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la-spagna-imperiale riassunto elliot, Sintesi del corso di Lingua Spagnola

la-spagna-imperiale riassunto elliot

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Scarica la-spagna-imperiale riassunto elliot e più Sintesi del corso in PDF di Lingua Spagnola solo su Docsity! lOMoARcPSD|5216287 : – Capitolo primo: L’unione delle Due Corone Origini dell’unione Il 19 ottobre 1469, Ferdinando, re di Sicilia ed erede al trono d’Aragona, e Isabella, erede del trono di Castiglia, si sposarono in una residenza privata a Valladolid. La diciottenne principessa era stata allontanata dalla sua dimora di Madrigal dall’arcivescovo di Toledo, per essere accompagnata in una città dove sarebbe stata sicura, mentre Ferdinando aveva compiuto un cammino addirittura più arduo: era venuto da Saragozza, attraversando il territorio nemico e aveva rischiato per giunta di morire. Arrivato a Valladolid, vide la sua sposa per la prima volta il 15 ottobre, 4 giorni prima delle nozze. I due giovani erano stati costretti a contrarre un prestito per far fronte a tutte le spese del matrimonio e chiesero, ottenendola, una bolla papale di dispensa. Più tardi si venne a sapere che questa era un falso concertato dal re di Aragona, dall’arcivescovo di Toledo e dallo stesso Ferdinando. C’erano molte persone che volevano impedire le nozze, primo su tutti il re di Francia, Luigi XI, il quale vedeva come una minaccia l’unione tra Aragona e Castiglia. Egli era però “lontano”, mentre c’erano oppositori anche in Spagna, vale a dire i grandi nobili castigliani, i quali temevano che la corona di Castiglia sarebbe uscita troppo rafforzata dalle nozze. Essi, allora, iniziarono a sostenere la causa di Juana la Beltraneja, presunta figlia di Enrico IV, le cui pretese al trono furono inconsistenti rispetto a quelle di Isabella (Isabella era sorella di Enrico IV). Enrico era stato costretto, nel 1468, a dichiarare Isabella erede al trono, di conseguenza su di lui furono esercitate numerose pressioni. Né Ferdinando, né Isabella erano persone precipitose, infatti il loro matrimonio è nato a partire da decisione prese da altri, che poi i due sovrani fecero proprie. La Spagna del quindicesimo secolo era divisa tra varie corone cristiane: il regno di Castiglia, il regno d’Aragona e il regno di Portogallo. La grande dinastia medievale aragonese si era interrotta nel 1410 con la morte di Martino I, e nel 1412 era salito al trono Ferdinando I D’Antequera, un esponente del ramo della dinastia castigliana di Trastámara. Dal quell’anno, quindi, gli esponenti dei due rami della stessa dinastia castigliana tennero la corona di Castiglia e quella d’Aragona. Non esisteva alcuna ragione economica o storica che inducesse le due Corone ad unirsi, anzi, le due provavano un sentimento di antipatia reciproca, che rendeva sgradita ogni futura possibile unione ad entrambe le popolazioni. Nonostante quest’antipatia, esistevano delle forze attive che avrebbero portato alla congiunzione delle due Corone. Il termine “Hispania”, di uso ricorrente durante tutto il Medioevo, stava ad indicare la penisola iberica come una regione geografica a sé. Il sentimento di fedeltà legava la gente in modo permanente alla regione natale, ma i contatti con il mondo esterno, sempre più frequenti, contribuivano ad infondere il sentimento dell’essere spagnolo, dell’appartenenza a quella terra. Accanto a quest’idea geografica della Spagna, rimaneva viva l’idea storica derivata dall’antica Hispania romana: si manteneva vivo il ricordo del tempo in cui la Spagna aveva solo due province – Hispania Citerior e Hispania Ulterior – unite sotto il governo di Roma. Quest’idea era particolarmente cara al gruppo di umanisti che faceva capo al cardinale Margarit. C’erano però altri personaggi vicini alla corte aragonese che tenevano in considerazione l’idea di un “ritorno alle origini”. Giovanni II d’Aragona (padre di Ferdinando) dovette far fronte alle insurrezioni che ebbero logo in Catalogna, ma anche alle ambizioni espansionistiche di Luigi XI, re di Francia. Egli, non avendo troppi mezzi, 1 fece affidamento sull’aiuto castigliano e proprio questo avrebbe potuto essere assicurato tramite il matrimonio. Fu soprattutto la situazione internazionale a rendere il matrimonio tra Aragona e Castiglia ancor più plausibile e necessario agli occhi del re di Aragona. I mesi cruciali furono quelli dell’autunno 1648, quando Enrico IV riconobbe sua sorella Isabella come erede al trono, e quelli della primavera 1469. Quando Isabella venne riconosciuta come erede legittima, le sue nozze divennero una questione di politica internazionale. Erano tre i candidati più in vista che potevano aspirare alla sua mano:  Carlo di Valois, figlio di Carlo VII re di Francia, così da irrobustire il legame tra Francia e Castiglia;  Alfonso V, re di Portogallo;  Ferdinando, figlio ed erede di Giovanni II di Aragona, in modo tale da coronare l’alleanza aragonese- castigliana. Nel gennaio 1649 Isabella fece la sua scelta, che ricadde su Ferdinando. Ci furono forti pressioni per indurre la principessa a scegliere il pretende aragonese, ma Isabella era una donna di grande fermezza e coraggio, pertanto fece la scelta più avveduta. Sposare Ferdinando significava imporre nel contratto di matrimonio dei termini di proprio assoluto vantaggio. L’atto formale con cui vennero stabilite le nozze, vale a dire il contratto firmato il 5 marzo 1649 a Cervera (in Catalogna), palesò che la posizione della principessa era di gran lunga superiore a quella del suo sposo. Si decise che Ferdinando avrebbe vissuto in Castiglia e che avrebbe dovuto combattere per la causa della principessa: era chiaro che, nel governo del paese, egli rivestiva il secondo posto. Ferdinando si dimostrò subito disposto a sostenere gli interessi di sua moglie e, inoltre, i due sovrani poterono trarre vantaggio dalla grande esperienza e sagacia del padre di Ferdinando, Giovanni II. Isabella aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile se voleva assicurarsi la ancor dubbia successione al trono castigliano. Le sue nozze avevano, di fatto, fatto scoppiare una lotta per la successione alla Corona d Castiglia che sarebbe durata un intero decennio e culminò, tra il 1475 e il 1479, in un’aperta guerra civile. Il fratello di Isabella, Enrico IV, era rimasto sconvolto dalla notizia delle nozze della sorella, per cui Luigi XI cercò di indurlo a riconoscere i diritti di Juana La Beltraneja, a cui aveva offerto di dare un marito francese. I primi cinque anni di matrimonio, dunque, videro Ferdinando impegnato nell’inculcare nella piccola nobiltà dei sentimenti favorevoli verso Isabella II e, per altra via, cercò di riconciliarsi con il re Enrico IV. L’11 dicembre del 1474, Enrico IV morì e Isabella si proclamò immediatamente regina di Castiglia. La fazione anti-aragonese aveva però preso contatti con Alfonso V, re del Portogallo, il quale aveva pensato di sposare Juana. Alla fine del maggio 1475, Juana rivendicò a sé stessa il trono castigliano. In tutto il paese scoppiarono rivolte contro Ferdinando e Isabella; la guerra di successione che ne seguì terminò con la vittoria di Isabella. I cronisti della storia hanno poi condotto una propaganda pro-Isabella, scrivendo che Juana non era figlia di Enrico IV e con sprezzo la denominarono La Beltraneja, perché si diceva che suo padre fosse Beltran de la Cueva. L’esito della guerra finì per segnare l’intero futuro politico della Spagna: vinsero Ferdinando e Isabella, per cui con il termine Spagna si iniziò ad indicare la Castiglia e l’Aragona. La Castiglia si vide impegnata negli interessi mediterranei aragonesi. Ferdinando fu estremamente importante, dato che era un abile negoziatore e fu capace di attrarre nobili e città dalla parte di Isabella. Egli poté contare sull’appoggio di tre grandi e potenti famiglie della Castiglia settentrionale, con le quali aveva vincoli di parentela. Tutto questo contribuì a porre Isabella in posizione di vantaggio sulla rivale. Ella fu inoltre avvantaggiata dall’incompetenza del re portoghese. Solo nel 1479, l’intera Castiglia fu riportata sotto il controllo di Isabella: il suo trionfo fu accompagnato dalla relegazione della rivale in un convento. All’inizio del 1479 morì anche Giovanni II d’Aragona, di conseguenza Ferdinando salì al trono del padre. 2 I diputats divennero i cani da guardia delle libertà catalane: sorvegliavano che nessun funzionario regio violasse le leggi del principato e spettava loro adottare i provvedimenti adeguati affinché ogni violazione della legge fosse sconfessata e fossero riparati i torti. Essi erano i supremi rappresentanti della nazione catalana e dovevano far in modo che le leggi fossero osservate alla lettera. Ci furono occasioni in cui essi, di fatto, costituirono il governo effettivo del paese. La Diputació era, quindi, un’istituzione molto potente che aveva il supporto di grandi risorse finanziarie ed era il simbolo dei rapporti reciproci che dovevano esistere tra il re e un popolo libero e forte: la sua reputazione aveva spinto gli aragonesi e i valenciani a creare nelle loro regioni delle istituzioni analoghe. Fu poi caratteristico dei catalani medievali sentirsi talmente orgogliosi delle forme istituzionali che si erano conquistate, da pensare che potessero essere impiantate anche nei territori che avevano sottoposto al loro dominio. Sia la Sardegna che la Sicilia ebbero i loro parlamenti. L’impero medievale della Corona di Aragona fu ben lontano dall’avere le sembianze di un impero autoritario, retto con mano ferrea da Barcellona. Al contrario, fu caratterizzato da una federazione sconnessa di territori diversi. L’autorità del monarca era rappresentata da un personaggio che doveva poi avere un ruolo vitale nella storia del futuro impero spagnolo. Ogni parte della federazione si comportava come unità statale e indipendente e il re poteva essere presente fisicamente solo in una di esse, di conseguenza nominò a Maiorca, in Sardegna e in Sicilia un suo sostituto personale. Nel Medioevo, dunque, la Corona di Aragona fu molto influente in ambito commerciale. Le azioni della corona ruotavano intorno all’idea contrattualistica di un rapporto o patto tra re e sudditi, rapporto che si era tradotto in forma istituzionale ed era stato felicemente sperimentato nella conduzione dell’impero commerciale. La Corona di Aragona si differenziava quindi dalla Castiglia medievale. Quest’ultima, nella prima metà del XIV secolo si presentava come un pase che tendeva a chiudersi in sé stesso anziché guardare all’esterno e che vedeva la guerra come una priorità. Questo era dovuto al fatto che la società castigliana era ancora una società pastorale e di abitudini nomadi, la cui indole era foggiata nel continuo esercizio della guerra. La guerra in questione era imposta dal continuo processo di reconquista, dato che per la Castiglia tale processo era ancora in atto, mentre per la Corona di Aragona era terminato da tempo. La reconquista fu per un certo periodo una crociata contro gli infedeli, una serie di spedizioni militari, ma anche una migrazione di popolo. Tutti e tre gli aspetti della reconquista hanno lasciato la loro impronta profonda che contrassegnò la vita della società castigliana. In una guerra santa contro l’Islam era naturale che il clero godesse di una posizione di privilegio, infatti spettò loro imprimere negli animi dei castigliani la convinzione che essi avevano la missione, voluta da Dio, di liberare il paese dai mori. Per questo motivo, la chiesa ebbe un’influenza fortissima sulla Castiglia medievale, sostenendo le proprie idee con l’esaltazione dei tre ordini militari di Calatrava, Alcántara e Santiágo, vale a dire le tre grandi creazioni del XII secolo, che univano ideali militari a ideali di vita religiosa. Se l’ideale crociato infuse nei guerrieri castigliani la convinzione di partecipare a una santa missione come soldati della religione cristiana. In quelle prime campagne militari i nobili castigliani ribadirono con loro piena soddisfazione il fatto che la vera ricchezza era data dal bottino e dal possesso di terre. Inoltre, la loro ammirazione andò soprattutto alle virtù militari del coraggio e dell’onore; in questo modo nacque il perfetto hidalgo, ovvero colui che viveva solo per fare la guerra e che avrebbe fatto l’impossibile sfruttando il mero coraggio fisico e la costante tensione della volontà. L’ideale dell’hidalguía era essenzialmente aristocratico, ma le circostanze cospirarono per diffonderlo in tutta la società castigliana, dato che proprio la natura della reconquista fece crescere un disprezzo popolare per la vita sedentaria e per i beni stabili. 5 La reconquista, quindi, diede alla società castigliana un suo peculiare carattere, di cui gli aspetti predominanti erano dati dalle tendenze a privilegiare l’ideale aristocratico e la milizia religiosa. Ma essa fu importante anche nel determinare il quadro della vita castigliana. Nel sud della Spagna si formarono le grandi proprietà terriere, ma in particolare la reconquista contribuì a far trionfare un’economia pastorale. Infatti, in un paese dove il suoi era duro, arido, e dove erano frequenti gli attacchi da parte dei banditi, l’allevamento ovino rappresentò un’occupazione più sicura dell’agricoltura. Il fatto che trasformò le prospettive dell’allevamento ovino in Castiglia fu l’introduzione della pecora merino dall’Africa settentrionale all’Andalusia. Queste coincise con la moltiplicazione della richiesta per la lana spagnola. L’economia castigliana conobbe, tra il XIV e il XV secolo, un processo di adattamento, attuato proprio per far fronte a tale richiesta. Nel 1273, la Corona di Castiglia unificò in una sola organizzazione le varie associazioni o corporazioni di allevatori di ovini e le concedette privilegi importanti; quest’organizzazione prese poi il nome di mesta e si vide assegnato il compito di sovrintendere e controllare la complessa operazione della transumanza. Tutto questo produsse delle conseguenze di grande importanza per la vita sociale, politica ed economica della Castiglia, che infatti iniziò a relazionarsi con le Fiandre (divennero il primo mercato per la lana spagnola). La Peste Nera del XIV secolo causò una crisi temporanea di forza-lavoro, che sarebbe stata d’aiuto nell’imprimere all’economia castigliana un impulso diverso da quello verso l’allevamento ovino. Fu in quel momento, che le grande casate aristocratiche della Castiglia – i Guzmán, gli Enríquez e i Mendoza – posero le basi per il loro prestigio. Alla metà del XV secolo, alcuni di loro avevano un prestigio e una ricchezza da favola. I grandi aristocratici ebbero vita agevole quando vollero prendersi il massimo dell’influenza politica, in virtù del fatto che la corona di Castiglia era debole siccome era retta da sovrani minorenni. Era invece diverso il peso delle città nella corona di Aragona. Il caos politico del XIV secolo in Castiglia era in netto contrasto con l’ordine pubblico che dominava la corona di Aragona, dove l’ordine era appunto garantito da organi di governo ben congegnati. È vero che i castigliani avevano le Cortes, ma c’erano delle differenze fondamentali tra le Cortes di Aragona e quelle di Castiglia. In primo luogo, le cortes castigliane NON potevano esercitare il reale potere politico di cui davano prova quelle aragonesi, anzi, furono le stesse caratteristiche delle cortes castigliane a minarne l’autorità. I sovrani castigliani non erano obbligati a convocare le cortes con cadenze obbligatorie, come in Aragona, e nessuno, in Castiglia aveva il diritto di far parte delle Cortes stesse. Nonostante fosse una consuetudine, che il re convocasse le Cortes nel momento in cui aveva bisogno di un sussidio aggiuntivo, il servicio, la forza che le Cortes potevano derivare dal fatto che spettava loro votare o no il sussidio richiesto era paralizzata. Tale forza era svuotata anche dal fatto che nobiltà e clero non si preoccupavano delle manovre discali e i rappresentanti delle città si trovavano costretti a combattere da soli le loro battaglie con la corona. Inoltre, le Cortes di Castiglia non seppero conquistarsi la partecipazione al potere legislativo: in linea di principio, era necessario il consenso delle Cortes per abrogare una legge, ma il potere di fare le leggi spettava alla sola corona. Le cortes potevano presentare petizioni, ma non riuscirono mai a trasformare questo diritto nel diritto legislativo. Tutto faceva pensare che il futuro della Castiglia sarebbe stato oscuro: i re di Castiglia erano alla mercé dei grandi, le cortes erano discordi e inefficienti, l’amministrazione del regno era andata in malora, ecc. La situazione era diversa nei territori della Corona di Aragona, dove non c’era nessun problema per la successione, che era stato sistemato tra il 1410 e il 1412 senza ricorrere alla guerra civile. Il secondo re della nuova dinastia, Alfonso il Magnanimo diede l’avvio a una nuova grande fase di espansionismo imperiale che consentì ai catalani e agli aragonesi di imporsi saldamente nella penisola italiana. L’avvenire sembrava luminoso, ma si trattava di apparenze ingannevoli. 6 La società castigliana si stava trasformando e rinvigorendo alla luce dei cambiamenti dell’economia che era stimolata dall’esportazione della lana. Se il paese avesse potuto ritrovare la pace interna e se l’aristocrazia fosse stata in grado di disciplinarsi, allora si sarebbe potuto pensare a un nuovo sviluppo castigliano. Le nuove conquiste d’oltremare attuate nel XV secolo non indicavano che nei territori della federazione aragonese regnavano prosperità e stabilità, infatti la federazione aragonese-catalana entrò in un periodo di crisi, da cui sarebbe uscita solo molto tempo dopo. Il declino della Corona di Aragona L’eclissi della Corona di Aragona nel XV secolo dipese in gran parte dal declino della Catalogna. I catalani erano stati coloro che avevano procurato, nell’Alto Medioevo, i maggiori successi della federazione aragonese-catalana. La crisi catalana del XV secolo è considerata soprattutto una crisi politica, provocata dall’ascesa al trono, nel 1412, di una dinastia straniera, vale a dire castigliana. Nel XV ebbe fine quella stretta collaborazione tra dinastia e popolo che aveva caratterizzato la Catalogna nei suoi anni di splendore. I catalani, a partire da quel momento, iniziarono a sentirsi sempre più estraniati dagli interessi del loro sovrano. Un presupposto essenziale per fare coincidere la politica regia con la politica dei mercant i era stata la vitalità economica che si era avuta nel XIII e nel XIV secolo. Nel XV secolo, però, la vitalità e l’espansionismo dei secoli precedenti non esistevano più. Questo segna la fine della fase espansionistica dell’economia catalana, cosa che si ripercosse su tutto il sistema politico. La crisi catalana si colloca, però, in un contesto più ampio; dietro di essa, è necessario prendere in considerazione il flagello della peste nera. Il 1333 fu il primo anno di carestia, chiamato “il primo anno cattivo”, ma fu poi tra il 1347 e il 1351 che il principato catalano fu devastato dall’epidemia. La peste nera, in quegli anni, decimò la popolazione. L’epidemia colpì duramente anche la Castiglia, ma per un tempo breve, mentre in Catalogna si ripresentò con tre nuove ondate (1362.63, 1371 e 1396-97), di conseguenza la vitalità del paese fu colpita alla radice. Ci fu un terribile calo della popolazione, che fece tracollare l’economia della Catalogna. La prima conseguenza fu la crisi delle campagne: venne meno la manodopera, le fattorie vennero abbandonate e i contadini iniziarono a rivoltarsi violentemente contro i signori. Nel corso del XV secolo, il fermento nelle campagne si fece endemico: sollevazioni armate, incendi e uccisioni furono usati da una classe decisa ad emanciparsi dalla condizione giuridica del servaggio. Tale classe, nota con la denominazione specifica di contadini della remença – letteralmente “contadini legati alla terra” – costituiva 1/3 della popolazione catalana. Alcuni di questi contadini erano relativamente ricchi, altri vivevano nella più nera miseria. Gli interessi degli uni erano pressoché incompatibili con quelli degli altri, però tutti si ritrovarono uniti nella determinazione di guadagnarsi la libertà sottraendosi alle “sei malvagie consuetudini” (malos usos) a cui erano soggetti e di ottenere per sé le fattorie abbandonate. Molti degli edifici eretti a Barcellona risalgono al XIV/XV secolo; tuttavia, le basi dell’attività economica di Barcellona erano meno solide di quel che erano state in passato ed erano soggette a scosse sempre più frequenti. La crisi finanziaria indebolì la posizione della città, di conseguenza Genova fu capace di approfittare degli spazi che si aprirono con il diminuire dell’attività catalana: Genova si trasformò nella capitale finanziaria dell’area mediterranea occidentale. A partire dalla fine del XIV secolo e per tutto il XV, ci fu un conflitto tra la Catalogna e Genova per il controllo del mercato delle spezie, dei tessuti e delle granaglie (cereali). I genovesi si installarono a Cordova, a Cadice e a Siviglia, assicurandosi il controllo delle esportazioni dai porti meridionali della Spagna. Inoltre, essi si dimostrarono abilissimi nell’insinuarsi in un punto strategico dopo l’altro all’interno dell’economia castigliana. Il predominio genovese ebbe un’influenza decisiva sulle fasi della storia spagnola nel Cinquecento. I catalani si trovavano sottoposti a pressioni crescenti ed erano nella condizione di combattere per sopravvivere. Dovevano infatti sostenere la dura rivalità dei concorrenti nel Mediterraneo. 7 Capitolo secondo: La reconquista e le nuove conquiste Durante il regno di Ferdinando e Isabella, la Corona di Castiglia si vide impegnata in una serie di imprese di conquista sia nel territorio spagnolo che fuori da esso. La data di inizio di queste conquiste è senza alcun dubbio il 1492. Il 6 gennaio 1492, Ferdinando e Isabella fecero il loro ingresso trionfale nelle città di Granada; il 17 aprile 1492, tre mesi dopo il completamento della reconquista, nella città di Santa Fé (costruita dai cristiani durante l’assedio alla roccaforte mora) – a sei miglia da Granada – venne stabilita la natura che doveva avere il viaggio di esplorazione proposto da Cristoforo Colombo. La flotta di Colombo, formata da tre caravelle, doveva salpare da Palos il 3 agosto 1492, per poi raggiungere le Canarie, da cui sarebbe ripartita il 6 settembre 1492, spiegando le sue vele verso l’ignoto. Il 12 ottobre 1492 fu avvistata la terra e le navi si ancorarono al largo di un’isola delle Bahamas: Colombo pensava di aver scoperto le Indie, ma si scoprì successivamente che era approdato in America. La conquista di Granada e la scoperta dell’America, che consistettero nella realizzazione delle aspirazioni di un’età precedente, furono allo stesso tempo un inizio e una fine:  la caduta di Granada e la sua conquista posero fine al lungo processo della reconquista cristiana, ma diedero inizio a una lunga crociata castigliana contro i mori;  la scoperta del Nuovo Mondo diede inizio alla fase del colonialismo occidentale, ma allo stesso tempo costituì l’apice naturale di un periodo dinamico ed espansionista della storia castigliana. Il completamento della reconquista La reconquista da parte della Castiglia ha subito delle battute di arresto durante il suo corso, ma la caduta di Costantinopoli del 1453 fece rivivere l’entusiasmo crociato della cristianità e, Enrico IV di Castiglia, sulle ali dell’entusiasmo, riprese la reconquista nel 1455: vennero sferrati sei attacchi alla roccaforte moresca di Granada, che però non ebbero alcun successo. L’idea di crociata era a pronta disposizione di Ferdinando e Isabella; proprio la ripresa della guerra contro Granada sarebbe stato un modo per unificare il paese dietro i nuovi sovrani, che avrebbero cercato di portare a un’impresa eroica, facendo così risuonare il nome della Spagna per tutta la cristianità. L’attacco iniziò nel 1482, con la presa di Alhama da parte delle forze castigliane; si proseguì con una serie di metodiche campagne di guerra, che ridussero il regno moro alla sola città di Granada. Questo tipo di guerra fu una scelta obbligata, dettata dalla natura montagnosa del terreno: fu, sostanzialmente, una guerra fatta da tanti assedi, dove la fanteria e l’artiglieria giocarono un ruolo strategico. La fanteria era in parte composta da mercenari e volontari venuti da tutt’Europa e in parte dai membri di una specie di milizia nazionale, arruolati nelle città della Castiglia e dell’Andalusia. La guerra di Granada venne vinta non solo con le azioni militari, ma anche con la diplomazia. Il regno Nasrid era lacerato da contese intestine, che il re Ferdinando seppe sfruttare ottimamente. La famiglia di Muley Hacén, il vecchio re di Granada, era divisa al suo interno e nel luglio 1482, Boabdil e Yusuf (figli avuti dal primo matrimonio) fuggirono a Guadix, dove Boabdil fu riconosciuto re del regno. Quando anche la città di Granada proclamò Boabdil re, allora Muley Hacén e suo fratello, El Zagal, si rifugiarono a Málaga: tra le due metà del regno scoppiò la guerra. El Zagal riuscì, nel 1483, a sconfiggere la spedizione cristiana che lo aveva attaccato; Boabdil, suo nipote, cercò di emularne il successo invadendo il territorio cristiano. Tuttavia, non essendo Boabdil un guerriero, la sua spedizione militare terminò con una sconfitta e con la cattura dello stesso Boabdil , da parte dei cristiani, il 21 aprile 1483, durante la battaglia di Lucena. La cattura di Boabdil rappresentò una svolta per la campagna contro Granada; il suo effetto immediato dentro la città fu la riunificazione del regno sotto Muley Hacén, che poi venne deposto e sostituito da El Zagal. La conseguenza più importante fu, tuttavia, che Ferdinando e Boabdil si accordarono segretamente: tale intesa prevedeva che, in cambio della libertà, Boabdil sarebbe diventato vassallo del re e avrebbe intrapreso una guerra contro suo padre, nella quale sarebbe stato supportato dalle truppe spagnole. Boabdil, alla fine, 10 mantenne i rapporti con gli spagnoli, e questo consentì a Ferdinando di intensificare i contatti con gli avversari interni di Muley Hacén e di El Zagal. Dopo che Boabdil aveva fatto ritorno alle sue terre, l’attacco spagnolo si diresse alla parte occidentale del regno di Granada: alla fine del 1485, questa porzione era quasi tutta in mani spagnole. Boabdil e lo zio procedettero a una momentanea riconciliazione, ma quando Boabdil venne catturato una seconda volta – nel 1486, con la caduta di Loja – questi cercò subito di mettersi sotto la protezione di Ferdinando e Isabella. Mentre la guerra civile depauperava il regno moresco, gli spagnoli completarono, nel 1487, la conquista della parte occidentale del regno, conquistando Málaga, la cui caduta fece capire che sarebbe diventato impossibile conservare Granada; Boabdil quindi si dichiarò disposto a cedere Granada e a scambiare il suo titolo di re con quello di nobile castigliano, a patto che gli venisse garantita la signoria su Guadix, Baza e un paio di città ancora fedeli a El Zagal. La Campagna spagnola del 1488, quindi, fu indirizzata a conquistare queste due città, che dovevano essere consegnate a Boabdil in cambio di Granada. Quando nel dicembre 1489 cadde Baza, El Zagal decise di sottomettersi a Ferdinando e Isabella, preferendo piegarsi ai cristiani piuttosto che al suo odiato nipote. Boabdil, a quel punto, non volle più saperne del suo accordo con i re cattolici, pertanto decise di continuare a difendere quel poco che rimaneva del regno. Quest’ultimo tradimento del re di Granada servì a spronare Ferdinando e Isabella, che decisero di rompere con il regno Nasrid: nella primavera 1490, l’esercito cristiano si accampò sotto Granada e, mentre si preparava l’attacco, venne costruita la città di Santa Fé. Nell’ottobre1491 si aprirono delle trattative: alla fine di novembre i termini della resa erano stati stabiliti e, infine, il 2 gennaio 1942, Granada si arrese. Fu Boabdil in persona ad offrire a Ferdinando le chiavi dell’Alhambra: sulla torre più alta vennero innalzati il crocifisso e il vessillo reale. I termini della resa furono molto generosi, in quanto ai mori era permesso mantenere le armi e i beni, potevano continuare ad osservare le loro leggi e a professare la loro religione, a patto che non interferissero con la vita cristiana, ma potevano anche mantenere i loro usi e costumi. Essi rimanevano sotto il governo dei magistrati locali e non gli venivano imposti tributi più altri di quelli che erano soliti pagare ai loro sovrani. La Corona non ebbe gran parte del bottino della vittoria. Secondo le condizioni della resa, gli habices (le entrate di certe proprietà terriere riservate tradizionalmente per fini religiosi o assistenziali) continuarono ad essere amministrate da autorità religiose dei mori, mentre le imposte che avrebbero dovuto andare alla casa reale furono cedute a Boabdil, a cui fu pure assegnata una grande proprietà nelle Alpujarras. Così facendo, alla Corona rimasero solo i beni che facevano parte del territorio del sultanato. Venne istituita una commissione di inchiesta con il compito di esaminare a quale titolo fosse tenuta la proprietà alienata. Quando il re e la regina lasciarono Granada (nella primavera del 1492), ne affidarono il governo a un triumvirato, composto da: Hernando de Zafra (segretario reale), il conte di Tendilla (esponente della casata dei Mendoza) ed Hernando de Talavera, il primo arcivescovo di Granada, dall’indole molto tollerante, che ebbe un ruolo cruciale nel far accettare ai mori il governo cristiano. Il primo compito di questo triumvirato fu quello di assicurare l’ordine pubblico e di consolidare l’autorità della corona sul regno conquistato. La corsa era ardua da realizzare in una regione montagnosa e infestata dai briganti delle Alpujarras. I conquistatori cristiani temettero sempre lo scoppio di rivolte, pericolo reso ancor più concreto dalla vicinanza dei mori dell’Africa Settentrionale: la Spagna moresca e l’Africa Settentrionale erano state per tanto tempo una sola civiltà e ora si trovavano divise. Ferdinando e Isabella fecero di tutto per proteggere la nuova frontiera e a tal fine costruirono torri di guardia lungo tutta la costa andalusa. Inoltre, cercarono di convincere i mori più influenti a lasciare Granada : nell’autunno 1493, Boabdil e circa seimila mori lasciarono l’Andalusia per trasferirsi in Africa, dove alcuni anni dopo Boabdil perse la vita combattendo. Dopo l’emigrazione, pochissime famiglie dell’aristocrazia rimasero nel regno. Granada sarebbe rimasta in pace se non ci fosse stato il problema religioso. Hernando de Talavera si mostrò sempre scrupoloso nell’osservare gli accordi che permettevano ai mori di professare la propria 11 ai loro diritti sulle Canarie, inviando nel 1478 una spedizione che doveva occupare Gran Canaria. Nel 1482 venne inviata una nuova spedizione, che pose le premesse per un successo effettivo. L’anno successivo, la spedizione riuscì a sottomettere Gran Canaria. Il trattato del 1479 pose fine alla guerra tra Castiglia e Portogallo e diede anche una soluzione alla questione relativa alle isole Canarie, che fu favorevole alla Castiglia: il Portogallo rinunciò alle sue pretese sulle Canarie in cambio del riconoscimento dei suoi diritti esclusivi sulla Guinea, sul regno di Fez, su Madera e sulle Azzorre. In questo modo, la Castiglia ottenne i suoi primi possedimenti oltremarini. La posizione geografica di quelle isole aveva un valore inestimabile come punto d’appoggio per chi voleva traversare l’Oceano alla volta della Americhe. L’esperienza coloniale divenne quindi una sorta di laboratorio privilegiato, dato che la loro colonizzazione fu un tramite che collegò la reconquista e la conquista dell’America. Furono parecchie le somiglianze tra i metodi tipici della reconquista e quelli applicati nella conquista delle Canarie. L’occupazione delle Canarie avvenne con la partecipazione del potere pubblico e di privati , infatti accanto allo stato operò anche l’iniziativa privata. Fernández de Lugo stipulò un contratto privato con una compagnia di mercanti di Siviglia e fu quello uno dei primi contratti del tipo che sarebbe poi stato adottato per finanziare le spedizioni esplorative nel continente americano. Era consuetudine per la Corona di Castiglia stipulare contratti con i capi delle spedizioni militari contro i mori e pare che proprio questi contratti ispirassero quell’atto noto col nome di capitulación, che più tardi divenne la consueta forma di accordo tra la Corona spagnola e i conquistadores dell’America. Obiettivo delle capitulaciones fu quello di riservare nei territori di recente conquista certi diritti alla Corona. Si voleva, anche, garantire le mercedes al capo della spedizione, vale a dire che doveva essere compensato adeguatamente per la sua opera. Questi compensi potevano consistere in una carica ufficiale come quella di adelantado di Las Palmas, che venne dato a Fernández de Lugo. Quello di adelantado era un titolo ereditario concesso dai re castigliani nel Medioevo. Il capo di una spedizione aveva anche la prospettiva di avere parte nel bottino della conquista e cioè di avere beni mobili e prigionieri e di ricevere poi un titolo nobiliare e terreni. Con tali capitulaciones la Corona si privava ovviamente di molti dei suoi diritti; quando la Corona fornì assistenza finanziaria, poté ripromettersi di ottenere condizioni un poco migliori, ma resta vero che l’opera della conquista e della colonizzazione dovette essere lasciata in larga misura all’iniziativa privata. Restano comunque ampi i controlli che la Corona spagnola fu in grado di mantenere sui territori di nuovo acquisto. La capitulación costituiva il documento giuridico fondamentale di ogni nuovo insediamento ; di fatto, Ferdinando e Isabella fecero largo uso della capitulación in cui vollero sempre che fosse menzionati i fini religiosi inerenti alla conquista e fosse evidente la presenza del potere pubblico. I governatori delle isole furono tenuti strettamente sotto il controllo regio e la Corona insistette sul proprio diritto ad organizzare i repartimientos ossia la distribuzione di terre tra i coloni, applicando così un metodo già usato durante la reconquista. Tutte le nuove città dovevano fondare i propri privilegi e le proprie libertà su una carta o una concessione regia. La spedizione di Colombo, in ogni caso, ponera difficoltà finanziarie e politiche. Quando l’esploratore genovese fece la sua comparsa a corte, c’erano motivi per respingere i suoi progetti, però probabilmente, l’approssimarsi della vittoria sul regno di Granada indusse i sovrani a dare maggior attenzione ai vantaggi che ci sarebbero stati se si fosse dato il via libera a Colombo. Infatti, se egli avesse portato a buon termine la sua spedizione, si sarebbero segnati dei punti sui portoghesi e sarebbero presumibilmente affluiti nuovi mezzi ad un tesoro esausto. Il progetto di Colombo, inoltre, poteva essere di vitale importanza per la crociata contro l’Islam. Se la spedizione fosse riuscita, la Spagna sarebbe entrata in contatto con i popoli dell’Oriente, del cui aiuto si aveva bisogno nella lotta contro i turchi. Isabella fu ovviamente attratta dalla possibilità di porre le basi di una grande missione cristiana in Oriente. La stretta coincidenza tra la caduta di Granada e l’autorizzazione alla spedizione di Colombo ci farebbero pensare che proprio quell’autorizzazione fu una specie di offerta di ringraziamento e un atto di rinnovata devozione della Castiglia alla missione incompiuta della guerra contro gli infedeli. 14 Le pretese di Colombo erano assurdamente alte e alla fine dovette accontentarsi di quelle che di fatto erano delle ampie concessioni: il titolo ereditario di grande ammiraglio e il diritto a percepire un decimo sul valore degli scambi e della produzione dei territori di nuovo acquisto. Nell’agosto 1492, Colombo partì con le sue tre navi, con l’obiettivo di raggiungere l’Oriente per sfruttare le sue ricchezze, unitamente allo stato – la Spagna – che gli aveva concesso protezione. Per sfortuna di Colombo, la tradizione mercantile della Castiglia non aveva preso ancora così tanto vigore da fare concorrenza alla tradizione militare . Era dunque inevitabile che le due tradizioni in contrasto arrivassero ad un aspro e violento conflitto, nel quale Colombo e la tradizione mercantile ebbero la peggio. Le conquiste nel Nuovo Mondo Quando Colombo morì, nel 1506, apparteneva già al passato. I suoi tentativi per conquistare Hispaniola (Haiti) erano già falliti nel 1498. Tra il 1499 e il 1508, le spedizioni partite dalla Spagna per esplorare la costa settentrionale dell’America del Sud portarono a stabilire che esisteva un vasto continente americano. Dal 1508 le scoperte vennero fatte in modo diverso: in quell’anno Haiti era già sotto la corona spagnola e avrebbe iniziato ad essere il punto di partenza delle spedizioni future che dovevano portare alla scoperta e alla conquista di Cuba e delle Antille. Nuñez de Balboa si era già affacciato sull’Oceano Pacifico e la fondazione di Panama , nel 1519, diede alla Spagna il controllo sull’istmo e la sua prima base sul Pacifico. Gli anni compresi tra il 1519 e il 1540 costituirono la fase finale dell’eroica conquista, che pose le basi per la creazione di un grande impero americano. Questo impero venne costruito sulle ceneri dei due grandi imperi inca e azteco. La conquista dell’impero azteco del Messico venne compiuta partendo da Cuba nel 1519 e ne fu protagonista Hernán Cortés, la cui impresa fu molto rapida. La distruzione dell’impero inca in Perù avvenne ad opera di Francisco Pizarro e in pratica fu la copia del trionfo di Cortés: con i suoi uomini rovesciò l’impero nel giro di due anni. I conquistadores si sparpagliarono per tutta l’America del Sud alla ricerca di El Dorado. Il 1540 viene indicato come l’anno che pose fine alla conquista: la presenza spagnola si era impiantata in maniera trionfale e miracolosa. Il rovesciamento degli imperi azteco e inca fu opera di pochi uomini. I conquistadores erano uomini che, per la maggior parte, provenivano dalla Corona di Castiglia (Cortés e Pizarro erano extremeños), quindi, di fatto, l’America del Sud era giuridicamente un possesso castigliano. I primi spagnoli arrivati nel Nuovo Mondo furono dei giovani celibi, che in genere avevano alle spalle un’esperienza militare. Essi provenivano dalla piccola nobiltà o da ceti inferiori . La forza del sistema del mayorazgo (it. maggiorascato) – vigente in Castiglia – fu uno stimolo per l’emigrazione di cadetti provenienti da famiglie della grande e della piccola nobiltà, i quali speravano di avere successo nel Nuovo Mondo e di trovare quella fortuna che in patria gli era preclusa. In particolare, gli hidalgos erano cospicuamente rappresentati tra i conquistadores: in questo caso si trattava di uomini che provenivano da famiglie nobili, ma cadute in povertà. Durante le loro esplorazioni in America, i conquistadores portarono con sé i pregiudizi, le abitudini e i valori che erano stati loro inculcati in patria. Erano, inoltre, soldati ben addestrati a sopportare una vita dura e a fare la guerra. L’avvento della stampa in Spagna, nel 1473, aveva dato una voga straordinaria ai romanzi cavallereschi. Una società impregnata da una simile letteratura doveva modellare il proprio modo di vedere le cose e il suo codice di comportamento sulle concezioni stravaganti e bizzarre divulgate dai libri cavallereschi. I conquistadores erano pronti a sostenere ogni sorta di fatica e di sacrificio quando cominciarono ad avanzare all’interno del nuovo continente. Essi erano dei combattenti nati, sprezzanti del pericolo, arroganti, permalosi, bizzarri e incredibili. Erano esempi di quel tipo di uomini che la società nomade e guerriera insediata nell’altopiano della Castiglia aveva fatto nascere. La loro passione bellicosa aveva bisogno di una causa e ovviamente il sacrificio doveva essere adeguatamente ricompensato. Causa e ricompensa vennero precisati dallo storico Bernal Díaz del Castillo – devoto compagno di Cortés. I conquistadores portarono nel Nuovo Mondo per guadagnarsi ricchezze, onore e gloria. La loro ambizione andava spiegata collocandola nel contesto della formazione mentale che avevano ricevuto in patria. Venivano da famiglie povere e da una terra altrettanto povera; erano membri di una società abituata a procurarsi la ricchezza facendo la guerra . 15 sentimenti liberali e umanitari e rispecchiò all’interno della Spagna un singolare risveglio della coscienza pubblica. Agli occhi di una Corona preoccupata di affermare e preservare il proprio controllo sui territori di recente acquisito, lo sviluppo della schiavitù e del sistema dell’encomienda costituì una minaccia grave. Fin da principio, Ferdinando e Isabella si erano proposti di impedire il formarsi nel Nuovo Mondo di quelle tendenze feudali che per tanto tempo avevano impacciato il potere della Corona in Castiglia. I sovrani vollero riservare alla Corona tutte le terre non occupate dai nativi; quando si trattò di ripartire le terre, si cercò di limitare l’estensione concessa ai singoli in modo da impedire che nel Nuovo Mondo si creassero vasti latifondi come quelli esistenti in Andalusia. Inoltre, non si vollero concedere señoríos con diritti di giurisdizione e vennero concessi anche pochi titoli. Alcuni dei conquistadores, come Cortés, si videro concedere la hidalguía e la nobiltà, ma la Corona si mostrò del tutto contraria a favorire la crescita di una potente aristocrazia signorile che ripetesse in America il governo castigliano. C’erano affinità naturali tra l’encomienda e il feudo, quindi l’encomienda costituiva un vero pericolo: gli encomenderos potevano diventare una potente casta ereditaria. Dunque, se l’abolizione della schiavitù e l’indebolimento dell’encomienda costituirono un successo per las Casas e i suoi colleghi, si dimostrò anche che la Corona spagnola ebbe molto successo nell’imporre la sua autorità sui territori remoti e in condizioni che spesso erano le più sfavorevoli. Furono i funzionari della Corona spagnola ad affermare con il passare del tempo la loro autorità su ogni aspetto della vita americana, obbligando encomenderos e cabildos a piegarsi davanti a loro. 18 Capitolo terzo: La Spagna e il suo nuovo ordinamento La nuova monarchia Tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo fiorirono le “nuove monarchie”: i sovrani prestigiosi – Enrico VII re d’Inghilterra e Luigi XI re di Francia – consolidarono il potere della Corona e dedicarono i loro sforzi alla creazione di uno Stato unificato e centralizzato sotto il controllo del monarca. Ferdinando e Isabella furono anche loro sovrani moderni, infatti il loro obiettivo era l’imposizione dell’unità e la centralizzazione del governo. La Spagna modellata da Ferdinando e da Isabela fu sotto molti aspetti diversa dal modello teorico della nuova monarchia. L’operato dei re cattolici deve essere giudicato tenendo presente gli ideali e le intenzioni dei due sovrani e non in base al criterio delle supposte caratteristiche dello stato rinascimentale. Gli ideali dei due sovrani non erano però molto innovativi, infatti, Ferdinando e Isabella credevano nella giustizia regia , vale a dire nel buon governo regio che doveva proteggere i deboli e gli umili dalle prepotenze dei forti. La loro missione, voluta da Dio, era quella di restaurare l’ordine e la buona armonia . Il modo di pensare dei due sovrani era caratterizzato dall’idea che esistesse una coincidenza naturale tra l’esercizio, da parte della Corona, di un’autorità concessa da Dio e il godimento, da parte dei sudditi, dei loro diritti tradizionali. Questi diritti erano diversi in Castiglia e in Aragona, ma il fatto che le due corone fossero unite non implicava che il loro ordinamento giuridico e costituzionale dovesse assumere una struttura omogenea. Ad esempio, Isabella si dimostrò sempre contraria ad introdurre modifiche nella legge di successione vigente in Castiglia; in virtù del contratto matrimoniale del 1469, Ferdinando aveva poca autorità in Castiglia, che fu ulteriormente limitata quando Isabella nel 1474 salì sul trono e venne dichiarata reina propietaria. Ogni stato restò autonomo nei suoi limiti e venne governato dalle sue leggi tradizionali. Questo fatto venne posto in risalto dal testamento di Isabella nel 1504. Quel testamento disponeva che Ferdinando fosse privato di tale titolo alla morte della moglie e che la Corona di Castiglia fosse data a loro figlia Giovanna, che venne quindi dichiarata diretta erede di Isabella. Le Indie non vennero formalmente annesse alla Spagna, bensì alla Corona di Castiglia, in quanto il papa Alessandro VI con la sua bolla del 1493 aveva concesso personalmente i territori in questione a Ferdinando e Isabella, lasciando intendere che dopo la loro morte, l’America sarebbe diventata un possedimento castigliano. Sebbene non si ponessero limitazioni legali ai sudditi della Corona di Aragona che volevano recarsi oltreoceano, è un fatto che: “a Castilla y a León, Mundo nuevo dio Colón” e che la presenza di aragonesi e di catalani non era gradita. La Castiglia era infatti decisa a non permettere che le ricchezze del Nuovo Mondo le scivolassero via dalle mani e concedendo nel 1503 il monopolio dei traffici con l’America al porto di Siviglia si garantì che lo sfruttamento delle ricchezze americane rimanesse esclusivo della Castiglia. Le condizioni presenti in Aragona sul finire del XV secolo erano tali da modificare ogni interesse nei confronti del Nuovo Mondo e solo la Castiglia era in grado di cogliere la grande prospettiva aperta dalle scoperte. Restò ugualmente un fatto negativo che la colonizzazione e il conseguente sfruttamento del Nuovo Mondo non fossero azioni comuni a Castiglia e Aragona: se fosse stato così, vale a dire, se le due regioni avessero condiviso il processo di colonizzazione, si sarebbero fatti grandi passi avanti verso la loro fusione. Un modo per favorire l’unità spagnola era quello di consentire a tutti gli abitanti della penisola una paritaria partecipazione ai benefici dell’impero coloniale  non si fece nulla a riguardo. C’era un altro modo, vale a dire l’imposizione di un sistema amministrativo e legale uniforme in ogni regione della Spagna. Da molti si è pensato che questa fosse veramente l’intenzione che ha guidato Ferdinando e Isabella nel loro regno. C’è da tenere in conto che però, Isabella, ebbe un ruolo sempre modesto per quanto riguarda la politica in Aragona. Anche se Ferdinando avesse voluto abolire le libertà tradizione dei catalani, non aveva abbastanza potere per farlo. Nel 1479, alla morte del padre, dovette cercare di porre fine in Catalogna ad un lungo periodo di discordie intestine, cosa che poteva essere fatta solo con l’aiuto dei 19 grandi aristocratici locali e avevano contribuito ad aumentare il disordine anziché ridurlo. Esse dovevano ricevere ordini solo dalla Corona, infatti furono delle formazioni tipicamente militari. La hermandad univa in sé stessa le funzioni di una forza di polizia e quelle di un tribunale per l’amministrazione della giustizia. Essa aveva il compito di stroncare il brigantaggio e di sorvegliare le strade e le campagne. Ogni città e ogni villaggio dovevano fornire la sua quota di uomini: si ebbe, quindi, una forza permanente di duemila soldati al comando del fratello di Ferdinando, Alfonso de Aragón, e ogni città ebbe la sua compagnia di arcieri. Il costo per mantenere una tale forza di polizia era molto alto e i fondi necessari furono forniti dalle multe e da contributi fiscali che la Corona tentò di far pagare anche alla nobiltà. Se un delinquente veniva catturato dalla hermandad, veniva processato dalla stessa, perché i tribunali della hermandad fruivano della piena giurisdizione su certe categorie di reati, vale a dire sui furti, gli omicidi, gli incendi dolosi commessi nelle campagne (o in città da una persona che si era poi rifugiata in campagna), etc.; altri reati di loro competenza furono poi lo stupro, i danni alle abitazioni e gli atti di ribellione al governo centrale. Questi tribunali erano formati da alcaldes de la hermandad scelti tra gli abitanti del luogo e non pagati: ce n’era uno in ogni villaggio che avesse meno di trenta famiglie e ne esistevano due nei maggiori centri abitati. Gli alcaldes di ogni tribunale esaminavano il caso, pronunciavano la sentenza e applicavano le punizioni più terribili. Queste punizione diedero l’effetto desiderato: l’ordine venne ripristinato in tutta la Castiglia e la regione venne ripulita dai briganti che la infestavano. Dopo due o tre anni, il consistente successo delle hermandades e il grave costo per il loro mantenimento indussero le città a chiederne lo scioglimento. Tuttavia, è chiaro che se le hermandades continuavano nella sua presenza, la Corona poteva contare su risorse militari particolarmente utili mentre si stava conducendo la campagna per la conquista di Granada. Ferdinando e Isabella, per questa ragione, non vollero sciogliere una forza che poteva fornire compagnie di arcieri da schierare contro i mori. Solo nel 1498, i sovrani acconsentirono la soppressione del Consiglio della Hermandad e l’abolizione dei suoi funzionari stipendiati. Le hermandades locali continuarono ad esistere anche dopo il 1498, ma perdettero molto del loro carattere originario e della loro efficienza. Inoltre, si consentì di interporre appello alle sentenze dei tribunali delle hermandades ricorrendo ai tribunali ordinari. Insomma, la hermandad si mutò in una modesta forza di polizia rurale, senza più potere o prestigio. L’organizzazione della hermandad fu sostanzialmente un espediente provvisorio adottato per far fronte ad uno stato di emergenza grave. Nel 1476 venne fatto un altro passo dalla Corona per riaffermare la propria autorità sull’aristocrazia: fu un passo che comportò un mutamento duraturo nell’organizzazione sociale e politica della Castiglia, in quanto la Corona si assicurò la guida suprema dell’Ordine di Santiago. Quest’ordine era il più importante dei tre Ordini religioso-militare della Castiglia medievale. I tre Ordini possedevano vaste estensioni di terreno e grandi rendite: si è calcolato che esercitassero la giurisdizione feudale su almeno un milione di persone, perciò essi finivano per costituire uno stato. Era imprescindibile per la Corona assicurarsi il controllo di tali ordini, e l’occasione favorevole si presentò nel 1476, quando morì il Gran Maestro dell’Ordine di Santiago. Isabella si diresse immediatamente al convento di Uclés (in Castiglia), dove i dignitari dell’Ordine si apprestavano a eleggerne il successo: ella interruppe le votazioni e propose che all’alto ufficio fosse designato a suo marito Ferdinando. Successivamente, una bolla papale nel 1523 stabilì in maniera definitiva che i tre Ordini erano posti sotto il controllo della Corona. Sul piano finanziario, la Corona giovò moltissimo della possibilità di controllare le ricchezze. Il controllo degli ordini militari contribuì in parte a compensare la Corona della perdita di terre e, inoltre, proprio le terre degli Ordini dovevano costituire un’utile garanzia quando la corona volle ottenere prestiti dai banchieri. Oltre al valore economico, gli Ordini militari erano anche uno strumento di valore incalcolabile per la concessione di benefici e l’esercizio di un altro patronato. Oltre i 183 comendadores c’erano anche i cosiddetti caballeros de la ordén, che non avevano alcuna encomienda ma che erano autorizzati a portare gli habitos (vestiti di cerimonia) propri di uno dei tre ordini. Le misure prese dalla Corona nel 1476 per assicurarsi il controllo sull’Ordine di Santiago furono seguite da altre, che miravano a ridurre il potere politico della grande nobiltà. In particolare, va menzionato l’Atto di Riassunzione, deliberato nel 1480 dalle Cortes di Toledo, in virtù del quale i nobili venivano privati della metà dei redditi che avevano alienato o usurpato a partire dal 1464. Quelle Cortes furono anche la sede in cui vennero deliberate alcune importanti riforme amministrative. 22 La più significativa fu quella con cui venne riorganizzato l’intero consiglio dei re di Castiglia. Il Consejo Real o Consiglio di Castiglia doveva essere l’organo centrale di governo per la Castiglia e al contempo la cerniera di tutto l’apparato amministrativo. Il Consejo: - dava ai sovrani il proprio parere sulle designazioni a cariche pubbliche e sul conferimento di favori: - agiva come corte suprema di giustizia per la Castiglia; - soprintendeva l’operato degli organi di governo locali. Aveva dunque poteri molto ampi ma era composto da persone nelle quali i sovrani riponevano la propria fiducia. Si stabilì che il Consejo fosse formato da: un prelato, tre caballeros e otto/nove letrados. Chi era investito dalle tradizionali grandi dignità del regno poteva assistere alle sedute del Consiglio ma non aveva alcun diritto di voto, quindi non poteva esercitare la sua influenza. I comandi militari, gli incarichi diplomatici e di governo furono affidati a uomini nuovi, vale a dire esponenti della piccola e della media nobiltà, ma anche a dei conversos. Il lavoro burocratico era in aumento e si andava delineando la procedura del suo abituale svolgimento; così, i letrados dimostrarono di essere i più idonei alle mansioni amministrative e i più abili nel maneggiare le rispettive procedure. Tali procedure erano per la Castiglia un fatto relativamente nuovo. Sin dal XIV secolo, l’amministrazione della Corona d’Aragona aveva avuto al suo centro una cancelleria ben fornita di funzionari specializzati, che era presieduta dal vice-cancelliere ed era formata da un protonotario, da tre segretari e da uno stuolo di scrivani e di impiegati. La burocrazia castigliana ebbe un’organizzazione meno compatta di quella aragonese e differì da questa per la sua stretta dipendenza dal Consejo Real. Fu stabilito che tre membri del Consiglio della Castiglia dovessero firmare tutti gli atti ufficiali e che il consiglio intervenisse come organo collegiale in tutte le decisioni. Accanto ai membri del Consiglio, altri personaggi dovevano avere una parte sempre più rilevante nell’amministrazione del regno: essi erano i segretari del re, la cui funzione doveva essere quella di fare da tramite tra il Consiglio della Castiglia e il sovrano. Acquisirono una grande influenza nella formazione delle decisioni politiche e amministrative, anzi talvolta agirono ignorando lo stesso Consiglio. Era di vitale importanza la scelta di funzionari esperti, in modo tale da conservare il prestigio che i sovrani si erano procurati nei primi anni di regno e se si voleva anche far attecchire le riforme degli anni Settanta e Ottanta: Ferdinando e Isabella erano pienamente consapevoli di questo. Inoltre, sapevano come volevano essere serviti e pare che avessero la capacità di scegliere le persone più adatte. I Re Cattolici mostrarono di preferire coloro che erano di origine più umile per affidare loro le cariche amministrative, però questo non significa che il loro volere fosse quello di esaltare una classe sociale a spesa di un’altra. Le Cortes castigliane furono uno strumento utilissimo nei primi anni del regno di Isabella e Ferdinando, in quanto allora era necessario associare l’intera comunità del regno alla Corona nella sua lotta ai grandi dell’aristocrazia. Ferdinando e Isabella capirono benissimo il pericolo che si sarebbe annidato nelle Cortes, se fosse stato consentito loro di acquistare un peso troppo grande nella vita dello Stato. Le entrate della Corona aumentarono notevolmente durante il regno di Ferdinando e Isabella: l’incremento del ricavo venne ottenuto con una riscossione più efficiente dei tributi già in vigore, senza introdurne di nuovi. Dopo le Cortes di Madrigal, la struttura di tali organi venne riformata e fu ridotto il gran numero dei loro funzionari. La riscossione dei tributi divenne più efficiente non appena gli esattori poterono fare affidamento sull’aiuto di agenti centrali e locali della Corona. Le entrate già alienate e recuperate con l’Atto di Riassunzione del 1480 contribuirono ad ingrossare il tesoro della Corona. Le fonti di entrata erano esenti dal controllo delle Cortes. Tra la morte di Enrico IV di Inghilterra (1474) e quella di Ferdinando (1516), le Cortes castigliane vennero convocate sedici volte. A partire dagli ultimi anni del XV secolo si ricominciò a convocare le Cortes: la cosa dipese dalle nuove esigenze finanziarie che la campagna di Granada e le guerre italiane avevano fatto gravare sulla Corona. Finché durò la pace, le entrate crescenti della Corona si erano dimostrate adeguate ai bisogni, ma la guerra di Granada obbligò i Re Cattolici a contrarre prestiti e a vendere juros – rendite vitalizie – e così le necessità finanziarie li costrinsero, nel 1501, a chiedere alle Cortes un servicio, ovvero un sussidio straordinario. 23 Ferdinando e Isabella non incontrarono grande difficoltà nel persuadere le Cortes castigliane a votare come essi desideravano, i due sovrani furono agevolati dalle carenze costituzionali che caratterizzavano la stesse composizione delle Cortes. Per controllare le Cortes era di importanza essenziale che le città e i loro organi di governo locale fossero soggetti a un controllo rigoroso. Questo si era reso necessario dal fatto che le città e i borghi che caratterizzavano la Castiglia si stavano trasformando sempre più in città-stato ed erano indipendenti dalla Corona. Quelle comunità urbane avevano ottenuto da re generosi i fueros, vale a dire gli statuti in cui erano loro riconosciute le libertà. Inoltre, erano state assegnate loro vaste estensioni di terre comuni, cosicché la loro giurisdizione comprendeva un largo raggio delle campagne circostanti. Da queste, le città traevano i mezzi per far fronte al grosso delle loro spese. Gli statuti prevedevano che ogni città potesse avere un’assemblea generale, chiamata concejo, di cui solitamente facevano parte i capifamiglia, detti vecinos. Tale assemblea designava ogni anno le varie autorità municipali. I giudici erano chiamati alcaldes, mentre le autorità principali per il governo cittadino erano dette regidores. I regidores andavano da otto a trentasei e costituivano l’organo che aveva in mano l’amministrazione della cosa pubblica. Oltre i regidores esistevano altre autorità minori cui spettava la cura degli affari correnti, come per esempio l’aguacil, che era il capo della polizia, oppure l’escribano, che aveva cura degli archivi municipali, oppure ancora i fieles, vale a dire i funzionari minori. Nel XIV secolo, la tradizione democratica cominciò ad afflosciarsi: il concejo si trovò minato al suo interno e allo stesso tempo sottoposto a un attacco dall’esterno. Durante il regno di Alfonso XI (1312-50), il concejo perdette gran parte del suo potere a favore di quello dei regidores, i quali cominciarono ad essere designati dalla Corona anziché essere eletti dai capifamiglia. Entrò dunque in scena una nuova autorità, il corregidor, che era scelto dal re e veniva da fuori: egli doveva affiancare i regidores nel governo cittadino. Il collasso subito dalla Corona nel XV secolo ebbe come effetto quello di frenare l’azione della monarchia tendente a ridurre le autorità cittadine sotto il governo regio. La monarchia, con Giovanni II cominciò a istituire e vendere cariche municipali, contravvenendo gli statuti. Le città si trovarono divise da contese civili o caddero in mano di piccole oligarchie destinate a conservare il potere dentro la cerchia delle famiglie che le componevano. Era naturale quindi che Isabella volesse riprendere la politica seguita dai suoi predecessori del XIV secolo. Dato che le città castigliane erano interessate al ripristino dell’ordine più che alla preservazione della loro libertà, il momento per intervenire era propizio. Nel 1480, le Cortes di Toledo approvarono diversi provvedimenti che miravano a rafforzare il controllo della Corona sul governo locale e a rendere tale governo più razionale ed efficiente. Tutte le città che non avevano ancora una casa de ayuntamiento (palazzo municipale) dovevano costruirsene uno entro due anni. Si dovevano tenere registri in cui fossero riportate tutte le leggi e i privilegi speciali, ed erano infine revocate le concessioni di uffici trasmissibili per via ereditaria. In quell’anno, in tutte le città municipali della Castiglia, vennero nominati dei corregidores. Il fatto che l’ufficio di corregidor venisse esteso a tante città, tanto da diventare parte normale della loro struttura amministrativa, fu il provvedimento più efficace che Ferdinando e Isabella adottarono con l’obiettivo di estendere il potere della Corona sulle autorità cittadine della Castiglia. Il corregidor fu il tramite essenziale tra il governo centrale e le autorità periferiche, ma il suo compito differiva da quello del giudice di pace per il fatto che era un funzionario nominato dal re e senza connessioni con il luogo dove doveva esercitare la sua carica. Egli aveva doveri di natura amministrativa e giudiziaria. Un corregidor, in teoria, doveva rimanere al posto a cui era stato designato per un biennio, ma in pratica restava poi in carica per un periodo più lungo. Quando scadeva dalla carica, doveva sottoporsi a una residencia, vale a dire un’inchiesta sul modo in cui aveva adempito ai suoi doveri. In Castiglia, durante il regno di Filippo II, ci furono sessantasei corregimientos, che affiancarono le amministrazioni municipali. Il Consiglio dei regidores, formato da hidalgo e da cittadini che avevano ottenuto una carica (post nomina regia) rimase influente, anche se le sue riunioni erano ormai presiedute da un corregidor. Il governo cittadino era quindi regolato da un equilibrio delicato, che poteva essere quello vigente tra regidores a vita e un corregidor a tempo. 24 Nel Nuovo Mondo, la Corona poté fare da padrone assoluto ed esercitò in proprio un’autorità pari a quella pontificia: nessun ecclesiastico poteva recarsi nelle Indie senza licenza regia. Inoltre, la Corona esercitò anche in America il diritto di veto sulla promulgazione di bolle papali e intervenne di continuo. Ferdinando e Isabella non erano riusciti a ottenere un controllo assoluto sulla Chiesa spagnola, ma in pratica ottennero gran parte di quello che avevano desiderato. Essi fecero sì che i benefici spagnoli non fossero più dati a stranieri e che il papa si adattasse a nominare a capo delle diocesi spagnole le persone indicate dalla Corona. I re cattolici riuscirono anche ad impedire che nelle cause civili ci si appellasse contro le sentenze della chanchillería di Valladolid, ricorrendo a Roma. Ottennero per la Corona in perpetuo la possibilità cospicua di controllo sulle ricchezze della Chiesa e così tolsero ai loro successori qualsiasi motivazione di natura finanziaria per rompere bruscamente con Roma. I contributi versati dalla Chiesa giunsero a costituire una parte importante delle entrate di cui la Corona poté fruire nel Cinquecento. Di questi contributi, due divennero fonti abituali di reddito già al tempo dei re Cattolici:  le tercias reales, che consistevano in un terzo di tutte le decime percepite dalla Corona di Castiglia; da secoli erano versate alla Corona, ma solo a titolo provvisorio. Con una bolla emanata da papa Alessandro VI nel 1494 furono assegnate in modo perpetuo alla Corona;  la cruzada, contributo di gran lunga più consistente; le bolle che la autorizzavano erano state motivate dal bisogno di avere fondi per la reconquista e così le indulgenze erano vendute a prezzo fisso a chiunque. La sollecitudine dei re Cattolici per la Chiesa non fu determinate dalle risorse finanziarie che la Chiesa poteva garantire alla Corona. La fede di Isabella, infatti, era ardente, mistica e intensa. La Chiesa, in Spagna, era vittima degli stessi abusi che subiva, nel XV secolo, in ogni parte dell’Europa: era pratica abituale il concubinaggio, vale a dire che il figlio di un ecclesiastico poteva ereditare se il padre moriva senza fare testamento. Il sentimento di malcontento e di irritazione per il lassismo era profondo. È da ricordare l’importanza del confessore della regina, Hernando de Talavera: seguendo i suoi suggerimenti, la regina si dedicò con trasporto all’opera di elevazione del livello morale e intellettuale tra il clero. Il livello medio dei vescovi spagnoli sotto i re Cattolici si elevò considerevolmente anche se alcune designazioni fatte da Ferdinando non furono quelle che si sarebbero potute desiderare da chi aveva a cuore la riforma del clero. Il cardinale González de Mendoza, che nel 1482 successe al Carrillo nella sede di Toledo, non era un ecclesiastico che si conformava facilmente all’esemplare di vescovo del tipo nuovo. Nel 1484 fondò a Valladolid il Collegio di Santa Cruz: fu un’istituzione che successivamente venne presa a modello per altre simili, create per elevare il livello dell’istruzione e formare un clero più colto. Negli ordini religiosi stava prendendo piede un movimento riformista. I francescani erano da tempo divisi tra conventuali e minori osservanti: questi volevano che si tornasse alla semplicità della regola di San Francesco. Tra gli osservanti spiccava la figura di Francisco Jiménez de Cisneros, il quale cominciò la sua opera prima con l’ordine a cui egli stesso apparteneva – i francescani – che ridusse alla stretta osservanza della Regola. I francescani di Toledo si incamminarono in processione dietro una croce, intonando il salmo In exitu Israel Aegypto. Quando il Cisneros morì nel 1517, in Spagna non c’era più un solo francescano conventuale. Il Cisneros fu il degno successore del Mendoza, infatti la sua determinazione nell’elevare il livello culturale nella Castiglia fu all’origine di due grandi opere: - la fondazione dell’università di Alcalá nel 1508, con l’intento di promuovere gli studi teologici; - la pubblicazione della grande Bibbia Poliglotta Complutense, che presentava in colonne parallele il testo greco, ebraico e latino della Sacra Scrittura. Sotto Ferdinando e Isabella il movimento riformista conobbe solo una fase iniziale, ma fu conseguito qualche risultato importante e duraturo. Il Cisneros contribuì a infondere nella Chiesa spagnola una forza e un’energia nuove e questo proprio quando la chiesa era investita da attacchi devastanti. I sovrani spagnoli appoggiarono la riforma radicale della Chiesa nei loro domini e questo portò a un duplice risultato: - si eliminarono alcune delle cause di malcontento; - si mantenne un saldo controllo di un movimento che avrebbe potuto facilmente sfuggire verso esiti impensati. 27 Ferdinando e Isabella diedero prova di un’abilità straordinaria: seppero prendere iniziativa e dare una realizzazione concreta alle confuse aspirazioni dei loro sudditi. È vero anche che i Re Cattolici regnavano su un territorio molto sensibile dal punto di vista religioso. Essi si trovarono esposti a forti pressioni e il loro cammino dovette compiere giravolte impreviste. Quando i castigliani videro il regno di Granada cadere, fu naturale per loro reputarsi come i mandatari di una missione divina che consisteva nel salvare e redimere il mondo dall’incombente minaccia dell’Islam. Tra le cause di inquinamento c’erano anche gli ebrei. Durante il Medioevo, la comunità ebraica era stata molto importante per l’economia e la cultura, sia in Castiglia che in Aragona. Gli ebrei continuavano ad essere tollerati nella Spagna cristiana, perché erano indispensabili. Nel XIV secolo, quando la Spagna fu colpita dalla peste e da disordini, la posizione degli ebrei iniziò a diventare precaria, in quanto gli venne addossata la colpa. Venne istigato un odio popolare nei loro confronti; per salvarsi, molti ebrei si fecero battezzare e così, alla fine del XIV secolo, i conversos erano tanti quanti i loro fratelli che erano scappati ai massacri ed erano rimasti fedeli alla religione dei loro padri. Nei primi decenni del XV secolo, i conversos – vale a dire i cristiani nuovi – non vissero in condizioni felicissime, ma la ricchezza consentì loro di entrare nelle cerchia della Corte e dell’aristocrazia. Alcune delle famiglie più importanti poterono sposare loro esponenti con quelli dell’alta nobiltà castigliana. La loro potenza e la loro influenza fomentarono, ovviamente, risentimenti e sospetti. L’ascesa della classe dei ricchi conversos parve minacciare tutto l’ordine sociale della Castiglia. Gli ecclesiastici mettevano in dubbio la sincerità della conversione degli ebrei. L’antisemitismo era una pericolosa minaccia che poteva tradursi in furori selvaggi. Questi tumulti ebbero gli effetti più funesti perché provocarono il primo decreto sulla limpieza de sangre, con il quale si escludevano da ogni carica municipale tutti coloro che avevano sangue ebraico nelle vene. Durante i primi anni di regno dei re Cattolici, la corte continuò ad essere tollerante nei confronti degli ebrei. Tuttavia, un numero sempre maggiore di conversos stava tornando fedele alla religione dei suoi padri. Questo portò all’istituzione, in Castiglia, di un tribunale dell’Inquisizione, per la cui istituzione Ferdinando e Isabella, già nel 1478, mossero passi verso il papa. Il permesso fu accordato e in Castiglia venne creato un Santo Ufficio. Questo tribunale, dal 1483, fu regolato da un apposito consiglio reale – il Consejo de la Suprema y General Inquisición – e il suo compito era quello di giudicare i nuovi cristiani, sospettati di essere tornati alle antiche credenze in modo clandestino. Quest’istituzione venne creata per dare soluzione a un problema tipicamente castigliano, ma Ferdinando volle che l’Inquisizione venisse estesa ai territori della giurisdizione dell’Aragona. Gli sforzi del re incontrarono un’aspra opposizione, ma nel 1487 fu Ferdinando ad avere la meglio. Un inquisitore venne insediato a Barcellona e il fatto ebbe tutte le conseguenze che erano state previste: i conversos fuggirono dal paese. L’imposizione dell’inquisizione di nuovo tipo nella Corona di Aragona al pari che in Castiglia è spesso stata giudicata come un atto compiuto da Ferdinando per aumentare il proprio controllo politico sui domini aragonesi. Stabilito che l’impianto dell’inquisizione fu soprattutto un provvedimento religioso volto a preservare la purezza della fede nei domini del re, l’importanza di quel tribunale non si limitò affatto alla sola sfera religiosa. In un paese privo di unità politica – come la Spagna – una fede comune era un imperativo, in quanto essa univa castigliani, catalani, aragonesi, che volevano la stessa cosa: assicurare il trionfo definitivo di Santa Madre Chiesa. L’adesione a una religiosità comune ebbe delle implicazioni politiche e quindi un valore pratico di cui Ferdinando e Isabella non esitarono a trarre profitto. Nell’intreccio tra politica e religione, l’istituzione di un tribunale dell’inquisizione per tutta la Spagna presentò ovvi vantaggi di ordine politico per il fatto che contribuì a irrobustire la causa dell’unità spagnola, inculcando e approfondendo la coscienza di un comune obiettivo nazionale. Lo stesso era avvenuto con la conquista di Granada: la guerra santa era terminata nel settembre 1492 con la ricostituzione dell’integrità territoriale della Spagna e proprio questo provocò la comparsa di un nuovo vincolo emotivo tra le popolazioni in Spagna: tutti furono pervasi dalla fierezza del trionfo. Essendo, inoltre, il successo di matrice religiosa, ci fu un ulteriore atto di devozione. I mori erano stati debellati e privati del loro potere, anche se rimanevano ancora gli ebrei. La conquista di Granada aveva anche svuotato le casse del tesoro, per cui si celebrò il trionfo espellendo gli ebrei. Un esempio di questa decisione furono gli editti locali del 1483, che il bandirono da certe zone del paese. Il 30 marzo 1482, a Granada i re Cattolici apposero le firme a un editto che ordinava l’espulsione di tutti gli ebrei praticanti dai loro regni entro quattro mesi. 28 L’uscita degli ebrei dalla Spagna avrebbe fatto cessare la tentazione di un ritorno alle credenze dei pari. Molti conversos decisero di lasciare il paese insieme agli ebrei praticanti. Alcuni ebrei, addirittura, partirono prima che venisse emanato l’editto di espulsione. Questo, però, implicò che un nuovo gruppo di convertiti sospetti si aggiunse alle file dei conversos, anche se ormai tutti gli abitanti della Spagna erano cristiani ipso facto, quindi soggetti alla giurisdizione del Santo Ufficio . La conquista di Granada e l’espulsione degli ebrei avevano posto le basi per uno stato unitario sotto l’unico profilo possibile nella situazione che la Spagna conosceva alla fine del XV secolo. Questi due fatti contribuirono ad imporre un’unità che trascendeva le barriere amministrative, linguistiche e culturali. I vantaggi acquisiti furono enormi, ma fu altrettanto grande il costo. Il 1492 fu l’anno in cui scomparve dalla Spagna una comunità dinamica, i cui beni e le cui abilità avevano contribuito ad arricchire la Castiglia. Il vuoto lasciato dagli ebrei non fu colmato agevolmente e molti di loro venero sostituti non da autentici castigliani, bensì da colonie di immigranti stranieri (fiamminghi, tedeschi, genovesi). Conseguenza dell’espulsione fu l’indebolimento della monarchia spagnola, propri nel momento in cui questa si accingeva ad iniziare la sua avventura imperiale. Le basi economiche e sociali della Nuova Spagna I re Cattolici ridiedero importanza all’autorità della monarchia e posero le basi per uno stato unitario, in quanto impiegarono energie nel fare leggi a favore dell’economia del paese, oltre che per la riforma religiosa e per il governo. Durante il regno di Isabella in Castiglia, l’esportazione di oro e argento venne vietata, furono introdotte delle leggi sui trasporti marittimi, il sistema delle corporazioni fu irrobustito e riorganizzato, inoltre venne vietata l’importazione di stoffe straniere per proteggere la fabbricazione di tessuti castigliani. La legislazione economica dei re cattolici deve essere piuttosto considerata come la risposta che essi diedero a certi problemi immediati e urgenti di natura fiscale o economica: volevano incrementare la ricchezza generale della Castiglia e il potere dei suoi sovrani. Nell’ordinamento economico dato alla Spagna, Ferdinando e Isabella si limitarono ad accettare le basi già esistenti e a costruire partendo da quanto era già in atto. La loro azione contro il potere politico dei grandi non si tradusse per nulla in un attacco generale al loro potere economico e territoriale. Il coevo Marineo Siculo elenca le nobili casate castigliane, accompagnate dai loro redditi (p.123) e oltre a questi 62 títulos c’erano altri venti titolati nella Corona di Aragona. Il regno dei Re Cattolici si contraddistinse per l’incremento del potere sociale ed economico dei grandi nobili. Alcuni di essi riuscirono a trarre vantaggio dalla distribuzione di terre del conquistato regno di Granada. Tutti, poi, beneficiarono delle misure legislative approvate alle Cortes di Toro nel 1505. Venne confermato ed esteso il diritto di stabilire nel proprio casato il mayorazgo, così una grande famiglia poteva garantirsi la coesione perpetua dei propri beni. I matrimoni tra esponenti delle grandi casate castigliane contribuirono ulteriormente a consolidare grandi estensioni fondiarie nelle mani di pochi potenti. I capi di questi grandi casati durante il regno dei re Cattolici non si trasformarono in nobili castigliani. I grandi nobili parteciparono alla vita di corte in misura minore rispetto a quanto avevano fatto i sovrani precedenti. Preferirono vivere in palazzi suntuosi al centro dei loro domini piuttosto che prestare servizio in una corte che li escludeva dagli uffici politici. Solo dopo il 1504, essi fecero passi per recuperare a corte e nella vita politica l’antica posizione, ma il loro successo ebbe breve durata. Non ebbero più occasione per riprendersi e solo con il regno di Filippo III trovarono il modo di acquistare una certa influenza a corte. Se il loro potere politico era ormai svanito, il loro predominio sociale rimase incontrastato e venne anzi riconfermato nel 1520 da Carlo V, il quale divise l’aristocrazia spagnola in una gerarchia fissa di titoli nobiliari:  i Grandes de España stavano al sommo capo: si trattava di 25 nobili provenienti dalle casate più illustri della Castiglia e dell’Aragona;  al secondo posto c’erano gli altri aristocratici, noti come títulos;  un gruppo di nobili che non costituiva una categoria a sé, ma che aveva nella gerarchia sociale una posizione privilegiata, ovvero i segundones, vale a dire i cadetti delle grandi casate: essi non avevano un titolo vero e proprio, inoltre in genere erano vittime del sistema del mayorazgo. 29 31 traffici con l’America. Il consulado di Burgos fornì a sua volta il modello per la celebre Casa de Contratación che fu istituita a Siviglia nel 1503. Questa segnò l’inizio del monopolio sivigliano sui commerci con il Nuovo Mondo. Il monopolio si era man mano imposto come la forma naturale dell’organizzazione dei commerci italiani. L’importazione e l’imposizione di istituzioni aragonesi nella vita economica della Castiglia non si limitò solo alla creazione dei Consulados, infatti se ne trova traccia anche nella riorganizzazione delle corporazioni. Nella Corona di Aragona le corporazioni avevano assunto un’organizzazione quanto mai sviluppata ed esse regolavano in tutti i particolari l’attività dei loro membri: a questo provvedevano l’apprendistato e tutte le norme che lo regolavano. Con l’ascesa di Ferdinando al trono, la politica della Corona nei riguardi delle competenze subì una trasformazione. Il sistema corporativo catalano-aragonese fu introdotto in Castiglia e le città castigliane vennero autorizzate ad istituire corporazioni delle varie arti o dei vari mestieri in esse praticati. In un momento di espansione economica, i re cattolici avevano innestato nella vita economica e sociale della Castiglia la rigida struttura corporativa che aveva già iniziato a scricchiolare nella Corona di Aragona. Non si ha oggi l’impressione che le tre attività manufatturiere della Corona di Castiglia avessero un grande slancio. L’industria della seta di Granada ebbe una temporanea battuta d’arresto a causa delle rivolte nelle Alpujarras. L’espulsione degli ebrei aveva privato il settore industriale castigliano di operai esperti e di quei capitali di cui aveva tanto bisogno. Le restrizioni alle importazioni e la regolamentazione tagliarono le energie del paese, invece di favorirle. Si trattò di un’attività di modesta portata, in quanto si produssero alcuni articoli di lusso. Gli ostacoli al progresso delle attività manufatturiere erano in realtà formidabili. C’era una gran carenza di capitali e di manodopera specializzata. Inoltre, le distanze erano enormi e le vie di comunicazione scarse e disagevoli. Al tempo di Ferdinando e di Isabella si fece parecchio per migliorare il sistema delle comunicazioni varie: furono riparate strade e si procedette anche alla costruzione di strade nuove (a Granada). Nel 1497, i carrettieri furono riuniti in un’organizzazione nota come Cabaña Real de Carreteros. Si cercò anche di creare un sistema postale che avesse diramazioni internazionali. Nel frattempo, il servizio postale venne affidato, in Castiglia, ad un funzionario, denominato Correo Mayor: la sua carica, a partire dal 1505, fu occupata di generazione in generazione dagli esponenti di una famiglia di origine italiana, i Tassis. Il miglioramento delle poste e delle strade valse in qualche modo a ravvicinare le diverse zone della penisola spagnola. I re Cattolici, però, nel complesso non andarono oltre l’apertura di brecce nelle barriere economiche che esistevano tra i loro vari regni. Tale apertura non fu effetto di provvedimenti appositi. Il sistema dei dazi fu lasciato intatto e così tutte le merci continuarono a pagare tributi pesanti ogni volta che passavano da una regione a un’altra. Due sistemi economici continuarono ad esistere:  il sistema atlantico della Castiglia, che visse in condizioni fiorenti grazie alla scoperta dell’America;  il sistema mediterraneo dell’Aragona, che subì danni a causa del crollo della Catalogna. La pacificazione e il riordinamento della Catalogna, attuato da Ferdinando, consentirono che, alla fine del XV secolo, la Catalogna recuperasse un po’ del terreno perduto. Le flotte catalane iniziarono a salpare verso l’Egitto, alcuni mercanti catalani ripresero a commerciare nell’Africa settentrionale e venne assicurata una condizione di privilegio ai tessuti catalani sui mercati tradizionali più che alla conquista di mercati nuovi. I catalani furono esclusi dal commercio diretto con l’America in quanto era riservato al monopolio sivigliano; inoltre, non riuscirono nemmeno a fare breccia nel mercato castigliano. La Corona di Aragona e la Corona di Castiglia erano unite di nome ma continuarono ad essere separate sia nella struttura politica, sia nel sistema economico e anche nella moneta. Gli abitanti della Corona di Aragona contavano e continuavano a contare in libras, sueldos y dineros, mentre i castigliani contavano in maravedí. Quando Ferdinando e Isabella salirono al trono, il sistema monetario castigliano versava in una situazione caotica, per cui fissare una sola moneta sarebbe stato molto difficile. Si trovò una soluzione nel 1497 con una prammatica che regolò la monetazione castigliana per i secoli successivi. Nel frattempo, alcune innovazioni monetarie furono introdotte anche nella Corona di Aragona. Nel 1481, Ferdinando introdusse a Valencia una moneta aurea simile al ducato veneziano, chiamato excelente, e una moneta equivalente, il principat, venne introdotta in Catalogna nel 1493. Nel 1497, vennero varate delle riforme monetarie in Castiglia, con le quali si stabilì che per la prima volta nella storia, le tre monete spagnole – il valenciano excelente, il catalano principat e il ducado castigliano – avevano lo stesso valore. Fu questo 32 l’unico provvedimento di unificazione dei tre regni attuato dai re Cattolici. In conclusione, sia dal punto di vista politico che quello economico, la Spagna aveva ancora un’esistenza embrionale. La società aperta Il regno di Ferdinando e Isabella è stato qualificato come “l’epoca più gloriosa negli annali della Spagna” (cfr. Prescott); il loro regno è stato poi definito come l’aetas aurea della Castiglia. La conquista di Granada, la scoperta dell’America e l’ascesa trionfale della Spagna, erano fatti che gettavano una luce senza eguali sul neonato stato creato dall’unione delle due Corone; in un certo senso, l’unione poneva un sigillo sul successo delle riforme politiche, religiose ed economiche dei due sovrani. Con Ferdinando e Isabella ci fu una “primavera”, che finì a causa della stoltezza dei successori. Ferdinando e Isabella avevano unito le due Corone ma non si impegnarono a unire due popoli; abbatterono il potere della grande nobiltà, ma lasciarono intatta l’influenza che essi possedevano sul tessuto economico e sociale . Riorganizzarono l’economia castigliana, ma al prezzo di un rafforzamento dei sistema latifondistico e del predominio consentito all’allevamento sull’agricoltura. Introdussero alcune istituzioni aragonesi in Castiglia, ma non furono in grado di avvicinare e intrecciare l’economia castigliana e quella aragonese . Ripristinarono l’ordine in Castiglia ma spazzarono via le fragili barriere che facevano da ostacolo all’impianto di un regime assolutistico. Riformarono la chiesa, ma istituirono l’Inquisizione e, inoltre, espulsero uno dei gruppi più dinamici della comunità spagnola, vale a dire gli ebrei. Nonostante ciò, i re cattolici crearono la Spagna e con loro lo stato acquisì un posto preminente nella scena internazionale. La Spagna cominciò a costruirsi un’identità nazionale. Gli aragonesi fruirono della strumentazione di governo che doveva dare alla nuova monarchia la sua forma istituzionale. I castigliani fornirono quel dinamismo che impresse alla Spagna di Ferdinando e Isabella la sua caratteristica più evidente. La Spagna dei Re Cattolici è sostanzialmente una Spagna castigliana, ma di una Castiglia in cui sovrabbonda l’energia creativa. Nel XV secolo, la Castiglia si trovò in balia di forti e contradditorie influenze culturali europee e doveva poi produrre in proprio un’arte nazionale. I rapporti commerciali con le Fiandre portarono nella penisola iberica influenze della cultura nord-Europea, ossia il realismo fiammingo nella pittura, il gotico in architettura e la religiosità fiamminga nei manuali di pietà popolare. I legami tra la Corona di Aragona e l’Italia portarono l’umanesimo italiano alla Corte Spagnola. Questi apporti stilistici esteri dovevano essere fusi con e traduzioni della Castiglia medievale, di conseguenza nacque un amalgama di influenze contrastanti. In certe arti, in particolare in architettura, sorse uno stile completamente nuovo, riconosciuto come stile tipicamente spagnolo: fu lo stile plateresco, in cui si mescolavano elementi moreschi e rinascimentali dando luogo a superfici della decorazione fantasiosa. Quello stile era proprio idoneo a dare espressione alla vitalità esuberante tipica della Castiglia e di Isabella. Esso dipese tanto dall’orientamento e dall’iniziativa dei sovrani, quanto dalla vitalità creativa dei loro sudditi: era uno stile sovraccarico e bizzarro che richiedeva mercanti doviziosi e stravaganti. Le costruzioni più dispendiose e impressionanti furono quelle volute dai sovrani, come l’Hospital de los Reyes de Santiago o la Cappella Reale di Granada. Ferdinando e Isabella costituirono e restaurarono una quantità enorme di edifici e su tutto quanto fecero stemmi e medaglioni, lasciando l’impronta dell’autorità regia. La corte fu il centro naturale della vita culturale castigliana, che al tempo era itinerante. Uno dei più fervidi propugnatori della nuova cultura fu Elio Antonio de Nebrija, che tornò dall’Italia proprio nel 1473, vale a dire l’anno di introduzione della stampa in Spagna. Egli fu storiografo, grammatico ed esperto in lessicografia, nonché curatore dell’edizione di testi classici come voleva la tradizione umanistica. I suoi interessi comprendevano anche la lingua volgare e di farro nel 1492 egli pubblicò una grammatica della lingua castigliana. La lingua vigorosa era frutto di una società vigorosa, le cui guide intellettuali partecipavano allo spirito indagatorio comune a tanta parte dell'Europa del XV secolo. L’umanesimo trovò aderenti entusiasti tra i conversos e penetrò anche nell’università della Castiglia. Il mecenatismo della Corona aveva contribuito a rendere rispettabile la nuova cultura umanistica e questa palesò un requisito utile per ottenere il favore dei sovrani. L’aristocrazia castigliana non tardò a seguire le orme della Corte. È vero che alcune espressioni dell’umanesimo spagnolo furono rozze e insipide, ma anche queste in un certo modo furono riscattate dall’entusiasmo che fu tipico della vita culturale della Castiglia sotto i re cattolici. Il paese fu allora investito 33 Durante la reconquista, i castigliani avevano preferito la cavalleria leggere alla fanteria, ma questa si rivelò inadatta a combattere sul suolo italiano, di conseguenza Gonzalo iniziò a istituire delle nuove formazioni. Era necessario introdurre una robusta fanteria e aumentare il numero degli archibugieri: Gonzalo rivoluzionò l’ordinamento del suo esercito, che venne ad essere costituito da fanti. L’armamento era troppo leggero e quindi era necessario fornire i fanti di miglior protezione, dotandoli di un’armatura protettiva migliore e di migliori armi offensive. Le formazioni furono completamente riorganizzate e le antiche unità – le compagnie – rivelatesi inadeguate, furono raggruppate in coronelías costituite da quattro compagnie e ognuna di esser doveva avere un complemento di cavalieri e artiglieria. Fu questa organizzazione che pose le basi per lo sviluppo dell’esercito spagnolo nel corso del Cinquecento. Infatti, nel 1534, l’esercito spagnolo venne ripartito in tante unità di nuovo tipo, dette tercios, che avevano un numero superiore di tre volte a quello delle coronelías. Un tercio, generalmente, era formato da dodici compagnie di 250 uomini ognuna, di conseguenza aveva una forza di 3000 uomini; si rivelò un’unità combattente di straordinaria efficacia, in quanto usava meno uomini (delle formazioni svizzere, ad esempio) ma aveva una maggior potenza di fuoco ed era idoneo alla difesa, in quanto poteva sostenere un assalto in ogni circostanza. Il tercio fu l’unità di combattimento che dominò per più di un secolo sui campi di battaglia dell’intera Europa. L’Italia rinascimentale si dimostrò essere il terreno ideale per provare la diplomazia e l’organizzazione militare della Spagna. I francesi furono battuti sul campo di battaglia, ma Ferdinando riuscì anche a cacciare dal suolo trono la dinastia napoletana. Nel 1504, i francesi sconfitti riconobbero gli aragonesi come legittimi padroni del regno di Napoli, che si congiunse alla Sicilia e alla Sardegna. L’acquisto di Napoli fu un trionfo di primaria grandezza per la politica estera aragonese di Ferdinando, che seppe usare le forze della Castiglia. Tuttavia, le manovre diplomatiche che precedettero quella conquista dovevano avere conseguenze impreviste o inattese. Ferdinando aveva assortito la sua politica estera con vincoli matrimoniali, infatti per rafforzare l’alleanza con l’Inghilterra furono combinate le nozze tra Caterina d’Aragona e Arturo, il principe di Galles. Nel 1496/97 l’alleanza tra la Spagna e l’impero venne coronata da un doppio matrimonio tra le due dinastie: - l’infante Giovanni, unico figlio maschio dei re Cattolici ed erede al trono spagnolo, sposò Margherita, figlia dell’imperatore Massimiliano; - Giovanna (figlia dei re Cattolici) sposò l’arciduca Filippo, figlio di Massimiliano. Per una serie di morti, l’eredità del trono spagnolo rimaneva nella mani di Isabella, la figlia maggiore, che però morì dando alla luce un figlio, di conseguenza anche quest’ipotesi tramontò. Dal 1500, la successione al trono prese una piega imprevista, in quanto ormai il diritto di successione spettava all’infanta Giovanna e al suo primogenito Carlo: questi doveva ereditare sia la Spagna che i domini degli Asburgo. L’unione della Spagna con l’impero asburgico non era nei piani di Ferdinando e Isabella. Inoltre, alla sua morte, Isabella era tormentata da pensiero che il governo della Castiglia sarebbe spettato a sua figlia, mentalmente instabile. La politica estera di Ferdinando, quindi, ebbe come esito finale quello di porre l’eredità spagnola nella mani di una dinastia straniera. La successione asburgica I dodici anni tra la morte di Isabella (1504) e quella di suo marito (1516) sono incomprensibili se guardati nel quadro storico della Spagna. Dalla morte di Isabella, il destino della Spagna si trovò ad essere legato alla corte borgognona, dove Giovanna e l’arciduca Filippo attendevano di raccogliere il loro retaggio spagnolo. Ferdinando non si tenne lontano dal centro della scena: il “vecchio catalano” era stato posto a testamento dalla moglie in una posizione infelice, infatti era stato privato del rango e del titolo di re di Castiglia, poteva governare il paese solo in assenza della nuova regina proprietaria, Giovanna, e poteva farlo fino a che Carlo non avesse raggiunto i vent’anni. La sua nuova posizione era quella di semplice amministratore, alla quale non era ben disposto a adattarsi. Filippo di Borgogna voleva tenersi stretta la sua eredità e poteva anche contare sull’appoggio di molti nobili castigliani, che odiavano Ferdinando sia perché era un sovrano energico, sia perché era catalano. Questi nobili avevano a loro volta sostenitori importanti nella corte di Borgogna e il matrimonio tra Filippo e Giovanna aveva fatto arrivare a tale corte alcuni esponenti di casate spagnole. 36 Mentre gli intrighi aristocratici si sviluppavano a favore di Filippo e Giovanna, c’era un’altra forza che voleva realizzare la stretta congiunzione tra la Castiglia e i domini asburgici. Lo sviluppo del commercio della lana castigliana aveva finito per rendere interdipendenti l’economia della Castiglia e quella dei Paesi Bassi. I prodotti coloniali e l’argento americano, inoltre, si erano aggiunti alle merci tradizionalmente esportate dalla Spagna. Di conseguenze, alcune considerazioni economiche finirono per aggiungersi all’ambizione aristocratica nel mettere in moto una corrente che voleva più stretti vincoli tra Spagna e domini asburgici. Ferdinando si accorse del pericolo e nel gennaio 1505 persuase le Cortes riunite a Toro a ratificare il proprio diritto alla reggenza, ma la sua posizione restava precaria. Ferdinando operò poi un rovesciamento della sua tradizionale politica estera, cercando l’appoggio francese. Sottoscrisse il trattato di Blois con Luigi XII, che stabiliva che Fernando avrebbe dovuto sposare Germaine De Foix, la nipote di Luigi. Il nuovo matrimonio di Ferdinando aveva però un obiettivo più grande: era pronto a volgere le spalle all’opera di tutta una vita, vale a dire che voleva sciogliere l’unione tra Castiglia e Aragona. Infatti, se Germaine avesse partorito un figlio, questi avrebbe riaperto il problema della successione , in quanto sarebbe stato possibile contrapporre il neonato erede alla candidatura asburgica al trono di una Spagna unita. Il secondo matrimonio di Ferdinando rese più solidi i legami tra i grandi nobili e l’arciduca Filippo, che decise di recarsi in Spagna, e combinò un compromesso con Ferdinando, proponendo a lui un governo tripartito di Ferdinando, Giovanna e lui stesso. Partì dalle Fiandre nel gennaio 1506 ma riuscì ad arrivare solo nell’aprile dello stesso anno. Nel frattempo, la nobiltà castigliana aveva approfittato della debole posizione del governo regio per riaprire antiche rivalità. Nessuno dei due aveva la fiducia totale nell’altro, e si diceva pure che Filippo avesse pensato di sbarcare in Andalusia e di invitare i nobili a prendere le armi contro Ferdinando. Egli preferì poi sbarcare a la Coruña per cercare un accordo pacifico con il suocero. Ferdinando si stava preparando a una resistenza armata, ma appena Filippo sbarcò, tutta la nobiltà si fece intorno a lui. I due sovrani si incontrarono il 20 giugno 1506 e sette giorni dopo firmarono a Villafáfila un accordo con il quale si stabiliva che Ferdinando avrebbe ceduto il governo della Castiglia al suo “dilettissimo figlio”, promettendo di ritirarsi nei territori di Aragona. Filippo e Ferdinando convennero anche sul fatto che l’infermità mentale di Giovanna la rendeva inetta al governo e quindi firmarono un secondo trattato con cui la escludevano dal potere. Questo al mattino; al pomeriggio Ferdinando fece sapere che non riconosceva la validità degli accordi e che sua figlia non doveva mai essere privata dei suoi diritti di regina proprietaria della Castiglia. Quindici giorni dopo, Ferdinando lasciò la Castiglia in attesa di tempi migliori. A settembre si recò a Napoli, dove dismise dagli incarichi tutti i funzionari castigliani, pensando erroneamente di troncare qualsiasi rapporto con la Castiglia. Tuttavia, il 25 settembre Filippo morì e la sua scomparsa portò Giovanna, sopraffatta dal dolore, al limite della follia. Filippo lasciò il figlio di sei anni, Carlo di Gand, come erede al trono spagnolo. venne subito creato un consiglio di reggenza, presieduto dall’arcivescovo Cisneros, che chiese a Ferdinando di tornare. Il vecchio re calcolò astutamente i tempi e lasciò passare un anno prima di tornare in Castiglia, dove comunque si mosse con cautela. Nel 1509, sua figlia Giovanna ormai completamente pazza, si ritirò a Tordesillas con la bara del marito, però restò regina della Castiglia fino alla sua morte. Le Cortes di Castiglia, quindi, nel 1510, nominarono Ferdinando come reggente. Ferdinando si reputò soddisfatto per il recupero del potere in Castiglia e coltivava la speranza che suo nipote Ferdinando, cresciuto ed educato in Spagna, un giorno avrebbe ereditato il trono invece del fratello maggiore Carlo. Il vecchio re decise però di lasciare il governo della Castiglia al Cisneros dedicandosi alla politica estera, in particolare alla questione italiana. Negli ultimi anni di vita, Ferdinando diede dimostrazione della sua grande abilità diplomatica, in quanto riuscì a procurare altri vantaggi alla Spagna. Il suo obiettivo principale era sempre quello di preservare i domini aragonesi in Italia e di impedire l’espansione francese, ma mirò anche a stabilire una pace generale in Europa che avrebbe consentito di intraprendere una crociata per conquistare l’Egitto e recuperare la Terrasanta. Riuscì a conseguire un obiettivo più limitato negli ultimi anni della sua vita; per lungo tempo aveva desiderato completare le sue conquiste con l’annessione della Navarra, di cui suo padre era stato sovrano. Nel luglio 1512 inviò un esercito in Navarra, dietro il comando del duca di Alba. Il paese venne occupato senza difficoltà e Ferdinando mise in gioco la sua intesa con il papa per deporre formalmente i sovrani. Ferdinando provò una soddisfazione enorme, in quanto la Navarra era uno stato prezioso non solo per le sue modeste entrate, ma anche perché era conforme agli altri regni di Ferdinando. Inoltre, esso chiudeva il passaggio dalla Francia alla Spagna ma permetteva agli spagnoli di penetrare in 37 39 una grande importanza alla richiesta che i procuradores fossero pagati dalle città e non dalla Corona. Non ci fu nessun tentativo di fare delle Cortes una sorta di partner della Corona nel governo del paese e tanto meno si pensò si fare delle Cortes l’organo di un possibile governo alternativo. I rivoltosi costituirono una Junta, ma di per sé rimasero conservatori. Il loro fu un movimento costituzionale difensivo, vale a dire un movimento di reazione rabbiosa ad un lungo periodo in cui il governo regio aveva eroso poteri e prerogative tradizionali delle città castigliane. Fu significativo che una delle richieste inviate dall’imperatore dalla Junta rivoluzionaria di Tordesillas il 20 ottobre 1520 fosse il divieto di nominare un corregidor in futuro, fatta eccezione per il caso in cui fosse stata la stessa città a richiederlo. La natura moderata delle richieste costituzionali dei rivoltosi non lascia trasparire quanto fossero profondi i sentimenti che avevano animato la rivolta, tanto meno fa capire la violenza che assunse. Era chiaro che il re avesse chiesto denaro e che il paese fosse spremuto all’osso dai forestieri, che spedivano all’estero navi cariche di ricchezze spagnole. La scintilla allo scoppio della rivolta fu quindi l’odio per gli stranieri e per un governo straniero che prosciugava il paese della sua ricchezza. Tale sdegno patriottico si rispecchiò nelle richieste della Junta di Tordesillas, con le quali si voleva che il re abitasse la Castiglia, che non si attorniasse di “gente di altri paesi” e che in ogni sua azione si conformasse alla condotta tenuta da Ferdinando e Isabella. I rivoltosi ricordavano la pietà e la saggezza di Isabella, ma ricordavano anche la sicura libertà che la regina aveva dato loro; dimenticarono, però, che quella libertà aveva avuto limiti da parte di un governo autoritario. I rivoltosi innalzarono la bandiera della rivolta nel tentativo coraggioso di provare a sé stessi che avrebbero potuto tornare ad essere quelli di prima. La rivolta fu essenzialmente urbana e dapprima limitata alle città della Castiglia settentrionale. È un fatto, però, che inizialmente nelle città il movimento coinvolse tutta la popolazione. Molti nobili, grandi e piccoli, con domicilio urbano, mostrarono una sintonia con i rivoltosi. I grandi dell’aristocrazia in genere mantennero un cauto riserbo: preferirono aspettare per vedere da che parte schierarsi. Il movimento di rivolta ebbe inizio nelle città con sollevazioni popolari contro i funzionari regi: i corregidores furono costretti a fuggire. Il popolino, poi, si rivolse a qualche esponente di una rinomata famiglia locale, come avvenne a Toledo. Nell’estate 1520 altre città seguirono l’esempio di Toledo e istituirono il comune. Quando l’entusiasmo dei rivoltosi iniziava ad afflosciarsi, Adriano di Utrecht e il suo consiglio di reggenza fecero il gioco di Padilla e dei suoi amici. Adriano ordinò infatti che venisse attaccata Segovia. Non riuscendo ad ottenere alcun esito, le forze regie si rivolsero contro la città che fungeva da grande deposito di armi, ovvero Medina De Campo. I combattimenti in strada portarono all’incendio di molte case: gran parte della città fu ridotta in cenere. L’incendio di Medina de Campo, avvenuto il 21 agosto 1520, mutò la situazione in Castiglia. Non era di buon auspicio che l’unità così realizzata dei comuneros fosse solo frutto di un nuovo soprassalto di sdegno. Il problema fondamentale restò irrisolto e fu proprio nel tentativo di dare soluzione a quel problema che i capi della Junta si volsero all’unica fonte di autorità che in Castiglia fosse superiore a Antonio di Utrecht, ovvero Giovanna la Pazza. A Tordesillas, il Padilla si adoperò per strappare alla regina espressioni di simpatia per gli obiettivi dei rivoltosi. I consiglieri del re, lontani, nei Paesi Bassi, decisero di fare alcune concessioni ai rivoltosi: sospesero l’esazione del servicio e decisero di non dare più cariche castigliane agli stranieri. Inoltre, convennero anche sul chiamare due dei grandi nobili di maggior spicco a far parte della reggenza. Dopo i colloqui avuti nell’autunno 1520 con Giovanna, il movimento dei comuneros era scivolato rapidamente verso l’apatia. I fiamminghi erano ormai lontani. Nelle città il movimento insurrezionale degenerava rapidamente in guerra civile tra i tradizionalisti avversari e così, nella Junta dei comuneros, il potere stava cadendo nelle mani degli estremisti. Si cominciarono a levare voci contro il potere dei nobili e dei ricchi. Questo movimento, che era iniziato come una sollevazione nazionale e patriottica stava iniziando ad assumere i tratti di una rivoluzione sociale. I pericoli di una rivoluzione generale erano chiari data la situazione a Valencia, dove c’era un vero e proprio dramma rivoluzionario. Lì, il malcontento aveva iniziato a manifestarsi nell’estate 1519, quando Carlo dimorava a Barcellona. La rivolta non era data dall’assenza, bensì dalla presenza del re e della corte. L’irrequietudine della rivolta era sociale. Nell’estate 1519, Valencia fu colpita dalla peste e un predicatore affermò che quello era un castigo divino. Gli artigiani armati delle corporazioni si riunirono per formare una fratellanza, chiamata Germanía, che assunse il controllo delle città 40 e prese poi ad estendere il proprio potere sulla campagna circostante. Anche la Germanía fu un movimento urbano composto da cittadini di condizione media, artigiani, ecc. Mentre i comuneros si sollevavano in Castiglia, la ribelle Germanía valenciana si era trasformata in un movimento sociale violentemente radicale. I suoi obiettivi erano vaghi ma fu una minaccia seria al potere dell’aristocrazia e a tutto l’ordinamento gerarchico della società. La nobiltà castigliana depose ogni simpatia per i comuneros, assumendo un atteggiamento alle volte neutrale e alle volte ostile. Nel frattempo, i comuneros si facevano sempre più animati di spirito anti- aristocratico nelle dichiarazioni e nelle azioni. A cavallo tra il 1520 e il 1521, la loro rivolta iniziò a diventare una lotta sociale contro la nobiltà e questo avvenne quando nella Junta, la fazione estremista, capeggiata da Gonzalo de Guzmán, prevalse su Laso de Vega. Così facendo, la rivolta dei comuneros divenne una vera e propria rivoluzione sociale, che era condannata a un triste destino. Infatti, essa si privò dell’aiuto dell’aristocrazia che era indispensabile per un successo duraturo. Adriano di Utrecht e i suoi consiglieri nel frattempo erano riusciti a far ritornare la città di Burgos dalla parte del re. I comuneros guadagnarono l’adesione di un nobile malcontento, don Pedro Girón e l’energico appoggio di Antonio de Acuña, vescovo di Zamora. A Zamora ci furono interminabili lotte di fazione e queste poi confluirono nel movimento dei comuneros. Nei primi mesi del 1521, il vescovo mosse le sue forze attraverso la Castiglia settentrionale, si unì al Consiglio di guerra dei comuneros a Valladolid e si mise poi in testa l’idea di marciare su Toledo. Arrivato qui, incitò il popolino a proclamarlo arcivescovo al posto di Guillaume de Croy da poco morto. La ripresa delle fortune dei comuneros sotto la guida del vescovo di Zamora fu una vera e propria meteora. L’esercito comunero non era in grado di reggere l’urto di quello regio. Quando il 23 aprile 1521 i due eserciti si scontrarono, la fanteria dei comuneros offrì poca resistenza: Padilla e il capo comunero Juan Bravo di Segovia furono fatti prigionieri e il giorno seguenti furono giustiziati. La rivolta dei comuneros era terminata. Il vescovo di Zamora fuggì travestito, ma venne preso lungo la strada e incarcerato nel castello di Simancas, dove terminò i suoi giorni con una morte cruenta, cinque anni dopo. In un tentativo di fuga ammazzò il suo carceriere e quindi Carlo V inviò l’alcalde Ronquillo, che condannò il vescovo alla tortura e alla morte per strangolamento. Il cadavere del vescovo venne poi appeso a una delle torrette del castello di Simancas. Anche a Valencia la ribellione venne schiacciata. Quando Carlo sbarcò a Santander il 16 luglio del 1522, trovò una Spagna riappacificata. In ottobre, egli si sentì già abbastanza forte da concedere un’amnistia generale ai comuneros. L’autorità della Corona aveva avuto la meglio e il re era tornato come padrone assoluto di una Castiglia ammansita e soggiogata. Il destino imperiale Il soffocamento della rivolta dei comuneros e della Germanía fu di vitale importanza per il futuro della Spagna. Fu chiaro allora che la successione asburgica non correva più alcun periodo sia nei territori della Corona di Aragona sia nella Corona di Castiglia. Il trionfo della causa regia chiuse in Castiglia un capitolo che si era aperto nel 1504 con la morte di Isabella. Con la vittoria dei fautori di Carlo nella battaglia di Villalar quei risultati si fecero irreversibili, non ci furono più in Castiglia rivolte contro il potere della Corona. La rivolta degli anni 1520-21, pur presentandosi come una sollevazione contro un regime straniero, aveva assunto molti aspetti della guerra civile e come tal lasciò cicatrici marcate. Le contese e le vendette tra le famiglie dell’aristocrazia erano ben lontane dall’essere eliminate dalla politica della Castiglia. Le ostilità tradizionali continuarono ad essere trasmesse di generazione in generazione e le famiglie pro-comuneros e anti- comuneros proseguirono le loro trame di vendetta alla corte della nuova dinastia, dove si svolse una lotta accanita per il prestigio e il potere. È difficile stabilire fino a che punto ci fosse alla base un elemento ideologico. La vittoria di Carlo fu qualcosa in più del semplice trionfo della Corona sui tradizionali avversari, fu anche qualcosa di più del semplice successo delle forze dell’ordine su quelle dell’anarchia. Essa indicò qualcosa di più ampia portata: l’Europa aveva avuto la meglio sulla Castiglia. I comuneros avevano lottato per salvare la Castiglia da un tipo di regime che sembrava minare quel senso di identità nazionale a cui si era appoggiata la generazione precedente. La loro sconfitta significò che sul trono castigliano avrebbe seduto una dinastia forestiera con un programma politico forestiero. La tradizione imperiale era qualcosa di estraneo alla Spagna medievale e il programma imperiale di Carlo V non trovò 41 Due conseguenze importanti derivarono dal fatto che l’impero di Carlo V non era altro che un aggregato di territori collegati in maniera quasi casuale da un sovrano comune a tutti: 1. gli ordinamenti costituzionali tipici di ognuno dei vari territori o domini ebbero una sorta di congelamento/cristallizzazione; ogni dominio fu sensibile ad ogni minaccia reale o presunta al proprio assetto tradizionale e proprio questa gelosa difesa del proprio assetto impedì che si ponesse mano ad un ordinamento istituzionale comune all’impero nel suo complesso; 2. ne risultò impedita la formazione di più stretti vincoli tra i diversi domini, sia sul piano economico che su quello politico. I domini di Carlo continuarono a pensare solo a sé stessi, cioè a vivere in funzione dei loro interessi particolari e, quindi, a percepire in senso negativo il coinvolgimento in guerre che parevano essere poco attinenti ai loro interessi. Per quanto riguarda la Castiglia, molte delle decisioni politiche di Carlo V sembrarono discordanti dal corso politico dei suoi predecessori. La sua contesa con il re di Francia e la guerra contro i principi protestanti della Germania sembrarono avere poco o nulla a che fare con il sostegno agli interessi castigliani e non parvero giustificare il ricorso alle forze della Castiglia e al denaro castigliano. Anche la politica italiana ebbe critici severi, tra cui Juan Tavera, cardinale arcivescovo di Toledo. Per il Tavera, la politica italiana era una continuazione della politica estera aragonese di Ferdinando ed era destinata a portare la Castiglia ad immischiarsi nei conflitti europei, mentre gli interessi castigliani esigevano la pace in Europa e la continuazione della crociata contro gli infedeli. Il Tavera valutava positivamente la politica del coinvolgimento spagnolo in Italia per i suoi fondamentali vantaggi strategici. Il profilarsi di una minaccia turca nel Mediterraneo occidentale doveva avere un’influenza decisiva sulla forma che la potenza spagnola doveva assumere nel Cinquecento e sui suoi peculiari sviluppi. L’Europa di Carlo V si trovò a dover fare i conti con una potenza la cui organizzazione interna era finalizzata per fare la guerra. Lo Stato Ottomano aveva risorse di denaro e uomini tali da consentirgli un’aggressiva politica imperialistica: la minaccia della Spagna da parte dei turchi era quindi qualcosa di aperto e naturale. La Spagna si trovava in prima linea e costituiva un bastione naturale contro un possibile assalto dei turchi: il programma imperiale di Carlo V trovò la sua ragione di essere in funziona anti-turca. Infatti, all’attacco di un impero doveva rispondere la forza di un altro impero. Gli stati della Corona d’Aragona da soli sarebbero stati troppo deboli per reggere un attacco turco, stessa cosa vale per la Castiglia. L’imperialismo di Carlo V fornì alla Castiglia una linea di difesa più profonda. Egli era in grado di attingere alle risorse finanziarie e militari dei suoi sparsi domini, alla potenza dei suoi alleati genovesi, ecc. quindi la Spagna poteva contrastare la dilagante forza imperiale ottomana. Ci furono anche svantaggi per la Spagna, causati dal fatto che Carlo V aveva sotto di sé mezza Europa. In particolare, va notato che egli era troppo assorbito dal problema tedesco e dalle sue guerre con la Francia per poter condurre una politica offensiva non intermittente con la politica ottomana. La presa di Tunisi nel 1535 rimase un fatto isolato e la politica mediterranea di Carlo si limitò all’operazione bellica che gli aveva consentito di occupare una posizione nemica. È vero anche però che la Spagna, sotto Carlo V e il suo successore, poté godere del beneficio della pace interna quando l’Europa era teatro permanente di guerre. La Castiglia, tuttavia, si trovava sempre sul piede di guerra, a volte combattendo per sé stessa, a volte combattendo per altri. Inoltre, Carlo V riuscì a persuadere molti castigliani che la sua crociata contro i turchi e gli eretici era una causa loro e del loro paese. Il prezzo da pagare era alto, in quanto la continuazione della crociata comportava la perpetuazione dell’arcaica organizzazione tipica di una società che si voleva pronta alla crociata. Comportò, inoltre, che le istituzioni e l’economia della Spagna e del suo impero si modellassero sullo sfondo oscuro di un continuo stato di guerra. L’organizzazione dell’impero Il fatto dominante per la Spagna sotto Carlo V e Filippo II fu la guerra; l’altro fatto caratteristico fu la burocratizzazione. Per governare la Spagna e i suoi domini oltreoceano e per mobilitare le loro risorse a sostegno della guerra, era necessario avere un gran numero di funzionari. Carlo rimase un sovrano di vecchio stile, in quanto amava condurre di persona i suoi eserciti in battaglia e governare personalmente i suoi sudditi. Tuttavia, erano i problemi contingenti ad imporre l’adozione di nuove tecniche burocratiche e nuove 44 procedure amministrative. Tutto ciò finì per sostituire gradualmente il governo attuato con la parola detta con il governo della parola scritta. A Carlo V, sovrano guerriero, successi il figlio, Filippo II, che simboleggiò la trasformazione dell’impero spagnolo. Fin dal 1522, era evidente che il sistema di governo esistente in Spagna era inadeguato ai compiti che doveva svolgere, per cui il gran cancelliere Mercurino Gattinara attuò una razionalizzazione e un miglioramento della macchina amministrativa spagnola: riformò il Consiglio delle Finanze, riorganizzò il governo della Navarra e istituì un Consiglio per le Indie. Con queste riforme pose le basi per il sistema di governo che avrebbe caratterizzato la monarchia spagnola per tutto il Cinquecento. Inoltre, nel 1555 venne istituito un Consiglio apposito per i domini italian i. Primo compito di un Consiglio era quello di consigliare il sovrano: i consigli dovevano essere addetti alla persona del re, oppure al reggente, nel caso in cui questi non fosse presente. Il fatto che la corte fosse itinerante rese arduo ai Consigli operare senza perdere efficacia. Il Cobos istituì un archivio che raccogliesse tutti gli atti ufficiali e il numero sempre crescente di tali atti rese necessaria la creazione di un deposito centrale, che venne stabilito nella fortezza di Simancas. L’archivio di Simancas era destinato a subire diverse vicissitudini e spesso i funzionari di governo avrebbero ignorato gli ordini che imponevano loro di consegnare le carte quando lasciavano il servizio. I diversi consigli che formavano la marca amministrativa o di governo sono divisibili in due categorie :  quelli che dovevano consigliare il sovrano su questioni generali o sezionali relative alla monarchia nel suo insieme;  quelli responsabili del governo di singoli territori in essa compresi. Tra i consigli del primo tipo, il più noto era senza dubbio il Consejo de Estado, che doveva consigliare il sovrano su temi di politica generale relativi al governo della Spagna e della Germania. Più attivo fu il Consiglio di Guerra, responsabile dell’organizzazione militare della monarchia. La più importante delle riforme volute dal Gattinara fu l’istituzione del Consejo de Hacienda (Consiglio delle Finanze), che si doveva occupare delle finanze castigliane, ma finì per occuparsi delle finanze della Corona in generale. Il Consiglio teneva riunioni quotidiane per esaminare previsioni di spesa e di entrata e scavalcò l’antica contaduría de hacienda. L’altra contaduría acquistò invece un nuovo soffio di vita diventando organo alle dipendenze del Consiglio, con la responsabilità di sorvegliare le crescenti spese della Corona e con il compito vitale di provvedere alle vaste operazioni di credito necessarie per mantenere la Corona solvibile. La necessità di un organismo finanziario migliore per il funzionamento delle due contadurías mayores della Castiglia si impose al Gattinara quando egli si rese conto della miseria in cui versavano le finanze regie. Se il sistema finanziario della Castiglia aveva bisogno una riforma radicale, il resto del paese venne amministrato con gli stessi metodi e organi che caratterizzarono il tempo di Ferdinando e Isabella. Il Consiglio della Castiglia restò l’organo principale, ma venne creato un Consiglio di gabinetto detto Consejo de la Camara de Castilla, costituito da tre o quattro consiglieri membri del Consiglio della Castiglia e aveva il compito di assistere il re in tutti gli affari che avevano a che fare con il Patronato regio sulla chiesa spagnola e nelle nomine a uffici giudiziari e amministrativi. Quello che più preoccupò il Gattinara fu il settore coloniale, vale a dire l’apparato amministrativo dei territori oltreoceano. Tutti gli affari riguardanti le Indie fecero capo ad un ecclesiastico munito di una formazione giuridica, Juan Rodríguez de Fonseca. Quando Carlo giunse in Spagna, era ormai chiaro che il governo delle colonie necessitava di una struttura organizzativa più formale: tale struttura prese forma nel 1524, quando venne istituito il Consiglio delle Indie. Tale Consiglio equivaleva per l’America a quello che era in Spagna il Consiglio della Castiglia. Gli spettò il controllo supremo di tutti gli affari amministrativi, giudiziari ed ecclesiastici riguardanti le Indie. Gli organi in cui si articolò tale amministrazione ricalcarono quelli esistenti nella penisola iberica. L’autorità della Corona fu impersonata dalle due istituzioni gemelle che furono le audiencias e i vicereami: entrambe subirono qualche mutamento quando vennero trapiantate oltreoceano: - le audiencias si diversificarono da quelle esistenti in Spagna per il fatto che alle funzioni giudiziarie aggiunsero anche funzioni politiche e amministrative; 45 - i viceré si trovarono ad avere un potere più limitato rispetto a quello tradizionalmente avuto in Aragona. Il compito di amministrare la giustizia spettò ai viceré e non alle audiencias. La Corona spagnola comprese subito che un sistema fatto di controlli e di equilibri accuratamente ripartiti tra tante istituzioni e gruppi sociali era il migliore e forse l’unico praticabile. In questo modo i viceré spagnoli diventarono nove. Le immense distanze esistenti nell’impero posero alla Corona spagnola un problema che non aveva precedenti nella storia, ma la Spagna riuscì a trarne vantaggio. Tale successo sta nell’accorta combinazione tra una struttura di governo regionale con il massimo di centralizzazione possibile in un impero formato di territori lontanissimi e sparsi. I viceré avevano poteri enormi ma si trovarono strettamente vincolati al governo centrale che stava in Spagna. Ogni viceré doveva attuare in sintonia con il Consiglio che si occupava di quel territorio nel quale egli rappresentava il sovrano. Un eventuale ampliamento del potere del viceré comportava una diminuzione del potere consiliare. I Consigli adempivano ad alcune funzioni essenziali di un corpo rappresentativo. L’intento originario era quello di mantenere un’apparenza di centralizzazione a tutta la struttura della monarchia spagnola: era come se il sovrano fosse personalmente presente in ognuno dei suoi domini. Lo strumento che consentì di rendere effettiva l’azione dei Consigli fu la consulta; un Consiglio che teneva regolarmente le sue sedute si metteva a discutere delle ultime comunicazioni del viceré e di tutte le faccende che avessero riferimento generale ai territori che erano sotto la sua giurisdizione. Il re o si limitava ad accettare il parere della maggioranza del Consiglio oppure trasmetteva la consulta al Consiglio di Stato o anche a un comitato speciale di ministri, perché se ne facesse ulteriore materia di discussione. Le raccomandazioni di queste seconde istanze venivano formulate in forma di consulta e trasmesse al re per la decisione finale. Il re comunicava la sua decisione con un ordine scritto in calce alla consulta che gli era stata sottoposta. Una volta che la risposta del sovrano fosse giunta al Consiglio, il segretario del medesimo doveva listare le lettere opportune, che il re avrebbe poi firmato e spedito al viceré che doveva eseguire quanto gli era stato ordinato. La catena della comunicazioni che andava dal viceré al Consiglio assicurò una copertura completa di tutti gli affari di qualche importanza: non ci fu stato europeo che, nel Cinquecento, fosse più governato dei domini del re di Spagna. Molti dei difetti presenti in quel sistema di governo erano inevitabili. I problemi costituiti dalla distanza non potevano essere superati e proprio la distanza imponeva infiniti ritardi nelle decisioni e nella loro esecuzione. La burocrazia spagnola era così composta: - al fondo della scala stavano gli innumerevoli funzionari minori che svolgevano le mansioni di scrivani e semplici impiegati, ispettori ed esattori fiscali; - c’erano i funzionari di maggior prestigio appartenenti all’apparato amministrativo dei vice-reami, ovvero i membri delle audiencias e gli stessi viceré; - a corte stavano i segretari del re, che costituivano una sorta di categoria a parte. Fin dal 1523, il Cobos era segretario di tutti i Consigli, degli Ordini e della guerra. I membri delle audiencias e dei Consigli provenivano dagli stessi ambienti social da cui sortivano i segretari del re. Sia Carlo V prima, che Filippo II poi, scelsero gli esponenti dell’alta nobiltà solo per i comandi militari e per il posto di viceré, mentre per il servizio a corte e nei tribunali preferirono scegliere uomini che venivano da famiglie di hidalgos o da quelle della borghesia cittadina. I membri dovevano avere studi universitari alle spalle e dovevano aver compiuto un tirocinio notevole negli uffici ecclesiastici o nella pratica forense. l’età e una certa limitatezza di formazione furono il minore dei mali che affliggevano i membri dei Consigli. Erano continue le lamentele riguardo la corruzione dei funzionari della Corona e anche i membri dei Consigli non facevano eccezione. Il controllo ispettivo dell’azione dei funzionari a mezzo di vistas e di residencias pose un freno alla condotta corrotta. Nelle società gerarchiche dell’Europa cinquecentesca l’aspirazione suprema era per un alto funzionario quella di vedersi aprire le porte per entrare a far parte dell’aristocrazia. La tentazione di avanzare verso l’alto della piramide sociale era irresistibile. Erano però pochi i passi in tale direzione che potessero essere fatti in tutta onestà. Era convinzione comune che un funzionario con stipendio esiguo avrebbe lavorato con maggior applicazione nella speranza di ricevere ricompense. Le occasioni per praticare 46 L’industria tessile aveva anch’essa basi precarie: innanzitutto si pose il problema della qualità. Mentre l’industria per la fabbricazione dei panni era in Castiglia regolata meticolosamente dalle corporazioni. Un altro problema era quello della manodopera: un’industria ancora giovane di trovò ad un tratto sommersa da un’enorme domanda, proveniente dal mercato interno e da quello americano, senza essere in grado di affrontarla. Non riuscendo a reclutare manodopera sufficiente tra gli artigiani delle città, ci si volse ai contadini e poi all’esercito di vagabondi o di mendicanti che si aggirava per le strade della Castiglia. Nel 1540 venne rinnovata la legge sui poveri del 1387 e con essa si comminavano punizioni severe ai vagabondi e si autorizzavano le autorità locali a costringerli a lavorare senza salario. Nei primi anni del regno di Carlo V, il coro delle lamentele da parte degli operatori interni, che si lamentavano per l’alto prezzo dei manufatti castigliani e del tessuto locale, crebbe ingentemente: alle Cortes che si tennero a Valladolid nel 1548, le lamentele divennero assordanti. In questo contesto si disse che l’alto prezzo dei tessuti castigliani dipendeva dalla domanda che di essi veniva dall’estero e per contenerli fu indicato come rimedio l’importazione in Castiglia di tessuti esteri. Nel frattempo, tutte le esportazioni tessili di fabbricazione castigliana dovevano essere vietate. La Corona rispose consentendo solo l’importazione di tessuti dall’estero e così nel 1552 le Cortes tornarono di nuovo alla carica perché fossero vietate le esportazioni in America. La Corona vietò ogni esportazione di tessuto castigliano, eccezion fatta per quello destinato alle Indie. Alle disposizioni legislative degli anni 1548-52 seguì una brusca depressione nel settore tessile della Castiglia. La fabbricazione di tessuti si trovò ad essere minacciata dalla concorrenza di prodotti esteri meno casi. Si dovette allora provvedere con altre disposizioni, che tolsero il divieto sulle esportazioni. La legislazione degli anni 1548-52 ebbe comunque un’importanza enorme, in quanto segnò il punto in cui l’economia in espansione della Castiglia si trovò alle prese con la sua prima crisi grave, crisi che trovò il paese in una situazione di buio alla ricerca di una via d’uscita dai dilemmi in cui era venuto ad impigliarsi. La natura di quella crisi non è del tutto semplice da spiegare. A quanto pare, le merci castigliane risultavano essere molto più chiare di quelle estere, anche se non è ben chiaro per quale motivo. Le Cortes individuarono la causa del fenomeno nella domanda sostenuta delle merci castigliane da parte di paesi stranieri e dell’America. Dopo il 1550, un’altra spiegazione plausibile per l’ascesa dei prezzi in Spagna venne data da Martín de Azpilcueta che, nel 1556, elencò una serie di motivi che spiegavano perché mai il valore della moneta potesse mutare. Il settimo di questi motivi diceva che la moneta dove/quando è scarsa vale di più di dove/quando è abbondante. Nel 1934, lo storico dell’economia americano Hamilton giunse alla conclusione che: la correlazione tra l’aumento nel volume delle importazioni di metallo prezioso e l’ascesa dei pressi nei generi di consumo per tutto il Cinquecento dimostra che le doviziose miniere americane furono la causa principale della rivoluzione dei prezzi in Spagna L’interpretazione di Hamilton gli faceva concludere che i prezzi in Spagna erano passati attraverso tre fasi; tale scansione corrispondeva con i movimenti riscontrati nell’importazione di metallo prezioso americano. Questa correlazione finì poi per suscitare interrogativi inquietanti: i dati di Hamilton rappresentavano veramente l’entità globale delle importazioni in Spagna di argento americano? Se effettivamente c’era anche del contrabbando, i dati però perdevano molto del loro valore. La tesi di Hamilton presuppone che il metallo prezioso venisse prontamente immesso nell’economia spagnola e che l’ondata dei prezzi in ascesa si allargasse per tutta la Spagna a partire dall’Andalusia. Tale tesi omette però a chi appartenesse l’argento e a quali fini fosse usato: - la parte spettante al re era già ipotecata dai banchieri stranieri; - la parte spettante ai privati poteva essere evidentemente usata per diversi scopi, a seconda di quello che un proprietario riteneva opportuno. Una grossa quantità dell’argento americano sbarcato a Siviglia avrebbe dovuto servire per pagare il costo delle merci inviate nelle Indie. I carichi destinati alle Americhe furono composti in misura crescente da prodotti non spagnoli. L’argento usato per acquistare i prodotti esteri non rimase affatto in Spagna e la sua registrazione a Siviglia fu spesso una mera formalità, mentre i veri proprietari di quel metallo spedirono il 49 prima possibile i loro possedimenti verso un’altra destinazione. La quantità globale dell’argento registrato in arrivo a Siviglia e la quantità globale di argento arrivato in Spagna non possono essere fatte coincidere. La stretta correlazione tra prezzi spagnoli e importazioni di metallo prezioso è difficile da accettare così come viene presentata. Dunque, uno dei dati dell’equazione hamiltoniana (la quantità di argento che entrò in Spagna) non regge alle critiche che sono state mosse, ma anche l’altro dato (il movimento dei prezzi spagnoli) è stato di recente sottoposto a una revisione critica. Una rielaborazione delle cifre di Hamilton, fatta da Nadal (economista contemporaneo) porterebbe a pensare che l’aumento maggiore dei prezzi spagnoli si sia verificato nella prima metà del Cinquecento. L’inflazione sempre crescente della prima metà di secolo sarebbe poi stata seguita da un rallentamento del movimento inflazionistico, dopo che tra il 1561 e il 1565 si era avuto un altro picco. L’intera questione delle origini reali della rivoluzione dei prezzi è quindi avvolta dentro una nube di incertezza. Si potrebbe trovare una correlazione tra i prezzi e gli arrivi di metalli preziosi se si desse per certo che in Spagna arrivò più argento nella prima parte del secolo che nella seconda, perché nella seconda la parte delle merci spagnole destinate al mercato americano si ridusse gradualmente. Tuttavia, non c’è dubbio che l’argento americano possa aver avuto un’incidenza notevole nell’ascesa dei prezzi. Pierre Chaunu  ha recentemente cercato di allargare l’interpretazione di Hamilton mettendo in relazione reciproca i prezzi spagnoli con le fluttuazioni dei traffici sivigliani nel Nuovo Mondo: questa correlazione però presta il fianco a un’obiezione, perché i dati sull’imbarco di merci possono dire molto sui bisogni del mercato americano e sul livello generale della fiducia esistente negli ambienti commerciali, ma da soli non sono in grado di dare una prova conclusiva sulla produzione della Castiglia.  Resta difficile pensare che questi dati ci diano un mezzo più sicuro delle statistiche di Hamilton; tuttavia, la teoria dello storico francese presenta il grande pregio di allargare l’ambito di discussione. La svalorizzazione della moneta, che fece alzare i prezzi in Inghilterra e in Francia, non venne praticata nella Spagna di Carlo V. I prestiti contratti dall’imperatore, e da lui parzialmente finanziati con l’emissione di juros (buoni di credito) ebbero un effetto altamente inflazionistico. A tali spese si fece fronte con l’argento tesaurizzato e messo d’un tratto in circolazione. Da ultimo si ebbe una situazione in cui un’economia sottosviluppata si vide precipitare addosso d’un tratto una crescente domanda. La domanda era a sua volta in parte causata dall’incremento demografico e dall’espansione dei mercati tradizionali nelle Fiandre e in Italia: tale espansione coincise con l’apertura del mercato delle colonie americane. La Castiglia fece di tutto per soddisfare la domanda in aumento, ma l’efficacia dei suoi sforzi non poté essere che poca cosa. Salirono i prezzi degli alimentari a un livello tale da rendere sempre più difficile al castigliano comune l’acquisto dei generi di prima necessità. Anche i prezzi dei tessuti videro una spinta verso l’alto, causata dalla produzione inadeguata delle manifatture castigliane. La vendita di prodotti e manufatti alle colonie americane però portò in Spagna un fiotto improvviso di argento, che finì per far salire i prezzi più di quelli degli altri paesi europei e fece crescere in Castiglia la domanda per la concessione della vendita di merci estere in loco. Non appena la Corona accondiscese a questa richiesta, la produzione manufatturiera castigliana si vide gravemente minacciata dalla concorrenza straniera. I mercanti stranieri irruppero nel mercato interno castigliano ma si aprirono anche la strada per accedere a quello americano, dato che la produzione castigliana sembrava non essere in grado di soddisfarlo. Secondo Hamilton, la spinta principale all’incremento della produzione industriale era dovuta al fatto che i salari non riuscivano a tenere il passo dei prezzi: a suo avviso, i prezzi crebbero più in fretta dei salari nella prima metà del secolo e questo fornì agli operatori industriali castigliani un maggior incentivo di quello che potevano avere gli stessi operatori in un altro paese. L’operaio fu vittima precoce della rivoluzione dei prezzi quanto i proprietari terrieri o quei signori che si trovarono nella possibilità di incrementare il loro reddito. Invece della spiegazione data da Hamilton sarebbe forse più giusto ricorrere ad una teoria che tenesse conto soprattutto delle crescenti possibilità di mercato. Il mercato è da individuare come il fattore che impresse inizialmente una spinta all’espansione economica della Castiglia, poi insorsero diverse difficoltà: ci si scontrò con un’insufficiente produzione agricola e industriale, quindi con prezzi non competitivi. Di conseguenza, il 50 divario tra i ricchi esenti dalle tasse e i poveri troppo gravati. Inoltre, indusse i mercanti e gli uomini d’affari ad abbandonare la loro arte e a comprarsi privilegi nobiliari in modo da poter sfuggire alla tassazione. L’imperatore, nelle Cortes del 1538 provò a porre un’imposta sulle derrate alimentari, con il nome di sisa. I nobili si dichiararono contrari ad un’imposta che faceva cadere il tradizionale principio dell’esenzione. L’esito delle Cortes del 1538 costituì una vittoria per i privilegiati, ma fu una vittoria riportata ad un prezzo oneroso. L’esenzione fiscale dei grandi e degli hidalgos era stata preservata, ma spegnendo in Castiglia le ultime luci di un assetto costituzionale fondato sulla rappresentanza dei ceti sociali. Le Cortes continuarono a lamentarsi e a fare rimostranze, ma avevano di fatto perso l’ultima opportunità di farsi valere. Il rifiuto delle Cortes sia ad aumentare gli encabezamientos sia a sanzionare l’imposizione di nuovi oneri fiscali (come la sisa), obbligò la Corona a cercarsi altre fonti di entrata su cui le Cortes non avessero voce. Questo diminuì l’influenza delle Cortes nel settore fiscale. L’imperatore ottenne molto successo quando propose l’imposizione di un tributo regolare sotto forma di servicio, ma bisogna anche tener conto dell’incremento demografico che si ebbe in Castiglia: con la crescita smisurata della popolazione, il peso dell’imposizione fiscale pro-capite diminuì. L’atto pratico della ripartizione degli oneri fiscali lasciò i pecheros in una situazione pessima alla fine del regno di Carlo V. Questa non fu l’unica conseguenza nefasta della politica fiscale di Carlo V: questo fatto fa distogliere l’attenzione dall’aumento vertiginoso che si ebbe in un’altra forma di entrata, vale a dire nella disponibilità di liquido procurata mediante i prestiti. Per sanare il deficit l’imperatore si trovò obbligato a ricorrere a diversi espedienti, come quello di farsi anticipare da privati le somme corrispondenti al valore dell’argento che veniva dall’America e quello di compensare chi anticipava denaro con dei juros, ovvero dei titoli di stato. In realtà era stato messo a punto un sistema per colmare e finanziare il deficit della Corona, i cui tratti fondamentali furono il ricorso ai banchieri e l’emissione di juros. In un arco di tempo durato 37 anni, Carlo V fu in grado di farsi prestare ben 39 milioni di ducati. Fino a prima del 1552, ci fu una schiera di banchieri disposti ad anticipargli denaro con l’accordo che avrebbero avuto indietro capitali e interessi con l’arrivo di nuovi carichi di metallo prezioso dall’America. Questo accordo prese il nome di asiento, la cui formulazione venne presentata dal Consejo de Hacienda e il cui obiettivo fu quello di precisare dove e quando i banchieri dovevano depositare le somme prestate alla Corona e anche il tasso di interesse e i metodi per il rimborso. La vendita di juros ebbe conseguenze analoghe: i juros in origine erano delle pensioni o annualità che la Corona pagava a singole persone come pegno del suo favore e che prevaleva dalle entrate dello Stato. Il numero dei juros venduti dai re cattolici fu notevole, Carlo V ne allargò addirittura la vendita. Questo enorme aumento ebbe conseguenze economiche e sociali collaterali di somma importanza: i juros furono acquistati da banchieri stranieri e del paese, da nobili e mercanti, vale a dire, da chiunque avesse denaro da investire. In questo modo si formò nella Castiglia una poderosa classe di rentiers che investivano il loro denaro nei vantaggiosi titoli di stato e non in commerci o nelle produzione industriale. Quando si propose, nel 1553, che il governo riscattasse gradualmente i juros emessi, si alzò un coro di proteste da parte di chi deteneva i juros. La politica estera di Carlo V e la dipendenza che egli ebbe dal credito per finanziarla portarono conseguenze disastrose per la Castiglia. Le risorse del paese furono ipotecate per un numero indefinito di anni per sostenere le spese della politica imperiale. Il regno di Carlo V conobbe tre nuovi fatti con implicazioni pericolose che avrebbero poi inciso sulla Spagna del Cinquecento e del Seicento: 1. i banchieri forestieri si stabilirono nel paese; 2. la Castiglia doveva sopportare il fardello maggiore della fiscalità addossata alla Spagna; 3. il fardello fiscale nell’ambito della Castiglia fu fatto portare a quelle classi che erano meno in grado di sopportarlo. Carlo V abbandona il sogno imperiale I ministri dell’imperatore che dovevano preoccuparsi della Spagna furono pienamente consapevoli degli effetti funesti che la politica di Carlo V aveva sulla vita del paese. Negli anni Trenta del Cinquecento, Carlo V fu spesso sollecitato a far ritorno in Spagna per il bene del suo regno, dalla moglie, dal principe Filippo e dal Cobos; questi due, con le loro lettere, cercavano di far sì che il re si rendesse conto delle condizioni in cui 53 versava la Castiglia. Il Cobos cercò di gestire le finanze nel miglior modo possibile: riuscì a mettere fine alle rapine dei grandi aristocratici e fece di tutto per apprestare bilanci i previsione per le entrate e le spese di cui servirsi come base orientativa dell’azione politica futura. L’imperatore continuò a spendere devano ovunque si recasse. Il Cobos, così come il ministro delle finanze, fallì, ma questo dipese in larga misura dal fatto che l’imperatore gli chiese e pretese l’impossibile. Le continue preoccupazioni finanziarie del Cobos terminarono con la sua morte, nel 1547. Negli anni tra il 1454 e il 1547 morirono tutti i ministri della generazione di Carlo V, però in quegli anni Filippo raggiunse la maggiore età. Egli, nel 1548, ricevette l’ordine dal padre di raggiungerlo a Bruxelles. Il viaggio di Filippo nei Paesi Bassi era voluto dall’imperatore affinché il figlio conoscesse direttamente i suoi sudditi fiamminghi. Quel viaggio si dimostrò poi essere il primo passo con cui l’imperatore si spogliò dei suoi poteri. Nel 1547, Carlo V riportò una vittoria nella battaglia di Mühlberg contro i principi protestanti; alcuni dei principi tedeschi furono presi da inquietudine in quanto temevano che l’imperatore volesse consolidare i suoi domini in Germania. Nel marzo 1552, Maurizio, duca di Sassonia, ruppe con l’imperatore e marciò con le sue truppe su Innsbruck, dove Carlo e il fratello Ferdinando stavano discutendo sul futuro dell’impero. L’imperatore fuggì e trovò rifugio nella città di Villach: la sua politica tedesca era ormai in pezzi e l’eresia aveva trionfato. Inoltre, la sua fuga, simboleggiò che nel 1552 la sua politica imperiale era andata in fumo. Filippo, che succedette al padre nel 1556, sarebbe stato alla testa di un impero che doveva per forza essere diverso da quello ereditato dal padre. Carlo fece sposare Filippo, nel 1554, con Maria Tudor, in modo da mostrare nuovamente le sue ambizioni politiche: Filippo avrebbe dovuto regnare su tre complessi territoriali diversi, vale a dire la Spagna, l’Inghilterra e i Paesi Bassi. Dopo aver predisposto il futuro del figlio, Carlo si portò in Spagna per trascorrere gli ultimi anni della sua vita; il suo ritiro a Yuste e l’ascesa al trono del figlio simboleggiarono l’ispanizzazione della dinastia. Filippo si trovava ancora nelle Fiandre, quando la sua presenza in Castiglia era necessaria per rassicurare i suoi sudditi che non si sarebbe mai ripetuta la politica del padre. Il suo ritorno era solo questione di tempo. Il 21 settembre 1557 suo padre morì e due mesi dopo morì anche Maria Tudor, senza prole. Questo pose fine ad ogni disegno di unione sotto una sola Corona dell’Inghilterra, della Spagna e dei Paesi Bassi. Filippo tornò in Spagna, in quanto la situazione economica e finanziaria era ancora più grave. Nell’agosto 1559 egli lasciò le Fiandre per avviarsi alla volta della Spagna. Quel ritorno simboleggiò la fine del sogno imperale di Carlo V e fu anche una vera e propria SVOLTA: da un impero a base fiamminga nell’Europa centrale si passava ad un impero spagnolo a base atlantica. Nonostante ciò, il nuovo impero ispano-americano di Filippo II non si liberò mai del tutto del marchio che gli avevano impresso le circostanze alla sua nascita, in quanto rimase segnato dalla bancarotta e dall’eresia. 54 - a cavallo tra il XV e il XVI secolo, la dimostrazione di discendere da avi di sangue puro divenne un requisito indispensabile per entrare a far parte di certi Ordini Militari e anche dei Colegios Mayores. L’imperatore era disposto a dare forza di legge agli statuti locali o ai regolamenti di singole istituzioni nei quali era prevista la discriminazione di chi aveva origini ebraiche. Tuttavia, il movimento favorevole alla limpieza de sangre acquistò vigore straordinario a causa di alcuni fatti successi verso il 1550: teatro di questi fatti fu la cattedrale di Toledo e la prima spinta venne data da Juan Martínez Siliceo, dal 1546 arcivescovo della stessa città. Toledo era ancora divisa tra le due fazioni degli Ayala e dei Ribera, che continuarono a rivaleggiare: la questione del sangue assunse un ruolo principale nei loro contrasti. Gli Ayala si vantavano di avere un albero genealogico completamente puro e scorsero nella limpieza de sangre un’arma con cui allontanare i loro rivali da ogni carica, dato che i Ribera avevano sangue ebraico nelle vene. La designazione del Siliceo introdusse un nuovo elemento di scontro: il Siliceo era di natali umilissimi e le famiglie aristocratiche di Toledo erano riuscite a procurarsi i migliori benefici e avendo a capo il decano Pedro de Castilla, che aveva nelle vene sangue reale e sangue ebraico, questi aristocratici provarono amarezza nella designazione di una persona che apparteneva a un rango ben al di sotto del loro. I natali del Siliceo erano sì umili, però egli poteva vantarsi di una cosa che mancava a molti: la limpieza de sangre. L’urto prevedibile tra il Siliceo e Pedro de Castilla avvenne quando fu nominato canonico un certo Francisco Jiménez, figlio di un converso. Nel 1547, il Siliceo fece approvare una norma statuaria sulla limpieza de sangre: per ottenere in futuro qualsiasi carica era necessario essere di sangue puro. Questa norma costituì una sorta di modello che gli organismi laici ed ecclesiastici della Spagna imitarono. Nel 1556 il Siliceo chiese ed ottenne che quelle norma statuaria ricevesse la sanzione del sovrano: in questo modo, l’ortodossia religiosa e la purezza di sangue si congiunsero ufficialmente e il sigillo regio convalidò un movimento che ormai non poteva più essere controllato. Lo stesso Siliceo era stato vittima di un sistema sociale che alla nascita attribuiva un rango e un valore che gli altri paesi europei non conoscevano. La parola d’ordine era onore, con cui si intendeva qualcosa di concreto, distinto dalla stessa persona; l’onore era un attributo proprio della nobiltà, era esclusivo di chi era di alti natali. Il principio della limpieza de sangre fornì a uomini come il Siliceo un modo per compensare il rango basso e una norma che poteva essere usata per sfidare il codice dei nobili. Un albero genealogico incontaminato divenne l’equivalente di quello ce significavano i nobili antenati per i ceti superiori. Quella purezza di natali costituiva il fattore discriminante che determinava la condizione, ossia lo status di persona tra i suoi eguali. Lo spagnolo con limpieza de sangre era pari a chiunque, qualsiasi fosse il suo rango. Anzi, proprio la limpieza contribuì a dare il senso di eguaglianza che rappresenta una delle caratteristiche più paradossali di una società così fortemente gerarchizzata come quella spagnola del Cinquecento. La crescente sollecitudine per la purezza razziale pose l’aristocrazia in una situazione imbarazzante. Esistevano, di fatto, i famosi alberi genealogici noti come libros verdes che stavano a dimostrare gli inquinamenti vari nel mondo. Il sentimento popolare era forte al punto che nessuno poté frenare la mania di un accertamento scrupoloso della limpieza. Bastava la testimonianza di qualche maligno per rovinare la reputazione di una famiglia, di conseguenza l’effetto causato sulle norme della limpieza fu per molti aspetti paragonabile a quello dell’azione dell’Inquisizione: si creò un senso generale di insicurezza. A metà del Cinquecento, in Spagna, l’ortodossia non era solo la professione di una fede rigorosamente ortodossa, bensì anche il possesso di un albero genealogico privo di macchie e/o sospetto. La mania ossessiva generata dalla limpieza de sangre dimostrò che esisteva una correlazione tra l’eresia e l’ascendenza da sangue non completamente cristiano. La Spagna della Controriforma La persecuzione degli alumbrados e degli erasmiani aveva messo la Spagna in una situazione particolare. Tra il 1556 e il 1563 la Spagna si chiuse in sé stessa, come stato rappresentante la Controriforma. Quando Ginevra divenne il centro di una nuova e più dogmatica forma di protestantesimo, le residue speranze di riconciliazione tra Roma e i protestanti caddero del tutto. È in questo clima che tra il 1557 e il 1558 si sono scoperti i gruppi protestanti tra Siviglia e Valladolid, i quali presentavano caratteristiche 57 analoghe a quelle dei precedenti gruppi di alumbrados. La violenza della reazione dell’Inquisizione può spiegare la preoccupazione che il tribunale aveva di migliorare i suoi rapporti con la Corona, ma mostrò anche che esisteva un vero e proprio allarmismo motivato dal fatto che l’eresia faceva notevoli progressi. Non solo bisognava liquidare i vari gruppi eretici, ma occorreva moltiplicare gli sforzi per proteggere la Spagna dal contagio esterno. Il 7 settembre 1558, l’infanta Juana, sorella dell’imperatore Filippo II (e sua reggente), emanò un’ordinanza con la quale si vietava l’importazione di libri stranieri e si ordinava che tutti i libr i stampati in Spagna dovessero in futuro essere pubblicati con il permesso del Consiglio di Castiglia. Questa NON era la prima misura censoria adottata in Spagna.  Nel 1545, l’Inquisizione aveva compilato il primo Indice Hispanico, cui ne seguì un altro nel 1551. L’inquisitore generale Valdés fece pubblicare, nel 1559, un nuovo Indice Hispanico, che si rivelò per molti di una severità estrema. Vi si bandiva l’Enchiridion di Erasmo e molti altri scritti di natura religiosa. Inoltre, l’Inquisizione attuò le sue misure con un rigore senza precedenti. Le misure adottate tra il 1558 e il 1559. I contatti con le Fiandre continuarono ad essere stretti, e non ci fu nemmeno la rottura dei rapporti con l’Italia. Dal quindicesimo secolo in poi, l’Italia era stata per la Spagna una fonte continua di stimoli intellettual i ed artistici, e la Spagna, dal canto suo, aveva fatto da tramite degli apporti culturali italiani e li aveva trasmessi alla Francia e ai Paesi del Nord. Tuttavia, le disposizioni del 1558 e 1559 non poterono fare a meno di far chiudere la Spagna l’accesso alle idee del di fuori. La Spagna continuò ad essere parte della comunità internazionale dell’Europa controriformista, ma l’Europa stessa era divisa al suo interno ed entrambe le parti si stavano barricando per opporsi alle convinzioni religiose della parte avversa. Mentre la Spagna si attrezzava per opporre un filtro all’ingresso indiscriminato di idee straniere, mise anche a fuoco il suo peculiare rapporto con chi stava a capo dell’Europa controriformista. Durante il regno di Carlo V, i rapporti tra i papi e l’imperatore erano stati tesi e cattivi. Nel corso del pontificato di papa Paolo IV, la Spagna e il papa si fecero addirittura la guerra. Nel 1559, alla morte di Paolo IV, Filippo II fece uso della sua influenza sul conclave perché fosse eletto un papa più trattabile, ma il candidato che divenne papa, ovvero papa Pio IV, si trovò implicato in un litigio con la Spagna. La controversia sorse a proposito della questione che ebbe come protagonista il cardinale Bartolomé de Carranza, che veniva da una famiglia di hidalgos poveri. Era nato in Navarra nel 1503, aveva studiato ad Alcalá e poi era entrato presso i domenicani; studiò al collegio di San Gregorio a Valladolid, divenne poi professore di teologia e nel 1545 fu inviato al Concilio di Trento, dove si guadagnò una grande reputazione come teologo. Nel 1554 accompagnò Filippo II in Inghilterra e divenne il consigliere religioso di Maria Tudor, trasformandosi in un inflessibile persecutore dei protestanti inglesi. Nel 1559 fece ritorno nelle Fiandre e prese a sorvegliare il traffico clandestino di scritti eretici che si dirigevano in Spagna. Venne designato arcivescovo di Toledo al posto del defunto Siliceo, però venne improvvisamente arrestato dagli ufficiali dell’Inquisizione: il Carranza rimase in carcere fino all’aprile del 1576, ma morì pochi giorni dopo essere stato messo in libertà. Non è mai stato chiarito il mistero che circonda l’arresto del Carranza, ma quel che è certo è che si era fatto molti nemici influenti. In particolar modo, si era inimicato un suo confratello domenicano, che era poi diventato il consigliere più fidato di Filippo II, ovvero il teologo Melchor Cano. Come conclusione si può dire che gli odi personali e gli odi di aristocratici ebbero importanza nel complotto contro il Carranza. Il re comprese che l’Inquisizione era uno strumento attraverso il quale avrebbe potuto ampliare il controllo sui suoi domini, ma anche per preservarli dall’eresia. Fu allora propenso a identificare il proprio potere con quello dell’Inquisizione e si lasciò trascinare da essa nella formulazione di una pretesa senza precedenti: sarebbe spettato all’Inquisizione e non a Roma il giudizio dei vescovi. Il conflitto tra Filippo II e la Curia romana contribuì solo ad indebolire le forze della Controriforma in un momento in cui sarebbe stato invece necessario disporre di tutte le possibili energie. Roma aveva bisogno dell’aiuto militare spagnolo, mentre Filippo aveva bisogno delle entrate ecclesiastiche e del prestigio che solo il papa gli poteva dare. Tra il re e il papa si ebbe allora una sorta di guerra non dichiarata, durante la quale Filippo fece il possibile per ampliare il proprio controllo sulla chiesa spagnola. Così, l’inquisizione fu ridotta ad essere una branca dello Stato. Nel 1565 la Corona acconsentì finalmente a pubblicare in Spagna i decreti del Consiglio Tridentino, ma con la clausola che le garantiva la continuazione del suo diritto ad intromettersi nella giurisdizione ecclesiastica e 58 nelle nomine dei vescovi. Filippo II aveva il terrore dell’eresia: si fidava solo di sé stesso e dei suoi agenti scelti per estirparne le radici dai suoi Stati. Si propose di fare della monarchia spagnola una fortezza inespugnabile, contro le cui mura si sarebbero infrante le eresie che stavano dilagando per l’Europa. La crisi del secondo Cinquecento La pace di Cateau-Cambrésis del 1559 poneva fine alla guerra tra Francia e Spagna e non fu certo una pace giunta troppo presto. Filippo non poteva ignorare il dilagare dell’eresia in Francia ed esisteva sempre la minaccia turca , che era fonte di gravi preoccupazioni. Filippo deliberò l’ordine di annullare l’ordine dell’apertura di trattative con i turchi per stipulare con loro una tregua di dieci o dodici anni e decise di intraprendere la guerra sulle acque del Mediterraneo con tutte le risorse disponibili: la sua decisione era insensata. Tra il 1550 e il 1560, le nubi della depressione si erano andate addensando sui traffici sivigliani con il Nuovo Mondo e così scarseggiò il denaro e la fiducia cadde in basso. Nel 1558, un dazio particolarmente alto era stato posto sulle esportazioni di lana castigliana. A questo dazio fece seguito il provvedimento che innalzava barriere doganali lungo la frontiera con il Portogallo, l’istituzione del monopolio regio sui giochi di carte, l’annessione delle salgemma al demanio regio, ecc. che ampliò di molto il gettito delle imposte non controllate dalle Cortes. Le entrate della Corona aumentarono ancora di più nel 1561, quando il re persuase le Cortes castigliane ad accordare un considerevole incremento dell’encabezamiento dietro promessa di non imporre nuove tasse senza il loro consenso. L’aumento della fiscalità era quanto mai necessario se la Spagna voleva allestire una seria campagna di guerra nel Mediterraneo. La Spagna aveva urgente bisogno di aumentare le proprie navi e proprio l’incremento delle entrate della Corona rese possibile impostare un grande programma di costruzioni navali che colmassero i vuoti della flotta spagnola dalle perdite degli anni precedenti. Intorno al 1560 la Spagna stava faticosamente e lentamente formandosi una propria forza navale nel Mediterraneo, ma l’Islam non era l’unico nemico. La diffusione del calvinismo e l’inizio delle guerre di religione in Francia fecero apparire per la prima volta sulla frontiera settentrionale del paese il fantasma della potenza protestante: il peggio doveva ancora venire. Nei Paesi Bassi spagnoli si stava diffondendo il malcontento; Filippo era stato indotto dalla nobiltà a cacciare il cardinale Granvelle e nell’agosto del 1566 delle folle di calvinisti si scatenarono e saccheggiarono le chiese. Le gravi notizie che arrivarono da Bruxelles posero il sovrano di fronte a una serie di decisioni cruciali. L’adozione di misure militari esigeva denaro, però la situazione finanziaria in Spagna era migliorata: aveva dato sintomi di ripresa quando l’argento aveva ripreso a scorrere nelle vene del sistema economico spagnolo. Il re decise di adottare le maniere forti e optò per la repressione della rivolta. Al Duca d’Alba venne ordinato di portarsi nei Paesi Bassi con un esercito al fine preciso di soffocare la rivolta. Si decise che la cosa migliore da farsi era presentare la guerra nei Paesi Bassi come una spedizione militare contro dei sudditi che si erano ribellati al proprio sovrano. Filippo e i suoi soldati considerarono quella spedizione una sorta di crociata intrapresa da un esercito cattolico contro gente che lo stesso re chiamava “ribelle ed eretica”. Nel 1568 fu chiaro che la lotta si stava ampliando verso il fronte marino, dove i protestanti avevano il loro punto forte, mentre gli spagnoli erano ancora deboli da quel punto di vista. La guerra tra la Spagna e il concerto internazionale dei protestanti fu sostanzialmente combattuta nelle baia di Biscaglia (Vizcaya), nella Manica e nelle acque atlantiche su cui si affacciavano i possedimenti coloniali spagnoli, che quindi non erano più al riparo dagli attacchi. La stessa Spagna era anche esposta alla minaccia dei pirati. Filippo II era estremamente preoccupato nei confronti delle ripercussioni dell’eresia nei confronti della Catalogna. La Catalogna era senza dubbio uno dei punti più deboli della Spagna, sia perché confina con la Francia, sia perché godeva di privilegi che la rendevano difficilmente controllabile dalla Corona. Se l’eresia avesse messo radici in Catalogna, si sarebbe venuta a creare una situazione particolarmente grave perché la Catalogna poteva tramutarsi in qualcosa di simile ai Paesi Bassi, dato che aveva una robusta tradizione indipendentista, le sue leggi, i suoi privilegi e nutriva di una forte avversione nei confronti della Castiglia. Filippo II impartì delle istruzioni precise ai viceré, che dovevano vigilare con estrema attenzione sulla frontiera e nel 1568 la situazione gli sembrò così allarmante da indurlo a decretare nuovi provvedimenti severi. Fu nuovamente vietato ai sudditi nativi dei territori della Corona di Aragona di recarsi all’estero per i loro studi. Nel 1569, poi, i catalani rifiutarono di pagare la nuova imposta chiamata excusado. Quel rifiuto fece pensare precedenti che non avevano mai trovato applicazione. I moriscos inviarono una delegazione a Madrid per ottenere che l’ordinanza in questione fosse sospesa. La richiesta fu appoggiata dal conte di Tendilla. Ci furono tre personagg i in questa faccenda, che ebbero una parte in primo piano: - il cardinale Espinosa, che presiedeva il Consiglio della Castiglia (o Consejo Real)  aveva ogni motivo per essere interessato a un conflitto ipotetico tra gli organi di Governo a Granada; egli diffidava del conte di Tendilla e, inoltre, era riuscito a collocare per qualche tempo le persone di sua fiducia nell’amministrazione di Granada; - il suo accolito Pedro de Deza  capì che qualsiasi disordine a Granada avrebbe screditato il conte di Tendilla - il re in persona, ovvero Filippo II  fu determinato da considerazioni di sicurezza politica e militare: l’esistenza di tanti fuorilegge sulle Alpujarras rendevano Granada particolarmente vulnerabile. Era fondato il timore di un’insurrezione dei moriscos combinata con un attacco dei turchi. Del resto, tre spie dei moriscos, arrestate nel 1565 avevano rivelato l’esistenza di una congiura il cui obiettivo era quello di impadronirsi della costa di Granada qualora l’attacco turco a Malta avesse avuto successo. Granada rischiava di diventare un altro fronte nella guerra contro i turchi e così la reconquista sarebbe andata in fumo. L’insurrezione nelle Alpujarras non poteva capitare in un momento peggiore per Filippo II, anche se il re fu poi più fortunato di quanto si aspettasse. L’Andalusia e la Castiglia erano state scremate di uomini validi destinati a formare i reggimenti del Duca d’Alba e se si volevano soldati freschi, bisognava farli venire dalla Catalogna. Il terreno era inoltre sfavorevole ad una campagna di guerra rapida. Solo nell’autunno del 1570 l’insurrezione poté dirsi soffocata. La rivolta era terminata ma il problema che l’aveva provocata restava tale e quale. Filippo decise di risolverlo in modo logico, ma drastico: Filippo ordinò che i moriscos di Granada fossero dispersi per tutta la Castiglia, anche se molti di loro fecero di tutto per restare in Andalusia. Quel pericolo tanto longevo della presenza moresca a Granada fu finalmente eliminato. La religione militante e la religione trionfante La rivolta di Granada fu soffocata appena in tempo, intatti la flotta turca era tornata ad essere una minaccia nelle acque del Mediterraneo e ci fu un momento in cui la situazione parve così minacciosa che Filippo II ordinò di evacuare le Baleari. La flotta della Lega Santa (costituitasi tra il 1570 e il 1571 tra Spagna, Venezie e Santa Sede) si riunì a Messina nel settembre 1571 agli ordini di don Giovanni d’Austria, reduce dai successi di Granada e si scontrò a Lepanto il 7 ottobre 1571 con la flotta ottomana, che fu sbaragliata. Tutto il Mediterraneo si sentì al sicuro dalla minaccia islamica. La splendida vittoria riportata a Lepanto dalle truppe cristiane nel 1571 fu, agli occhi dei contemporanei quanto di più glorioso fosse mai stato conseguito in una crociata contro l’Islam. Lepanto fu un tema perpetuo di vanto per coloro che avevano partecipato alla battaglia e potevano ostentare le cicatrici delle ferite allora ricevute. La battaglia di Lepanto fu di fatto un trionfo quanto mai ingannevole e il tentativo di sfruttarlo si rivelò infruttuoso. Le ragioni dello strano rovesciamento di atmosfera che si ebbe negli anni successivi sono da ricercare almeno in parte nella stessa vittoria spagnola. Gli spagnoli, infatti, per la prima volta avevano impegnato tutta la loro forza in una lotta per il controllo del Mediterraneo. In realtà, il fatto di essere impegnata nel Mediterraneo fu un vantaggio per la Spagna, dato che i turchi avevano i loro problemi. Così, i due imperi ritrassero le loro proprie forze per impegnarle altrove: i turchi le volsero ad Oriente per combattere la Persia, gli spagnoli rivolsero l’attenzione sul nuovo fronte atlantico. Il pericolo da parte dell’Islam che aveva dominato per tanto tempo la vita della Spagna era finalmente in fase di recessione e così la Spagna si trovò libera di concentrare la propria attenzione sulla minaccia sempre più grave che le veniva dalle potenze protestanti del Nord- Europa. Il paese era ormai preparato spiritualmente al nuovo conflitto. Ogni deviazione religiosa all’alterno era stata vittoriosamente eliminata. Sotto il cardinale Quiroga, che divenne inquisitore generale nel 1573 e nel 1577 subentrò al Carranza come arcivescovo di Toledo, sia la Chiesa che l’Inquisizione di maggior moderazione. Il Quiroga ordinò la liberazione di Luis de León, che era stato arrestato nel 1572 dall’Inquisizione di Valladolid. Fu l’Inquisizione di Quiroga a consentire che in Spagna si diffondesse la teoria copernicana e l’opera di Copernico venne accettata senza condizioni. 61 Intorno al 1580 si respirò in Castiglia un clima di ritrovata fiducia: sembravano finiti gli anni bui della repressione. Nella vita spirituale della Castiglia si ebbe allora un momento di intensità straordinaria e si trattò di un’intensità constatabile a diversi livelli e tale da interessare i più vari settori della realtà spagnola. Comparvero sulla scena anche Ordini nuovi, che aprirono i loro conventi. Furono fondati molti ospedali e ricoveri per i mendicanti e i Fratelli ospitalieri di san Giovanni di Dio furono una nuova congregazione religiosa istituita per dedicarsi esclusivamente alla cura e all’assistenza dei malati. L’intesa attività religiosa del secondo Cinquecento e il formarsi di una robusta coscienza sociale alla vista delle sofferenze dei malati e dei poveri furono in parte una risposta al programma che era stato formulato al Concilio di Trento. Il Quiroga, quando era vescovo di Cuenca, mise a punto delle iniziative per promuovere opere di carità e progresso nella sua diocesi. Si interessò anche alla riforma del suo clero diocesano e convocò nel 1582 il ventesimo sinodo toledano, il cui obiettivo doveva essere la promozione di un movimento per la riforma del clero e del laicato. Il Concilio di Trento aveva dato una spinta possente alle energie cattoliche. Le propensioni neo-platoniche dei movimenti degli alumbrados e dell’erasmismo e la loro insistenza nel dar valore alla pietà interiore e alla comunione diretta dell’anima con Dio avevano toccato nel profondo l’animo di chi viveva nei monasteri e nei conventi. In queste istituzioni, il fervore religioso trovò espressione in un’ondata di misticismo che rimane una delle glorie della Castiglia cinquecentesca. La prima reazione dell’Inquisizione fu, nel 1559, quella di iscrivere nell’Indice una serie di scritti mistici (Indice Hispanico). Convintisi che un movimento mistico che poteva essere controllato nei monasteri non costitutiva poi un pericolo così grande, gli inquisitori rovesciarono la loro politica e si adattarono a tollerare i mistici. La tolleranza creò scritti ascetici e mistici. Il clima fu propizio anche perché il movimento riformistico era all’opera ovunque e perché la crociata nazionale contro l’Islam e contro il protestantesimo stava raggiungendo il massimo d’intensità. I mistici trovarono nella pietà personale un rifugio in cui isolarsi dai disordini del mondo; altri invece preferirono affrontare direttamente i problemi del tempo. Il più assillante dei problemi era il rapporto tra la religione e la cultura umanistica del Rinascimento. L’umanesimo rinascimentale aveva trovato la sua espressione filosofica nel neoplatonismo; il fascino neo-platonico venne dimostrato in particolar modo nella voga che ebbe il romanzo pastorale con la sua tipica visione idealizzata di una sorta di paradiso terrestre: una visione ardua da conciliare con la dottrina cristiana del peccato originale. Questa incompatibilità fondamentale implicava che prima o poi si sarebbe manifestata una reazione alle idealizzazioni proprie della cultura rinascimentale e al suo accennato antropocentrismo. L’amalgama degli ideali del Rinascimento e di quelli della Controriforma fu l’opera cui attesero tanti esponenti della cultura spagnola negli ultimi decenni del Cinquecento. Il primo settore in cui il tentativo di fusione fu quello della filosofia. In campo letterario ci fu un graduale passaggio al realismo, un realismo che guardava ad un mondo corrotto dall’inclinazione al peccato dell’uomo, la cui redenzione poteva essere compiuta solo con la pratica delle opere buone e con l’abbandono assoluto alla grazia salvifica di Dio. La letteratura, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento si caratterizzò per una consapevolezza nuova dell’intima malvagità umana, ma pose anche attenzione alla psicologia. Occorreva, però, un ulteriore elemento per completare il trapasso al realismo: era necessario porre i problemi morali e materiali del singolo sullo sfondo della situazione sociale. Il conflitto religioso a raggio internazionale della seconda metà del Cinquecento fu un incentivo per la sensibilità religiosa e intellettuale degli spagnoli. Lo scotto da pagare fu assai alto, perché singoli pensatori dovettero passare per le strettoie del sospetto e della persecuzione e anche perché nuove catene erano state poste alla libera espressione delle idee. L’atmosfera che si respirava in Spagna nell’ultimo scorcio del Cinquecento era soffocante: i vari Ordini religiosi manifestavano invidie e gelosie che li contrapposero gli uni agli altri. I gesuiti, soprattutto, furono vittima di attacchi durissimi dal clero diocesano e da parte degli altri Ordini, che li sospettarono di nutrire fermenti illuministici e tendenze eretiche. Anche Filippo II, dal canto suo, diffidava di loro. Ci furono anche aspri litigi all’interno dello stesso Ordine religioso. Queste contese rispecchiavano la lotta permanente tra Rinascimento e anti-Rinascimento, vale a dire tra quanti accettavano certi elementi della tradizione umanistica e quanti non ne volevano affatto sapere. In tale lotta si sprecarono tantissime energie. La Spagna, a metà del Cinquecento, non solo aveva combattuto i mori e i protestanti, ma aveva anche tentato di risolvere le tensioni interne create dalla presenza sul suo ruolo di moriscos e di conversos. Nel frattempo, aveva dovuto cercare di stabilire i propri rapporti con un’Europa da cui non si sentiva attratta e respinta. 62 Capitolo settimo: “Un solo re, un solo impero, e una sola spada” Il re e la corte Filippo II era un sovrano che scorgeva nell’unità sotto la sua guida personale l’unica speranza di salvezza in un mondo sconvolto dalle guerre e agitato dall’eresia. Questa sua convinzione scaturiva dal fatto che Filippo II pensava che gli fosse stata affidata una missione speciale da Dio, di conseguenza egli aveva un duplice compito: doveva agire per la gloria di Dio e per il bene dei suoi sudditi, di cui era l’umile servitore. Il re doveva “lavorare” per il popolo che era stato affidato alle sue cure: lo doveva proteggere dai nemici esterni e amministrare la giustizia. Carlo V aveva insegnato al figlio il senso del dovere: Filippo doveva sempre tenere Dio davanti ai suoi occhi e ascoltare i suggerimenti di buoni consiglieri. Inoltre, non doveva mai andare in collera, non doveva mai offendere l’Inquisizione e doveva far in modo che la giustizia venisse amministrata senza corruzione. Filippo seguì alla lettera le istruzioni paterne e cercò in qualche modo di imitare quanto fatto dal padre, ma questo sforzo di imitazione lo rese conscio dei suoi difetti. Filippo era un debole, per cui cercò sempre di evitare le personalità forti, di cui invidiava la risolutezza e temeva la forza; preferiva i consigli da parte di personalità più sbiadite. Egli si sentiva a suo agio solo tra le carte dello Stato, che leggeva, annotava, sottolineava e correggeva. Accanto alle esitazioni e al comportamento incerto, dobbiamo tuttavia porre il suo ferreo senso del dovere verso Dio e verso i sudditi, ma anche l’aspirazione appassionata di essere all’altezza degli alti obblighi morali inerenti ad una concezione dell’ufficio regale. I confessori del re e i teologi di corte ebbero un ruolo ben preciso: dovevano consigliare il sovrano su tutte le questioni che presentavano un problema di coscienza e il re aveva un certo obbligo morale di seguire il loro consiglio. Filippo, nel 1566 consultò i teologi riguardo la legittimità della sua politica nei Paesi Bassi e nel 1580 convocò una Junta, composta da frate Diego de Chaves, frate Pedro de Cascales e dal cappellano reale, Arias Montano, affinché stabilisse se l’uso della forza per acquisire la Corona portoghese poteva essere giustificato. Il re era moralmente tenuto a preservare la giustizia e a raddrizzare il male. Filippo II prese con tutta serietà questo suo dovere; egli reputò vincolante il tenere una condotta scrupolosa nei riguardi delle libertà particolari dei suoi sudditi e dei fueros, ma anche qui, in casi di confitto tra due giurisdizioni, prevaleva sempre quella più alta. I fueros, quindi, non potevano essere addotti a giustificazione di disordini. Il re lasciava che la giustizia facesse il suo corso. L’esempio più significativo sulla subordinazione scrupolosa che Filippo era solito praticare lo si ha nell’affare terribile e grottesco, ovvero l’arresto di Don Carlos che portò poi alla sua morte. Don Carlos, figlio di Filippo II avuto dal primo matrimonio, era cresciuto mostrando un’indole senza freni, che lo portava a soddisfare tutte le passioni. Era quindi considerato inadatto a prendere in mano il governo di un impero; inoltre, aveva concepito un odio profondo nei confronti del padre e un’ambizione smisurata. Questa ambizione lo portò ad avere contatti e intese con i ribelli olandesi. La notte del 18 gennaio 1568, una processione formata dal re e dal alcuni membri del Consiglio Reale, scese alla camera da letto del principe ventitreenne e dopo che Filippo notificò al figlio che d’ora in poi l’avrebbe trattato come un suddito e non più come un figlio, la camera venne sbarrata, furono poste guardie fuori dalla porta e Don Carlos si trovò nella condizione di prigioniero. Quattro giorni dopo il re scrisse al presidente della chanchillería di Valladolid per informarlo dell’arresto del principe. L’azione del re venne aspramente criticata dai suoi sudditi, quindi Filippo scrisse ai grandi di Spagna, ma questo non impedì agli Stati della Corona di Aragona di inviare delegazioni a Madrid per fare chiarezza sull’accaduto. Il re, in quell’occasione, si chiuse in un silenzio gelido, ma il destino dell’erede spagnolo interessava tutti e quindi iniziarono a circolare parecchie voci sia in Spagna che fuori. Quando il povero Don Carlos morì dopo essersi rovinato la sua precaria salute con digiuni e purganti, circolò la voce che il re aveva avvelenato il figlio. La morte di Don Carlos lasciò in Filippo un grandissimo senso di vuoto ; inoltre, nell’autunno 1568, morì la terza e amatissima moglie di Filippo II, che gli aveva lasciato solo due figlie femmine in eredità. Nel 1570 il re si sposò per la quarta volta e dei cinque figli avuti da Anna d’Austria, solo il futuro Filippo III riuscì a superare gli otto anni d’età. Filippo vigilò sul mondo come un sovrano che conosceva alla perfezione il suo mestiere. Fece in modo di avere un po’ di vita privata e a tal fine si fece costruire l’Escorial, dove amava ritirarsi sfuggendo alla vista della gente, per dedicare qualche ora libera ai suoi libri e ai suoi quadri. Era un grande conoscitore d’arte e 63 65 stati sostenitori entusiasti dei ribelli. Il Duca di Infantado, capo dei Mendoza era accorso in aiuto dell’imperatore. La Castiglia dopo la rivolta dei comuneros si trovò divisa tra:  coloro che favorivano una Spagna “aperta”  Mendoza  coloro che erano per un “chiuso” patriottismo castigliano, espresso dai comuneros  Duca d’Alba Nei primi anni del regno di Filippo II, la fazione dei Mendoza fu capeggiata a corte da Ruy Gómez de Silva, principe di Eboli, favorito e confidente del re; egli era il rampollo di una famiglia portoghese e si era trasferito in Spagna con il nonno materno, che era mayordomo mayor dell’imperatrice Isabella, per cui era cresciuto a corte insieme a Filippo. Fu nominato consigliere di Stato quando Filippo salì al trono e nel 1559 sposò Doña Ana de Mendoza. L’influenza che il Gómez aveva sul re fece di lui un personaggio influente anche a corte e divenne anche il capo naturale di tutti coloro che provavano un’antipatia nei confronti del Duca d’Alba. Tra questi ultimi c’era il segretario Antonio Pérez, che strinse un’alleanza con il principe d’Eboli e che poi alla sua morte, nel 1573, gli successe come capo della fazione. Le fazioni capeggiate dal principe di Eboli e dal duca d’Alba erano in conflitto per il potere, ma soprattutto per acquisire influenza sul re e avere il controllo dell’assegnazione di posti e favori. Essi, inoltre, rappresentavano per tradizione o per complesso di circostanze diversi punti di vista che trovarono la via per manifestarsi in modo netto nelle discussioni riguardo i Paesi Bassi: - il Duca d’Alba e i suoi amici sostenevano che bisognava soffocare la ribellione con ogni energia; - la fazione del principe di Eboli voleva che ci fosse una certa comprensione nei confronti dei ribelli e voleva che si raggiungesse un accordo con loro per mezzo di trattative. La scelta del Duca d’Alba a capo delle forze che dovevano attuare la repressione portò i suoi seguaci presenti a corte ad ergersi come strenui fautori della politica dura nei Paesi Bassi. Molti anni dopo, durante una discussione che si tenne al Consiglio di Stato su certe difficoltà insorte nell’Aragona, il duca disse che, se gli fossero stati dati 3000/4000 uomini avrebbe spazzato via tutte le libertà aragonesi. Allora, il marchese di Los Vélez – che faceva parte del gruppo di Eboli – replicò dicendo che non era questo il consiglio da dare al re se si voleva che conservasse i suoi domini: il modo per preservarli era quello di rispettare il loro fueros e di lasciare intatte le condizioni in quei territori. Questo fa intendere che le due fazioni perseguivano due soluzioni opposte al problema centrale della monarchia: - la fazione capeggiata dal Duca d’Alba voleva una soluzione ispirata all’esclusivismo castigliano che comportava l’abolizione delle libertà provinciali; - la fazione capeggiata dal principe di Eboli appoggiava una soluzione federalista di tipo aragonese. Inviando il Duca d’Alba nei Paesi Bassi, il re si era dichiarato a favore del punto di vista castigliano; nel 1573, dopo sette anni di terrore, il Duca d’Alba aveva fallito la sua missione e fu sollevato dall’incarico. La disgrazia in cui era caduto il Duca, lasciò via libera alla dazione dell’Eboli, che però aveva vissuto una specie di sbandamento. Il presidente del Consiglio della Castiglia, il cardinale Espinosa – schierato con il principe di Eboli – aveva perso il favore del re e morì poco dopo, nel 1572; inoltre, nel 1573 morì lo stesso Eboli, quindi il capo effettivo della fazione divenne Antonio Pérez, che seppe procurarsi un alleato prezioso nel vescovo Quiroga. La fazione aveva pur sempre bisogno di contare su qualche importante personaggio dell’aristocrazia, che venne trovato nel 1575: si trattava del terzo marchese di Los Vélez, il quale venne poi nominato membro del Consiglio di Stato. Filippo II finì per adottare la politica elaborata da Furió Ceriol: i “rimedi” da egli proposti per sedare la ribellione nei Paesi Bassi consistevano in una serie di misure finalizzate alla pacificazione e alla riconciliazione. Tra queste vi era lo scioglimento del Consiglio dei Torbidi e l’abbandono della tassa del 10% sulle vendite, ma c’erano anche proposte di natura costituzionale: il re doveva garantire la preservazione delle leggi e delle libertà tradizionali dei Paesi Bassi e doveva scegliere abitanti di quel dominio per coprire cariche “nelle Indie, in Italia e in Sicilia” e nelle varie province dell’impero. L’uomo scelto da Filippo II per attuare tale politica di pacificazione fu Luis de Requesens, governatore di Milano. Nell’autunno 1573 si recò nei Paesi Bassi accompagnato da Furió Ceriol. Purtroppo per lui e per la fazione eboliana, una soluzione all’aragonese era inattuabile nei Paesi Bass i. Una politica di pacificazione e riconciliazione avrebbe attecchito 66 solo se fosse stato possibile tenere sotto controllo l’esercito, ma questo fu impossibile dato che proprio nei primi anni Settanta Filippo II si trovò in gravi difficoltà finanziarie. Nel marzo 1574 il re concesse un’amnistia generale ai ribelli, e il mese successivo i soldati di stanza nei Paesi Bassi si ammutinarono e marciarono su Anversa: l’incidente causò un allarmismo tale che la proclamazione di amnistia restò senza eco. Il 1° settembre 1575 avvenne la seconda bancarotta del regno di Filippo, che sospese i pagamenti ai banchieri. Restarono temporaneamente paralizzate anche le fiere castigliane e due banche sivigliane fallirono all’inizio del 1576. L’esercito spagnolo che operava nei Paesi Bassi era sempre più inquieto. Il Requesens morì il 5 marzo 1576 e così scomparse l’unico personaggio spagnolo con ancora un certo grado di autorità. I soldati si ritrovarono senza guida e poiché passavano i mesi ma non arrivava denaro, all’inizio di novembre saccheggiarono Anversa. Il “furore spagnolo” di Anversa poneva fine a ogni speranza di conciliazione, anche perché scoppio il giorno dopo l’arrivo di un nuovo pacificatore, don Giovanni D’Austria (fratellastro di Filippo II) nei Paesi Bassi. Fu Furió Ceriol che suggerì questa azione al re: Giovanni accetto la carica e pose delle condizioni che erano conformi alle idee della fazione eboliana. Volle avere mano libera nel governo dei Paesi bassi e volle la licenza di rispettare le loro leggi e le loro libertà. Insistette perché tutta la sua corrispondenza passasse per le mani di Antonio Pérez e non andasse nelle mani del segretario per il Norte, che era cliente del Duca d’Alba, inoltre, volle l’autorizzazione per invadere l’Inghilterra, decisione che vide l’opposizione dello stesso Duca d’Alba. Si verificarono delle circostanze che resero impossibile la realizzazione di quanto si era prefissato. Il tempo della conciliazione era passato, anche se il re fece alcune concessioni con l’Editto Perpetuo, firmato da Don Giovanni d’Austria il 12 febbraio 1577. Don Giovanni sentì profondamente umilianti le concessioni offerte ai ribelli. Antonio Pérez aveva inviato una nota al re in cui manifestava la vivissima preoccupazione di Don Giovanni. Il re non era pronto a invadere l’Inghilterra, quindi il fratellastro dovette rinunciare alla sua ambizione di conquistare l’Inghilterra e sposare Maria Stuarda, regina di Scozia. Don Giovanni si convinse che una politica di conciliazione non aveva prospettiva di riuscita, per cui cercò di persuadere il re per riprendere le ostilità nei confronti dei ribelli. Verso la fine del luglio 1577 passò all’azione e occupò il castello di Namur e da lì lanciò un proclama appassionato ai tercios invitati a riportarsi nei Paesi Bassi e fare la guerra contro i ribelli. Nel frattempo, aveva inviato a Madrid il suo segretario Escobedo per ottenere denaro dal re. Escobedo era diventato segretario di Don Giovanni dietro al consiglio di Antonio Pérez. Il suo arrivo a Madrid risultò però sgradito al Pérez, perché le idee di Don Giovanni ormai divergevano dalle sue. L’Escobedo sapeva fin troppo e arrivò a sapere cose che non doveva sapere, il Pérez era un uomo avido di denaro e vendeva segreti di Stato. Pare anche che l’Escobedo si fosse imbattuto in alcune prove imbarazzanti della stretta alleanza conclusa tra Antonio Pérez e la vedova principessa di Eboli (Doña Ana de Mendoza), che nel 1576 era tornata a corte dopo una serie di intrighi politici (pare che ella e il Pérez si fossero messi a intavolare trattative segrete con i ribelli olandesi). Il fatto è che l’Escobedo venne a sapere abbastanza da poter rovinare la reputazione del Pérez, e questi comprese che bisognava eliminarlo. La speranza più grande di Antonio Pérez era il re: Filippo era già diffidente nei confronti del fratellastro e tale diffidenza si era aggravata a causa della recente condotta tenuta nei Paesi Bassi. Antonio Pérez riuscì a persuadere il re che l’Escobedo era il cattivo genio di Don Giovanni e una volta convinto il re, al Pérez restava solo il compito di portare a termine l’opera: cercò di avvelenare l’Escobedo, senza riuscirci, per cui reclutò tre assassini che trucidarono la vittima per strada la notte del 31 marzo 1578. Quell’assassinio doveva essere una vittoria per Antonio Pérez, ma si rivelò l’inizio delle sue disgrazie: gli amici dell’Escobedo non erano disposti a lasciar cadere la faccenda nell’oblio e trovarono un alleato in Mateo Vázquez, che nel 1573 era stato nominato segretario del re. Egli ben presto, intuì come stavano le cose e iniziò a fare pressione sul re affinché facesse qualcosa. Nei mesi successivi Filippo fu tormentato dall’indecisione, perché da una parte era consapevole di aver avuto una parte nell’assassinio dell’Escobedo, dall’altra iniziò a pensare di essere stato ingannato dal Pérez, che lo aveva obbligato ad ordinare la morte di un innocente. Il 4 agosto 1578 morì, nella battaglia di Alcázarquivir (in Africa), il giovane re del Portogallo, Sebastiano e gli successe il vecchio zio, il cardinal Enrico. Tuttavia, alla sua morte si sarebbe posto il problema della successione e i pretendenti erano tre: Filippo II , la duchessa di Braganza e don Antonio (priore di Crato), 67 Nel 1583, Filippo istituì una nuova Junta speciale, che doveva assisterlo nelle cure del governo: fu l’organo che venne denominato Junta de Noche e in essa entrarono Cristóbal de Moura, il Conte di Chinchón, il conte di Barajas, Mateo Vázquez e Juan de Idiáquez. Fece scalpore l’assenza del Granvelle, che morì poi il 21 settembre 1586. Il Granvelle comprese che l’annessione del Portogallo aveva creato sì nuove difficoltà alla Spagna, ma le aveva anche dato nuove possibilità: la Spagna aveva acquisito una nuova forza navale. L’annessione aveva poi dato alla Spagna una lunga sponda sull’Atlantico. Una volta assicuratisi questi meravigliosi vantaggi, sarebbe stata una follia se Filippo II li avesse sciupati. E così fu. Prima di morire, nel 1585, il Granvelle insistette affinché Filippo II trasferisse la sede del governo a Lisbona. Da Lisbona Filippo avrebbe potuto tenere sotto controllo effettivo quell’ampio conflitto che stava coinvolgendo l’Europa occidentale e la distesa dell’Atlantico; allo stesso modo avrebbe potuto dirigere le operazioni contro l’Inghilterra e l’intervento in Francia. Invece, il re fece di testa sua e decise di restare nel cuore della Castiglia. Fu ormai chiaro che la Spagna aveva perduto la battaglia per l’Atlantico. La rivolta aragonese (1591-1592) Quando il Granvelle raccomandava a Filippo di trasferire la corte da Madrid a Lisbona, non era spinto solo da considerazioni di natura strategica. Le esperienze fatte a Madrid non avevano fatto che confermare in lui la convinzione che il ruolo dei castigliani nel funzionamento della monarchia era eccessivo e causava inquietudini. I castigliani sarebbero stati capaci di mandare in pezzi tutto quello che l’imperatore aveva costruito. La sfiducia che il Granvelle aveva per i castigliani era un sentimento condiviso in tutti i domini della monarchia, ma l’atteggiamento di diffidenza maggiore proveniva dai ceti dell’Aragona. Proprio l’Aragona, negli anni Ottanta e Novanta offriva il caso esemplare di quello che era il problema fondamentale della monarchia spagnola: il rapporto tra un sovrano assente e lontano sempre più identificato con la Castiglia e dei sudditi attaccatissimi alle loro libertà tradizionali. Verso il 1580, il regno di Aragona era diventato uno dei domini più ingovernabili sotto Filippo II. La classe del governo aragonese era barricata dentro i molti fueros del regno, perché scorgeva in essi la garanzia migliore per restare immune a ogni interferenza regia e castigliana. Alla fine del Cinquecento, le tensioni sociali del regno si stavano acutizzando. L’Aragona era sfuggita alla guerra civile ma poi aveva avuto un’insoddisfacente sistemazione della questione contadina sul modello della Sentencia de Guadalupe. I rapporti tra i signori e i contadini videro un deterioramento e in parte gli attriti furono causati dalla presenza di una popolazione di moriscos. La protezione feudale dei moriscos divenne un motivo ulteriore di scontento per la popolazione contadina. I nobili aragonesi indipendenti potevano trattare i loro dipendenti come andava loro a genio senza dover temere interferenze del sovrano e nel 1585, le Cortes di Monzón accrebbero i loro già grandi poteri. I vassalli potevano unirsi per difendersi dai loro signori ma ogni speranza di miglioramento duraturo delle loro condizioni stava solo nel ricorso al re. Essi fecero dunque dei grandi sforzi lungo il secolo per formare delle corporazioni. Nel 1585, a Monzón, Filippo pose fine ad una contesa che durava da novantacinque anni consentendo che i vassalli della baronia di Monclús formassero una corporazione. Il problema veramente grave era quello che si presentava nella contea di Ribagorza, il grande feudo dell’Aragona: sotto il profilo strategico era quanto mai auspicabile che quel territorio ricevesse uno statuto della Corona entrando a far parte del dominio diretto del re. D’altra parte, il detentore del feudo, il duca di Villahermosa, era tanto esasperato dalla disobbedienza dei suoi vassalli che avrebbe gradito parecchio un accomodamento con la Corona. Il re non era disposto a versare grosse somme per compensare il duca; inoltre la sistemazione della vicenda venne dilazionata dal conte di Chinchón. La sua azione era motivata da una lite tra famiglie che aveva avuto circostanze singolari e terribili. Nel 1571, il conte di Ribagorza aveva condannato a morte la moglie dietro l’accusa di adulterio, ma la vittima di quest’assassinio altro altri non era che la nipote del Chinchón. Il conte di Ribagorza venne catturato e messo a morte per ordine del re nella pubblica piazza di Torrejón de Velasco. Da quel momento, il Chinchón si era inimicato la famiglia dei Villahermosa. Il ministro principale del re per gli affari aragonesi, quindi, si trovava coinvolto in larga misura in una contesa con il più potente nobile dell’Aragona: questo presentava implicazioni esplosive. Il re capì che l’unico modo 70 per riportare l’Aragona all’ordine era quello di disattendere la tradizione e di nominare un viceré imparziale che non fosse di natali aragonesi nel 1588 inviò in Aragona il marchese di Almenara perché ottenesse un giudizio sulla legalità del suo atto dalla corte del Justicia aragonese, ma la classe dirigente aragonese nel suo complesso fu profondamente turbata davanti a quello che le sembrava l’ennesimo tentativo castigliano per svuotare l’efficacia dei fueros aragonesi. Il sentimento anti-castigliano era al colmo dell’esasperazione quando nella primavera 1590 giunse la notizia che l’Almenara stava per tornare in Aragona con poteri maggiori. In quel momento comparve in Aragona un personaggio che nessuno si sarebbe aspettato di vedere: Antonio Pérez, che la notte del 19 aprile 1590 era riuscito a fuggire dal carcere madrileno in cui era recluso. Riuscì a mettersi in salvo oltre il confine aragonese e si avvalse del tradizionale privilegio della manifestación: chiunque fosse minacciato di cattura da parte di ufficiali regi aveva il diritto di essere protetto dal Justicia di Aragona. La fuga di Antonio Pérez fu un colpo terribile per Filippo II: Pérez era perfettamente informato di tutte le possibilità che gli si aprivano finché restava sotto la protezione delle leggi di Saragozza. Quando Filippo avanzò la denuncia contro il suo ex-segretario presso il tribunale aragonese Justicia, il Pérez non esitò nel denunciare la complicità del re nell’assassinio dell’Escobedo, di conseguenza il re ritirò la sua denuncia e si avvalse dell’ultima arma che gli era rimasta, vale a dire l’Inquisizione. Se il Pérez cadeva nelle mani degli inquisitori, era perduto. Egli ebbe però modo di avvisare alcuni suoi amici dell’imminente trasferimento del suo caso all’Inquisizione. Il 24 maggio 1591, mentre veniva trasferito furtivamente al carcere dell’Inquisizione, la folla di Saragozza si riversò in strada gridando “Libertà” e “Contra fuero” e così sottrasse il Pérez dai suoi carcerieri e andò poi all’assalto del palazzo dove stava il marchese di Almenara, che venne percosso e morì dopo qualche giorno. Le notizie di quanto avvenuto a Saragozza misero Filippo di fronte al problema che aveva a lungo cercato di evitare: se inviare o no l’esercito in Aragona. Il problema al momento era che non c’era solo l’Aragona dal lato dei ribelli, ma la sedizione serpeggiava anche in Portogallo grazie all’attività dell’onnipresente priore di Crato. Persino in Castiglia circolavano satire feroci sulla tirannide del re. La Junta speciale era nettamente divisa nei suoi pareri: - i tre membri del Consiglio dell’Aragona che sedevano alla Junta erano favorevoli a una politica longanime e lo stesso vale per il priore di San Juan (figlio del duca d’Alba); - gli altri membri consigliavano una politica duramente repressiva. Notiamo dunque che tra i consiglieri del re esisteva ancora un divario netto quando si doveva affrontare il problema delle libertà e dei privilegi dei vari stati particolari. Filippo aveva l’esperienza del fallimento disastroso quando il duca d’Alba aveva cercato di attuare una politica di repressione nei Paesi Bassi. Si palesò però impossibile evitare l’uso della forza. Il Pérez aveva adoperato tutte le sue arte per eccitare la plebe di Saragozza. Il 24 settembre 1591 fu fatto un altro tentativo di trasferirlo nel carcere dell’Inquisizione e la folla venne nuovamente in suo soccorso; questa volta addirittura il Pérez scappò da Saragozza con l’intenzione di portarsi in Francia, ma poi tornò a Saragozza travestito e con l’obiettivo di capeggiare una rivoluzione che avrebbe dovuto trasformare l’Aragna in una repubblica di tipo veneziano sotto il patronato francese. Questi fatti convinsero Filippo che era necessario ricorrere alla forza e perciò un esercito di 12mila uomini, agli ordini di Alfonso de Vargas, penetrò nell’Aragona i primi di ottobre. Nonostante il proclama del giovane Justicia, Juan de Lanuza, che sollecitava la popolazione ad accorrere per difendere le sue libertà, la maggioranza degli aragonesi non mostrò alcuna voglia di opporre resistenza all’esercito regio. Neppure i catalani dimostrarono alcuna inclinazione a venire in aiuto dei fratelli aragonesi. La notte dell’11 novembre 1591 il Pérez fuggì in Francia e il giorno dopo l’esercito castigliano penetrò a Saragozza. Lanuza e i suoi seguaci erano fuggiti ad Epila ma furono attratti nella capitale con promesse e il 18 dicembre 1591 Lanuza venne catturato e decapitato. Un mese dopo, il re emanò un’amnistia generale, da cui erano esclusi il duca di Villahermosa e il conte di Aranda. La rivolta aragonese era finita e l’unità spagnola era stata preservata. Tale rivolta aveva al contempo dimostrato la debolezza e la forza del re di Spagna: la sua debolezza si vide nell’assenza di ogni effettivo controllo del sovrano su un regno munito di tanti privilegi come era l’Aragona, mentre la forza risultò dalle divisioni sociali esistenti nel paese. Per tutti i territori della Corona di Aragona era ancora vivo un sentimento di libertà che in quei frangenti sarebbe stato impolitico violare. La rivolta avrebbe potuto costituire facilmente il pretesto per agire come 71 aveva proposto il duca d’Alba trent’anni prima e per abolire i fueros aragonesi. Filippo optò per il rispetto delle leggi. Le Cortes aragonesi furono convocate a Tarazona nel giugno 1592 e così, soltanto con pieno rispetto della legalità si poteva addivenire a qualche alterazione nei fueros. Vennero poi introdotte certe modifiche nel funzionamento della Diputación aragonese e colui che la ricopriva non era più irremovibile bensì poteva essere rimosso dal sovrano. Filippo decise di conservare il sistema politico dell’Aragona con la sua semi-autonomia, praticamente intatto. Tale decisione si dimostrò giusta: gli aragonesi non si ribellarono più. Sotto Filippo II, le lamentele degli stati non-castigliani si fecero endemiche e il problema fondamentale. I portoghesi e gli aragonesi continuarono a lamentarsi in quanto trascurati da un sovrano che di rado veniva a fargli visita.  I castigliani si lamentarono perché dovevano sopportare la responsabilità – soprattutto quella fiscale – dell’impero senza poter imporre la propria volontà agli altri domini che si tenevano al riparo delle loro leggi arcaiche e dei loro privilegi aviti.  Le province non-castigliane si lamentavano perché i castigliani avevano il monopolio delle cariche nella monarchia e perché un sovrano, che non sentivano loro, era sotto l’influenza preminente dei castigliani e agiva in loro favore. 72 rifornimenti di derrate alimentari e di materiale nautico: gran parte di queste merci veniva portata in Spagna da navi olandesi. Filippo II, nel 1585, decretò l’embargo per le navi olandesi solite frequentare i porti spagnoli e portoghesi; quest’embargo fu poi rinnovato nel 1595. Gli olandesi capirono, come Filippo, che qualsiasi interferenza nei loro traffici con la penisola poteva avere per loro conseguenze catastrofiche, in quanto necessitavano di argento e di prodotti coloniali che solo la Spagna poteva dare loro. Fu così che, davanti alla minaccia del blocco degli scambi con la penisola iberica, gli olandesi reagirono nell’unico modo possibile: si recarono direttamente nelle zone di produzione, vale a dire nei Caraibi e nell’America spagnola. Dal 1594 le traversate degli olandesi tra i loro porti e i Caraibi assunsero ritmo regolare, poi nel 1599 si impadronirono dell’isola di Araya con le sue saline. Questa intrusione degli olandesi nella zona dei Caraibi rovinò la pesca delle perle a Santa Margherita e sconvolse il sistema delle comunicazioni marittime tra i vari possedimenti coloniali spagnoli. La Spagna si trovò costretta alla difensiva in occidente e vide minacciato il proprio monopolio dei traffici americani. La presenza di intrusi nei mari americani costituì un serio pericolo per il sistema commerciale spagnolo. La minaccia ancora più grave fu la simultanea trasformazione dell’economia americana. Durante l’ultimo decennio del Cinquecento la situazione dei decenni precedenti giunse a termine. La ragione principale del mutamento è da leggersi nella catastrofe demografica: la popolazione messicana fu colpita da una serie di epidemie e si ridusse drasticamente. Stesso destino ebbe la popolazione del Perù. La mano d’opera di cui erano soliti avvalersi i coloni spagnoli si ritrovò ad essere ridotta di numero e, quando si contraeva la mano d’opera, si contraeva anche l’economia. I grandi progetti di costruzioni furono arrestati e divenne sempre più difficile anche trovare la mano d’opera per le miniere. Il problema dei rifornimenti alimentari alle città poté essere affrontato solo riorganizzando drasticamente le campagne. Fu allora che vennero creati vasti latifundios dove la manodopera indiana poteva essere sfruttata più efficacemente. Il secolo successivo alla grande epidemia indiana degli anni 1576-79 fu chiamato “secolo di depressione della Nuova Spagna”, vale a dire che fu un secolo in cui l’economia si contrasse e il Nuovo Mondo si chiuse in sé stesso. Il Nuovo Mondo, quindi, in questo periodo, ebbe poco da offrire all’Europa, in quanto poté dare meno argento e offrire meno prospettive ai migranti. Allo stesso tempo, però, aveva poco da chiedere sia all’Europa ma in particolar modo alla Spagna. I prodotti di lusso europei dovevano sostenere la concorrenza di quelli dell’Estremo Oriente portati in America sul galeone di Manila. Dal punto di vista spagnolo. un fatto ben più grave fu che nei possedimenti americani della Corona si instaurò un’economia simile a quella della madrepatria: la Spagna esportava in America tessuti, olio, vino e cereali, MA: - in Messico si sviluppo un’attività manufatturiera per la fabbricazione di tessuti a basso prezzo; - in Perù si era cominciato a produrre cereali, vino e olio. Di conseguenza, l’esportazione di prodotti spagnoli di prima necessità non ebbe più ragion di essere man mano che i coloni riuscivano a procurarseli da soli sul suolo americano. Di fatto, nel 1597, per la prima volta nella storia, il mercato americano era saturo. Dall’ultimo decennio del Cinquecento, quindi, l’economia della Spagna e quella dei suoi possedimenti americani cominciavano a divergere, mentre trafficanti inglesi e olandesi cercavano di insediarsi nelle fratture del sistema ispano-atlantico. Siviglia aveva ancora il monopolio legale nei traffici con il Nuovo Mondo ed è vero che il commercio con l’America raggiunse la sua punta più alta nel 1608; il problema è che le merci caricate erano in quantità sempre maggiore provenienti da altri paesi. Le merci prodotte in Spagna non erano richieste in America e quelle che l’America chiedeva non erano prodotte in Spagna. Questo cambiamento nella domanda del mercato americano diede problemi di adattamento all’economia castigliana. L’economia castigliana, in realtà, palesava già tutti i segni della stagnazione e, in alcuni settori, addirittura di una vera e propria recessione. Il primo fatto che colpì gli osservatori dell’epoca fu lo spopolamento della Castiglia con la congiunta decadenza dell’agricoltura. In realtà, quello che fu visto come spopolamento, altro non fu che una redistribuzione della popolazione in virtù di migrazioni interne: nove delle undici città che ebbero un decremento demografico sono situate nella parte settentrionale della Castiglia, vale a dire quella che risentì maggiormente della guerra con i Paesi Bassi, perciò si può parlare di uno spopolamento della regione settentrionale. La migrazione verso sud degli abitanti di quella regione potrebbe far pensare a una catastrofe demografica in un momento in cui l’incremento della popolazione non si era ancora fermato. A parte questo spostamento, ce ne fu un altro, le cui implicazioni turbarono l’assetto generale, ovvero l’inurbamento dei 75 contadini. Era facile, per un contadino, trovarsi in mezzo ai debiti nel caso di una serie di raccolti andati male, ma anche quando le cose andavano bene, i profitti di un contadini erano decurtati dalla tasa del trigo: un contadino era quindi sempre oggetto di vessazioni da parte dell’esattore di imposte. Il comune abitante di un villaggio castigliano aveva ben pochi messi per difendersi da questi agenti spietati di un potere a lui superiore. I soldati disprezzavano i contadini e li trattavano con modi in cui si mescolavano lo sprezzo e la brutalità. La disciplina militare peggiorava nettamente con il passare degli anni: in ogni incidente con la popolazione, gli ufficiali tendevano a parteggiare i soldati, mentre nelle lamentele delle autorità civili scorgevano la minaccia di offesa al fuero militar di cui erano gelosi. Furono infiniti i conflitti tra giurisdizione civile e militare, ma quest’ultima aveva sempre la meglio: si poteva star sicuri che il Consiglio di Guerra avrebbe sempre tenuto la parte degli ufficiali e dei maestres de campo. Pedro Crespo, contadino ricco e protagonista di “El Alcalde de Zalamea”, scritto da Calderón, si fa giustizia da solo, impiccando l’ufficiale che gli aveva recato danni: egli è simbolo idealizzato di una classe contadina che aveva ben pochi mezzi legali per opporsi alle provocazioni dei soldati e, allo stesso tempo, rappresenta lo spirito di resistenza che si manifestava poco frequentemente perché i contadini avevano ben poche speranze di successo. L’esodo dalle campagne verso le città finì per trasformare la Castiglia in una terra di villages désértes con conseguenze tragiche per lo sviluppo agricolo del paese. In tutta l’area mediterranea, la seconda metà del Cinquecento fu un periodo in cui la produzione militare ottenuta in loco si dimostrò insufficiente per una popolazione che continuava a crescere. La Castiglia cominciò a dipendere per il rifornimento di derrate dall’Europa settentrionale e orientale. Dopo il 1570, i prezzi del grano in Castiglia continuavano a crescere; i campi erano abbandonati e il paese si trovò sempre più strettamente vincolato all’Europa del Nord da cui stava già importando i manufatti che le sue industrie non erano più in grado di fabbricare a prezzi competitivi. Le Cortes di Castiglia non facevano che lamentare la decadenza dell’agricoltura, ma non potevano fare molto per prevenirla: le riforme radicali di cui c’era bisogno potevano essere attuate solo con uno sforzo collettivo che non ci fu. Gli ostacoli fisici e geografici alla crescita economica si presentavano in Castiglia tanto gravi da sembrare insuperabili: il suolo era povero, il clima sfavorevole e le comunicazioni interne difficili. Gli eventuali miglioramenti richiedevano uno sforzo di collaborazione e l’investimento di capitali cospicui. La città di Toledo riuscì a conservare la propria prosperità grazie al fatto che la città era riuscita a migliorare le sue comunicazioni con l’esterno. Un miglioramento decisivo era quello di rendere navigabile il Tago da Toledo fino a Lisbona: impresa difficile e costosa, i cui lavori furono iniziati con l’approvazione regia alla fine del Cinquecento e furono completati in base ai progetti di un architetto italiano nel 1587. L’architetto morì l’anno dopo e i lavori fatti si palesarono insufficienti, di conseguenza si smise di utilizzare il Tago come via navigabile. L’abbandono della navigazione del Tago ci offre un esempio lampante di quella che fu l’incapacità generale di un intero paese: il progetto fallì per la carenza di volontà, in quanto si opposero i proprietari dei mulini che sorgevano lungo le rive e poi venne ulteriormente bloccato dall’imposizione di dazi e pedaggi sulle imbarcazioni che volevano percorrere il fiume. Si potrebbe però dire che l’opposizione maggiore che fece fallire il progetto fu quella che arrivò dalla città di Siviglia. L’atteggiamento di questa città fu un esempio della reazione malinconica che si ebbe ad ogni progetto che recasse beneficio al paese. Siviglia non riuscì mai a costruire un ponte sul Guadalquivir, e proprio l’ostruzione di quest’ultimo finì per annientare la sua prosperità commerciale. I motivi furono gli stessi: una forte riluttanza ad investire denaro nella costruzione di opere pubbliche, la rivalità tra persone e città diverse e la poca volontà nell’agire. Quando i viaggiatori stranieri si recavano in Spagna, avevano l’impressione di trovarsi in un paese arretrato e incurante di tutto il progresso che riguardava la tecnica e la scienza. Alla fine del Cinquecento, molti spagnoli erano pervasi dal fatalismo che sarebbe poi stato dichiarato da una Junta di teologi al tempo di Filippo IV. Convocati per considerare un progetto relativo alla costruzione di un canale per collegare il Manzanarre al Tago, questi affermarono che se Dio avesse voluto che i fiumi fossero navigabili, li avrebbe fatti tali. Ad ostacolare il progresso dell’economia fu la mentalità, ancora prima delle difficoltà tecniche. Di conseguenza, l’agricoltura prese a languire e l’economia entrò in stagnazione. Il ritorno della pace verso la fine del Cinquecento avrebbe forse potuto creare le prospettive di una ripresa economica, ma le prospettive di successo furono sminuite da una catastrofe improvvisa. Negli ultimi anni 76 del Cinquecento i raccolti furono cattivi o pessimi. Il costo di una fanega (circa 58L) di grano andaluso crebbe ingentemente. Sulle orme della carestia giunse la peste. L’epidemia fece la sua prima comparsa nel Nord della Spagna nel 1596, poi si diffuse lentamente verso Sud. La grande peste degli anni 1599-1600 spazzò via il 15% dell’incremento demografico del Cinquecento e aprì una nuova fase nella storia demografica della Castiglia: una fase di immobilismo e di declino demografico. Le conseguenze economiche della peste si videro nella crisi di manodopera che aprì il nuovo secolo; la scarsità di manodopera e la conseguente impennata dei salari rappresentarono disastri irreparabili per l’economia castigliana. Infatti, vennero annullate tutte le possibilità in base alle quali si sarebbero potuti usare gli anni di pace per rimettere in sesto l’attività manufatturiera castigliana in modo da renderla di nuovo competitiva per le industrie straniere, sia sul mercato interno sia su quello oltreoceano. Le peggiori conseguenze delle peste furono conseguenze psicologiche: la Castiglia, già prima dell’epidemia, era una regione stanca e depressa. Gli insuccessi riportati in Francia, nei Paesi Bassi e il sacco di Cadice da parte degli inglesi finirono per completare quello stato di delusione che aveva cominciato a diffondersi con la disfatta dell’Armada. Per colmo di sfortuna, scoppiò poi la peste. La successione ininterrotta dei disastri gettò a terra la Castiglia. La Castiglia del 1600 si presentava come un paese che aveva smarrito la propria fierezza. I castigliani reagirono al momento della delusione in modi diversi. L’ottimismo era svanito e al suo posto erano subentrati lo scetticismo e il cinismo, oppure la rassegnazione alla disfatta. Ma il fatalismo e la delusione rafforzarono certe tendenze latenti che si erano avuto nel Cinquecento. Ci fu una grandissima INCERTEZZA riguardo al futuro. Quello che avvenne a cavallo tra un secolo e l’altro non fece altro che accrescere questo senso di insicurezza e rafforzare un fatalismo già diffuso. Era quello il fatalismo che caratterizzava il modo di vedere il mondo proprio del pícaro e il Seicento fu essenzialmente il periodo del pícaro, che viveva solo con la propria astuzia. Ci furono parecchi personaggi solleciti della cosa pubblica, i cosiddetti arbitristas che, una volta posti di fronte ai terribili paradossi della Castiglia di Filippo III, iniziarono ad analizzare il mali di una società inferma. Furono loro a definire una caratteristica peculiare della crisi castigliana degli anni tra Cinquecento e Seicento: quelli non furono solo gli anni della crisi, ma anche anni in cui si ebbe COSCIENZA della crisi. Sotto la loro influenza, si cercò di capire dove e quando si fosse iniziato a scambiare l’illusione per la realtà. Gli arbitristas volevano anche trovare risposte adeguate all’interrogativo. Così, il regime di Filippo III si trovò sotto il fuoco incrociato dei moniti e delle proposte : i suggerimenti era tutti rivolti verso la ripresa della Castiglia dalla depressione. La carenza di una guida Molte idee tra quelle proposte dagli arbitristas furono giuste, infatti essi proposero:  che le spese del governo fossero energicamente tagliate;  che il sistema fiscale della Castiglia fosse completamente emendato e che gli altri regni della monarchia fossero chiamati a contribuire maggiormente al tesoro della Corona;  che fosse incoraggiata l’immigrazione per ripopolare la Castiglia;  che le campagne fossero irrigate, i fiumi resi navigabili e che fosse data protezione all’agricoltura a all’attività manufatturiera, che dovevano essere stimolate ed incoraggiate. Nulla di tutto questo era impossibile: il ritorno alla pace fornì una congiuntura stupenda per dar corso a un programma riformistico. A questo punto tutto quello che mancava era la volontà, di conseguenza tutto dipendeva dal carattere del nuovo regime. Filippo III salì al trono quando aveva solo vent’anni: era un essere esangue e anonimo, la cui unica virtù sembrò essere la totale assenza di vizi. Suo padre, Filippo II, lo conosceva abbastanza bene da temere il peggio e i suoi timori si rivelarono pienamente fondati. Ancor prima della morte del padre, Filippo III era caduto sotto l’influenza di un subdolo aristocratico di Valencia, il marchese di Denia. Morto il vecchio re, il Denia iniziò a distribuire le cariche dello stato tra i suoi parenti. Don Cristóbal de Moura, che era stato primo ministro di Filippo II negli ultimi anni di regno, fu neutralizzato e poi inviato a Lisbona per assumere l’incarico di viceré. Alla Presidenza del Consiglio salì il conte di Miranda, genero del Denia; nel 1599, poi, il Denia fece 77 città, dove esercitavano mestieri comuni (artigiani, carrettieri, ecc.). È vero che i Vecchi Cristiani mostravano antipatia nei loro confronti per erano troppo sobri, lavoravano indefessamente e si nutrivano con poco. Grazie a questo clima di antipatia fu agevole indirizzare il popolo verso un pensiero secondo cui le recenti disgrazie della Spagna erano dovute alla presenza di miscredenti in una società cattolica . I protettori dei moriscos non osarono più protestare e non ci fu più nessuno che si opponesse all’espulsione. La grande macchina burocratica fu messa in moto: i moriscos furono radunati e avviati in massa verso le frontiere/i porti, e per la maggior parte trovarono rifugio nell’Africa settentrionale. Il numero complessivo dei moriscos che lasciarono la Spagna ammontò a circa 275.000 persone sulle 300.000 che costituivano l’intera popolazione dei moriscos spagnoli. Le conseguenze economiche della cacciata dei moriscos dalla Spagna non sono ancora ben chiare. L’importanza sul piano economico dei moriscos variava da una zona all’altra. I moriscos non rappresentavano, nelle comunità regionali, un ceto ricco, e non avevano posizioni di primo piano nella direzione della vita economica. L’espulsione dei moriscos ebbe effetti diversi rispetto all’espulsione degli ebrei nel 1492; in alcune zone, però, la loro dipartita produsse dei vuoti difficili da colmare. In Castiglia, i moriscos erano stati dispersi per tutto il paese in modo così accentuato che la loro scomparsa non poté provocare conseguenze vistose. In Aragona e nel regno di Valencia le cose andarono diversamente: - Regno di Aragona  tutta la zona fertile a sud dell’Ebro conobbe un’improvvisa rovina; - Regno di Valencia  le conseguenze variarono da un luogo all’altro e in alcune località si corse ai ripari tempestivamente mediante iniziative di ripopolamento che portarono dei Vecchi Cristiani ad insediarsi nelle zone abbandonate dai moriscos. Coloro che ebbero maggiormente da perdere furono quei nobili che nelle loro proprietà terriere erano soliti fruire di contadini moriscos le cui entrate dipendevano dai canoni che pagavano loro gli affittuari e i contadini moriscos che lavoravano le terre signorili. Le perdite subite da questi nobili furono gravi, anche se poi in certa misura mitigate dall’azione del duca di Lerma. Questo avvenne attraverso una prammatica emanata nel 1614, che abbassava il tasso di interesse, ossia i censales, al 5%. Ad essere danneggiati da tale misura furono quei creditori che avevano prestato denaro ai nobili i quali avevano offerto in garanzia le loro proprietà terriere. Il regime del duca di Lerma si uniformò alla pratica consueta, cioè inclino a favorire i privilegiati a spese dei meno privilegiati, che non avevano la forza e il prestigio per far valere a corte le proprie ragioni. Nella grande effervescenza di sentimenti euforici creata dall’espulsione dei moriscos, non si diede importanza alle conseguenze economiche del fatto. Il governo si accorse dell’incidenza deleteria che aveva avuto l’espulsione dei moriscos sull’economia del paese. Il regime del duca di Lerma non era però quello che si sarebbe preoccupato del futuro. L’espulsione dei moriscos può essere assunta come simbolo di una generale attività di governo del tutto chiuso a considerazioni economiche; quello del duca era un regime che preferiva le consolazioni all’azione politica e che non sapeva offrire altro che frasi ad effetto e gesti vuoti di significato a una società che aveva bisogno di una cura. Tipologia di una società Era stato relativamente facile espellere i moriscos dalla Spagna, ma fu molto più arduo cancellare le tracce della loro presenza dalla penisola. Le usanze moresche avevano influito in profondità nella vita della società spagnola e fu inevitabile che il distacco della Spagna da ogni vincolo con l’Africa musulmana risultasse lento e doloroso. In realtà fu un fatto rivoluzionario: - durante il Cinquecento a Siviglia si iniziarono a costruire delle case con la facciata lungo la strada invece che rivolte verso l’interno; - le donne, inoltre, cominciarono a farsi vedere alla finestra (si dedicavano più che altro alla vita domestica). I ceti superiori spagnoli avevano ereditato il costume moresco di tenere segregate le loro donne, che osservavano ancora abitudini moresche. Il lascito più cospicuo della civiltà moresca va indicato nell’estrema disparità che regnava tra i sessi e che era maggiore rispetto a quella esistente in qualsiasi altro paese europeo. Essa trovò poi il suo pendant nella galanteria più smaccata degli uomini verso il sesso debole. 80 Sotto l’influenza congiunta dell’Europa e dell’America, le abitudini iniziarono a cambiare. La comparsa a Siviglia di donne creole, venute dal Nuovo Mondo portò a un graduale rilassamento dei modi e della morale. La posizione della donna spagnola nobile conobbe mutamenti minori nell’arco di tempo corrente tra il Medioevo e il Seicento di quelli che furono propri delle nobili di altri paesi. La donna restava la custode degli ideali e dei costumi tradizionali. La sopravvivenza di usanze moresche nella Spagna del Seicento costituisce di per sé un’eloquente illustrazione degli enormi problemi di adattamento che la società spagnola si trovò ad affrontare e ci fa capire anche a quali tensioni essa dovesse sottostare. Se la società spagnola mostrò la tendenza ad oscillare da un estremo all’altro, ciò dipese in parte dal fatto che i problemi affrontati avevano anch’essi una gravità estrema. La società castigliana era una società fondata sul paradosso e sul contrasto, infatti i contrasti erano visibili ovunque: c’erano moriscos e cristiani, c’era pietà e ipocrisia, c’era da una parte una fervida professione di fede e dall’altro uno straordinario lassismo nei costumi e c’era da una parte la ricchezza enorme, affiancata da una miseria torbida. In Castiglia non esisteva via di mezzo. González de Cellorigo affermò che la grandezza e la perfezione di uno stato sono determinate non dall’estensione dei suoi territori bensì dalla proporzione “costante e armoniosa” tra le diverse classi in cui sono ripartiti i suoi sudditi. In base a questo criterio, la Spagna aveva raggiunto l’apice della perfezione nel 1492. Dopo il regno di Ferdinando e Isabella “la Spagna aveva iniziato a decadere fino ai giorni nostri”. Il fattore negativo fu proprio la carenza di ceti intermedi, lamentata da González de Cellorigo, in quanto essa differenziò la Spagna di Filippo III da tutte le altre società coeve dell’Europa Occidentale e la rese simili a quelle dell’Europa Orientale. I contrasti tra ricchezza e miseri non furono un fenomeno solo spagnolo. il ritorno della pace aveva fatto sperare che si aprisse un periodo di abbondanza. Le capitali europee furono continuo teatro di feste e ci furono molti investimenti nella costruzione di palazzi, nell’acquisto di beni preziosi, ecc. mentre si ebbe un rilassamento nella condotta morale che fece apparire le corti il nido di ogni vizio a chi aveva sentimenti puritani. La singolarità della Spagna non è data da un contrasto del genere, ma dall’assenza di uno strato sociale intermedio formato da borghesi solidi, i quali potessero fare da ponte tra i due estremi. In Spagna i borghesi erano sati distolti dal lavoro dagli illusori valori di una società allo sbando. Alcuni fatte, come il disprezzo per il commercio e i mestieri manuali, il miraggio di facili guadagni ottenibili con l’investimento di capitali nei censos e nei juros, ecc. unitamente agli innumerevoli ostacoli pratici avevano persuaso la “borghesia” ad abbandonare la sua lotta ineguale e a mettersi sulla scia dei ceti superiori improduttivi. La Castiglia del Seicento si trovò nettamente divisa tra due condizioni estreme: da una parte stavano pochi ricchissimi e dall’altra molti poverissimi. Il criterio per tracciare una distinzione tra le due famiglie non era dato dal rango, bensì dal fatto che avessero o meno da mangiare, quindi il CIBO venne a creare una nuova divisione tra classi: “Al rico llaman honrado, porque tiene qué comer” I ricchi mangiavano in maniera eccesiva; la continua preoccupazione per il cibo che è presente in ogni racconto picaresco spagnolo non fa che rispecchiare in modo fedelissimo la sollecitudine della gente in generale, a partire dall’hidalgo – che cercava di raccogliere furtivamente le briciole a corte – fino al pícaro – che cercava di commettere qualche furto al mercato. Il modo migliore per procurarsi regolarmente dei buoni pasti era quello di prestare servizio nella Chiesa, nel commercio marittimo, nella corte o anche nell’esercito (“Iglesia o mar o casa real”). Nel Seicento il detto dovette essere accorciato e restarono solo il servizio alla Chiesa o alla casa real. I castigliani avevano preso l’abitudine di guardare alla Chiesa, alla corte e agli impieghi burocratici come mezzi di vita.  La Chiesa era ricca ed accogliente, aveva pur sempre ricevuto donativi e lasciti enormi di denaro, pietre preziose e terre. C’erano ancora benefici doviziosi, come i canonicati sivigliani, il cui valore era cresciuto tra il Cinquecento e il Seicento. La proliferazione di nuovi ordini religiosi aveva aperto la possibilità di condurre vita religiosa ad un gran numero di uomini e donne.  Accanto alla Chiesa, c’era la Corte, con le scintillanti prospettive del favoritismo, della ricchezza e della posizione sociale. La Corte di Filippo III fu molto diversa da quella tenuta dal padre: la Casa d’Austria aveva osservato la pratica tradizionale nei suoi esponenti di tenere lontana dalla corte l’aristocrazia nobiliare): Filippo III voltò le spalle a tale tradizione proprio in un momento in cui i grandi 81 di Spagna avevano bisogno di una sovvenzione: egli aumentò il servizio nella reggia e ammise molti grandi come gentiluomini domestici. L’ascesa dei prezzi aveva scosso le fortune dei grandi nobili. Un confronto tra le entrate annuali di tredici famiglie ducali ci offre un indizio riguardo al modo in cui andarono le cose. Le entrate di queste tredici famiglie videro si e no il raddoppio in un arco di tempo in cui i prezzi quadruplicarono. La maggior parte delle famiglie nobili erano già indebitate alla fine del Cinquecento. I grandi del regno non ricevevano di fatto più di 1/5 delle loro rendite; questo era quanto capitava ad esempio al duca di Infantado, da quanto risulta dal testamento redatto in data 4 marzo 1598. Egli giustificava i suoi debiti con la mancata assegnazione da parte dei genitori della parte spettante al primogenito, cosa che l’aveva costretto ad ipotecare i suoi beni per mantenere la propria famiglia. Inoltre, si era indebitato a causa di processi e dei matrimoni combinati per i suoi figli. I discendenti del duca affrontarono il problema delle entrate insufficienti allo stesso modo. La vita a corte poteva essere dispendiosa, ma i grandi speravano di risarcire le proprie perdite spennando il tesoro regio allo stesso modo in cui i suoi avi lo avevano saccheggiato. Non solo i grandi beneficiavano del lusso di un sovrano generoso; la Spagna di Filippo III assistette a una vera e propria inflazione di titoli nobiliari. Nel corso del Cinquecento l’aumento di titolati si era mantenuto modesto in Spagna. In ventitré anni – quanto durò il suo regno – Filippo III creò tre nuovi duchi, trenta marchesi e trentatré conti. Nel 1630, i nobili titolati erano 155 e il loro reddito complessivo ammontava a più di cinque milioni di ducati. I nobili continuarono a profondere somme enormi. Come il re, trovavano impossibile adattare il loro stile di vita ad una nuova età in cui i prezzi non crescevano più automaticamente e in cui i debiti erano ridotti con loro vantaggio dal processo inflazionistico. In un momento in cui una sempre minor quantità di moneta sana entrava in Spagna, il re credette di poter vivere al di sopra dei suoi mezzi facendo coniare una moneta di rame per usi interni e poi manipolandola quando le circostanze lo avessero richiesto. I nobili, pagando i loro dipendenti, con moneta svilita di vellón, camminarono dietro il loro regale padrone e continuarono a spendere più di quanto avessero. Il possesso dei domestici non era cosa che potesse essere regolata dallo Stato, bensì dalle norme del costume sociale e dalle necessità economiche, tuttavia era pur sempre preferibile piuttosto a non avere nessun mestiere a mano. Fu però inevitabile che grandi e piccoli nobili fossero seguiti da migliaia di persone che o erano di fatto a loro servizio o aspiravano ad essere assunte da loro. La Corte funzionò come una grande calamita, però attirò anche persone disoneste. Nel 1611 il governo ordinò che i grandi nobili facessero ritorno nei loro possessi, sperando così di ripulire la capitale della popolazione parassita. Quell’ordine regio ebbe la stessa sorte che ebbero le buone intenzioni del duca di Lerma, ovvero fu disatteso. I cadetti delle grandi casate e gli hidalgos ridotti in povertà si affollarono a corte con la speranza di fare fortuna o di recuperare la perduta possibilità. La Corte aveva parecchio da offrire: non solo poteva offrire posti nelle case dei nobili e nella reggia, ma anche nell’apparato burocratico della monarchia spagnola. L’accresciuto numero degli istituti che, per tutta la Castiglia, impartivano l’istruzione, aveva potuto soddisfare largamente il bisogno di una certa formazione culturale. Durante il Cinquecento si erano fondate università e creati collegi a getto continuo: dal 1516 erano sorte 21 nuove università e poi erano stati aperti 18 nuovi collegi. Divenne sempre più necessario che i collegi sorvegliassero il proprio prestigio. I collegi che si trovarono nella posizione migliore per elevarsi nella posizione migliore per elevarsi nella considerazione generale furono i Colegios Mayores, ovvero istituti elitari che avevano praticamente acquisito la condizione di entità indipendenti nell’ambito delle università; questi avevano dato alla Spagna molti dei suoi più celebri dotti, ecclesiastici e funzionari di governo. La posizione dei Colegios Mayores era inespugnabile: era loro abitudine mantenere a corte gli ex-alunni noti come hacedores, ovvero uomini di rango e dotati di influenza che si sentivano vincolati a far entrare gli alunni dei collegi nei posti dell’amministrazione, mentre i collegi riservavano posti per amici e parenti. L’influenza, il favoritismo e la raccomandazione costituivano gli strumenti essenziali per fare qualsiasi tipo di carriera. I laureati meno bravi avevano scarse speranze di trovare un posto se non si procuravano un patrono influente; un qualsiasi grado accademico conferiva pur sempre un certo status e esisteva sempre la possibilità che capitasse un qualche colpo di fortuna. In genere gli arbitristas raccomandarono di ridurre le scuole e i conventi, ma anche di sfoltire la corte. 82 si schierò dalla parte del duca di Uceda e manovrò con successo affinché fosse richiamato a Madrid suo zio, che allora era ambasciatore alla corte dell’imperatore: si trattava di don Baltasar de Zúñiga, che sarebbe stato utile al nipote se fosse stato presente alla corte spagnola. Fino alla sua morte – ottobre 1622 – lo Zúñiga fu il ministro di Filippo IV, ma fondamentalmente non fu altro che uno schermo dietro cui agiva l’Olivares, intenzionato ad acquistarsi la posizione di privado, che avrebbe poi tenuto fino al 1643, quando fu allontanato dal potere. Personaggio irrequieto, l’Olivares non era tanto una personalista quanto una mescola di personalità che coesistevano, lottavano e contrastavano in un solo uomo: era effervescente e dimesso, umile e superbo, astuto e credulone, impetuoso e cauto. Sembrava avere delle qualità sovrumane; nessuno lavorava più duro di lui, nessuno dormiva di meno. Con l’arrivo dell’Olivares, i tempi pigri e sonnolenti del duca di Lerma finirono per sempre: la scena era pronta per un’azione di riforma. L’Olivares era per natura l’erede degli arbitristas e personalmente era ben deciso a dare corso con efficienza instancabile a quelle riforme che da troppo tempo erano attese dal paese. Fu anche erede della tradizione imperiale , ovvero quella di chi credeva saldamente nel diritto e nell’ineluttabilità dell’egemonia spagnola sul mondo intero. La politica arrendevole del regime instaurato dal duca di Lerma venne guardata con collera e sprezzo da molti responsabili di funzioni pubbliche che non volevano abituarsi al pacifismo umiliante del governo di Filippo III. Quei responsabili di alte funzioni attuarono nel periodo in cui furono in carca una politica militante e aggressiva che divergeva nettamente da quella praticata a Madrid. Essi credevano che la Spagna potesse rimanere fedele a sé stessa soltanto se restava fedele alla sua tradizione imperiale, di conseguenza disprezzavano quella politica disfattista che aveva portato la potenza spagnola nella miserabile condizione in cui si trovava. L’Olivares univa in sé stesso l’imperialismo dell’età aurea di Carlo V e Filippo II e l’orientamento realistico e pratico degli arbitristas: per tutta la sua vita, l’elemento ideale e l’elemento pratico, la tradizione crociata e la tradizione riformista coesistettero in disagiata concomitanza. Nell’aprile 1621 emanò la tregua con le Province Unite Olandesi, che non venne rinnovata perché sia a Madrid che all’Aja si fecero valere delle ragioni di molto peso che sconsigliavano il rinnovamento della tregua. Il Consiglio del Portogallo insistette nel presentare i danni irreparabili che erano stati recati ai possedimenti coloniali portoghesi dagli olandesi durante il periodo di pace. Il Consiglio delle Finanze si industriò a mostrare che il costo di un esercito permanente nelle Fiandre durante il periodo di pace non risultava inferiore al costo dello stesso esercito in caso di guerra. Erano già stati presi dei provvedimenti da cui si poteva evincere che questa volta la Spagna aveva la possibilità concreta di vincere sugli olandesi:  la rivolta della Valtellina nel 1618 aveva offerto un pretesto al duca di Feria, governatore di Milano, per collocare guarnigioni spagnole in quella vallata strategica che univa il milanese all’Austria;  la rivolta boema del 1618 consentì al generale spagnolo, Ambrogio Spinola, l’occupazione del Palatinato e il controllo delle località da cui si comandava il passaggio del Reno. I successi riportati dai generali spagnoli contribuirono ad accrescere l’influenza di quanti volevano che si tornasse a una politica di guerra e si finì per creare un clima in cui la ripresa della guerra veniva reputata come cosa ovvia e naturale. Il conte di Olivares si trovò impegnato a proseguire la guerra nei Paesi Bassi con la prospettiva che la Spagna dovesse essere coinvolta in un conflitto esteso a tutta l’Europa Centrale. L’Olivares comprese benissimo che un’energica politica navale era essenziale per il successo delle armi spagnole e con ordine del novembre 1621, si dispose che la flotta atlantica fosse aumentata fino a raggiungere 46 navi. Poiché “i sovrani non possono compiere azioni eroiche senza denaro”, la ripresa della guerra rese ancor più urgente procedere a un programma di riforme, quindi si cercò energicamente di soddisfare il bisogno. Fu ordinata un’inchiesta su tutti i beni acquisiti da chi aveva avuto incarichi di governo a partire dal 1603 e fu allora che il tanto odiato Rodrigo Calderón fu mandato al patibolo. Si infuse, nel frattempo, una nuova vitalità nella Junta de Reformación e i frutti del suo operato si videro nel febbraio 1623 quando venne rese pubblico un elenco delle riforme da attuare. Le riforme si concretarono in una serie di ordinanze, che traevano la loro ispirazione dagli scritti degli arbitristas in Castiglia; esse furono emanate nella convinzione che ci fosse un intreccio strettissimo tra la morale ed economica:  il numero degli uffici municipali esistenti doveva essere ridotto di ben due terzi;  le leggi suntuarie dovevano regolare gli eccessi diffusi nella moda di abiti sfarzosi;  si adottarono misure per incentivare l’incremento demografico; 85  si raccomandò l’imposizione di dazi sulle importazioni di manufatti all’estero e anche la chiusura dei bordelli. In queste ordinanze venne a consistere quella riforma generale dei costumi morali e della condotta pratica. La visita inattesa del principe di Galles a Madrid mandò all’aria ogni proposito di austerità da parte dell’Olivares. Le origini delle fortune di chi aveva ricoperto incarichi di governo sembrarono così misteriose che si abbandonò ogni inchiesta al riguardo. Il piano di riduzione degli uffici municipali venne lasciato cadere dietro insistenza dei procuradores delle Cortes. Nel giro di un triennio, il grande programma di riforme non partorì nulla o quasi, e di fatto l’unica eccezione si ebbe con l’abolizione della gorgiera. Tuttavia, se la riforma dei costumi dovette essere rimandata a momenti migliori, la riforma delle finanze non poteva aspettare. La situazione finanziaria che l’Olivares si trovò a dover gestire presentava due grossi problemi distinti ma connessi tra loro. La monarchia era precipitata in una situazione delicata durante la monarchia di Filippo III soprattutto perché le risorse della Castiglia si erano esaurite. La particolare prostrazione della Castiglia era poi attribuita in particolare al gravame fiscale che le era stato addossato. Obiettivo della politica finanziaria dell’Olivares fu: - in primo luogo, quello di redistribuire più equamente i carichi fiscali nell’ambito della Castiglia; - in secondo luogo, era necessario indurre le altre province della monarchia a correre in aiuto della Castiglia. Al centro dei progetti che l’Olivares aveva pensato per ridare fiato alla Castiglia c’era anche quello di istituire un sistema bancario nazionale: un progetto del genere era già stato proposto fin dal 1576 a Filippo II da un fiammingo. Successivamente, durante il regno di Filippo III venne ogni tanto riconsiderato ma non si giunse mai a qualcosa di concreto. Se fosse stata istituita una catena di banche, si credeva che queste avrebbero potuto aiutare la Corona a ridurre i propri debiti. Il piano venne delineato in una lettera inviata nell’ottobre 1622 alle città che mandavano loro rappresentanti alle Cortes della Castiglia e fu accompagnato da un’altra proposta che stava molto a cuore all’Olivares: l’abolizione dei millones. L’Olivares propose che città e villaggi della Castiglia contribuissero al mantenimento di un esercito di 30.000 uomini. Questi progetti incontrarono la fiera opposizione delle Cortes Castigliane. Gli erarios, ossia le banche, suscitavano una diffidenza generale e sebbene fosse generale il desiderio di veder scomparire la tassa dei millones, si dimostrò impossibile trovare una forma alternativa di tassazione. Nel 1626, il progetto per la creazione di un sistema bancario venne abbandonato, mentre continuarono a sopravvivere gli insostituibili millones che furono poi addirittura estesi ad altre voci, dando così un gettito raddoppiato. L ’Olivares non aveva perduto la speranza e nel 1631 fece un altro tentativo per abolire i millones: c’erano possenti interessi che si opponevano alle radicali riforme fiscali. I piani per introdurre delle riforme in Castiglia rappresentavano solo una parte di un programma riformistico molto più ambizioso che doveva abbracciare tutta la monarchia spagnola. Era difficile indurre le altre province ad aiutare la Castiglia fintantoché restava in piedi la tradizionale armatura costituzionale della monarchia. I privilegi di cui godevano i regni di Aragona e Valencia erano così ampi e le loro Cortes così potenti che era quasi impensabile accettare una regolare imposizione fiscale che si approssimasse a quella di Castiglia. Fu naturale che l’Olivares scorgesse nella castiglianizzazione della Spagna l’unica soluzione a tanti dei suoi problemi. Se leggi uniformi fossero state introdotte in tutto il territorio della monarchia, la separazione sarebbe scomparsa e allora sarebbe stato possibile mobilitare efficacemente le risorse dell’impero più potente al mondo. L’Olivares ebbe anche una comprensione effettiva dei disagi di cui si lagnavano gli altri regni non-castigliani: questi protestavano perché avrebbero dovuto pagare imposte più onerose per mantenere un impero di cui la sola Castiglia riceveva i benefici. È significativo che uno degli amici e dei consiglieri più ascoltati dell’Olivares fosse un teorico politico di nome Álamos de Barrientos, discepolo di Antonio Pérez. Proprio sotto la sua influenza, la politica della castiglianizzazione cedette il posto, nel pensiero dell’Olivares, ad un programma più generoso e liberale. Propose allora che la monarchia nel suo complesso non avesse più un carattere così esclusivamente castigliano: questo poteva essere ottenuto solo se il sovrano si fosse recato più spesso nelle province della monarchia. Se la monarchia immaginata dall’Olivares doveva essere formata da “multa regna sed una lex”, sarebbe però stata anche una monarchia universale. L’Olivares si rese conto da solo che questa visione grandiosa di una monarchia spagnola unificata e integrata non poteva essere attuata in un giorno solo, perciò 86
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