilità di possedere terre proprie. Come era organizzata una signoria? In 3 lotti: 1. possesso reale del signore (terre di cui mantiene la proprietà e lo sfruttamento diretto); 2. dominio eminente (il signore è il proprietario di tali estensioni territoriali, ma le concede in fitto agli affittuari, che, pagato il canone d’affitto al signore, possono gestirla come ritengono opportuno; 3. terre comuni (demanio), non appoderate, sulle quali l’intera comunità esercita i suoi diritti (es. il bosco). L’economia signorile è un sistema complesso regolato da rapporti molto diversi rispetto a quelli dell’economia di mercato. 1. la maggioranza dei produttori (i contadini) è di fatto esclusa dagli scambi commerciali (non possiede eccedenze, ha difficoltà a raggiungere i mercati, che spesso li escludono); 2. alla base delle scelte economiche dei signori terrieri non vi sono ragioni legate alla massimizzazione del profitto, bensì di sostentamento: chi più spende e spreca più è rispettato e considerato potente. L’agricoltura si basa quindi sullo sfruttamento estensivo della terra, piuttosto che sul suo slittamento intensivo, come sarà dopo la rivoluzione agricola. Economia di mercato in Polonia fino 1700 solo i nobili potevano essere proprietari e potevano accedere al commercio internazionale, mentre i contadini, servi della gleba, limitati dalla mobilità del territorio, si limitavano allo scambio di beni agricoli o piccoli manufatti. Secondo il modello dello storico polacco Kula, una tenuta feudale col bilancio in attivo, ma fondata sul lavoro coatto dei contadini sottoposti a corvées , sarebbe risultata in forte passivo se avesse dovuto sottostare alle leggi del mercato retribuendo il lavoro contadino. Solo la natura gratuita e fuori mercato delle prestazioni lavorative salvava infatti l’economia feudale dal collasso, che si sarebbe verificato puntualmente alla fine del Settecento con l’abolizione dei diritti signorili. Una delle acquisizioni della storiografia più recente è la tripartizione dell’Europa feudale in: • un’area settentrionale, dove i vincoli feudali si sono per lo più trasformati in vincoli economici, ossia in censi rappresentati da contributi in denaro da consegnare al signore periodicamente, mentre i contadini possono disporre liberamente delle loro terre, venderle, e cederle. In quest’area si diffonde l’affitto capitalistico che vede singoli proprietari terrieri, nobili e borghesi prendere in affitto le terre signorili, coltivarle o cederle in subordinata-affitto. Si estingue la servitù della gleba; • un’area orientale e meridionale, dove, invece, i vincoli feudali sono più forti e duraturi e le condizioni di servaggio permangono gravose per i contadini, i quali non possono disporre della terra, ma sono tenuti a svolgere le corvees ( prestazioni obbligatorie di lavoro gratuito sulle terre del signore, comprensive anche dei servizi domestici nel palazzo signorile) • un’area mediterranea, in cui il feudo può diventare merce, le attività protoindustriali sono presenti in grandi e piccole aree. L’intervento dello Stato cerca di ritagliarsi con fatica e tra esiti alterni una sfera di autonomia e di sovranità. In tutta l’area mediterranea, comunque, si riscontra la distinzione (tipica della Francia) fra domaine (la parte del signore) e tenures (la parte dei contadini). 4. LA CITTÀ E IL MONDO DEL LAVORO 1. Lo spazio urbano in età preindustriale L’80-85% della popolazione europea, come detto, viveva in campagna: la rimanente parte (15-20%) viveva in città18. Le zone in cui la percentuale urbana è molto elevata e tocca il 20% del totale sono i Paesi bassi e l’Italia centrosettentrionale. Ma cos’è una città di antico regime? Essenzialmente un agglomerato urbano, avente una sua dignità (rappresentata dal potere statale o ecclesiastico): ne segue che in età moderna non tutti i centri urbani sono riconosciuti con il titolo di città, ma solo quelli che posseggono privilegi di carattere giuridico e fiscale concessi e riconosciuti dal sovrano (in Italia si definiscono città i comuni sede vescovile). Proviamo ora ad osservare la struttura fisica di una città di antico regime; si distinguono: a. un centro amministrativo con palazzo municipale e piazza; b.un centro commerciale con piazza del mercato ed eventuale palazzo o casa dei mercanti; c. un centro religioso con chiesa cattedrale, palazzo vescovile e relativa piazza20. Le chiese e i conventi sono disseminati nella città. I palazzi signorili, emblemi del potere, a volte ornati da alte torri e giardini, si affacciano sulle vie principali e attorno ad essi si stringono le abitazioni dei clientes delle principali famiglie patrizie. Strade e quartieri subiscono facilmente un processo di specializzazione dovuto alla necessità economica, all’abitudine o alla legislazione. Le povere abitazioni del popolo minuto, per lo più in legno, si ammassano nella zona attigua al mercato o nelle zone più periferiche. In molti casi vere e proprie borgate popolari (sobborghi) sorgono immediatamente fuori dalle mura. Nei sei lunghi secoli che separano gli inizi del Duecento dalla fine del Settecento, la società urbana del vecchio mondo fu profondamente segnata dalla presenza del lavoro. Attorno alle Arti e alle Corporazioni si disegnò infatti il quadro economico ed istituzionale dal quale emerse la civiltà moderna: l’esercizio di un’arte, o comunque il legame con le sue espressioni istituzionali, era il prerequisito essenziale per poter svolgere qualsiasi attività. L’iscrizione ad una Corporazione precedeva i diritti di cittadinanza. Una città di antico regime è degna di questo nome e si distingue da un semplice borgo o villaggio SOLO se possiede alcune caratteristiche: mura difensive, guarnigione, uffici giudiziari o magistrature, mercato. Può essere o non sede del vescovo, sede di una corte o residenza di un principe. Nell'’Europa moderna non tutti i centri urbani sono riconosciuti con il titolo di città, ma solo quelli che hanno requisiti. Ciò che caratterizza una città è la presenza di privilegi di carattere giuridico e fiscale. Tutti i privilegi sono menzionati negli statuti che rappresentano la carta fondamentale mediante la quale la città è riconosciuta in quanto potere amministrativo. Il privilegio di gran lunga più importante e distintivo di una città è il diritto all’autoamministrazione, ossia ad eleggere propri organi di governo. Questi dovranno rispondere all’autorità superiore (il principe, il re, ecc), ma potranno esercitare autonomamente una serie molto importante di funzioni. La città, inoltre, esercita il suo potere sul contado, lo spazio di terra coltivabile necessario alla sopravvivenza della città e alla sua difesa. 2. La comunità urbana e le sue istituzioni Ma chi sono e quanti sono gli abitanti delle città di antico regime? Rappresentano solo il 15% della popolazione europea e solo il 2% di essi vive in città con più di 15.000 abitanti. Sono nobili, vescovi, funzionari, signori feudali… Gli abitanti della città non sono però da identificare con i cittadini. La cittadinanza è un privilegio riservato a pochi: solo chi è in possesso del diritto di cittadinanza, attestato da un documento rilasciato dalle autorità municipali, può definirsi cittadino. La comunità urbana è un soggetto giuridico ben definito e stratificato che si confronta con altri soggetti giuridici (sovrano o principe). Il principale organo amministrativo cittadino è il Consiglio comunale, del quale fa parte solo il patriziato (famiglie eminenti), che può a sua volta esprimere un Consiglio ristretto e alcune magistrature. A volte l’amministrazione cittadina è preseduta da un magistrato elettivo (sindaco, podestà..) o da un rappresentante del principe. Ad un livello inferiore rispetto al patriziato urbano - che riunisce le famiglie più antiche e che domina la città, costituendo una vera e propria aristocrazia cittadina - si distingue un ceto borghese formato dagli esponenti delle famiglie mercantili che si riconoscono nelle Corporazioni di mestiere o dei professionisti che si riconoscono nei Collegi delle arti, gruppi sono generalmente rappresentati nel Consiglio cittadino. Corporazioni e Collegi delle arti sono le vere articolazioni della società civile urbana. 3. Il mondo del lavoro e il sistema corporativo Chi fosse entrato in una qualsiasi città italiana o europea nei se- coli compresi fra il XIV e il XVI non avrebbe potuto fere a meno di notare, di percepire fisicamente la presenza del lavoro artigiano. Le città dell’Europa preindustriale sono essenzialmente città di commerci e di manifatture: la grande finanza e il commercio internazionale potevano condizionare l’assetto del potere della città, meno il clima quotidiano e la fisionomia urbana. Oggi con il termine “corporativo” si fa in genere riferimento a comportamenti egoistici di piccoli gruppi, tesi a difendere privilegi, piuttosto che a collaborare con altri. Nel mondo medievale e moderno la Corporazione era un’associazione di persone definita da comuni finalità (mestiere o professione), dotata di autonomia giuridica. Poteva operare nel nome dei suoi appartenenti, senza coincidere con le persone fisiche, e rappresentava, infine, la principale garanzia del mantenimento di standard qualitativi. Accanto a questi compiti la Corporazione poteva assumere quello di tutelare e di assistere i suoi membri e le loro famiglie, organizzando confraternite di assistenza e casse di mutuo soccorso, aprendo ospedali e scuole. L’allentarsi degli impegni di carattere solidaristico è il segno evidente di una progressiva cristallizzazione del sistema corporativo. Con il rafforzamento dei poteri cittadini entro una rete di poteri territoriali più ampi anche la natura delle Corporazioni subì una trasformazione. La formazione di oligarchie ristrette e la l’esigenza di stabilità indusse i ceti dirigenti delle città a separare sempre più il governo dalla partecipazione della vita politica. Con l’affermazione dei poteri signorili o monarchici si giunse in alcuni casa all’abolizione degli organismi corporativi, e in altri furono soggette a provvedimenti di riforma. Fra 1400-1500 le Arti e le Corporazioni divennero strumenti di disciplinamento e di rafforzamento delle nuove gerarchie urbane. L’appartenenza ad una di esse poteva determinare l’inclusione in un’area di privilegio e implicare pieni diritti di cittadinanza. Sempre più netta era la distinzione fra lavori manuali e attività professionali. È abbastanza difficile determinare la data di nascita della fabbrica moderna. Grandi concentrazioni di lavoratori sono presenti già nel mondo antico, ma si tratta di lavoro schiavile, mentre in età moderna le più grandi concentrazioni di lavoratori sono i poveri (case di lavoro), istituite dalla fine del 1500 in Inghilterra e Olanda. Se definiamo fabbrica uno stabilimento industriale dotato di macchinari, nel quale è concentrato un gran numero di lavoratori salariati, allora essa compare in Inghilterra alla fine del 1600. Fino alla metà del Settecento, infatti, la tipologia più diffusa in Europa è quella della bottega artigiana o della manifattura diffusa, con ampio ricorso al lavoro a domicilio. Di fatto tutto cambia nel 1700 con lo sviluppo dell’industria tessile e con la Rivoluzione Industriale. Con il termine “rivoluzione industriale” - introdotto nel 1880 dallo storico britannico Arnold J. Toynbee - gli storici indicano la trasformazione epocale realizzatasi in Europa a partire dalla metà del Settecento, prima in Inghilterra e poi in gran parte del mondo occidentale, in seguito all’affermarsi: dell’economia di mercato, del macchinismo, del sistema di fabbrica. È stata definita anche “l’economia basata sull’energia minerale”, ossia sulle nuove fonti energetiche: carbone, coke e petrolio. Gli storici si sono accorti che l’affermazione del moderno sistema industriale non ha sempre e necessariamente comportato la rapida concentrazione della manodopera in grandi stabilimenti, e non ha neppure comportato la fine del lavoro a domicilio e la riduzione del numero delle piccole e medie imprese, le quali hanno convissuto e convivono tuttora. Negli ultimi decenni il concetto tradizionale di rivoluzione industriale è stato sottoposto a revisione critica. L’attenzione degli studiosi si è dunque spostata da un lato sulla cosiddetta “protoindustrializzazione” e dall’altro sulle “molteplici vie verso l’industrializzazione” intraprese dai paesi europei ed extraeuropei dal 1700 ad oggi, mostrando come la “rivoluzione industriale” inglese fosse soltanto UNA delle vie possibili, ma non di certo l’unica e la sola. Uno storico economico italiano, di recente ha proposto il concetto di distretto produttivo manifatturiero per indicare quelle “unità territoriali in cui si concentravano attività industriali omogenee”, soprattutto in aree rurali. La prospettiva nuova che si è aperta in seguito a queste ricerche ha consentito di valorizzare maggiormente casi di realtà periferiche, ma non certo trascurabili, precedentemente oscurate dal peso del modello britannico basato sulla factory e sui distretti produttivi. Casi emblematici come lini delle Fiandre, la lana biellese, Schio e Valdagno, il lino di Salò, ecc.. si tratta di casi di produzione manifatturiero con basi saldi nel mondo agricolo e ad esso complementari, caratterizzate da una produzione dispersa sul territorio e da un massiccio impiego del lavoro a domicilio, ma in grado di rapportarsi anche a livello internazionale. In Italia, già nel 1600, la manifattura si era spostata dal fuori dalle città per trovare manodopera a basso costo e aggirare ai vincoli corporativi. Quindi l’intreccio fra lavoro a domicilio e mercato, artigianale e industriale, ecc.. è simbolo di flessibilità delle economia periferiche. A parte l’Inghilterra, non si assiste a una transizione da regime produttivo all’altro: il lavoro a domicilio esempio permale a lungo. 5. La rivoluzione dei consumi Il Settecento è il secolo nel corso dei quale si afferma un consumo tendenzialmente di massa, rendendo le differenze sociali meno percepibili, almeno per quanto riguarda una vasta serie di consumi di base. Abbigliamento, riscaldamento, illuminazione, arredo, cibo, trasporti, cultura, diventano poco a poco, ma sempre più rapidamente a partire dagli anni centrali del secolo, consumi di massa, a disposizione di tutti i ceti sociali, pur con notevoli differenze nella qualità dei prodotti. Con l’età moderna l’acqua corrente si afferma come la principale risorsa energetica, capace di imprimere il movimento alle pale di un mulino, o alle ruote di un telaio, e di sostituirsi o affiancarsi alle strade per i lunghi trasporti. Nel 1700 non sarà più limitata alle cucine, e sarà anche elemento dinamico di nuove macchine a vapore, pompe idrauliche, ecc.., implicando un forte inquinamento alle acque potabili urbane soprattutto. La stessa abitudine di curare l’igiene personale e di lavarsi il corpo con acqua fredda o tiepida più volte alla settimana si affermerà e generalizzerà solo nel corso del Settecento. Nei secoli precedenti non erano infatti solo i contadini ed i ceti inferiori a curare poco la pulizia del corpo, ma anche i ceti elevati. La “rivoluzione dell’igiene”, almeno nelle realtà urbane, rappresentò un indubbio miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni europee, favorendo una minor diffusione di malattie ed un aumento della vita media. Parallelamente si diffonde anche la biancheria in cotone per donne e uomini, più economica e sana, prodotta industrialmente. La diffusione nelle principali città europee di nuovi metodi di riscaldamento e di illuminazione è un’altra delle più evidenti trasformazioni che investono larghe fasce di popolazione nel corso del XVIII secolo, così come l’introduzione dei vetri trasparenti di grandi dimensioni alle finestre delle case. L’illuminazione delle strade determina sia una percezione di maggior sicurezza, sia la possibilità di allungare in molti ambiti l’orario di lavoro. La stufa in ceramica o ghisa sostituirà i focolari e coronerà così un diverso modo di vivere, un diverso modo di socializzare. Caserme, collegi, ospedali, ecc.. saranno dotati di grandi impianti di riscaldamento. Tutto ciò implica la disponibilità di nuove fonti di energia, il carbon fossile piuttosto che la legna, che hanno il loro prezzo regolato dal mercato. È proprio nel corso del Settecento avvengono quelle fondamentali trasformazioni nella dimensione dell’abitare che rendono le case più simili alle nostre rispetto a quelle dei secoli precedenti: • compaiono i corridoi che collegano le diverse stanze; • si afferma la distinzione tra “zona notte” e “zona giorno”; • appaiono i primi servizi igienici interni alla casa; • gli armadi e i comò sostituiscono bauli e cassapanche; • compaiono le prime poltrone e i divani; • i letti vengono dotati di lenzuola e scompaiono i pagliericci; • le cucine si ornano di credenze fornite di stoviglie e vasellame • negli uffici appaiono biblioteche e scrivanie. Decisive sono infine le trasformazioni nell’abbigliamento: i borghesi diventano i protagonisti del mercato della moda, i prodotti in cotone soppiantano rapidamente quelli in panno e in lana, consegnando la seta ad un mercato di nicchia e di lusso, quasi tutti indossano biancheria e la camicia viene cambiata quasi ogni giorno, gli abiti sono più leggeri e vanno sostituiti più spesso, incrementando il mercato. Mentre la moda diventa un’industria, il gusto si raffina e si estende ai ceti medi. Il polsino in pizzo, scarpe con il tacco, e il corpetto femminile non sono solo per i nobili e i bottoni sostituiscono le spille e i lacci. In Francia dalla fine del 1600 si diffonde l’uso della parrucca. 6. LE NOBILTÀ EUROPEE 1. “Nobiltà”: la genesi di un concetto Le società di antico regime erano società dominate dall’aristocrazia che fondava il suo potere sul privilegio. Quali erano le basi di questi privilegi? E cose significava aristocrazia? “Aristocratico”, “aristocrazia” derivano dal greco > aristòs (il migliore) e significano “il governo dei migliori”. • nel mondo greco aristocratico era colui che si distingueva per il valore ed eccellenza della sua natura, quindi era una nobiltà di virtù e spirito. • nel mondo romano l’èlite era rappresentato dal patriziato, i patricii, che ventavano la discendenza da un pater, e quindi appartenevano alle famiglie originarie della città con il diritto a sedere in Senato • nel mondo tardo antico e medievale con il termine di nobile - dal latino nobilis, notabilis (noto, conosciuto) - si indicava colui che godeva di uno statuto speciale, ossia di un privilegio, esenzione o distinzione rispetto ad un insieme di leggi o norme valide per gli altri individui o gruppi sociali, da cui derivavano prerogative che ad altri non erano concesse. I tre elementi costitutivi della nobiltà antica erano: 1.la nobilitas, ossia i natali illustri; 2.la virtus, ossia la virtù ed il coraggio militare; 3.la certa habitatio, ossia il possesso di casa e terra. In una parola la nobiltà è un ceto, o secondo l’accezione di antico regime un ordine o uno stato. Il concetto di “classe” distingue un gruppo sociale per la sua posizione economica all’interno del processo produttivo (borghesia, proletariato ecc.). Il concetto di “ceto” distingue un gruppo sociale per la sua posizione all’interno della gerarchia sociale (ceti privilegiati, ceti medi, ceti subalterni ecc.). Il concetto di “ordine o stato” distingue invece un gruppo sociale per la sua posizione giuridica all’interno di una gerarchia prestabilita (clero, nobiltà, terzo stato ecc.). Mentre la società borghese (tendenzialmente aperta) si autodefinisce in termini di classe, le società di antico regime (tendenzialmente chiuse) si autodefinivano in termini di ceti, ordini, o stati. Gli studiosi individuano classi sociali anche in una società di antico regime, ma devono essere consapevoli che si tratta di concetti moderni, estranei a quel mondo. Lo storico francese Georges Dumèzil ha mostrato la tripartizione sociale tipica della civiltà europea antica/ medievale derivante da 3 fondamentali funzioni: 1. sovranità -> oratores re e sacerdoti impegnati nel governo della cosa pubblica, preghiera e sacrifici 2. forza -> bellatores guerrieri impegnati nell'’esercizio delle armi e nella difesa 3. fecondità -> laboratores lavoratori impegnati nelle funzioni del quotidiano, vincolati da obblighi Si spiega così la legittimazione dei privilegi del clero e della nobiltà in quanto tributi necessari e giusti da concedere ad oratores e bellatores. Gli storici francesi M. Bloch e L. Febvre proposero uno schema che preveda che si basa su un’analisi dall’esterno all’interno: a. status: presenza/assenza di prescrizioni legali per tutelare la condizione di nobile escludendo gli intrusi b. quantità: porzione % di nobili rispetto alla popolazione totale, distinguendo fra nobilità chiuse e aperte c. stratificazione interna alla nobiltà: presenza e peso della gerarchia d. problemi di contatto e influenza: con altri gruppi/comunità e con lo Stato. Tale proposta però fu accolta solo dal 1950 grazie alle ricerche di storici. 2. L’enigma delle nobiltà “Che cos’è la nobiltà”? Le nobiltà sono i ceti privilegiati che: detengono l’egemonia socio-politica nelle società di antico regime e ne costituiscono l’élite, posseggono uno statuto giuridico particolare, si perpetuano per via biologica e rappresentano una minoranza della società (dallo 0,5% della Svezia al 10% della Polonia; media 2%). “Che cosa distingue la nobiltà di antico regime”? La nobiltà è un ceto distinto dal privilegio, e i suoi tratti costituitivi sono la nascita, il ruolo sociale e il possesso. I titoli nobiliari hanno origine nell’alto medioevo nei cosiddetti ranghi, ossia in funzioni, cariche militari o uffici ereditari, legati a funzioni pubbliche nell’ambito del governo imperiale. I principali titoli della nobiltà imperiale europea sono: • duchi: grandi feudatari che governano le province del sovrano • marchesi: governatori delle marche, province di confine o importanza strategica, con poteri politici e militari • conti: fedeli collaboratori del sovrano, feudatari inviati a governare una contea, una delle circoscrizioni territoriali in cui è suddiviso il regno • visconti: sostituti dei conti, feudatari con titolo ereditario inferiore a quello dei conti • visdomini: feudatari laici, cui il vescovo delega la propria autorità temporale, mantenendo il governo della diocesi • baroni: nobiltà feudale di natura inferiore, senza ulteriori specificazioni particolari. “Che cos’è un privilegio”? Un privilegio è qualsiasi esenzione o distinzione rispetto ad un insieme di leggi o norme valide per gli altri individui o gruppi sociali, come l’esenzione di pagare una tassa. Conseguenza del privilegio è la diseguaglianza, uno dei fondamenti dell’antico regime, a differenza di oggi che difronte alla legge si è eguali. “Chi è nobile”? È nobile SOLO chi dimostra di possiede “titoli di nobiltà”, ossia privilegi o esenzioni sancite dal sovrano. Tanto è più antica la nobiltà, ossia il possesso di privilegi, tanto maggiore è il rispetto dovuto a chi li possiede. In età moderna però poche famiglie conservano il loro prestigio dopo il 1500. “Come si diventa nobili”? Si è nobili per nascita, per diritto ereditario, ma lo si può diventare anche per servizio, ottenendo dal sovrano un titolo in segno di ricompensa per servizi prestati. La mobilità sociale, vista come una razza dagli storici, è in realtà u fenomeno tipico della modernità. Quali sono i principali tipi di nobiltà europea?: 1. La nobiltà terriera di antica origine feudale, detta anche “di sangue” (ereditaria) o “di spada” (di origine militare). 5. La cultura nobiliare La nobiltà europea di antico regime non si è mai caratterizzata come un ceto colto: nella grande maggioranza i nobili di età moderna erano profondamente ignoranti. Privi fino al 1700 di un’istruzione adeguata, imparavano in tenera età alcune norme di comportamento al fine di distinguersi e apprendevano i principali rudimenti sulla caccia, arte, danza. I giovani nobili erano spesso rozzi e violenti e segnalati per duelli o stupri. Solo alla fine del Cinquecento, con la pratica del grand tour (il viaggio in Europa che molti giovani nobili compivano per istruzione), si incomincia ad assistere ad un certo affinamento della formazione delle élite nobiliari. Sempre più spesso, inoltre, a partire dal tardo Seicento i giovani aristocratici vengono formati nei collegi dei Gesuiti ed in alcuni casi completano la loro formazione a livello universitario. Diverso il discorso per i figli della nobiltà di toga o di servizio, indotti a seguire precisi percorsi formativi e ad acquisire conoscenze nell’ambito della filosofia, del diritto, dell’economia, per poter accedere alle cariche pubbliche loro destinate. Ancora diversa la situazione della nobiltà di corte: anche in questo caso, fin dai primi anni del Cinquecento, la cultura diventa un veicolo per fare carriera e per ottenere il favore del principe, dispensatore di posizioni di prestigio. La contrapposizione tra nobiltà urbana e cortigiana (colta) e quella rurale (rozza) non deve tradursi in uno stereotipo. Anche la nobiltà rurale sviluppò una sua cultura. 6. Nobiltà europee a confronto Vista la diversità dei casi e delle tipologie nobiliari riscontrabili in Europa, è bene parlare di nobiltà al plurale. Francia. Le due nobiltà. Il caso francese si caratterizza per la presenza di due nobiltà ben distinte ed in competizione fra loro: - da un lato la nobiltà di spada, di origine più antica, che deriva il suo potere dall’esercizio delle armi. È dotata di un titolo ereditario e gode di maggior considerazione sociale, ma da tempo non controlla le leve del potere politico e amministrativo. Si mantiene autonoma dal sovrano al quale, spesso, si oppone e rappresenta l’1,5% della popolazione francese. - dall’altro lato la nobiltà di toga, di origine più recente, che deriva il suo potere dall’esercizio delle cariche di giustizia e di finanza. Ha ottenuto il titolo nobiliare ereditario, e gode di minir prestigio sociale, ma controlla le principali magistrature e le leve del potere politico e amministrativo. La sua ricchezza proviene dalle rendite degli uffici. Dipende totalmente dal sovrano al quale deve la propria fortuna. Rappresenta dall’1 al 3% della popolazione francese. Dal 1680, Luigi XIV concentra a sue spese presso la reggia di Versailles i nobili di spada, consegnando lo Stato alla nobiltà di toga, colta e preparata, ma subordinata al governo. L’Inghilterra. Un’élite aperta? Anche il caso inglese presenta due nobiltà distinte e indipendenti, ma di origine nettamente diversa rispetto a quelle francesi. - al vertice della gerarchia sociale troviamo i Lords (Pari), nobiltà di antica origine feudale, militare e terriera, dotata di titolo ereditario (duchi, conti, visconti) da molte generazioni, che gode di considerazione sociale e siede di diritto in uno dei due rami del Parlamento, la Camera dei Lords; di orientamento politico conservatore (tory), limitata a 182 famiglie, posseggono il 20/25% delle terra e rappresentano lo 0,5% della popolazione; - al di sotto dei Pari troviamo la gentry, una nobiltà “di fatto”, non dotata di patenti sovrane. Dotata di minor prestigio sociale rispetto ai Pari, esercita una notevole autorità in sede locale attraverso le cariche elettive di giudice, magistrati e deputati alla Camera. Il suo potere si rifà all’autorevolezza acquisita in sede locale e alla proprietà terriera. Spesso svolge anche attività imprenditoriali, soprattutto nel settore tessile e minerario; in alcuni casi i suoi esponenti sono eletti deputati nella Camera dei Comuni; è di orientamento politico progressista (wigh). La Russia. Una nobiltà di Stato. Il caso russo è del tutto particolare: fino ai primi del 1700, un’aristocrazia di orientamento feudale (i Boiardi), dotata di immense proprietà terriere e giurisdizioni estese, capace di armare un esercito per lo zr e proprietaria di immense regioni. A partire dal regno di Pietro I il Grande (1682-1725) si ha la costituzione di un’unica nobiltà di servizio, suddivisa in base alla cosiddetta Tavola dei ranghi (1722) in tre livelli gerarchici e tre diverse carriere (militare, civile e di corte) e quattordici ranghi (corrispondenti a diversi titoli nobiliari), sottoposta al potere assoluto dello zar che costituisce l’unica fonte del diritto e l’unica ragione di distinzione sociale. Quella che era stata l’aristocrazia feudale viene trasformata in un immenso ceto di funzionari al servizio dell’imperatore. Dopo Pietro I, dunque, la nobiltà russa non è più né feudale né proprietaria, in quanto tutta la terra appartiene allo zar. Complessivamente la nobiltà russa non rappresenta più del 2-3% della popolazione. Dal livello più alto della gerarchia: • ci sono i Principi, legati alla famiglia imperiale ed appartenenti alla più antica nobiltà feudale. Grandi proprietà terrieri possono ottenere incarichi di alto comando. • I Boiardi, grandi proprietari terrieri di origine feudale. Posso ottenere posti di Governatori delle province e comandi militari • Nobiltà burocratica composta da dignitari, magistrati, e funzionari di Stato • Piccola nobiltà di provincia che deriva o conserva il suo potere grazie ai ruoli burocratici ereditari nell'’apparato magistrale, ministeriale o nel governo delle province. Solo dall’8^ rango le posizioni sociali conseguite diventano ereditarie configurando una nobiltà di tipo europeo, mentre per i ranghi inferiori ogni percorso di carriera deve essere ripreso da zero. Il risultato di questa operazione è la creazione di un sistema burocratico-militare su base aristocratica che consentirà alla nobiltà russa di acquisire sapere e cultura, ma non reale potere e capacità di governo. Dal 1700 l’apprendimento delle lingue straniere e i viaggi d’istruzione in Europa divengono strumento per nobiltà russa di evasione-reazione al sistema zarista. La Polonia. Una nobiltà “egualitaria” e inflazionata. Il caso polacco, unico in Europa, è quello di una nobiltà in soprannumero, priva di gerarchie solo nella forma, ma non di fatto. Diversamente dal resto d’Europa, in Polonia la nobiltà rappresenta oltre il 10% della popolazione (800.000 persone circa). Tutti gli esponenti maschi maggiorenni della nobiltà (circa 100.000 persone) hanno accesso al potere politico, siedono di diritto nella Dieta (luogo di rappresentanza della nobiltà ed il supremo organo legislativo) e godono dell’elettorato alla carica di re. È una monarchia elettiva, ma di fatto è nobiliare. È una repubblica di nobili che eleggono il loro re. Totalmente vincolato ai patti con i suoi elettori, il re non trasmette alcuna dignità ai suoi figli, sono nobili come gli altri. Dal vertice si trova: • I Magnati: controllano la maggior parte delle terre, villaggi, palazzi,.. • Nobiltà media: possiede il resto della terra • Frazionari: possessori di frazioni di antiche terre demaniali, e residenti nei centri urbani • Nobiltà pover: piccoli proprietari terrieri, a volte costretti a lavorare la terra con le proprie mani. 7. SOVRANITÀ E POTERE POLITICO 1. Una definizione di stato moderno Si definisce stato un ente autonomo che si basa su un territorio, una popolazione e una sovranità: l’espressione “Stato moderno” compare solo agli inizi dell’Ottocento per affermarsi nel corso del secolo, in presenza di un processo di crescita degli apparati statuali, diverso dai fenomeni dei secoli precedenti. Proviamo a definire uno schema interpretativo utile a capire le complesse dinamiche della statualità di antico regime, concentrando l’attenzione su sei linee di tendenza. 1. Monopolio stata della forza La prima linea di tendenza è l’affermazione del monopolio statale della forza attraverso la costituzione di eserciti professionali e permanenti, in luogo delle milizie cittadine o feudali temporanee, reclutate prima di ogni campagna di guerra ed immediatamente sciolte alla fine del conflitto. Il mutamento determinato dalla polvere da sparo, inizia a mettere in crisi il ruolo della cavalleria dotata di armi bianche (spade, picche, lance..) e quindi della nobiltà che ne rappresentava il nerbo esclusivo. Il ruolo strategico e importante dell’artiglieria va a discapito della cavalleria basata sull’onore, coraggio e valore. Sempre più spesso gli eserciti sono formati da professionisti della guerra, mercenari, talvolta stranieri suscitando diffidenza nella popolazione sottoposta a saccheggi e violenze. 2. Burocrazia permanente La seconda linea di tendenza è data dalla presenza di una burocrazia permanente e sempre più specializzata, dotata di competenza professionale ed esperienza amministrativa. Inizialmente si tratta di notai e cancellieri competenti al servizio del sovrano in modo permanente, quelli che giorno chiameremo funzionari. Venivano reclutati in modi diversi: per chiamata diretta, in seguito alla vendita di cariche, o attraverso la concessione di titolo ereditari ai funzionari più capaci, da cui ebbe origine la nobiltà di servizio. 3. Diplomazia permanente La terza linea di tendenza è data dalla presenza di una diplomazia permanente presso le corti straniere, che sostituisce gli inviati temporanei o i funzionari incaricati di singole missioni di breve durata: la politica d’immagine di un sovrano, anche piccolo, utile ad intrecciare alleanze politiche o strategie matrimoniali, era determinata in molti casi dall’abilità di un diplomatico e dalla sua capacità di stabilire buone relazioni preso la corte straniera di residenza. 4. Monopolio statale del prelievo La quarta linea di tendenza è l’affermazione del monopolio statale del prelievo attraverso il fisco, ossia attraverso un sistema di tassazione unico e tendenzialmente esteso a tutto il territorio dello Stato. L’appartenenza ad uno Stato si identifica col pagamento delle tasse e con il servizio militare. La tassazione era concepita come aiuto, o come un contributo volontario. Le tasse straordinarie erano imposte solo in caso di guerra. 5. Legislazione unitaria La quinta linea di tendenza - di lungo periodo - è data dal tentativo di affermare una legislazione unitaria su tutto il territorio dello Stato, a scapito delle diverse ed autonome giurisdizioni territoriali o delle giurisdizioni particolari di ceti o gruppi privilegiati. Verrà realizzata solo in pochi casi e solo nel 1700. 6. Mercato ampio ed steso La sesta ed ultima linea di tendenza è data dalla progressiva affermazione di un mercato ampio ed esteso e dalla tendenza dello Stato a regolamentare l’economia. Le politiche messe in atto prevedono un maggior intervento dello Stato sull’economia (mercantilismo). 2. Dal patto fra poteri autonomi alla rappresentanza politica Se si prende in esame la storia della formazione dello Stato moderno si possono individuare tre fasi successive, ognuna delle quali può essere caratterizzata da un concetto chiave: a. una prima fase - medioevo - caratterizzata dal patto sancito fra poteri autonomi, nessuno dei quali s’impone sull’altro; b. una seconda fase - età moderna - è segnata dall’affermazione del dominio del sovrano sugli altri poteri, coi quali continua a trattare; c. una terza fase - età contemporanea - è caratterizzata dall’afferma- zione del principio costituzionale di rappresentanza politica come base di ogni governo, riducendo il ruolo del sovrano a puro garante delle leggi dello Stato. La storia dello Stato moderno è dunque storia di lotte e di compromessi fra poteri diversi, fino all’affermazione di un potere sovrano superiore: nell’arco di alcuni secoli si passa infatti da un’idea di sovrano come incarnazione dello Stato ad un’idea di Stato sovrano come entità superiore, autonoma e astratta. Diversamente dal mondo contemporaneo in antico regime ad essere rappresentati non erano gli individui ma i ceti. In tutti gli stati europei dal medioevo, sono esistite forme di rappresentanza che stavano alla base del patto costituzionale fra il sovrano e i suoi sudditi. In tutti i territori esistevano organi di rappresentanza dei ceti di origine medievale. Almeno fino alla rivoluzione inglese del 1641-49 gli organi rappresentativi non esprimono orientamenti politici e programmi di governo, ma sono portatori di interessi codificati (i privilegi) dei corpi sociali di cui sono l’espressione. Essi dovevano prestare aiuto e consigliare al sovrano. L’aiuto all’inizio era la partecipazione in guerra, poi viene sostituito con un contributo in denaro e infine con una quota d’imposta. In alcune realtà erano demandate alle Diete territoriali funzioni legislative, amministrative e giudiziarie. Ricerche hanno dimostrato che ad indurre i sovrani a limitare le funzioni degli organi rappresentativi furono soprattutto per ragioni economiche, come del 1500 con l’inflazione e l’aumento delle spese militari e della corte. In nessuna monarchia europea gli organi rappresentativi furono mai aboliti, semmai non furono convocati come ad esempio nella monarchia francese dove gli Stati generali non vennero convocati per un secolo. 3. Monarchie composite e Stati territoriali il beneficio, per realizzare obiettivi nuovi. Al pari del feudo, infatti, l’ufficio era considerato come un titolo d’onore. L’ufficio era una titolarità non revocabile, come la proprietà. Bene patrimoniale, trasmissibile e alienabile, inoltre garantiva l’ascesa sociale e altri privilegi. La sua vendita rappresentava un rafforzamento burocratico e un modo per affluire denaro fresco nelle casse statuali. Nel 1600 si era in una fase di transizione dalla monarchia patrimoniale e contrattuale alla monarchia burocratica e assoluta. La venalità degli uffici rappresenta il punto di passaggio da una fase all’altra: può essere definita come un contratto fra il sovrano e alcuni esponenti dell’élite. Una parte della nobiltà si trasforma da ceto autonomo in corpo dello Stato, subordinato al sorano e al sistema. 8. GIUSTIZIA E FISCALITÀ 1. La giustizia in età moderna L’esercizio della giurisdizione sul territorio era uno dei principali attributi del potere sovrano, ma al tempo stesso era una delle prerogative da sempre rivendicate dai poteri locali. Giurisdizione significava in particolare due cose: a. l’esercizio del diritto di punire b. la capacità di imporre tributi. Quindi monopolio della giustizia e monopolio del fisco. In antico regime, la giustizia era per lo più espressione di un privilegio cetuale: esistevano tribunali militari, mercantili, ecc.. all’interno dei quali si esercitava una giustizia diversa a seconda del ceto di appartenenza di chi vi ricorreva e della giurisdizione di chi lo esercitava. Inoltre, si distingueva giustizia regia, signorile ed ecclesiastica. La maggior parte dei giudici locali era nominata dal signore feudale che esercitava la giustizia nel suo territorio. Solo per i casi più gravi e per i reati che coinvolgevano la nobiltà, si ricorreva alla giustizia regia, che manteneva un carattere di eccezionalità. Esisteva infine - soprattutto nel mondo rurale - una diffusa pratica di giustizia “infragiudiziaria”, ossia di giudizi o arbitraggi emessi fuori dai tribunali, ma ritenuti validi dalle comunità locali. Si trattava di una giustizia “privata”, destinata a risolvere mediante accordi i conflitti. Una giustizia esercitata da padri di famiglia, proprietari, ecc.. con scopo di riparare al danno procurato attraverso risarcimenti, promesse, e a volte finiva per legittimare la stessa faida (rivincita di sangue) che poteva sfociare in mutilazioni o uccisione di un esponente. Il lento e progressivo affermarsi della giustizia esercitata dal sovrano e dai suoi legali rappresenta uno dei tratti tipici dello Stato moderno. L’imperium di un principe si traduce nell'’esercizio esclusivo della giustizia nei propri territori. Lo stesso concetto di “giurisdizione” deriva da juris-dictio (esercizio del diritto). Nella Francia di antico regime, i magistrati erano per lo più officiers che avevano comprato la propria carica a titolo venale e che esercitavano in nome del re. • Al livello più basso si collocavano le prevosture, antiche giurisdizioni feudali e municipali. • Ad un livello superiore i balivati e i siniscalcati con autorità di tribunali di prima istanza nelle città prive di Parlamento. • A livello intermedio si collocavano i tribunali di presidio, con funzione d’appello di prima istanza, ma per lo più costituiti dagli stessi giudici del balivato. • Al quarto livello si collocavano i Parlamenti provinciali, vere e proprie Corti d’Appello di seconda istanza, composti da magistrati esperti. • Al livello supremo si collocava il Parlamento di Parigi, prima corte sovrana del Regno di Francia A questo punto è bene chiarire la differenza fra “Parlamenti” al plurale e “Parlamento” al singolare. Uno degli equivoci più diffusi nasce infatti dalla confusione fra: • i Parlamenti francesi (organi giudiziari) • il Parlamento inglese (organo di rappresentanza politico e legislativo). Il caso francese All’inizio 7, uno per ogni territorio della monarchia francese, poi 14, i Parlamenti di antico regime erano costituiti da 2 presidenti nominati dal re, e un numero variabile di consiglieri con carica venale. I parlamentari si definivano togati > “robins”. I Parlamenti di antico regime possedevano, tuttavia, prerogative di carattere più politico: a. la facoltà di emettere sentenze regolamentari, ossia pareri giurisprudenziali relativi all’interpretazione delle leggi, proponendo delle soluzioni nei casi più intricati b. la facoltà di pronunciare giudizi in equità, ossia arbitrati c. la facoltà di esercitare il diritto di registrazione. La mancata registrazione, cioè promulgazione, implicava la sospensione del valore dell’editto in quel territorio e la trasmissione al re di un’“umile rimostranza” con la quale se ne chiedevano alcune modifiche. Se il re non era disposto ad accogliere i suggerimenti del Parla- mento, aveva comunque il potere di imporre la registrazione mediante la convocazione di “letto di giustizia”, ossia una convocazione straordinaria del Parlamento alla presenza sua o di un suo rappresentante in una sessione plenaria che non poteva subire interruzioni finché l’editto non fosse stato registrato. Il caso inglese Anche in Inghilterra, l’estendersi del potere delle corti regie su tutti i territori della monarchia rappresentò un momento di rafforzamento dello Stato, ma diversamente dalla Francia, la giustizia locale rimane ancora per molto tempo nelle mani di giudici non dipendenti dal sovrano ed eletti localmente: • gli sceriffi di contea, funzionari di origine medievale con compiti di vigilanza, polizia e bassa giustizia, • i giudici di pace, giudici non “togati”, scelti fra gli esponenti della gentry, ossia della piccola nobiltà di contea che esercitava le funzioni giudiziarie di prima istanza a titolo gratuito. La diffusione del Common Law rimase un tratto distintivo. In antico regime i sistemi penali dei paesi dell’area mediterranea seguivano per lo più la tradizione del diritto romano-canonico, fondato sul metodo accusatorio che prevedeva tre figure: a. l’accusatore che doveva portare in giudizio un reo b. l’accusato, al quale spettava il diritto alla difesa, ma non sempre ad avere un avvocato difensore; c. il giudice, figura “terza”, al quale spettava il giudizio finale. Mentre nei sistemi giuridici contemporanei spetta all’accusatore dimostrare - sulla base di prove certe - la colpevolezza dell’imputato il quale dev’essere considerato innocente fino alla pronunzia della sentenza da parte del giudice, nel sistema accusatorio è invece l’imputato, presunto colpevole, a dover dimostrare e provare la propria innocenza. In tutti i tribunali d’antico regime i processi non erano pubblici, ma si svolgevano a porte chiuse e prevedevano che la corte pronunciasse la sentenza solo dopo aver interrogato testimoni ed imputati separatamente, senza la presenza di avvocati difensori. 2. La fiscalità in età moderna Con la parola “fisco” (dal latino fiscus, la cesta dove si raccoglievano i contributi) in età romana si indicava la cassa privata dell’imperatore, distinta dall’aerarium, cassa dello Stato. In età moderna, esso denota un sistema di prelievo esercitato sui sudditi ed esteso ad un intero territorio. Oggi noi conosciamo due diversi modi di attuare il prelievo: a. la tassazione diretta, cioè il prelievo di una quota del reddito b. la tassazione indiretta, ossia il prelievo attuato dal fisco di una quota del prezzo di un prodotto, senza che il contribuente se ne accorga. (sigarette, bollo..) In antico regime era diffusa l’imposizione diretta, il prelievo sui consumi (imposte sul grano, pane, vino, sale..) dazi, pedaggi gabelle. 3. Fermes e appalti Dovendo raccogliere denaro con urgenza, soprattutto in caso di guerra, i sovrani stipulavano dei contratti (denominati in francese fermes) con singoli finanzieri, o appaltatori che anticipavano loro la somma necessaria ad armare l’esercito o la flotta, ottenendo in cambio una serie di concessioni. In questo modo, di fatto, il prelievo fiscale veniva interamente appaltato ai privati i quali così potevano esigere i tributi direttamente sul territorio, incassando cifre ben maggiori di quelle prestate. Gran parte delle rivolte di metà Seicento sono, infatti, qualificate come rivolte fiscali in quanto furono determinate dall’aggravarsi del peso del fisco sulla popolazione. Solo dalla seconda metà del Seicento i sovrani incominciarono a limitare il potere degli appaltatori, sottoponendoli a un controllo da parte dei funzionari statuali riducendone il numero e vincolandoli a rendiconti periodici dei loro profitti. 4. Fisco e conflitti sociali È indubbio che questo modello fiscale suscitasse opposizioni e resistenze a tutti i livelli, ma soprattutto a livello del ceto medio, il più gravato dalla maggior parte del peso fiscale. Se infatti la nobiltà e il clero godevano del privilegio di esenzione fiscale, ei contadini non potevano essere più di tanto spremuti, erano i ceti abbienti ad essere gravati: commercianti, artigiani, imprenditori, banchieri, professionisti, proprietari terrieri. Se vogliamo individuare un tratto comune all’ondata di rivolte che investì le principali monarchie europee a metà Seicento forse possiamo trovarlo proprio nell’opposizione alla crescente pressione fiscale causata: da un lato dalle spese per il mantenimento delle corti, dall’altro dai costi di una devastante guerra continentale. Le plebi urbane furono ovunque protagoniste di episodi insurrezionali ed i contadini si sollevarono assaltando ville e castelli, ma furono i ceti borghesi e nobiliari ad approfittarne, contrattando ulteriori privilegi con i sovrani. Superata la crisi di metà Seicento, nella seconda metà del secolo in molti Stati europei si incominciarono ad elaborare progetti di riforma del fisco volti ad eliminare le peggiori storture e a razionalizzare un sistema fortemente sperequato. Esempio in Franci si pose il dilemma fra imposizione diretta (penalizzava i ceti produttivi) e indiretta (scoraggiava i consumi dei ceti più deboli). 5. Le riforme fiscali e i catasti Il cardine delle riforme fiscali settecentesche è il catasto, strumento essenziale di conoscenza e base per ogni intervento in materia fiscale. Il catasto può essere definito come un sistema di schedatura il più completo possibile dei beni immobili (terreni, edifici) posseduti dai contribuenti e finalizzato alla ripartizione del carico fiscale sulla base della quota di proprietà immobiliare posseduta da ciascuno. Un catasto è in genere costituito: a. da una serie di precise mappe del territorio dello Stato con i confini e le estensioni, e colture e la redditività b. da una parallela serie di registri con l’indicazione del nome dei proprietari dei terreni Mappe e registri sono preziosi per determinarne la ricchezza. Per dire la complessità dei problemi alla realizzazione dei catasti settecenteschi, gli scopi che si prefiggeva chi realizzava un catasto erano: a. la conoscenza precisa dei redditi reali dei soggetti tassabili; b. estensione del peso delle imposte dirette sui ceti privilegiati che avevano sempre goduto di esenzioni fiscali c. tassazione almeno parziale dei patrimoni dei ceti privilegiati d. tassazione più equa dei beni dei ceti non privilegiati. Per realizzare e mantenere un catasto erano necessarie quattro condizioni: a. una forte volontà politica da parte del sovrano e degli uomini di governo al suo servizio b. mezzi finanziari considerevoli; c. notevoli competenze tecniche (misuratori, geometri, cartografi); d. la collaborazione dei soggetti tassabili ad accogliere ed aiutare i misuratori, ad esibire i libri contabili, a dichiarare i propri redditi. I catasti sono dunque uno strumento essenziale per realizzare qualsiasi seria politica fiscale e al tempo stesso una fonte ricchissima di informazioni economiche per gli storici. Nella maggior parte dei casi, però, la realizzazione dei catasti veniva ostacolata dalla resistenza dei ceti privilegiati che temevano l’aumento del peso fiscale a loro carico. Le più significative riforme settecentesche in materia fiscale furono avviate nella Lombardia austriaca sotto il regno di Maria Teresa d’Asburgo (1740-80). La riforma del catasto teresiano, di carattere geometrico- particellare, si concluse nel 1758 e fu apprezzata ed elogiata anche all’estero. Altro importante esempio di catasto fu quello onciario, che rappresenta l’attuazione pratica delle norme dettate da re Carlo di Borbone nella prima metà del XVIII secolo per un riordino fiscale del regno delle Due Sicilie. Nonostante fosse un catasto descrittivo, poiché non prevedeva la mappatura dei luoghi, fu uno strumento utile ad eliminare i privilegi goduti dalle classi più abbienti che facevano gravare i tributi fiscali sempre sulle classi più umili e di fatto rappresenta uno dei più brillanti esempi del tempo di ingegneria finanziaria e di ripartizione proporzionale del peso fiscale. Il catasto onciario si basava, infatti, sulle rivele, autocertificazioni dei contribuenti, nelle quali - oltre a riportare tutti i componenti della famiglia con le relative professioni - veni- vano indicati i redditi e gli eventuali pesi deducibili ai fini del calcolo della base imponi- bile. Si chiamò Onciario perché la valutazione dei patrimoni terrieri veniva stimato in once, una misura di monete corrispondente a sei ducati. sarti, ec... In molti casi i soldati si portavano appresso le mogli, o aggregavano al reggimento le donne incontrate durante la marcia e con le quali avevano stretto una relazione, oppure costituivano famiglie (più o meno regolari) con le donne addette ai servizi. Ecco perché non è infrequente trovare la presenza di donne e bambini nei ranghi degli eserciti. Se poi osserviamo più da vicino un esercito cinque o seicentesco ci accorgiamo che l’aspetto di un esercito di antico regime era assai diverso da quello degli eserciti del nostro tempo: si trattava infatti, per lo più, di una massa raccogliticcia senza un’uniforme, ma con la sola distinzione delle armi utilizzate. (Gli inglesi furono i primi ad adottare l’uniforme rossa, già al tempo di Cromwell, ma l’abitudine si generalizzò solo all’inizio del secolo successivo.). Solo nel 1700 si adottarono le divise, anche dai colori sgargianti, diverse per ogni territorio. Prima erano gli stemmi a distinguere gli eserciti. Un altro problema non di poco conto per un esercito era rappresentato dagli alloggiamenti: fino alla metà del Settecento gli eserciti alloggiavano nelle città; una grande città come Napoli ospitò per oltre un secolo e mezzo la guarnigione spagnola nei cosiddetti “Quartieri” (gli attuali “Quartieri spagnoli”), sviluppando attorno ad essi mercato di contrabbando e prostituzione. Solo nel Settecento si incomincia a risolvere il problema degli alloggiamenti costruendo le prime caserme ed i primi quartieri militari in muratura che, al tempo stesso, mascherano ed evidenziano la presenza dei soldati in città, separandoli nettamente dalla società civile e disciplinandone la presenza. E da 1750 sorgono delle scuole militari di artiglieria e del genio. Per quanto grandi fossero gli eserciti messi in campo dalle potenze, le truppe impiegate in azioni di guerra erano una minima parte rispetto a quelle impiegate nelle fortificazioni e presidi. 5. Guerre e paci nell’Europa moderna Se si osservano i tre secoli dell’età moderna sotto il profilo bellico si possono avanzar alcune osservazioni: ■ fra 1500-1600 la densità dei conflitti appare particolarmente elevata: nella prima metà del secolo troviamo: • 35 anni di guerre per il predominio in Italia (1494-1530), • 38 anni di guerre franco-asburgiche (1521-59); • 26 anni di guerre di religione in Germania (1521-47). ■ Nel «secolo di ferro» (1550-1660), abbiamo: • 80 anni di guerra fra la Spagna e i Paesi Bassi (1566-1648), • 40 anni di guerre di religione in Francia (1559-98), • 30 anni di guerra europea (1618-48) • 50 anni di guerra durante il regno di Luigi XIV (1665-1713). ■ Fra 1500-1600 si concentrano anche le guerre più devastanti, soprattutto guerre civili e religiose. È nel Settecento che il modo di fare la guerra cambia radicalmente. Si parla infatti di guerre more geometrico o di guerre minuetto per il carattere altamente formalizzato dei conflitti. La guerra settecentesca è principalmente una guerra di posizione, segnata da numerosi assedi e da pochi scontri campali che coinvolgono alcune migliaia di soldati. Tanto più la guerra diviene micidiale, tanto meno diviene distruttiva per la popolazione civile. La guerra coinvolge i professionisti e si svolge in parallelo a complesse trattive. Rispetto al passato i conflitti incidono meno sulla vita della popolazione civile, si svolgono secondo schemi fissi, seguendo le stagioni. Nel Settecento, dopo la fine della disastrosa guerra di successione spagnola e prima delle guerre napoleoniche di fine secolo, troviamo solo: - la guerra di successione polacca (1733-38); - la guerra di successione austriaca (1740-48); - la guerra dei Sette anni (1756-63); - la guerra d’indipendenza americana (1776-83). Per un totale di 21 anni di guerra, a fronte di trent’anni ininterrotti di pace: un evento senza precedenti. 7.Una proposta di periodizzazione Schema utile per inquadrare la rivoluzione militare nelle sue fasi. • 1450 – 1520 Si colloca la prima grande trasformazione degli eserciti europei: introduzione delle armi da fuoco, il declino della cavalleria pesante, la comparsa dei corpi dei “picchieri” (mercenari svizzeri, Lanzichenecchi..). • 1530 – 1560 Si colloca il grande balzo nella dimensione degli eserciti, con l’introduzione anche dell’architettura bastionata “all’italiana” e l’inizio delle guerre d’assedio. • 1620 – 1650 Sullo sfondo della guerra dei 30 anni e della guerra civile inglese, si affermano i grandi eserciti permanenti di mestiere, reclutati all’estero, mentre gli eserciti acquistano una maggior agilità adottando un’artiglieria più leggere e disponendo più file di fucilieri, consentendo un fuoco continuo. • 1672 – 1710 Si colloca il 2° grande balzo della dimensione dell’esercito. La Francia giunge ad avere 400.000 uomini in servizio permanente. Mentre le spese militari impegnano quote elevate, imponendo una razionalizzazione del fisco, si generalizza l’impiego dell’artiglieria leggera e si assiste a un ritorno degli squadroni di cavalleria leggera, che saranno poi impiegati in “piccole guerre”, cioè rapide azioni. Nel 1700 i corpi come i Dragoni di Francia saranno impiegati anche in dure azioni, come in Francia contro gli ugonotti. • 1792 – 1814 Il nuovo modello di esercito di popolo sconvolge la tradizionale tattica militare degli eserciti di antico regime che non riescono a fronteggiare l’avanzata dell’armata francese, soprattutto dopo l’ascesa al potere di Napoleone. L’esercito napoleonico, gerarchizzato, fondato sulla selezione meritocratica degli ufficiali, sulla rapida possibilità di carriera e sulla fedeltà assoluta al comandante, cambia in tutta Europa il modo di fare la guerra. Rinunciando ad assedi lunghi e logoranti, ma costringendo il nemico a scendere in campo aperto. In pochi anni Napoleone ridisegna la mappa geopolitica dell’Europa, e sottomette alla Francia, 2/3 del vecchio continente. 10. POVERTÀ, CRIMINALITÀ E CONTROLLO SOCIALE 1. Il pauperismo Con il termine ‘pauperismo’ gli storici indicano un fenomeno di massa cui si assiste a partire dal Cinquecento e che vede una grande quantità di poveri, disoccupati e vagabondi, spostarsi dalle campagne verso le maggiori città europee. Sebbene la miseria fosse sempre esistita, soprattutto nelle campagne, raramente, prima della fine del Quattrocento, essa aveva generato situazioni di grave tensione sociale. A partire dagli inizi dell’età moderna il pauperismo diviene invece una delle principali piaghe sociali, strettamente connesso a fattori quali: a. l’aumento della popolazione con conseguente pressione demografica sulle campagne le cui risorse n bastano per sfamare per tutti b. l’aumento dei prezzi causato dall’afflusso di metalli preziosi dall’America, c conseguente riduzione del valore reale della moneta, dei salari e aumento della miseria c. l’eccesso di manodopera, determinato dall’aumento demografico e dai bassi salari determinato dall’aumento demografico e dai bassi salari, con conseguente crollo della domanda di lavoro e disoccupazione di massa. d. l’avvio, soprattutto in Inghilterra, di una lenta trasformazione dell’economia agraria in senso capitalistico, con conseguente esproprio delle terre comuni dei villaggi e dei piccoli proprietari, recinzioni delle medie/ grandi proprietà, concentrazione della proprietà nelle mani di pochi. L’economia agraria di antico regime genera povertà perché la campagna sottoposta a crisi o cattivo raccolto, espelle ma manodopera che si riversa in città. La crescita demografica provoca prima il frazionamento della piccola proprietà e poi l’espulsione di contadini della terra e la loro emigrazione in città, mentre la crisi agraria provoca la distruzione della piccola proprietà. Il risultato è la crisi della piccola proprietà contadina e la creazione di una massa di poveri concentrata in città. Lo spostamento di una massa di contadini impoveriti dalla campagna alla città crea disorientamento non solo a livello economico. Infatti la mobilità sulla terra e l’espulsione della manodopera libera dalla campagna allentano i legami feudali, ma anche la solidarietà di villaggio, annullando quella rete di protezione che il villaggio e le famiglie allargate potevano, bene o male, garantire (finché si mantengono forti i vincoli corporativi, la città tende a respingere gli esterni). Il luogo di origine del pauperismo è dunque prevalentemente la campagna, anche se lo spazio dove si manifesta più drammaticamente è la città, nel momento in cui il numero dei poveri è superiore alle capacità di assorbimento. È assai difficile fornire un quadro statistico della povertà di antico regime in quanto le fonti conservate negli archivi sono parziali e spesso poco attendibili. Come in tutte le società del passato i poveri non hanno mai avuto voce: sicuramente la loro presenza era considerevole, dal momento che se ne trova traccia nelle cronache e spesso anche nell’iconografia. Lo storico francese Jean Pierre Gutton, pioniere degli studi sul pauperismo, ha per primo delineato una sorta di tipologia della povertà distinguendo fra: • poveri strutturali: i poveri impossibilitati ad uscire dalla loro condizione di povertà perché non in grado di lavorare (vecchi, deboli, malati) • poveri congiunturali: i lavoratori spinti verso la povertà dalla crisi, ma capaci di risollevarsi nei momenti di maggior benessere (artigiani e commercianti indebitati, lavoratori a giornata, operai senza lavoro) Lo storico inglese Brian Pullan ha successivamente tentato una quantificazione della povertà sulla base dei dati demografici relativi ad un campione di città europee di diverse dimensioni. Prendendo in esame innanzitutto la povertà urbana, ha definito come “povera” una quota variabile fra il 75 e il 90% della popolazione di una media città europea fra 1500-1600, suddivisa tra poveri non indigenti (artigiani, impiegati, soglia di minima sussistenza) e poveri occasionali (salariati, disoccupati, e poveri strutturali (anziani, disabili, malati). Se si sposta lo sguardo dalle città alle campagne, seguendo lo schema di Pullan, si può distinguere una quota di poveri variabile fra il 90 e il 100% della popolazione rurale. Di fatto la povertà si maschera meglio nella società rurale: in campagna il povero è comunque nella comunità, mai ai margini. 2. Uomini senza padrone Lo storico polacco Bronislaw Geremek definisce “uomini senza padrone” coloro i quali riuscivano a sopravvivere, ingegnandosi, negli interstizi delle società di antico regime, senza mai essere inquadrati in un’entità o in una categoria sociale più ampia. Senza legami fissi e senza obbedienze, essi potevano godere di un notevole margine di libertà, scontando però una precarietà strutturale che li rendeva più esposti alle incertezze della vita. Oggi storici e sociologi impiegano l’espressione “marginali” per indicare gli individui o gruppi umani che per varie ragioni si collocano ai margini della società, mentre “emarginati” sono coloro che ne vengono espulsi. Entrambi i concetti implicano una concezione di centro e margine. Si possono individuare diverse forme di marginalità e di emarginazione: a. a livello economico: chi non partecipa al processo produttivo e ne viene escluso b. a livello sociale: chi non rispetta le regole e non condivide i valori c. a livello spaziale: chi viola le regole dell’habitat d. a livello culturale: chi non condivide i valori predominanti di un gruppo In antico regime ai ‘marginali’ veniva in genere attribuito il marchio d’infamia come alle prostitute, delinquenti, vagabondi..: chi viveva ai margini della società veniva ritenuto capace di contatti con forze infernali o propenso a rapporti sessuali con animali, e pertanto isolato dalla comunità. La condizione di “marginale”, dunque, viene facilmente attribuita dai poteri dominanti a quanti non rispettano pienamente le regole sociali ed i valori condivisi dalla maggioranza. Pertanto, la marginalità può verificarsi su due piani distinti: • quello dell’assenza di legami che la società ritiene normali (famiglia, vicinato, credo religioso) • quello del rifiuto di quei legami, considerato come indizio della volontà di rompere con la società o con il gruppo di cui si fa parte. In antico regime la diffidenza nei confronti dei forestieri o chi apparteneva a minoranze etniche, generava sentimenti xenofobi. (esempio: ebri, zingari, malati, invalidi, prostitute) Il vagabondo non partecipa o rifiuta di partecipare ai legami sociali di un dato sistema e pertanto dev’essere punito, anche se non danneggia nessuno. Egli rappresenta secondo Geremek la marginalità per eccellenza. 3. Il povero: da “immagine di Cristo” a delinquente potenziale Ma non è solo la paura a dominare la vita degli uomini e delle donne di antico regime: credere nel soprannaturale è anche un modo per dare un senso all’inspiegabile e all’imprevedibilità. Per ciascuno di questi fenomeni sono disponibili riti e preghiere. Se oggi c’è chi crede nei miracoli dei santi, in antico regime ancor più. La percezione stessa del tempo, in antico regime, era fortemente segnata dall’elemento religioso, oltre che dai ritmi delle stagioni e del lavoro agricolo. Contadini e contadine, spesso, non conoscevano il calendario, ma conoscevano perfettamente il calendario liturgico e quello dei lavori agricoli ed in base a questi due elementi riuscivano ad organizzare il loro tempo. Tempo solare e tempo sacro insomma coincidevano e anche la misura del giorno e delle sue parti era elaborata a partire dal suono delle campane. Se la distinzione dei giorni del calendario può apparire imprecisa, è invece nettissima la distinzione fra giorni di lavoro e giorni di festa. La civiltà contadina, del resto, era in grado di costruirsi non solo un empirico calendario parallelo, ma anche un orologio ed un cronometro paralleli. Se la vita quotidiana era scandita dal calendario liturgico, di conseguenza la Pasqua rappresentava la festività più importante, in occasione della quale, in genere, il vescovo o un suo delegato compivano il giro delle visite pastorali nelle parrocchie della diocesi. Ogni credente doveva confessarsi almeno una volta all’anno in occasione della Pasqua e la comunione pasquale veniva annotata dal parroco che su quella base avrebbe poi redatto lo Stato delle anime, ossia il registro dei fedeli della parrocchia. Chi non prendeva la comunione pasquale era immediatamente sospettato di essere un miscredente, o un peccatore con la coscienza sporca. E l’assenza del suo nome dal registro avrebbe a lungo testimoniato contro di lui. 2. Battesimi, matrimoni, sepolture Nella vita di un credente a ciascuna tappa della vita corrisponde un sacramento o un “rito di passaggio”: battesimo, comunione, cresima, estrema unzione..,. La parrocchia è il luogo della celebrazione di questi riti collettivi e di conservazione della loro memoria scritta (archivi parrocchiali). Il BATTESIMO era l’atto che consentiva di iscrivere alla comunità un suo nuovo componente: era dunque un atto civile, oltre che religioso, da cui dipendeva l’identità di ciascuno e lo stesso ordine sociale della piccola comunità. La scelta dei padrini era importante perché determinava alleanze famigliari o rapporti di protezione. (patronato) Dopo il battesimo, la prima comunione rappresentava per il cristiano l’ingresso nella comunità dei fedeli, mentre le successive - da rinnovare almeno una volta all’anno - rappresentavano la «sanzione dello stato di pace, tra gruppi e individui». La confessione, a sua volta, rappresentava la pacificazione con i propri nemici e la richiesta del perdono a Dio tramite la Chiesa. Il rifiuto della comunione veniva in genere interpretato come un atto di ostilità e come la premessa di cattive azioni. Solo a partire dal Concilio di Trento il MATRIMONIO diventa il sacramento fondamentale in quanto rappresenta l’atto costitutivo di una nuova famiglia e in genere l’unione di due patrimoni. È bene però ricordare che fino alla metà del Cinquecento il matrimonio era un atto eminentemente civile, celebrato di fronte al notaio o al giudice, o anche semplicemente di fronte ai rappresentanti delle due famiglie (in assenza dei coniugi), secondo riti molto diversi fra loro. Del resto raramente implicava promesse d’amore: spesso si trattava di alleanza tra famiglie, a volte rivali, dove i coniugi nemmeno si conoscevano. L’ESTREMA UNZIONE è un sacramento che ricevono solo coloro i quali spirano nel loro letto con i conforti della religione. Chi moriva lontano da casa non riceveva i sacramenti finali. 3. Parroci e parrocchie Nella società di antico regime la parrocchia è il luogo fisico dove vengono vissuti i momenti chiave (battesimo, matrimonio, sepoltura) e la figura del parroco riveste un’importanza particolare in quanto in essa si concentrano una serie di funzioni diverse, sia religiose che civili. Nel mondo rurale il parroco rappresenta infatti il principale ed in molti casi l’unico mediatore fra la società contadina ed il complesso ed articolato sistema dei poteri di cui la Chiesa è parte. Proveniente dai ceti rurali, il parroco di villaggio fa parte della comunità ene condivide i problemi e le ansie. Il parroco è: • amministratore dei sacramenti e della liturgia; • confessore (quindi al corrente dei segreti dei parrocchiani); • mediatore dei conflitti familiari e sociali del villaggio; • ufficiale di stato civile, • notaio, maestro di scuola, maestro di canto, • in molti casi l’unica persona istruita del villaggio. Il Concilio di Trento definisce per la prima volta in maniera inequivocabile i doveri del parroco ed avvia una grandiosa operazione di riforma e disciplinamento del clero - mai completamente realizzata - imponendo un nuovo modello ideale di sacerdote, residente nella parrocchia ed impegnato nella cura d’anime, preparato, obbediente e disciplinato. Prima del Concilio non era infrequente trovare parroci stregoni o guaritori, parroci partecipi di culti agrari estranei alla tradizione cristiana. Il controllo sui parroci e sulla vita delle parrocchie si esercitava anche attraverso le periodiche visite pastorali cui ogni vescovo era tenuto nella sua diocesi. La visita del vescovo o di un suo vicario rappresentava per la parrocchia il momento culminante della propria vita comunitaria, in occasione del quale veniva stesa una relazione e venivano mostrati gli archivi. La grande diffusione dei manuali per confessori fornisce l’idea del modello di comportamento prescritto ai buoni cristiani e sulla natura e sul mutamento dei peccati dove la componente sessuale è predominante. Tra il 1600 e 1700 non l’eresia, ma la sessualità ad essere sancita con maggiore forza. Questi manuali rappresentano un complicato tentativo di contestualizzazione dei peccati a partire dalle loro tipologie e dalle condizioni sociali ambientali dei peccatori. Il parroco confessore doveva sapere che al contadino si poteva chiedere semplicemente di dimostrare sempre «umiltà e sottomissione». Ben diversi erano i problemi che dovevano affrontare i confessori di aristocratici e letterati, per non parlare dei confessori dei principi regnanti, ruolo che venne di fatto monopolizzato dai potenti padri Gesuiti. 4. La Chiesa come carriera Dalla tarda antichità cristiana fino alla metà del Quattrocento la Chiesa cattolica si era retta più sull’autorità dei Concili, ossia dell’assemblea generale dei vescovi, che su quella dei papi. Nella seconda metà del secolo, invece, l’autorità del papa si andò via via rafforzando, facendone infine il vero e proprio sovrano assoluto di uno Stato territoriale. Tra 1400 e 1500 i papi regnanti si dedicano soprattutto a riordinare le finanze pontefice, a contrastare la feudalità in Italia, e a schiacciare l’autonomia di alcune signorie territoriali. Papi come Callisto III, Alessandro VI Borgia, Leone X e Clemente VII de’ Medici non sono certo figure di alta spiritualità, ma sono innanzitutto uomini di Stato e grandi principi. All’interno della Chiesa, del resto, dominava l’alto clero italiano, nepotista e legato alle fazioni nobiliari e dinastiche. Su 540 vescovi europei ben 295 erano italiani. Inoltre fino al Concilio di Trento, si poteva essere vescovi non titolari, cioè godere delle rendite di una o più diocesi senza avere cura d’anime, senza essere ordinati e senza essere sacerdote. Il papato rinascimentale raggiunse nei primi decenni del Cinquecento uno dei punti più bassi di credibilità. Questo spiega come fra lo stesso clero fossero diffusi sentimenti anticuriali e antipapali. Nonostante il Concilio di Trento, si fosse proposto di correggere gli abusi più evidenti, gli interessi familiari ricominciano a dominare la Chiesa di Roma dai primi decenni del Seicento. La carriera ecclesiastica era, dunque, una carriera come un’altra, riservata in primo luogo agli esponenti delle principali famiglie nobili romane, ma anche ai figli cadetti delle principali dinastie signorili italiane e ad alcuni intelligenti ed abili figli di famiglie di provincia che in tal modo riuscivano a raggiungere traguardi impensabili per esponenti del loro ceto. Rappresentava anche una carriera alternativa per chi non cresceva di posizione, diventando cardinali, vescovi e a volte Papa. I più potenti cardinali erano uomini di governo e d’affari in sottana di porpora, molto lontani dalla spiritualità. Laureati in diritto canonico e civile, con competenze giuridiche e amministrative. Oltre il 20% dei magistrati pontifici erano uniti fra loro da vincoli di parentela. In molti casi le cariche e i benefici erano ereditari, come dimostra lo stesso ruolo di “cardinal nipote”, ossia del nipote o del parente più stretto del papa (spesso si trattava di un figlio naturale) al quale veniva di diritto attribuito il titolo di cardinale, connesso con delicatissimi incarichi in Curia. Anche in periferia la carriera ecclesiastica consentiva di controllare ingenti patrimoni. Essere vicario del vescovo era già un’ottima posizione, ancor più essere presidenti dei tribunali vescovili, i quali stabilivano cause ereditarie e matrimoniali. 5. Differenze religiose È bene ricordare che l’Europa cristiana non si identifica con l’Europa cattolica . Già divisa dal 1054 fra Chiesa cattolica di rito latino e Chiesa ortodossa di rito greco, l’Europa cristiana si spacca ulteriormente con la crisi religiosa del Cinquecento, ponendo fine definitivamente all’unità del mondo cristiano e aprendo una lunga stagione di sanguinosi conflitti a sfondo religioso. Contemporaneamente, la cacciata degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna, nel 1492, sancisce la frattura con le minoranze religiose non cristiane che sino alla fine del Quattrocento avevano, bene o male, convissuto con i cristiani senza mai degenerare nel conflitto aperto. La lunga stagione dell’intolleranza si apre dunque con gli inizi del Cinquecento e connota gran parte dell’età moderna, introducendo concetti come “minoranze religiose”, “eterodossi”, “eretici” o “infedeli”. Nell’Europa cattolica le minoranze protestanti sono duramente perseguitate e in alcuni casi, come nella Spagna di Filippo II, la loro presenza è addirittura estirpata. Solo in Francia, dopo una lunga e sanguinosa stagione di guerre di religione, la monarchia accetta l’esistenza di due confessioni religiose e - con l’Editto di Nantes (1698) - stabilisce il principio della tolleranza religiosa, garantendo il privilegio di “religione di Stato” alla Chiesa cattolica, ma garantendo il diritto di culto alla minoranza protestante, pur con alcune restrizioni. Nell’Europa protestante, invece, le minoranze cattoliche vengono per lo più tollerate, come in Olanda, anche se in molti casi private dei diritti politici e civili, e vengono perseguitate solo in casi estremi, come nell’Inghilterra di Elisabetta I, in seguito ad una serie di complotti cattolici. Gli ebrei, perseguitati ed espulsi dalla Spagna e dal Portogallo, sono invece rinchiusi nei ghetti, ossia in quartieri a loro destinati, sottoposti a regole molto rigide e controllati dalle autorità di polizia, in Italia, in Polonia ed in alcune città della Germania. I musulmani sono costretti alla conversione o espulsi dalla penisola iberica. Quindi le condizioni delle minoranze religiosa cambiano da luogo a luogo e cambiano anche nel corso del tempo. Dove sono presenti diverse confessioni religiose, tuttavia anche la società appare più dinamica seppur più conflittuale. Si è sostenuto da più parti che il protestantesimo abbia favorito o comunque meglio interpretato la modernità rispetto al cattolicesimo che per secoli si è opposto ai grandi mutamenti intellettuali, sociali e strutturali avviati in età moderna. Di sicuro il mondo protestante ha consentito, a partire dalla metà del Cinquecento, la formazione di un universo mentale profondamente diverso da quello del mondo cattolico: un universo dominato dalla soggettività e dal senso di responsabilità. Il mondo protestante non conosce Ordini né conventi, né il culto dei santi né quello mariano. Sono i puritani inglesi del Seicento ad affermare fra i primi il diritto di resistenza ai “poteri iniqui”, così come in ambito protestante matura l’idea di “patto” fra governanti e governati da cui deriverà il concetto di “contratto sociale” elaborato a metà Settecento dal ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1762). La stessa idea di “laicità”, intesa come neutralità delle istituzioni politiche e civili nei confronti della dimensione ecclesiastica e religiosa, ha una matrice protestante. La stessa profonda crisi religiosa porterà Lutero ad avviare la Riforma, nata dalla coscienza del carattere ineliminabile del peccato e dell’impossibilità da arte dell’uomo di liberarsene e non affidandosi a Dio. La Chiesa appare a Lutero, dominata dal peccato e dalla corruzione, ragion per cui egli propone la necessità di ricostruirne le fondamenta a partire dall’interiorità della fede e dalla parola di Dio. 6. La diaspora ebraica Dal 1500 l’Europa deve fare i conti con la profonda crisi religiosa e con i rapporti fra cristiani ed ebrei. Con la cacciata degli Ebrei del 1492 dalla penisola iberica, ha inizio una stagione di intolleranza. La storia dell’Europa moderna è infatti anche la storia dell’antisemitismo che ha fatto degli ebrei le vittime preferite di ogni persecuzione. Ma che ruolo hanno avuto gli ebrei nella storia dell’Europa moderna? Il mondo ebraico è diviso in 2 famiglie: • Sefarditi: ebrei occidentali e del mondo mediterraneo, originari della Spagna e Portogallo. Prendono il nome dalla terra di Sefarad, identificata con la Spagna, luogo di esilio degli ebrei di Gerusalemme cacciati da Tito. • Askenaziti: gli ebrei dell’Europa centro-orientale originari della Germania. Ashkenaz è il nome della Germania in ebraico medievale. Sono per lo più discendenti delle comunità ebraiche medievali della valle del Reno, successivamente espulsi. • Ebrei del Sultano: sono per lo più Sefarditi, iraniani e siriani. Al momento dell’espulsione dalla penisola iberica, nel 1492, gli ebrei di Spagna e Portogallo erano circa 170.000, pari all’1,5% della popolazione. In seguito al bando proclamato da Isabella di Castiglia e da Ferdinando d’Aragona tra 70.000 e 100.000 ebrei emigrarono lontano dalla Spagna, mentre un numero variabile tra 50.000 e È appena il caso di ricordare l’importanza dell’invenzione della stampa, a metà Quattrocento, per comprendere la rivoluzione culturale che ne conseguì. La maggior possibilità di diffondere i frutti del sapere, il minor costo di produzione di un libro, la sua più facile riproducibilità, la più ampia circolazione delle idee attraverso i libri rappresentarono davvero una «rivoluzione inavvertita», come è stata efficacemente definita dalla studiosa americana Elizabeth Eisenstein. • nell’ambito della cultura alta ciò significò la possibilità di avere delle edizioni “accertate” degli autori antichi; • nell’ambito della cultura bassa la possibilità di produrre a basso costo manuali, rosari, almanacchi, calendari. Se le prime aree di diffusione della stampa furono la Germania e la valle del Reno, la capitale culturale dell’editoria europea del Cinquecento fu sicuramente Venezia, con la figura di Aldo Manuzio (1450-1515), il maestro di scuola umanista divenuto raffinato stampatore e capace di cambiare la natura stessa del libro, trasformatosi sotto le sue mani da: pesante in folio, cioè libro di grandi dimensioni, composto ancora in caratteri gotici, in agile volumetto tascabile in ottavo, composto con caratteri nitidi ed eleganti, alla portata di un più ampio pubblico. La diffusione della stampa implicò anche la nascita di nuovi mestieri (compositori, impaginatori, correttori di bozze) e la trasformazione di antichi mestieri (scribi, miniaturisti, incisori, cartolai) in nuovi al servizio di un mercato in espansione. D’altro canto il mondo dell’artigianato vide emergere al proprio interno la categoria dei tipografi come un sorta di élite alfabetizzata e spesso discretamente acculturata. Le botteghe degli stampatori non erano, del resto, solo luoghi di lavoro o di commercio, ma in molti casi erano veri e propri centri di cultura frequentati da autori e lettori, dove si incontravano commercianti, operai, eruditi, professori, ecclesiastici, nobiluomini e artigiani. L’intelligenza dello stampatore stava nel sapersi rivolgere non solo ai pochi lettori tradizionali, ma nell’individuare nuove e più estese categorie di pubblico fra chi aveva qualche dimestichezza con la parola scritta. Due caratteristiche colpiscono il nostro sguardo se osserviamo il frontespizio di uno dei primi libri a stampa: a. il grande rilievo dato alla dedica, la lettera con la quale l’autore si poneva sotto la protezione di un uomo potente; b. l’assenza del nome dell’autore (è il titolo, spesso molto lungo, a dominare la pagina). Solo nel tardo Cinquecento il nome dell’autore si afferma come componente essenziale del frontespizio. In assenza di “diritti d’autore”, infatti, qualunque stampatore poteva stampare le opere di chiunque. È solo con l’introduzione della privativa (copyright) - diritto istituzionalizzato nel 1710 in Inghilterra - che si incomincia ad affermare la proprietà letteraria dell’autore. A questa norma la Corporazione degli editori rispose astutamente chiedendo agli autori la cessione dei propri diritti sulle opere, in cambio di un compenso immediato: in tal modo le opere di maggior successo fecero la fortuna degli editori, mentre solo gli autori più celebri poterono permettersi di vivere con il frutto del loro lavoro. Appare abbastanza evidente che la cosiddetta “rivoluzione inavvertita” riguardò solo una ristretta minoranza della popolazione, per lo più urbana, mentre la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne di antico regime ben raramente ebbe modo di prendere in mano un libro e soprattutto un libro che non fosse di carattere religioso. In ambienti analfabeti si leggeva o si ascoltava leggere in chiesa, all’osteria, nel mercato e in piazza. Parlare di libri significa, necessariamente, parlare non solo della loro produzione e diffusione, ma anche del loro controllo. Con l’introduzione della stampa, infatti, le autorità politiche e religiose si resero immediatamente conto di quanto il libro potesse essere potenzialmente pericoloso. La Chiesa cattolica innanzitutto, ma anche le autorità laiche, intervennero ben presto per disciplinare la stampa imponendo che ogni testo da inviare in tipografia dovesse avere l’autorizzazione preventiva da parte dell’autorità ecclesiastica. La censura prevedeva non solo il divieto di stampare, ma anche di diffondere e di possedere i libri non autorizzati. Nel 1559, prima della conclusione del Concilio di Trento, papa Paolo IV fece pubblicare a Roma il primo ed ufficiale Indice dei libri proibiti, ossia il catalogo di tutte le opere di cui la Chiesa cattolica vietava la stampa, la diffusione e il possesso. Tra Cinque e Settecento quasi tutte le più importanti opere dell’ingegno umano finirono all’Indice: da Giordano Bruno a Galileo Galilei, da Cartesio a Newton, da Voltaire a Rousseau. Paradossalmente l’Indice finì per fornire agli spiriti liberi un dettagliato catalogo delle opere da leggere. 4. La circolazione delle idee Con l’invenzione della stampa e con il progressivo miglioramento delle vie di comunicazione la circolazione delle idee si fa via via più intensa. Le idee si propagano attraverso gli uomini che se ne fanno parte portatori, ma anche attraverso le pagine di libri, periodici e fogli volanti che ne sono veicolo. Nel seicento furono soprattutto i grandi centri di potere religioso e politico (Chiesa e monarchie assolute), a dominare l’informazione nel tentativo di disciplinare una società in fermento. La propaganda religiosa e la propaganda politica, con la loro rappresentazione teatrale nelle piazze, nelle chiese e nei palazzi saranno un tratto saliente della cultura barocca. Nel Settecento, infine, la progressiva laicizzazione della cultura, unita ad una più facile circolazione della parola scritta, consentirà alle diverse espressioni dell’Illuminismo di penetrare non solo fra le élite, ma fra gli strati intermedi della popolazione. Tra la fine del Sei e l’inizio del Settecento comparvero in Europa numerosi periodici eruditi o scientifici che rappresentarono i primi veicoli di comunicazione e internazionalizzazione dei saperi e delle scoperte scientifiche. Si può dire che una comunità scientifica e intellettuale europea nacque proprio a partire dalle reti degli abbonati, dei lettori e dei corrispondenti di tali periodici. Accanto ai giornali eruditi si diffusero anche le gazzette di notizie, inizialmente politiche e commerciali, poi via via più complete. Attraverso di esse un pubblico assai più vasto e meno selezionato di quello dei soli letterati e scienziati incominciò ad essere informato settimanalmente su quanto avveniva in ogni parte d’Europa e del pianeta. L’Europa cosmopolita, che rimarrà un ideale illuministico sul piano politico, si stava di fatto realizzando sulle pagine delle gazzette e nella confusa coscienza di migliaia di uomini che quelle notizie potevano leggere sulla carta stampata o ascoltare durante una pausa di riposo tra- scorsa al caffè o in una locanda. Non è certo un caso che il più celebre periodico italiano dell’età dei Lumi sia stato intitolato da Pietro Verri e da Cesare Beccaria alla bottega del “Caffè”, luogo di scambio e di socializzazione per eccellenza. 13. EDUCAZIONE E ISTRUZIONE 1. Leggere, scrivere, fare di conto Le società di antico regime erano dominate dall’analfabetismo . In base ai dati raccolti da alcuni studiosi francesi possiamo affermare che attorno al 1680- 1700 oltre 16 milioni (su 20) di sudditi francesi erano completamente analfabeti, con prevalenza delle donne (86%) sugli uomini (71%); a distanza di poco meno di un secolo, alla vigilia della Rivoluzione francese, la percentuale si abbassava di dieci punti: il 76% delle donne e il 58% degli uomini. La parola scritta era sconosciuta alla stragrande maggioranza della popolazione; l’oralità dominava sulla scrittura, ma la comunicazione era fatta anche di immagini, di simboli, di emblemi, il cui significato oggi stentiamo a comprendere. (esempio: un nome poteva essere dipinto in uno scudo) Leggere, scrivere e far di conto erano tre abilità del tutto diverse che non si apprendevano nello stesso momento o all’interno del medesimo processo educativo, ma costituivano il punto d’incontro di percorsi formativi fra loro separati. Ad esempio: la capacità di fare conti – spesso appresa “sul campo” e non a scuola - non implicava necessariamente la capacità di leggere e scrivere. I luoghi dell’apprendimento, del resto, erano solo raramente le scuole: spesso si apprendeva a leggere in famiglia, o durante un viaggio, o durante l’apprendistato in bottega, o lavorando come servo sotto padrone, o durante il servizio militare. Nelle campagne la maggior parte delle famiglie considerava la scuola come un modo per sottrarre i giovani al lavoro. Altro discorso è capire come gli uomini di antico regime si comportassero di fronte ai libri. La lettura silenziosa è stata un’acquisizione della modernità. Gli uomini del medioevo leggevano ad alta voce o comunque pronunciando le parole nel momento della lettura. Ugualmente la scuola medievale e l’università fino alle soglie dell’età moderna incoraggiavano una lettura intensiva dei testi, ritornando più volte sulle stesse pagine e sulle stesse righe ed approfondendo via via il significato più profondo (esegesi) dei concetti espressi. Questa lettura risultava molto efficace per le Sacre Scritture, o per le opere teologiche e giuridiche, favorendo l’apprendimento mnemonico. Solo con il Settecento, con l’enciclopedismo e con la diffusione della stampa periodica incomincia ad affermarsi la lettura di tipo estensivo, ossia basato sulla capacità di scorrere, sfogliare, consultare più testi di cui si trattiene l’essenziale, ma di cui si dimenticano inevitabilmente i dettagli; lettura, quindi, più superficiale, ma assai più estesa sul piano quantitativo. I libri non vengono più letti da cima a fondo e più volte, ma vengono letti in modo selettivo al fine di porre domande. A partire dal Cinquecento, infine, si diffonde la pratica dell’annotazione o dell’appunto ai margini (glosse). Gli studenti e gli studiosi incominciano a prendere note su taccuini o su fogli sparsi, successiva- mente riuniti a seconda delle necessità e dei problemi. 2. Alunni e insegnanti In antico regime le scuole erano presenti soprattutto nelle città, mentre nelle campagne e nei villaggi erano assai poco diffuse e considerate con diffidenza dalle famiglie contadine che non volevano che i figli fossero sottratti ai lavori nei campi, e dai ceti aristocratici e dalla stessa Chiesa che vedevano nell'’istruzione dei ceti inferiori un potenziale pericolo e un incoraggiamento all’insubordinazione sociale. Solo nel Settecento una parte della popolazione rurale dell’Europa occidentale e settentrionale poté - pur fra mille difficoltà - accedere all’istruzione di base. Nella maggior parte dei villaggi furono istituite infatti scuole elementari a classe unica dove si poteva imparare a leggere e a scrivere. I maestri di villaggio - in qualche caso retribuiti dal Comune, ma il più delle volte sostenuti dalle famiglie degli alunni con piccoli compensi in natura - erano per lo più preti o parroci (85%), a lungo le uniche figure alfabetizzate in una massa di analfabeti; in qualche raro caso notai di provincia. Soltanto a partire dalla seconda metà del Settecento, i maestri incominciarono ad avere una formazione professionale specifica. Nell’Europa occidentale e settentrionale si richiedeva infatti agli insegnanti elementari un diploma di abilitazione ed il loro reclutamento iniziò ad essere effettuato mediante concorsi pubblici, in modo da formare un corpo di maestri, regolarmente retribuiti, al servizio della pubblica amministrazione. All’istruzione elementare, non obbligatoria, accedevano, per lo più, in città i figli degli artigiani e dei commercianti, oltre che i figli della piccola e media borghesia delle professioni; in campagna i figli degli artigiani di villaggio e dei piccoli e medi proprietari terrieri, pochissimi figli di contadini. Gli alunni delle scuole non appartenevano a quella che oggi definiamo “età scolare”, ma ad età diverse comprese, in genere, fra i 6-7 e i 15 anni. L’apprendimento era mnemonico e a volte. Più grandi aiutavano i più piccoli. Le lezioni si svolgevano ina stanza della parrocchia, munita di panche, e raramente banchi e riscaldata. Per frequentare le scuole gli studenti dovevano pagare una tassa corrispondente al costo di vitto e alloggio presso un maestro ed in qualche caso potevano godere di una borsa di studio. L’apprendimento della lingua era principalmente fonetico ed avveniva attraverso la lettura e la ripetizione dei testi. La lingua di base della cultura era quasi sempre il latino e le lingue volgari erano concepite come puramente strumentali. Lettura e scrittura erano due apprendimenti separati e indipendenti. Le regole grammaticali venivano apprese a memoria. I libri di testo non esistevano. Con l’invenzione della stampa nelle scuole vennero progressivamente introdotti manuali, compendi e libri di testo, sebbene la pratica della dettatura sia sopravvissuta per almeno due secoli. Le punizioni corporali erano all’ordine del giorno. 3. Collegi e università Se si sposta lo sguardo dai ceti inferiori ai ceti elevati, ci si accorge che in questo caso l’istruzione dei figli era affidata a precettori privati alle dipendenze delle famiglie. Solo a partire dalla seconda metà del Cinquecento l’istruzione superiore dei ceti elevati incomincia a svolgersi all’interno di apposite istituzioni, i collegi, antenati degli odierni licei. Il modello più celebre è quello della Compagnia di Gesù, . In pochi anni i Gesuiti impostano il più ambizioso progetto pedagogico dell’età moderna, istituendo collegi di istruzione superiore in quasi tutte le città più importanti (612 istituti attivi nel 1700) e definendo un articolato programma di studi che nel 1599 sarà codificato nella Ratio studiorum (tre classi di grammatica, una di umane lettere, una di retorica e due di filosofia), fondata su di una solida formazione umanistica. Con questo grande modello per la prima volta nella storia si realizza un dettagliato programma di studi, secondo un preciso calendario da seguire contemporaneamente in tutti i paesi. Componente essenziale dell’educazione gesuitica era il senso della disciplina e dell’obbedienza all’autorità, premessa di qualsiasi elaborazione autonoma
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