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La stella della redenzione, Sintesi del corso di Antropologia Filosofica

libro scritto durante la prima guerra mondiale che si basa sulla figura della stella di David, la stella a sei punte, che rappresenta la cultura e la religiosità ebraica. essa compone dall'alto verso destra sei figure: Dio, rivelazione, uomo, Mondo, creazione. Nei due triangoli tre essenze: divina, umana, cosale, nelle loro tre relazioni. Vi si trova una lettura intrecciata di teologia cristiana, riflessione religiosa ebraica e filosofia.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 11/06/2023

Rachelep12
Rachelep12 🇮🇹

4.2

(47)

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Scarica La stella della redenzione e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia Filosofica solo su Docsity! Grammatica dell'EROS (la lingua dell'amore). “Io” è sempre un “no” divenuto sonoro. “Io” è sempre soggetto di tutte le proposizioni in cui compare. Non può mai essere passivo, mai completamente oggetto. Anche a partire dalla parola originaria stessa, da quel “non altrimenti” mediante il quale il “No” originario giunge a parlare in ogni parola, l'assurgere alla dimensione sonora conduce, per via diretta, all' “io”. Abbiamo dovuto sostenere un “così” e non altrimenti, in luogo del non, la duplice negazione di un “non altrimenti”. Al “non altrimenti” viene posta immediatamente la domanda > “non altrimenti da che?” > esso deve rispondere “non altrimenti da tutto”. Qualcosa che venga designato come “così e non altrimenti” deve essere delimitato nei confronti di “tutto”; è non altrimenti da tutto. Come “altro da tutto” è già posto nel “così”; l' “e non altrimenti”, che si aggiunge al “così”, indica proprio che esso, benché sia altrimenti, insieme però è non altrimenti da tutto, e è capace di relazione con tutto. Ma che cos'è allora “non altrimenti” in questo senso? Al tempo stesso “altrimenti” e “non altrimenti” da tutto, dal Tutto? Solo quel “pensiero” che è identico con l'essere del “Tutto” e con quello di ogni singolo oggetto, quindi da un lato è tutt'uno con essi, e dall'altro è loro contrapposto > l' “Io”. Designandolo come un'espressione sonora del “no” qui non abbiamo scoperto l' “Io” come un termine all'interno del proprio genere linguistico, ma l'abbiamo scoperto nel gioco di domanda e risposta proprio del pensiero. E procedendo oltre passeremo da parola reale a parola reale. Solo con la riflessione possiamo e doppiamo riconoscere la parola reale anche come rappresentante del genere linguistico cui appartiene. Ma non la incontriamo così, come l'esponente di un genere linguistico, bensì direttamente come parola e parola in risposta. All' “Io” ri-sponde nell'intimo di Dio un “Tu”. Il duplice risuonare di “io” e “tu” nel monologo di Dio durante la creazione dell'uomo. Il “Tu” non è un autentico “tu”, poiché rimane ancora confinato nell'intimo di Dio, anche l' “io” non è ancora un autentico “io”, poiché non gli si è ancora contrapposto alcun “tu”. Solo nel momento in cui l' “io” riconosce il “tu” come qualcosa fuori di sé, solo quando passa dal soliloquio al dialogo vero e proprio, diviene quell' “io” che pocanzi pretendevamo essere un “ma “io””, bensì un “io” non accentuato e, appunto perché monologante, anche comprensibile solo a sé. Come già avvertito nel “facciamo” del racconto della creazione non è ancora un “io” manifesto, “io” ancora nascosto nel mistero della terza persona. L' “io” vero e proprio, sottolineato e accentuato, può risuonare per la prima volta solo nella scoperta del “tu”. Ma dov'è un tale “tu” autonomo che stia libero di fronte al Dio nascosto e rispetto al quale egli possa scoprirsi come un “Io”? Un mondo oggettivo c'è, c'è il sé chiuso in sé, ma dov'è un “tu”? Il “tu”? Questa domanda circa il “tu” è l'unica cosa che ci sia già nota di lui. Ma essa basta all' “io” per scoprire se stesso, per questo egli non ha bisogno di vedere il “tu”. Mentre chiede di lui, e mediante il “dove” incluso nella domanda, attesta di credere all'esistenza di quel tu, anche senza che questo gli sia comparso davanti agli occhi, chiama ed esprime se stesso come “io”. L' “io” scopre se nell'attimo in cui afferma l'esistenza del “tu” attraverso la domanda circa il “dove” del “tu”. L' “Io” però scopre se stesso, non già il “tu”. La domanda circa il tu rimane pura domanda. L'uomo si nasconde, non risponde, resta muto; egli resta il “sé” così come noi lo conosciamo. Nessun “io”, nessun “sono io”, “io l'ho fatto” risponde alla domanda di Dio circa il “tu”, anzi, invece dell' “io” dalle labbra che rispondono affiora un ille-illa-illud. Il “sé” vuole essere evocato con una magia più potente della semplice domanda circa il “tu”, perché la sua bocca si apre a pronunciare “io”. In luogo dell'indeterminato “tu”, che semplicemente rimanda-a ed a cui quindi anche l'uomo risponde con un semplice rinvio-ad-altro, compare il vocativo, la chiamata diretta. Così all'uomo viene tagliata ogni ritirata nell'oggettivazione, poiché in luogo del suo concetto generale, che può ancora rifugiarsi, viene chiamato ciò cui non si può sfuggire, l'assolutamente particolare, ciò che, aconcettuale, è sottratto al campo d'azione dei due articoli, determinativo ed indeterminativo > il nome proprio. Il nome proprio, il quale però non è un nome in proprio, che l'uomo si sia dato arbitrariamente, bensì il nome che Dio stesso gli ha creato e che solo per questo, come creazione da parte del creatore, gli è proprio ed è il nome a lui proprio. L'uomo, il quale al “dove sei tu?” di Dio aveva ancora taciuto, come un “sé” caparbio e ostinato, ora, chiamato con il suo nome, due volte, con la più grande determinazione, che non si può fare a meno di ascoltare, risponde totalmente aperto, dispiegato, tutto anima, “sono qui”. Ecco qui l' “io”, l'io umano singolo. Ancora totalmente recettivo, aperto, ancora vuoto, senza contenuto, privo di essenza, pura disponibilità, pura obbedienza, tutt'orecchi. In questo ubbidiente udire cade, come primo contenuto, il comandamento. L'esortazione ad ascoltare, la chiamata con il nome proprio, sigillo della bocca divina che parla, tutto questo è solo un'introduzione che risuona prima di ogni comandamento ed è pronunciata in tutta la sua ampiezza solo prima di quel solo comandamento, il più alto, l'unico, senso ed essenza di tutti i comandamenti che possono mai venire a noi dalla bocca di Dio. Qual è questo comandamento di tutti i comandamenti? > “Tu devi amare l'Eterno, il tuo Dio, di tutto cuore, con tutta l'anima e con ogni tua forza”. Tu devi amare... > quale paradosso! Si può comandare l'amore? L'amore non è forse destino, un esser-presi, e là dove è libero, allora non è forse libero dono e nulla più? Si, certo, l'amore non può essere prescritto, nessuna terza persona può ordinarlo né ottenerlo con la forza. Nessuna terza persona, appunto, ma l'Uno lo può. Il comandamento dell'amore può venire solo dalla bocca dell'amante. Solo l'amante può dire “amami”. Sulla sua bocca il comandamento dell'amore non è un comandamento estraneo, ma non è altro che la voce stessa dell'amore. L'amore dell'amante non ha altra parola per esprimersi se non il comandamento. Tutto il resto già non è più espressione immediata bensì dichiarazione, dichiarazione d'amore. La dichiarazione d'amore povera, viene sempre dopo, poiché l'amore dell'amante è un presente, viene sempre troppo tardi. Il comandamento all'imperativo, immediato, sorto istantaneamente e nell'attimo del suo sorgere già fatto suono, l' “amami” dell'amante, è espressione totalmente perfetta, purissimo linguaggio dell'amore. Mentre l'indicativo ha alle sue spalle la fondazione circostanziata dell'oggettività e perciò appare nella forma del passato; l'imperativo è purissimo presente, scevro di qualsiasi preparazione, privo di premeditazione. L'imperativo del comandamento non riguarda alcuna previsione per il futuro, può immaginarsi soltanto l'immediatezza dell'ubbidienza. Se pensasse ad un futuro o ad un “sempre” non sarebbe comandamento, un ordine, ma legge. La legge conta sul tempo, sul futuro, sulla durata. Il comandamento sa solo l'istante, si attende il successo già nell'attimo stesso in cui risuona. Così il comandamento è puro presente. Ma, mentre ogni altro comandamento potrebbe essere altrettanto bene anche una legge, quest'unico comandamento dell'amore è sommamente incapace di essere legge, può essere soltanto comandamento. Il suo contenuto sopporta soltanto un'unica forma, quella del comandamento, della presenza immediata e dell'unità di coscienza, espressione e attesa dell'adempimento. Essendo l'unico comandamento puro, è il più alto di tutti i comandamenti. Così poiché la prima parola di Dio all'anima che gli si dischiude è “amami”, tutto ciò che ancora all'anima si potrebbe rivelare nella forma della legge si tramuta senz'altro nelle parole che Egli “oggi” le comanda, diventa l'esplicitazione dell'unico e primo comandamento, quello di amarlo. Tutta la rivelazione sta sotto il segno del grande “oggi”; oggi Dio comanda ed oggi occorre prestare ascolto alla sua voce. Questo oggi all'imperativo del comandamento è l'oggi in cui vive l'amore dell'amante. E, così come questo imperativo può venire solo dalla bocca dell'amante, non altro imperativo che questo, così l' “io” di colui che parla è adesso la parola-matrice di tutto il dialogo della rivelazione, ed anche il sigillo che, impresso ad ogni parola, caratterizza ogni singolo comandamento come comandamento d'amore. “Io-l'Eterno”, questo io con cui, come grande “no” del Dio nascosto che rinnega il proprio nascondimento, prende inizio la rivelazione, l'accompagna anche attraverso tutti i singoli comandamenti. Il profeta non è mediatore tra Dio e uomini, non accoglie la rivelazione per poi comunicarla a sua volta, ma da lui direttamente risuona la voce di Dio, da lui direttamente Dio parla come un “io”. Il profeta autentico non fa parlare Dio e non comunica agli astanti stupefatti una rivelazione che gli è pervenuta in segreto. Egli non fa affatto parlare Dio, ma, nel momento in cui apre la bocca, già parla Dio. Dio ha preso possesso delle sue labbra. L' “Io” di Dio diviene la parola-matrice che attraversa tutta la rivelazione, recalcitra contro oni traduzione in terza persona, è “io” ed “io” deve rimanere. Solo ciò che è manifesto. Egli non si dà a conoscere prima di esservi rivelato, ma al contrario il suo esser-divenuto-manifesto deve essere anteriore, perché egli possa darsi a conoscere. Prima che l'anima gli abbia reso testimonianza egli non può darsi a conoscere a lei. Ora invece deve farlo. Solo in questo modo la rivelazione giunge a compimento. Nella sua attualità priva di fondamento, deve ora pervenire durevolmente a un fondamento, fondamento che, al di là della sua attualità, giaccia quindi nel passato, ma che essa rende visibile solo a partire dalla presenza attuale dell'esperire. Ciò che qui abbiamo di mira è quella relazione a ritroso più volte richiamata che la rivelazione intrattiene con la creazione. Ma la rivelazione non è spiegata a partire dalla creazione; in tal caso la creazione sarebbe qualcosa di autonomo rispetto a quella. Invece è la creazione passata che viene dimostrata muovendo dalla rivelazione viva e presente. Dimostrata, cioè comprovata. Al bagliore della luce del miracolo vissuto della rivelazione diviene visibile un passato che prepara e prevede questo miracolo; la creazione, che diviene visibile nella rivelazione, è creazione della rivelazione. Solo in questo luogo, in cui il carattere di esperienza vissuta e di attualità della rivelazione è stabilito, le è concesso ottenere un passato e deve anche necessariamente farlo. Al confessante “io sono tua” dell'anima, Dio non risponde altrettanto semplicemente col suo “tu sei mia”, ma spinge a ritroso nel passato e si dimostra come colui che istituisce ed inaugura tutto questo dialogo tra lui e l'anima > “io ti ho chiamata col tuo nome, tu sei mia”. L' “io sono tua” dell'anima può esser pronunciato solo senza alcun fondamento. L'anima lo pronuncia semplicemente a partire dal vivo traboccare del suo istante di beatitudine. Ma la risposta, il “tu sei mia” dell'amante, è più che una semplice parola che sgorga dal suo cuore; essa pone una relazione entro il mondo delle cose. Questa parola può essere pronunciata solo se si adegua alla forma del mondo. Bisogna che le sia anteposto un fondamento, un passato che stia a fondamento del suo presente; infatti questo presente non vuol più essere solo il presente immediato, interiore, ma si afferma come presente nel mondo. L'amante che dice all'amata “tu sei mia” è consapevole di avere, nel suo amore, generato l'anima e di averla partorita nel dolore. Sa di essere il creatore dell'amata. E con questa coscienza egli la circonda e l'avvolge con il suo amore, dentro al mondo. Ma, giacché Dio agisce in questo modo, la sua rivelazione all'anima è ora entrata nel mondo, pezzo di mondo. E non come se entrasse nel mondo qualcosa di estraneo. La rivelazione, benché facendo ciò rimanga completamente al presente, si ricorda del suo passato e lo riconosce come un pezzo di mondo passato; così facendo essa dà anche alla propria presenza attuale il valore di qualcosa di reale nel mondo. Tutto ciò è fondato su un passato, anche la sua presenza attuale non è solo interiore, bensì qualcosa di visibile e reale. La storicità del miracolo della rivelazione non è il suo contenuto (il quale è e rimane la sua attualità) bensì è il suo fondamento e la sua garanzia. Solo in questa sua storicità, in questa “positività”, la fede esperita in prima persona, dopo aver sperimentato a partire da se stessa la più alta beatitudine che le sia destinata, trova ora anche la più alta certezza che le sia attingibile. Questa certezza non precede quella beatitudine, anzi deve sempre seguirla. Anche prima nulla poteva separarla da Dio, ma solo perché essa, nella sua profonda immersione nel presente, non vedeva null'altro all'infuori di sé. Ora può aprire tranquillamente gli occhi e guardare dentro al mondo delle cose che la attornia; non c'è alcuna cosa che possa separarla da Dio; dentro al mondo delle cose essa scorge, nell'incrollabile fattualità di un evento storico, il fondamento oggettivo del proprio credere. Ora essa rimane sempre nella prossimità di Dio. Il “tu sei mia” che le è stato detto traccia un cerchio protettivo attorno ai suoi passi. Essa può ora dire > “mio dio, mio dio”. Ora è in grado di pregare. Questo è il punto estremo raggiunto dalla rivelazione > un traboccare della fiducia più elevata e perfetta dell'anima, la preghiera. Qui non ci si domanda se la preghiera sarà esaudita. La preghiera stessa è l'esaudimento. Essa prega per poter-pregare, possibilità che le è stata data insieme alla certezza dell'amore divino. Il poter pregare è il dono più grande che le viene recato nella rivelazione > poter pregare > punto supremo. Insieme al dono di poter pregare le viene imposto anche un obbligo-di-pregare. Nella prossimità con Dio connessa alla fiducia incondizionata di cui Dio le ha conferito la forza con il suo “tu sei mia” fondato nel passato, la fede dell'anima trova pace. Ma la sua vita rimane nell'inquietudine > ciò che essa possiede nel mondo come fondamento della sua fede, è solo una parte del mondo, non il mondo intero. Il suo esperire la riempie tutta ma la realtà storica che, entro la creazione, sta a fondamento dell'esperienza vitale, non è la totalità del mondo, bensì solo una parte. Così il suo poter-pregare diventa un dover-pregare. La voce di Dio che riolma nel suo intimo colma solo in una parte assai piccola del suo mondo > abbastanza per poter essere certa, nella fede, della sua realtà mondana, ma insufficiente per poter vivere di questa fede. Il miracolo fondamentale della rivelazione, avvenuto nel passato, esige di essere completato in un ulteriore miracolo non ancora avvenuto. Il Dio che un giorno ha chiamato l'anima per nome, quello stesso Dio dovrà farlo un giorno “ancora una volta”, ma stavolta “ davanti agli occhi di ogni vita- vivente”. L'anima deve dunque pregare per la venuta del regno. Un giorno Dio è disceso e ha fondato il suo regno. L'anima prega per la ripetizione futura di questo miracolo, per il completamento dell'edificio fondato un tempo. La rivelazione culmina in un desiderio inappagato, nel grido di una domanda che attende risposta. Il fatto che l'anima abbia il coraggio di desiderare in tal modo è l'opera della rivelazione. Ma esaudire il desiderio, rispondere alla domanda, far tacere il grido non è più in suo potere. Alla rivelazione è intrinseco il presente, nel futuro essa getta solo il desiderio, la domanda, il grido. Infatti il futuro non appare nel presente se non sotto queste tre figure che sono in verità una sola. E perciò questo momento supremo, la preghiera, benché il punto più alto della rivelazione, tuttavia le appartiene solo a metà, solo come poter-pregare e come dover-pregare, e non come preghiera reale. Il momento supremo, che ancora appartiene per in intero al regno della rivelazione, rimane la fede completamente pacificata, la quiete silenziosa dell'anima nel “tu sei mia” di Dio, la pace che essa ha trovato nei suoi occhi. Il dialogo d'amore è qui giunto alla fine. Il grido che l'anima si lascia sfuggire nell'istante del supremo, immediato compimento oltrepassa i limiti di questo discorso a due; non proviene più dalla quiete beata e silenziosa dell'essere-amata, ma sale con nuova inquietudine da una profondità nuova, al di là della prossimità non vista, ma sentita, dell'amante. Alla forma temporale del passato, in cui (come atto) era fondata e (come risultato) culminava la creazione, qui corrisponde con un ruolo dominante il presente. La rivelazione è al presente, anzi è l'esser-presente stesso. Il passato, verso cui anch'essa si volge a guardare nell'istante in cui vorrebbe dare alla sua attualità la forma di un enunciato, le diviene visibile solo mentre lo illumina con la luce del presente; solo con questo sguardo all'indietro il passato dimostra di essere il fondamento o la predizione dell'attuale esperienza di vita, che risiede nell' “io”. Ma, in sé e primariamente, la forma enunciativa non è propria dell'esperire in genere, mentre invece è tipica dell'accadere della creazione; al contrario, l'attualità dell'esperire viene soddisfatta solo dalla forma del comando che immediatamente e di un colpo solo è emesso, pronunciato, eseguito. L'imperativo appartiene alla rivelazione come l'indicativo alla creazione. Esso non abbandona l'ambito dell' “io” e del “tu”. Ciò che risuonava anticipatamente in quel “facciamo” che Dio pronunciò alla creazione dell'uomo, parola onninclusiva, solitaria, soliloquiale, giunge a compimento ora nell' “Io” e nel “tu” dell'imperativo della rivelazione. Lo ille-illa-illud della terza persona è suono ormai spento. Esso era solo il terreno sul quale crescevano l' “Io” e il “tu”. Il verbo serve ora ad esprimere l'esperire, non più l'accadere. Perciò il sostantivo diviene, da complemento oggetto, soggetto; il suo caso è ora il nominativo invece che l'accusativo. In quanto soggetto dell'esperire il sostantivo però cessa di essere cosa e non mostra più il carattere della cosa, di essere una cosa tra le altre; esso, poiché soggetto, è solo singolo, singola persona come si poteva presentire già nel testo della creazione dell'uomo, primo singolo, immagine di Dio. L' “io” (o il tu) considerato nella sua oggettività, è singolo semplicemente e direttamente, non per il tramite di una qualche molteplicità; non è un “Il” perché sarebbe un “un”, ma è singolo senza specie. In luogo dell'articolo compare qui l'immediata determinatezza del nome propri. Con la chiamata mediante il nome la parola della rivelazione entrava nello scambio dialogico reale; il nome proprio interrompe il rigido muro della cosalità. Ciò che ha un proprio nome non può più essere cosa, è incapace di entrare nella specie, poiché è specie a se stesso. E così pure non ha n suo posto nel mondo, né un suo attimo nell'accadere, porta con sé il sui “qui” ed il suo “ora” dovunque egli vada; là dove egli è, è un centro, e quando egli apre bocca è un inizio. L'io con il suo nome proprio, coerentemente alla sua creazione come uomo e come “Adam”, è centro ed inizio in se stesso; infatti egli richiede che nel mondo vi sia un centro al centro del suo esperire, un inizio all'inizio del suo esperire. Egli esige orientamento, esige un mondo che non si trovi in una giustapposizione arbitraria ed indifferente, bensì un mondo che ponga a supporto del suo ordine interiore, che sempre lo accompagna nella sua esperienza vitale, il solido fondamento di un ordine interiore. Il nome proprio richiede nomi anche fuori di sé. Il primo atto di Adam è dare il nome agli esseri del mondo; Adam da il nome agli esseri così come li incontra nel creato, come specie e non come esseri singoli, e lo fa lui stesso, esprimendo così la sua esigenza di denominare, ma la sua esigenza rimane però insoddisfatta perché i nomi che egli esige non sono quelli che egli personalmente darebbe, bensì nomi che gli vengono rivelati come gli è rivelato il suo, nomi nei quali la peculiarità del nome proprio attingerebbe terreno e fondamento. Per questo nel mondo devono esserci almeno nomi a sufficienza per offrire fondamento al suo proprio nome. L'esperienza vissuta soggettiva, che è legata al proprio nome, ha quindi bisogno di una fondazione nella creazione, creazione che noi in precedenza già indicavamo come creazione della rivelazione, come rivelazione storica. Tale fondazione, poiché è nel mondo, deve essere spazio-temporale proprio per poter conferire fondamento alla certezza assoluta, che l'esperire ha, di possedere un tempo proprio e uno spazio proprio. La fondazione deve istituire nel mondo sia un centro che un inizio per l'esperire, il centro nello spazio; l'inizio nel tempo. Questi due punti devono avere un nome, anche se tutto il resto del mondo rimane nella tenebra dell'assenza di nome. Deve esserci un “dove”, luogo ancora visibile nel mondo da cui la rivelazione si irradii, ed un “quando”, un attimo ancora vibrante in cui essa abbia aperto bocca. Benché, negli effetti successivi, l'aver-avuto-luogo della rivelazione nello spazio e l'esser-accaduto della rivelazione nel tempo possano oggi continuare a vivere in due diversi portatori > comunità di Dio e parola di Dio, un tempo però tutto ciò deve essere stato fondato d'un sol colpo. Fondamento della rivelazione, centro ed inizio insieme, è la rivelazione del nome divino. La rivelazione è quindi altrettanto necessaria quanto la reazione, il nome è necessario al pari della cosa. Il grande errore dell'idealismo è stato di pensare che nella sua “produzione” del Tutto fosse realmente contenuto l'intero Tutto. Il nostro fare a pezzi il Tutto, compiuto nella prima parte, aveva dovuto togliere di mezzo quell'errore. Per noi l'idealismo aveva dimostrato di essere in concorrenza, non con la teologia in generale, ma solo con la teologia della creazione. Noi avevamo cercato la via che porta dalla creazione alla rivelazione ed eravamo giunti alla luce del meriggio universale nel quale le ombre idealistiche si riducevano fino a sparire del tutto. Quelle ombre, nel regno delle cose create non si poteva impedir loro di entrare, almeno come accompagnatrici capaci solo di appiattire la corposa e variegata realtà delle cose. Ma l'ingresso nel regno dei nomi rivelati è sbarrato per loro. L'oggetto vede che il suo posto, all'interno, è già occupato dal nome, la “legge” lo vede occupato dal comandamento, così essi recedono barcollando confusi lontano dalla soglia; qui la loro forza è esaurita. Al contrario la forza della rivelazione comincia solo qui. Anche nel concetto di creazione essa era già attiva, ma solo qui lo è nel proprio ambito. Le “categorie” della teologia dimostrano la loro preminenza su quelle della filosofia idealistica. Queste categorie idealistiche possono al massimo tentare di coprire l'ambito della prima categoria teologica, quella della creazione. La categorialità della successione creazione-rivelazione-redenzione, è dimostrata dal fallimento di quel tentativo. Per un concetto, avere carattere di categoria non significa altro se non che esso, in quanto concetto, è legato all'esistenza in maniera immediata e non indirettamente. La categoria afferma qualcosa che c'è già. Allorché noi ascriviamo alla sequenza creazione-rivelazione-redenzione il carattere di categoria, e Il contenuto nell'altro senso del termine, nel senso di ciò che precede l'opera d'arte, ma che solo qui, nell'opera d'arte, è esteticamente vivificato abbiamo potuto chiamarlo, in contrapposizione ad “epico” l'aspetto “lirico” dell'opera. “lirico” è l'autodedizione al singolo momento, l'oblio della propria globalità e della molteplicità delle cose. La globalità dell'opera, mentre da un lato sta alle spalle dell'abbondanza dei particolari come loro comune punto di riferimento estetico, dall'altro lato deve anche poter essere dimenticata davanti ad ogni particolare. Questa singolarizzazione estetica di ogni singolo tratto, questa “bellezza del dettaglio” sorge in quell'autodevoluzione della globalità mediante la quale il particolare di volta in volta considerato diviene esso pure un piccolo tutto, e così in esso può dischiudersi l'intera profondità della vitalità estetica. Questa è la bellezza “lirica” dell'istante, la quale diviene possibile nella globalità dell'opera d'arte solo se questa globalità si immerge tutta nel singolo istante fino a perdervisi totalmente. Ma mentre vi si immerge, essa esce dal proprio nascondimento; e mentre di fronte all'abbondanza dei particolari essa non era altro che una globalità “nascosta”, ora, nella vivificazione del singolo particolare, diviene a sua volta manifesta. L'anima che è attinta dal particolare lo è solo a partire dall'anima dell'insieme che da qui si rivela, pur essendo ancora nascosta rispetto all'abbondanza dei particolari. “Epico” e “Lirico” in questo senso sono qualità di ogni opera d'arte, ma in combinazioni diverse. Le diverse arti si differenziano a seconda della presenza maggiore o minore di queste proprietà fondamentali. Le arti figurative sono prevalentemente “epiche”, e questo già per la semplice ragione che esse pongono le loro opere nello spazio. Lo spazio è la forma dell' “accanto a” e quindi la forma in cui l'abbondanza dei particolari è immediatamente dominabile da un sol colpo d'occhio estetico. Per un motivo analogo la musica è in prevalenza “lirica”. Essa pone le sue opere nel fluire del tempo ed il tempo è quella forma che lascia pervenire alla coscienza un solo singolo attimo alla volta; così che l'opera d'arte deve qui essere percepita proprio nelle sue particelle più minuscole. Nella percezione/fruizione delle opere dell'arte figurativa, un certo grado di obiettività è ancora possibile e giustificato; il carattere dell'arte figurativa, si può cogliere interamente e complessivamente come una globalità estetica con un solo sguardo “oggettivamente”. Qui si trova a casa propria il “conoscitore”, come nella musica lo è il “fruitore”. Queste differenze sono tutt'altro che rigide e consentono posizioni intermedie. Cos'è allora l'inizio dell'opera nell'arte figurativa? Il fatto che la globalità dell'opera appaia agli occhi interiori dell'artista in un sol colpo come un intero già ben formato in ogni suo particolare. Ciò che egli vede non ha alcuna relazione con la “natura”. In questo attimo creativo l' “impressione della natura” deve essere completamente repressa per fare spazio al fiammeggiare della visione. L'artista contempla in modo così penetrante il suo “soggetto” unicamente per poter oltrepassare l'impressione e le impressioni; lo contempla solo per non vederlo più. Nell'istante in cui non lo vede più ma al suo posto vede una globalità ormai separata dalla natura costituita di direzioni, rapporti, intensità; solo in questo istante l'immagine è presente nell'artista. C'è completamente; la sua natura, considerata dall'esterno, non vi aggiunge più nulla; in questa concezione priva di natura, del primo istante è già anticipata tutta la successiva esecuzione. Solo anticipata, profetizzata. > Infatti l'esecuzione non è per null'affatto una esecuzione meramente meccanica dell'immagine creata nella visione, ma è un procedimento altrettanto originario della visione creatrice stessa. L'esecuzione avviene al cospetto della natura. Nel confronto con essa, alla visione si aggiunge la “forma”, forma nel senso del linguaggio d'atelier. La forma presuppone che sia stata contemplata la “visione”; in assenza di ciò, all'artista non si presenterebbe la necessità di confrontarsi con una forma della natura. Ma il confronto non avviene sul fondamento della visione; ora l'artista affronta direttamente la natura, come se avesse dimenticato la visione. La nascosta globalità dell'opera d'arte, che nella visione si era data forma in una molteplicità spaziale, ora si precipita a capofitto nella natura visibile. Ora, il particolare, diversamente che nella visione, viene rivestito di forma nel più stretto contatto simpatetico con la natura. La volontà di creare l'opera viene riversata sempre intera dentro ogni particolare a cui proprio in quell'istante l'artista sta lavorando. Questo è ciò che gli artisti esprimono dicendo che questo o quel particolare è stato trattato “con sentimento”. Con questa locuzione non si intende un sentimento rivolto alla globalità della creazione dell'opera, un sentimento certo vivo nella visione ma qui appunto muto. Qui si tratta esclusivamente di quel sentimento che si è immerso nella singola forma naturale, e che, mediante la forza di questa sua immersione, la trasforma da forma naturale, di per sé confusa, visibile, solamente in opaca equivocità esteticamente invisibile, muta, in una forma artistica determinata, univoca e quindi esteticamente visibile e in certa misura parlante. > Si tratta qui del secondo atto del sorgere dell'opera d'arte plastica. Alla visione, priva di natura, esteticamente creativa; segue l'amorevole vivificazione del soggetto naturale attraverso la forma artistica. Nella musica i rapporti stanno altrimenti già per il fatto che qui domina il tempo e quindi i particolari non si possono abbracciare con un solo sguardo. L'atto di porre i particolari muovendo dalla globalità non può dunque essere qui, come è nelle arti figurative, la visione interiormente contemplata dell'opera d'arte stessa compiuta. Un tale veder-tutto-insieme-in-un-colpo-solo anche solo interiormente, non è possibile qui; a precedere non è la visione che è ancora muta solo a causa della sua mancanza di natura, ma che peraltro è già piena di tutte le forme e i colori dell'opera terminata, bensì è veramente la parte muta dell'arte. Nel ritmo vi è già l'intera opera della musica in tutte le sue parti, anche se è ancora una musica muta. E come quella visione che anticipa l'opera nell'arte figurativa non ha una vera e propria struttura ottica, ma pare essere un insieme di direzioni e di rapporti proposizionali (equilibrio, squilibrio, pressione, oscillazione, carico?) insieme statico, così il ritmo non anticipa ancora l'opera d'arte in figure musicali, ma solo in figure mutamente dinamiche. Si può “ritmare” un'opera musicale, raffigurare la sua parte fondamentale senza suoni, mediante una successione di movimenti. Il movimento è l'unica possibilità di rendere oggettiva la successione temporale del presente. Sulla possibilità di questa oggettivazione si basa la musica; solo attraverso questa possibilità la concezione dell'intera opera come unità è resa possibile. Nel ritmo avviene davvero la creazione dell'opera musicale, ma anche qui la creazione, benché con il suo “in principio” abbia già anticipato tutto, è però solo la muta profezia del miracolo che si rivela con il suono. Questa rivelazione deve anche qui di nuovo discendere al singolo istante dell'opera. Deve animare quello senza riguardo all'istante vicino, infondendogli vita sonora. Essa può intervenire solo dopo che l'insieme di tutti gli istanti è stato creato nel ritmo. Questa animazione del particolare è l'opera dell'armonia. Al singolo istante, che nel ritmo formava solo un muto membro dell'insieme, l'armonia conferisce suono e vita al tempo stesso. Essa lo rende per la prima volta sonoro e lo anima, gli conferisce un valore tonale e gli dona l'uno e l'altra in una sola volta, proprio come la rivelazione conferisce al muto “sé” linguaggio ed anima insieme. Come il singolo punto dell'opera d'arte figurativa deve essere “formato” ma non può essere contemplato, e la visione contempla in anticipo, creativamente, solo la somma di tutti i particolari, così il singolo istante dell'opera musicale viene animato armonicamente con l'intera profondità di una tonalità a lui solo propria, la quale pare renderlo, in quanto istante per istante, totalmente indipendente dall'insieme ritmico. Avevamo conosciuto la rivelazione come quel divenir-adulto del muto “sé” che, per azione dell'amore di Dio, diventa anima e parla. Se il linguaggio è più che un'analogia, se è veramente metafora, allora ciò che nel nostro “io” percepiamo come parola viva, ciò che, dal nostro “tu”, vivo risuona a noi di rimando, deve “star scritto” anche nella grande testimonianza storica della rivelazione, di cui abbiamo riconosciuto la necessità a partire dall'attualità della nostra esperienza vissuta. La metafora dell'amore attraversa, come metafora, l'intera rivelazione. Presso i profeti è la metafora sempre ricorrente. Non è sufficiente che il rapporto di Dio con l'uomo venga raffigurato con la metafora del rapporto tra l'amante e l'amata; nella parola di Dio deve esserci immediatamente il rapporto dell'amante con l'amata, significante senza alcun rimando al significato. In questa metafora non è più possibile vedere “solo una metafora”. Qui il lettore è posto di fronte all'alternativa tra l'accogliere il senso “puramente umano”, sensuale, ed il riconoscere che qui, proprio in questo senso puramente sensibile, metaforicamente si cela il significato più profondo. Fino alla soglia del diciannovesimo secolo si è percorsa unanimemente la seconda via. Il Cantico dei cantici era riconosciuto come cantico d'amore, al tempo stesso, lo si riconosceva immediatamente come poema “mistico”. Si sapeva che l' “io” ed il “tu” del linguaggio intraumano sono senz'altro anche l' “io” ed il “tu” tra Dio e l'uomo. Si sapeva che nel linguaggio la differenza tra “immanenza” e “trascendenza” si dilegua. Proprio perché il Cantico dei cantici era un canto d'amore “autentico”, “profano”, proprio per questo era un autentico canto “spirituale” dell'amore di Dio per l'uomo. L'uomo ama poiché Dio ama. La sua anima umana è l'anima destata ed amata da Dio. Era riservato al passaggio dal diciottesimo al diciannovesimo secolo il compito di sconvolgere questa visione emotivamente chiara, perché radicata nella rivelazione, del rapporto tra l'umano e il divino, il profano e spirituale, anima e rivelazione. Quando Herder e Goethe presero a considerare il Cantico dei cantici come una raccolta di canti d'amore “profani”, con la designazione “profani” si intendeva esprimere il fatto che Dio non ama. La loro opinione era che l'uomo poteva magari “amare” Dio come il simbolo della perfezione, ma mai aveva il diritto di pretendere che Dio a sua volta lo ri-amasse in risposta. Dio poteva al più essere il “padre onniamorevole”; l'autentico rapporto d'amore di Dio per la singola anima venne negato e così si fece del Cantico dei cantici un canto d'amore puramente umano. Poiché l'amore autentico, che appunto non è universale, c'è solo tra esseri umani. Dio aveva così cessato di parlare la lingua degli uomini; si trasferiva nuovamente nel suo nascondimento neopagano-spinoziano. Ora che il Cantico dei cantici si doveva intendere in modo “puramente umano” si poteva fare anche il passo che va dal “puramente umano” al “puramente profano”. Esso venne dunque spogliato delle sue valenze liriche. In tutte le pagine si cercò di vedere ad ogni costo azione drammatica e contenuto epico. Obiettivo era sempre la trasformazione dell'elemento lirico, l' “Io” e il “tu” della poesia, nella perspicuità epica dell' “egli” e dell' “essa”. Il linguaggio della rivelazione dell'anima aveva qualcosa di inquietante per lo spirito di questo secolo, che rifaceva tutto a propria immagine, riducendolo a qualcosa di obiettivo, di profano. La negazione della parola di Dio, inizialmente avvenuta ancora nella gioia esuberante per la parola dell'uomo ora divenuta “pura”, si vendicò ben presto sulla parola dell'uomo, la quale, una volta separata dal suo immediato, vivo, fiducioso essere-una-cosa- sola con quella si irrigidì nella morta obiettività della terza persona. A questo punto dalla scienza venne un contraccolpo. La disperata arbitrarietà e l'avventurismo critico-testuale di tutte le interpretazioni nel senso dell'obiettività del Singspiel misero gli spiriti dotti in condizione di accogliere una nuova prospettiva. La soluzione semplice, cara alla concezione “mistica” del passato, secondo la quale il pastore ed il re erano la stessa persona, cioè Dio, naturalmente era stata superata da molto tempo. Tutto ciò che consentiva un'interpretazione drammaturgica è venuto a cadere. Ora tutto è di nuovo incluso nella lirica solitudine a due dell'amante e dell'amata. L'emore non può affatto essere “puramente umano”. Nel momento in cui esso parla (e l'amore deve parlare, poiché non vi è altro modo di parlare per esternare se stessi se non il linguaggio dell'amore) e dunque poiché parla, esso diviene già qualcosa di sovraumano. Infatti la natura sensibile della parola è piena fino all'orlo del suo sovrasenso divino; l'amore, come lo stesso linguaggio, è sensibile e sovrasensibile insieme. Per l'amore la metafora non è affatto un orpello accessorio, bensì essenza. Tutto ciò che è transitorio per tutto ciò che non è l'Uno. -Il “sé” era, è vero, privo di qualsiasi via o impulso verso l'esterno; non vedere e non udire per lui era l'unico desiderio; ma, almeno come eroe tragico, egli stesso diveniva però visibile e, nella percepibilità del suo stesso silenzio, udibile. -L'anima, è vero, è ora aperta allo sguardo e alla parola, ma solo in direzione di Dio; da tutte le altre parti, invece, è ancora chiusa come prima lo era il “sé”; inoltre ora ha perduto anche quella visibilità e quella udibilità, quella vitalità dotata di figure benché tragicamente rigida, che il “sé” possedeva. Nella beatitudine del suo esser-amato da Dio il “sé” meramente pieno di dedizione è morto al mondo, è morto in generale a tutto ciò che è all'infuori di Dio. Come il mero Dio creatore si trova sempre esposto al pericolo di inabissarsi nuovamente nel nascondimento, così la mera beatitudine dell'anima immersa nello sguardo d'amore di Dio può sempre sprofondare nella chiusura escludente verso l'esterno. È l'uomo chiuso in se stesso che, al pari del Dio nascosto, sta al confine della rivelazione e la separa dal pre-mondo. L'uomo pagano, il “sé”, era chiuso in se stesso, ma non per questo chiuso nei confronti dell'esterno, era visibile; non trovava, è vero, alcun accesso al mondo, ma il mondo trovava un suo accesso a lui e, benché egli fosse muto, gli si poteva tuttavia rivolgere la parola. Il coro della tragedia antica non è altro se non questo ripetuto incalzare del mondo esterno verso l'eroe, appello rivolto alla sua figura muta e marmorea. > L'eroe deve essere figura visibile, deve stare al mondo, anche se egli stesso non lo sa né vuole ammetterlo; e la sensazione che le cose stanno così, è imposta allo spettatore dal coro, che guarda all'eroe, lo ascolta, gli rivolge la parola. Quindi il “sé” era, si chiuso in sé ma non però chiuso verso l'esterno/precluso agli sguardi del mondo. L'eroe muto, stava, nonostante il suo mutismo, nel mondo. È perché egli si trovava nel mondo che, nel paganesimo, era possibile un mondo in generale, egli vi stava certo come un blocco, ma non era però sottratto in assoluto ai suoi influssi. L'uomo soltanto amato-da-Dio è chiuso irrimediabilmente a tutto il mondo e chiude in se stesso. L'anima mistica si apre a Dio, ma poiché si apre a Dio soltanto, essa è invisibile e chiusa al mondo intero. Ciò gli diviene possibile solo perché egli non vuole proprio null'altro se non essere il prediletto di Dio. Per esserlo, per vedere solo quell'unico solco su cui corre il collegamento da lui a Dio e quello da Dio a lui, egli deve necessariamente negare il mondo, e poiché il mondo non si lascia negare, deve appunto rin-negarlo veramente; è per lui assolutamente essenziale che, giacché il mondo esiste, egli lo tratti come se non esistesse davvero, come se non avesse alcun esserci, alcun esser-già-qui; deve trattare il mondo come se esso non fosse creato, come se non fosse creazione di Dio, non gli fosse stato posto davanti da quello stesso Dio di cui reclama per sé l'amore. Deve trattarlo come se fosse creato dal diavolo, e poiché il concetto di “creare” appare inapplicabile ad un agire demoniaco, si dovrebbe dire che deve trattarlo come se gli venisse posto innanzi istante per istante pronto per l'uso, proprio per le accidentali necessità del momento in cui egli vi getta lo sguardo > rapporto costitutivamente immorale. Di fronte alla superba chiusura dell'uomo, il mondo a sua volta deve chiudersi in se stesso. Ma bisogna pervenire ad uno schiudersi se non si vuole rinnegare il fondamento più profondo di quell'aprirsi dell'anima. Quel fondamento era la necessità che il segreto premondo della creazione venisse a capovolgersi nel miracolo del rivelare. Uscendo dal suo mutismo il “sé” doveva divenire il “sé” parlante. E pareva che già lo fosse divenuto, come anima amata. Ma ora, l'anima amata improvvisamente ci si è di nuovo inabissata nel non configurato ancor prima di aver attinto pienamente la figura. Questa è la grave cola del mistico > egli trattiene il “sé” nel suo cammino verso la figura. L'eroe era un uomo; il mistico invece non è un uomo, è a malapena un uomo a metà, recipiente delle estasi da lui esperite. Egli parla ma ciò che dice è solo risposta, non parola; la sua vita è solo un attendere, non un andare. Eppure solo un uomo che sapesse crescere dalla risposta alla parola, dall'attesa di Dio al camminare al cospetto di Dio, sarebbe un uomo reale, uomo completo. Di nuovo avviene ciò che era avvenuto per Dio > dalla figura che nel paganesimo era divenuta “perfetta”, nella conversione interiore non si produce subito una nuova figura, ma ne scaturisce soltanto qualcosa di ancora non configurato, un atto puramente attributivo, l'atto creatore di Dio, l'aprirsi dell'anima; qualcosa privo di figura, che solo quando viene inserito nell'orbita dell'astro del mondo assume ulteriore figura. La figura che l'uomo chiuso su di sé assume così nel suo compiersi a uomo totalmente dischiuso, nell'attendere e nell'andare, nell'esperire dell'anima e nell'atto vivificato dall'anima è quella del santo. Il santo è tanto al di qua della chiusura umana quanto l'eroe che ne è al di là. Rapporto che ritroviamo tra il Dio manifesto dell'amore e quello, vivente in assoluto, del mito, in mezzo ai quali sta a discrimine la notte del nascondimento di Dio. Mentre si apre a uomo totale, l'uomo è ora divenuto direttamente visibile ed udibile. Egli infatti può ora imporre di esser visto e di essere udito; non è più una rigida statua di marmo come l'eroe tragico dell'antichità, egli parla. Per questo nella tragedia moderna il coro, ormai superfluo, è stato soppresso. L'eroe della tragedia moderna non è più “eroe” nel senso antico, è totalmente gettato, con tutta la sua sensibilità e la sua volontà, dentro all'eterna corrente delle vicende del mondo, quanto mai vivo e pieno di terrore non dissimulato davanti alla tomba aperta. Questo eroe è profondamente umano e trema per il suo essere mortale, lo spettatore lo vede risvegliarsi alla piena vitalità del dialogo. Esattamente al contrario che nel dialogo antico, qui tutto è volontà, azione e reazione, non rimane spazio per una consapevolezza che si innalzi al di sopra dell'istante. Lo spettatore non può fare a meno di riconoscere come vivo l'eroe che vede volere ed agire. L'uomo che sta sulla scena costringe l'uomo in platea ad entrare nei sentimenti del suo interlocutore; ciò che accade sulla scena non lo fa ascendere al timore o alla compassione, ma lo porta all'opposizione ed al coinvolgimento. Nello spettatore viene eccitata la volontà, non la premonizione gravida di sapere. Nel monologo l'eroe antico, solo con se stesso, poteva essere caparbia volontà tutta raccolta in sé, tutta ripiegata su di sé, insomma totalmente “sé”. Per l'eroe moderno i monologhi sono semplici punti di sosta, istanti in cui egli, dalla sua vita effettiva, movimentata, attiva, che vive nei dialoghi, guadagna in qualche modo la rive e per poco diviene spettatore. Autoosservazione; questo nuovo monologo significa sempre una piccola porzione di coscienza nella sua esistenza tragica, per il resto priva di coscienza, che trascorre in agire e patire. Una coscienza che, pur possedendo una strana chiarezza, quasi impossibile nella realtà, tuttavia rimane sempre limitata. È sempre quella visione del mondo, della propria posizione in esso, che parte solo da un determinato punto di vista, da quello del singolo “io” individuale. E questi punti-di-vista-dell'io sono molti, tanti quanti sono gli “io”. Qui vi è una intrinseca differenza tra la tragedia moderna e l'antica. La tragedia moderna è stata a buon diritto contrapposta, come tragedia dei caratteri, all'antica considerata tragedia d'azione > le figure della nuova tragedia sono tutte diverse l'una dall'altra, poiché ogni personalità ha alla base una diversa individualità, un'altra indivisibile parte-del-mondo, distinto luogo prospettico di considerazione del mondo. Nella tragedia antica era diverso > la solo le azioni erano diversificate, ma l'eroe in quanto eroe tragico era sempre identico, sempre lo stesso identico “sé” caparbiamente sepolto in se stesso. Alla coscienza limitata dell'eroe moderno si contrappone l'esigenza che egli sia cosciente nella sua essenza, quando è solo con se stesso. -Una conoscenza limitata è imperfetta, così l'eroe dovrebbe propriamente avere una coscienza perfetta di se stesso e del mondo. E in tal modo la tragedia moderna tende ad una meta che è totalmente estranea alla tragedia antica, tende alla tragedia dell'uomo assoluto nel suo rapporto con l'oggetto assoluto. Le tragedie filosofiche, in cui l'eroe è filosofo, vengono qui considerate le vette della tragedia moderna (Amleto, Faust). Ma persino in esse noi abbiamo la sensazione che il punto decisivo non sia ancora stato raggiunto. Ancora stona che qui l'eroe sia semplicemente filosofo, cioè un uomo, il quale sta si di fronte all'assoluto, ma propriamente vi sta poi solo di fronte, mentre l'uomo assoluto dovrebbe vivere nell'assoluto. Tutti tentano di integrare Faust con Don Giovanni, di far assurgere la tragedia della concezione del mondo a tragedia della vita. L'obiettivo inconsapevole di tali imprese è questo > mettere al posto della moltitudine dei caratteri l'unico carattere assoluto, un eroe moderno, che sia altrettanto unico e sempre uguale quanto lo era l'eroe antico. Punto di convergenza dove le linee di tutti i caratteri tragici si dovrebbero incontrare, questo uomo assoluto, il quale non solo sta, consapevole, di fronte all'assoluto, ma lo ha esperito nella sua vita e, grazie a questa esperienza vissuta, vive in esso, questo carattere a cui le tragedie faustiane tendono solo, senza mai raggiungerlo perché rimangono sempre impaniate nella vita limitata non è altri che il santo. A prescindere dal fatto che questa meta sia raggiungibile o meno per il poeta tragico, anche se essa è inattingibile per la tragedia come per l'opera d'arte, per la coscienza moderna essa è l'esatto corrispettivo dell'eroe della tragedia antica. Il santo è l'uomo perfetto, vivente assolutamente nell'assoluto, quindi aperto a ciò che è più alto, e deciso per ciò che è più alto, al contrario dell'eroe, irrimediabilmente chiuso nell'unica e sempre identica tenebra del “sé”. Nel posto occupato dal pre-mondo dal libero signore del suo “sé”, subentra, nel mondo rinnovato e incessantemente rinnovantesi il servo del suo Dio. Questo divenir-figura dell'anima amata, che, se priva di figura si dissolve nell'amore divino, presuppone che al suo mero esser dispiegata davanti a Dio (atto nel quale essa minaccia di dissolversi) si aggiunga qualcos'altro, che di nuovo la ricomponga. Deve trattarsi di una forza capace di afferrare totalmente ad ogni istante l'anima piena di dedizione; ad ogni istante così che l'anima non abbia più alcuno spazio per “dissolversi”, non abbia più tempo per “perdersi nell'esaltazione devota”. Dalle profondità dell'anima deve salire una nuova forza per darle, nel fervore del “santo”, la sua figura e la sua saldezza, qualità che l'anima minacciava di perdere nell'ardore mistico. > Questo salire della nuova forza avviene solo mentre la lancetta dell'orologio universale si sposta in avanti e come prima, nell'assumere la figura di Dio, passava dalla creazione alla rivelazione, così ora, nell'assumere figura dell'anima, passa dalla rivelazione alla redenzione. Nel “sé” non era venuta a sfociare solo la caparbietà che allora, uscendo dall'oscurità premondana, entrava nella luce del mondo, come fedeltà dell'anima amata, ma anche qualcosa d'altro. Questa altra cosa, a differenza della caparbietà rovente, era un'acqua che se ne stava cheta, il carattere presente, il tipo peculiare d'uomo. Mentre la caparbietà affermava sempre di nuovo questo tipo peculiare tutto suo, sorgeva il rigido, conchiuso “sé”. Questo carattere era ciò che per la sensibilità degli antichi rendeva tragici gli eroi. La coscienza degli antichi non imputava come colpa all'eroe il fatto che egli ribadisse saldamente il proprio carattere, bensì che il carattere da lui con forza affermato non fosse ben amalgamato e producesse stonature. Questo errore nella disposizione interiore era l'hamartema che rendeva necessario il tramonto tragico dell'eroe. Essere un “sé” è dovere e diritto di ogni uomo, e divenire tragico è una sventura condizionata dalla dispersione interiore ormai impadronitasi dell'uomo, piuttosto che colpa morale; perciò lo spettatore si sente spinto alla compassione tragica. -Il carattere quindi, il daimon da cui l'uomo è posseduto, si cerca ora una via d'uscita verso l'esterno. Da un “affermato” una volta per tutte deve divenire, in un'autonegazione sempre nuova della sua origine, del suo “sé” chiuso verso l'esterno, ciò che lotta faticosamente per uscire. -Avevamo visto qualcosa di simile a proposito del Dio che si rivela. La era stata l'essenza, il destino interno di Dio che, in quel rivelarsi, assumeva la figura di una passione sempre rinnovata ad ogni istante e tuttavia sempre forte e violenta come un destino. Che si sia qui trovato il corrispettivo umano di quell'amore divino? In realtà non un semplice corrispettivo. Una diretta metafora era, rispetto all'amore divino, l'amore dell'amante umano-terreno. -Ma ciò che abbiamo trovato qui è simile all'amore divino solo nel suo esser-legato-all'istante, nella sua attualità sempre nuova, cioè propriamente solo in ciò che era già condizionato dal suo sorgere sotto il segno del “no”. Ma, al di là di questo, ciò che rendeva l'amore divino e l'amore umano immediatamente analoghi, la violenza carica di destino con cui facevano irruzione, nell'irruzione che veniamo ora considerando non agisce affatto. Alle sue spalle non sta un destino ma un carattere. Quindi non una necessità legata all'essenza, bensì un “demoniaco” crea o a cui si rivela, così qui c'è il rinvio ad un qualcosa che l'uomo ama. Nel comandamento questo “qualcosa” viene indicato come il prossimo ed il termine significa sicuramente colui che qualunque cosa sia stato prima di questo istante d'amore o sarà in seguito, è per me in questo istante solo il prossimo. Egli non viene amato per se stesso, per i suoi occhi, bensì solo perché si trova proprio qui, perché è proprio il mio prossimo. Al suo posto potrebbe stare chiunque altro > è l'altro, il prossimo è solo vicario; l'amore va verso colui che è di volta in volta prossimo, è indirizzato all'insieme di tutti coloro (uomini e cose) che potrebbero una volta o l'altra occupare questo posto, è indirizzato a tutto, al mondo. A questo punto ci intralcia il cammino una difficoltà. Mentre tanto in Dio che nell'umo l'emergere del “si” precedeva, secondo il tempo del mondo, l'emergere del “no”, Dio cioè “prima” creò e “poi” si rivelò, l'uomo “prima” accolse la rivelazione e “successivamente” si accinse all'azione nel mondo, ogni volta ciò che è avvenuto una-volta-per-tutte precedeva ciò che accade istantaneamente; per quanto riguarda il mondo questo rapporto temporale si trova invertito. Prima e nella creazione, il mondo si fa ciò che è totalmente rinnovato ad ogni istante, fa se stesso “creatura” e il creatore provvidenza. Così per la redenzione gli rimane solo il “si”. (la rivelazione non accade direttamente al mondo, ma è un evento che si svolge tra Dio e uomo). Ciò che in Dio e nell'uomo veniva prima, la vasta costruzione del proprio essere, che poi veniva solo internamente raccolto e unificato in una figura mediante l'azione propria di ciascuno, qui per il mondo deve di necessità venire solo in seguito. L'atto autonegantesi in cui si rivela l'istantaneità del mondo, il suo esser-intero in ogni attimo, viene qui per primo; ma la globalità del suo essere, nella piena durata del tempo adempito/colmato deve ancora sorgere. Solo nella redenzione il suo “esser-creato” può porsi a fondamento del suo “rivelare” se stesso come creatura, avvenuto nella creazione. Mentre in Dio e nell'uomo l'essenza è più antica del fenomeno, il mondo in quanto apparizione fenomenica è creato assai prima di venir redento alla sua essenza. Il motivo di questa posizione è che > sia l'uomo che Dio sono già, il mondo diviene. Il mondo non è ancora compiuto. Questa condizione di divenire, di incompiutezza, si lascia cogliere solo mediante un'inversione dei rapporti temporali obiettivi. Mentre il passato, il già compiuto se ne sta lì dall'inizio alla fine e perciò può essere rac-contato; l'avvenire invece si può cogliere per ciò che è, per ciò che-è-a-veire, solo per il tramite dell'anticipazione. Se si volesse raccontare anche l'avvenire, lo si renderebbe un rigido passato. L'avvenire esige di essere predetto. Il futuro viene esperito solo nell'attesa. Qui ciò che è ultimo deve essere, nel pensiero, primo. Così nel mondo, in quanto è ancora in divenire, la successione naturale della autoconfigurazione, la via che va dall'essenza alla manifestazione fenomenica, dalla creazione alla rivelazione, deve capovolgersi; la configurazione qui deve cominciare dalla manifestazione fenomenica che nega se stessa e terminare nell'essenza semplicemente e totalmente affermata. Il divenire del mondo non è, come il divenire di Dio e dell'anima, un divenire dall'interno verso l'esterno, al contrario fin dall'inizio il mondo è totalmente autorivelazione e tuttavia ancora completamente privo di essenza. Il mondo è completamente alla luce del giorno e tuttavia pieno di misteri, enigmatico perché si rivela prima che vi sia la sua essenza. Così esso è, palmo dopo palmo, qualcosa che viene, un venire. È ciò che deve venire. Il regno. Solo nel regno il mondo sarebbe una figura così visibile come lo era stato il mondo plastico, kosmos del paganesimo. È la stessa opposizione che avevamo rivelato per Dio tra il Dio mitico e il Dio manifesto, per l'uomo tra l'eroe ed il santo. -Anche la creatura non è affatto figura già al punto da poter tenere testa al cosmo. Alla creatura accade qualcosa di analogo, anche se non identico, a ciò che avveniva in precedenza all'anima amata da Dio, al Dio della potenza creatrice > corre il rischio di svanire. Certo, coerentemente al suo segno specifico, che è “no”, di svanire in una direzione diversa dagli altri due. -mentre la potenza creatrice minacciava di nascondersi dietro alla sua creazione; -mentre il fervore dell'anima amata da Dio era sempre sottposto alla tentazione di chiudersi superbamente in se stesso; -la creazione non è certo minacciata dal pericolo di reimmergersi in quel mondo pre-mondano che ha abbandonato. Visto a ritroso, a partire dalla dipendenza della creatura, tutta condensata nell'istante del suo esserci, quel cosmo plastico appare come un che di terribilmente rigido, esente da qualsiasi bisogno. Questo cosmo non è nascosto come lo è Dio visto, a ritroso, a partire dalla creazione; non è chiuso su se stesso come l'uomo visto, a ritroso, a partire dalla rivelazione; esso non è né invisibile come il Dio nascosto, né inaccostabile come l'uomo chiuso su se stesso, ma è invece inafferrabile > è un mondo incantato. Prima di quel mondo era stato pienamente in se stesso comprensibile finché tutta la vita era contenuta in esso. Ora una nuova vita è cominciata e ora appare sottrarsi ad ogni presa e ad ogni concetto a partire dalla nuova vita. L'immagine stessa del mondo dell'antichità non era stata affatto magica, ma pienamente comprensibile a partire da se stessa; in quel modo si era a casa propria e lo si sentiva accogliente come una patria. Ma dopo essere entrati nel mondo della creazione, questa immagine del vecchio mondo, familiarmente accogliente, questo kosmos platonico-aristotelico, divenne improvvisamente un mondo inospitale e inquietante. Il kosmos plastico apparve ora un mondo incantato; proprio come solo alla luce del concetto di rivelazione della creazione anche il Dio del mito era divenuto un Dio nascosto e come solo alla luce della rivelazione anche l'uomo tragico era divenuto l'uomo chiuso in se stesso. In questo mondo incantato, e solo a questo punto (non in precedenza, quando esso era ancora kosmos comprensibile da se stesso) la magia è divenuta realmente incantamento. Quando la nuova scienza del mondo, a partire dal diciassettesimo secolo, incominciò a prendere le distanze dall'immagine del mondo propria dell'antichità, il mondo incantato scomparve progressivamente dal campo visivo; ma, giacché ora si coglieva il mondo unilateralmente come esserci ed unicamente come esserci, esserci momentaneo connesso, attraverso l'intero spazio, dalle formule della correlazione, si sostituì la semplice idea di creatura a quella del kosmos ben compiuto e ricco di figure. Quest'idea dell'esserci scongiurò, certo, una ricaduta nella rappresentazione del mondo incantato, ma non conferì neppure lontanamente al mondo la consistenza, l'autonoma stabilità che l'antico kosmos possedeva. L'esserci era talmente disincantato che minacciava sempre di dissolversi in pure rappresentazioni. Il disincantamento qui è un rischio analogo a quello che è per Dio il nascondersi nuovamente o per l'uomo il chiudersi nuovamente in se stesso. Qui si tratta di un dis-incantamento e non di un incantamento, per il fatto che la creatura si rivela sotto il segno del “no”, mentre sia il creatore che l'anima amata si rivelano sotto il segno del “si”. Creatura è solo la “povera creatura” la quale, non appena osa uscire dalla forte protezione della provvidenza divina, essendo in se stessa inessenziale e quindi inconsistente, si inabissa sempre nel nulla. Per poter divenire figura, regno, e non rimanere solo un esserci fenomenico legato all'attimo, deve acquisire essenza, deve aggiungere alla sua istantaneità la durata, al suo esserci che cosa? Nel kosmos plastico del pre-mondo erano sfociati l'essere spirituale e l'abbondanza dei fenomeni, la specie e l'individuo. Nella creatura aveva fatto la sua comparsa la specie, cioè l'universale, ma sotto il segno del “no” e quindi in continua autonegazione di istante in istante > ogni istante contiene tutta la ricchezza della creatura, ma solo per quell'istante. Il mondo ha esser-ci, è là dov'è, e non è in nessun altro luogo. Ora deve necessariamente fare la sua comparsa quell'altro elemento > l'abbondanza del molteplice, l'individuo; e se esso era già entrato nel mondo plastico come qualcosa di istantaneo, ora deve entrare di nuovo in scena come qualcosa di durevole, consistente. Ma che cos'è mai un'abbondanza che sia anche durevole, un'individualità che abbia in sé qualcosa che non perisce, bensì, una volta qui, permane? C'è forse nel mondo un'individualità che non lo sia unicamente definendosi in opposizione ad altre individualità? Una tale individualità esiste all'interno del mondo, dispersa e non rigorosamente discernibile ovunque, ma c'è ed i suoi primi esordi sono antichi come la creazione stessa; il suo nome è > vita. la vita organica nella natura è questo “indeducibile” presente fin dai primordi che non può essere dedotto dal semplice esserci o dalla pura oggettività del mondo. Essa è il segno visibile di un concetto di vita che estende il suo dominio ben oltre i limiti della natura organica. Non solo esseri viventi, ma anche istituzioni, comunità, sentimenti, cose, opere, tutto può essere vivo. Cosa significa questo esser-vivo in opposizione al semplice esser-ci? > La figura propria di ciascuno che si plasma all'interno e perciò necessariamente durevole. Animali e piante, ogni organismo, una volta presenti, sono un qualcosa che cerca, contro tutte le forze avverse, di affermarsi nella propria figura. La vita esercita una resistenza, resiste cioè alla morte. Ciò la differenzia dal puro esserci, che è semplice oggetto, che se ne sta semplicemente “di fronte” rispetto al conoscere. Qui si vede che osa la vita aggiunga all'esserci > essa sostiene la debolezza creaturale dell'esserci mediante essenze in sé salde, incrollabili, dotate di figura; rispetto alle “manifestazioni fenomeniche” dell'esserci, gli esseri viventi sono realmente “essenze”. Mentre la conoscenza dell'esserci è conoscenza delle sue alterazioni, la conoscenza della vita sarebbe conoscenza della sua conservazione. Ma poiché la vita mantiene la sua durata mediante un resistere, essa non corrisponde totalmente a ciò che noi stiamo cercando. Non cercavamo punti durevoli della vita in un mondo che per il resto non vive; cercavamo la durevolezza del mondo stesso, una durata infinita che potesse porsi a supporto dell'esserci sempre istantaneo, che potesse starvi alla base, una sostanza del mondo al di sotto delle manifestazioni fenomeniche del suo esserci. Un infinito che fosse a sé stante, e abbiamo trovato un finito che era tale per sua essenza, perché aveva ottenuto la sua durata in resistenza contro altro. Ciò che cerchiamo non è qualcosa di già presente, ma solo qualcosa che deve venire. Cerchiamo una vita infinita, e ne troviamo una finita. Quella finita che noi troviamo è quindi semplicemente la vita non-ancora-infinita. Il mondo deve diventare tutto quanto vivo. Invece di ottenere solo singoli focolai di vita, il mondo deve diventare vivo tutto quanto. L'esserci deve essere vivo in ogni suo punto. > Il fatto che non lo sia ancora non significa altro se non che il mondo non è ancora compiuto. Questa incompiutezza balza agli occhi solo qui e non già nel concetto dell'esserci, dal fatto che l'esserci è sempre solo istantaneo e quindi è al di là del problema “compiuto” o “incompiuto”, poiché l'istante conosce solo se stesso. Ma non appena si istituisce la ricerca del “durevole”, dell' “una-volta-per-tutte”, che solo conferisce fondamento e consistenza a quell'esserci, si vede subito che il cercato non c'è ancora, o > c'è come qualcosa che ancora non c'è. Vita ed esserci non coincidono ancora. L'abbondanza di fenomeni che tumultuava dentro al kosmos, l'inesprimibile ricchezza dell'individualità, è ciò che, nel vivente, si muta in qualcosa di durevole, di configurato, di stabile. Ma mentre quell'abbondanza scaturiva sotto il segno del “No”, e quindi era in sé caduca, il vivente, che è comparso sotto il segno dell'affermazione, pone un'esigenza di eternità. Vuole perdurare nella sua figura. Senza quella stupefacente abbondanza del kosmos nessuna fondata profondità della ricchezza viva. Se quest'abbondanza fosse solo un rigido “dato” come vorrebbe l'idealismo, essa non sarebbe il suolo pre-mondano su cui possa crescere la vitalità del regno. Solo dall'abbondanza sempre rinnovata nasce la vitalità quietamente durevole che trasmette la sua figura dal passato al futuro. Non la generazione di un morto “essere” da parte di leggi universali a misura di pensiero, ma solo il plastico kosmos nella sua fattualità variopinta può capovolgersi in regno. Come la caparbietà piena di carattere dell'eroe era la sola radice da cui potesse sgorgare la fedeltà del santo, tutto dedito a Dio e rivolto al mondo, e come il Dio vivente del mito era il solo fertile terreno per il Dio amorevole della rivelazione, così solo la plastica immagine del mondo del paganesimo, poteva iniziare la comparsa del regno di Dio nel mondo. una proposizione-matrice. Lo “e”, come noi ancora ricordiamo per il ruolo che esso giocava presso i tre elementi del pre-mondo, non è originario. In esso non nasce un “qualcosa”, esso non è come il “si” ed il “no”, immediatamente in rapporto con il nulla, bensì è il segno del processo che fa nascere la figura compiuta tra gli elementi venuti all'esistenza nel “si” e nel “no”, qualcosa totalmente diverso dalla “sintesi” idealistica. Siccome ora, per noi, che l'originarietà del “No” sia quanto meno equivalente a quella del “si”, che la “fattualità” della rivelazione sia equivalente a quella della creazione è la concezione fondamentale, di conseguenza anche la nostra sintesi, lo “e”, deve ricevere un significato totalmente diverso. Proprio perché tesi e antitesi devono essere ciascuna in sé “creatrice” la sintesi non può esserlo, essa può solo ricavare il risultato; essa è solo la chiave di volta dell'arco che peraltro si erge sopra i suoi propri pilastri. In senso stretto c'è una sola sequenza unica e nient'affatto composta di concetti universali > creazione-rivelazione-redenzione. La redenzione non è più intimamente connessa alla creazione di quanto non lo sia alla rivelazione; essa non ha un rapporto più stretto solo con colui da cui vengono tanto la creazione quanto la rivelazione, cioè con Dio. Dio è il redentore in un senso molto più forte di quanto non sia creatore o rivelatore. Mentre nella creazione egli diviene creatore, ma crea la creatura, e nella rivelazione egli diviene certo rivelatore, ma si rivela all'anima, nella redenzione egli non è unicamente redentore. > l'opera della creazione e l'atto della rivelazione sono ormai in qualche misura alle sue spalle e agiscono l'una sull'altra autonomamente e come se egli non ci fosse, in ultima istanza redime se stesso. Ci arrestiamo al sorgere della figura che assume l' “e” inframondano al suo ingresso nel mondo superiore del linguaggio, nella frase-matrice. Esso deve connettere tra loro le parole-matrici della creazione e della rivelazione, quel “nulla-più-che-predicato”, il “buono!”, con quel “nulla-più-che- soggetto”, l' “io” divino. E poiché ne deve risultare una proposizione pronunciata contemporaneamente dalle due parti, un canto a due voci, allora quell' “Io” non può rimanere “Io”. > Uomo e Mondo devono poterlo cantare all'unisono; in luogo dell' “io” divino, che solo Dio stesso poteva pronunciare, deve fare la sua comparsa il nome divino, che anche uomo e mondo possono portare nel loro cuore, e di lui si deve dire > è buono. La proposizione “Dio è buono” non può divenire una non-verità > A questa proposizione si devono di necessità riallacciare tutte le altre forme di linguaggio. Certo, -mentre la parola-matrice della creazione è seguita dalle forme della successione di uno sviluppo oggettivo, come le singole proposizioni di una storia, -mentre la parola-matrice della rivelazione inaugura un dialogo; -qui le forme linguistiche devono tutte reggere ed esplicitare unicamente il senso di questa proposizione. Pure forme che indicano e rinserrano più fortemente la connessione delle due parti di questa proposizione. Invece che come una narrazione, invece che come un dialogo che si muove avanti e indietro tra i due, la grammatica questa volta si presenta come un canto che cresce strofa dopo strofa. Cantare originario > è sempre un cantare di più persone insieme. Solo quando il canto è sorto come canto dei molti esso ricolma in sovrappiù anche le forme non cantate della narrazione e del canto amebeo e diventa il canto d'amore. La forma di questa comunanza del canto sta al di sopra di ogni contenuto del canto. La proposizione-matrice, se deve essere il contenuto del canto comune può presentarsi solo come giustificazione di tale comunanza > “egli è buono” deve fare la sua comparsa come “perché egli è buono”. La prima cosa che viene in tal modo giustificata può essere solo la comunanza del canto. L'istituzione della comunanza deve precedere il contenuto del canto come una esortazione a cantare, a rendere grazie, a confessare insieme “che Egli è buono”. In considerazione del fatto che questo cantare, rendere grazie, confessare, è la cosa principale e che ciò che si canta è solo la giustificazione per farlo, si deve tradurre > un'esortazione a cantare, rendere grazie, confessare “perché egli è buono”. Questa esortazione non può essere un imperativo, perché anche l'esortazione deve stare sotto il segno della comunanza > colui che esorta deve essere anche colui che è esortato, deve contemporaneamente esortare anche se stesso. Anche colui che esorta si unisce al rendimento di grazie, anzi egli esorta unicamente per poter prendere parte anch'egli al rendimento di grazie. Colui che esorta, mentre chiama la sua anima così facendo chiama al tempo stesso tutto il mondo. Lode e azione di grazie, la voce dell'anima redenta ad un unisono con il mondo intero e la voce del mondo redento ad un sentire e ad un cantare insieme con l'anima; come può questa duplice voce risuonare come una voce unica? Solo colui al quale egli rende grazie, che non è per lui oggetto, né quindi è legato a lui, anzi è un “al di là” rispetto a lui e a tutto quanto può divenire oggetto per lui; questi solo è quello stesso a cui il vano unite le voci dei cuori che, al di qua, sono separati. Il dativo è il caso che lega, connette. Egli rimane al di là del donatore e, rimanendo al di là del singolo donatore, può essere il punto in cui tutti i donatori possono unirsi. Il dativo, essendo ciò che veramente lega, può essere ciò che veracemente scioglie tutto quanto è legato non veracemente, inessenzialmente, può essere ciò che redime/scioglie, sia reso grazie a Dio. Il grazie ringrazia per il dono; e nel momento in cui il rendimento di grazie è tributario a Dio, lo si confessa come il donatore e lo si riconosce come colui che esaudisce la preghiera. La preghiera del singolo era il punto più alto a cui il singolo in quanto tale potesse spingersi; ma l'esaudimento si trova ben oltre; solo nella misura in cui l'esaudimento si trovava ben oltre; solo nella misura in cui l'esaudimento si produceva nell'anima del singolo, la preghiera, in quanto poter-pregare, era già esaudimento di se stessa. Ma il regno per la cui venuta guida inconsapevolmente ogni preghiera, il regno, la rappresentazione visibile di ciò che fu esperito unicamente nel sancta sanctorium dell'anima, non giunge nella rivelazione e così la preghiera rimane un sospiro nella notte. Ora l'esaudimento c'è immediatamente; nell'unione dell'anima con il mondo intero, avvenuta nel rendimento di grazie, il regno di Dio, che non è appunto altro che l'unione reciproca dell'anima e del mondo intero, il regno di Dio è venuto ed ogni preghiera possibile è esaudita. Il riconoscimento, comune a tutti, della bontà paterna di Dio è il fondamento sul quale si eleva ogni preghiera comune. Questa preghiera non viene esaudita nel momento in cui scaturisce, momento in cui l'anima riesce a pregare; ma anzi, è esaudita ancor prima di essere pronunciata > il suo adempimento è anticipato nel rendimento di grazie e nella lode. Il rendimento di grazie comunitario è già l'esaudimento di tutto ciò per cui si può pregare insieme, è la venuta di quell'unica cosa per la quale ogni singola invocazione poteva ardire presentarsi al volto di Dio > cioè la venuta del regno. La confessione comunitaria della fede, la lode comune, precedono ogni preghiera comunitaria in quanto ne costituiscono l'esaudimento. Ma certo questo esaudimento precede solo, viene solo anticipato. Se fosse possibile pregare unicamente per la venuta del regno e per null'altro, allora questo esaudimento anticipato nel rendimento di grazie non sarebbe anticipato; ma in tal caso lode e rendimento di grazie sarebbero l'unico sentimento e in tal caso il regno sarebbe già qui. L'invocazione per la sua venuta non avrebbe bisogno di essere espressa in preghiera, la preghiera sarebbe terminata già con la sua prima parola, la lode. Ma non è così, non è ancora possibile, né alla comunità né all'uomo nella comunità, pregare unicamente per la venuta del regno. Questa preghiera è ancora oscura e complicata da altre suppliche di ogni genere > per tutto ciò che i rabbini designano come le necessità dell'uomo solo. -Se il singolo fosse già realmente unito al mondo intero, come egli anticipa nella lode e nel rendimento di grazie, allora tutte queste necessità lo avrebbero già abbandonato. Esse sono il segno che egli, nel col-legamento universale della sua anima con il mondo interno nella lode e nel rendimento di grazie, anticipa solo il suo esser-redento/sciolto dai legami delle sue necessità e quindi la redenzione è qualcosa che deve ancora venire, è futuro. Il futuro ha quindi qui il significato e l'importanza che il presente ha per la rivelazione e il passato per la creazione. -Mentre il presente è per la rivelazione un concetto fondamentale e quindi ha fatto la sua comparsa proprio all'inizio del “dialogo”; -mentre il passato per la creazione era un concetto conclusivo e quindi era la meta di tutte le “narrazioni”; -per la redenzione il futuro affiora semplicemente a metà strada e in modo quasi accessorio. Per il futuro è decisivo il fatto che esso possa e debba essere anticipato. Questa anticipazione, questo “oggi”, questa eternità del rendimento di grazie per l'amore di Dio (il quale rimane in eterno), eternità non molto lunga, ma gi oggi; questo è il vero contenuto melodico della strofa del canto comunitario. Se dunque su ogni unione redentrice sta scritto “non-ancora”, il luogo della fine giunge ora solo l'istante che è appunto immediatamente presente; in luogo dell'universale e supremo si presenta per ora solo ciò che di volta in volta è prossimo. Il legame del collegamento perfetto e redentivo/sciogliente tra uomo e mondo è per ora il prossimo. Invece del plurale, che contiene le cose come singoli rappresentanti della loro specie, ed invece del singolare, in cui l'anima esperisce la sua nascita, qui regna il duale, forma che nelle lingue non ha avuto durata e nel corso dell'evoluzione linguistica è stata assorbita dal plurale. Solo apparentemente essa consegna il suo potere al plurale; in verità in questa migrazione essa lascia ovunque le sue impronte ponendo ovunque, nel plurale delle cose, il segno della singolarità. Là dove una volta ha fatto presa il duale, qualcosa è divenuto il prossimo di un'anima, là un frammento di mondo è divenuto anima. Al grido che risveglia risponde sempre la voce più vicina; ma non tocca a colui che risveglia scegliere quale debba essere; egli vede solo la cosa più vicina, il prossimo. Egli vede a malapena il prossimo, sente solo, dentro di sé, la spinta traboccante dell'atto d'amore; gli è indifferente quale sia. Il “qualcosa”, proveniente dall'abbondanza dei qualcosa, che gli si può di volta in volta offrire; gli basta sapere che, per la forza dell'atto che scaturisce da lui, ogni “qualcosa” diverrà per lui qualcosa di unico nel suo genere, di soggettivo, di sostantivale. L'indeterminatezza è il segno sotto il quale l'atto di amore fa del suo oggetto il “prossimo”. -Nella creazione il determinato era creato sullo sfondo del suo “indeterminato”, grazie all'azione congiunta dei due tipi di articolo; -nella rivelazione viene chiamato ciò che è totalmente e solo determinato, il nome proprio del singolo unico nel suo genere, genere proprio solo a lui. -Ora l'indeterminato, il “qualunque” appare in quanto tale, senza porsi in relazione, come avveniva nella creazione, ad un determinato che gli sia coordinato, al suo particolare specifico. Tuttavia anche per esso una relazione con qualcosa di determinato sussiste. Tale determinato non gli è però subordinato, ma sovraordinato. Il carattere indeterminato del “qualunque” si pone in relazione con un determinato che è perfettamente tale. Ma perfettamente determinato non può mai essere nulla di singolo, bensì solo la globalità di ogni determinato, il Tutto. Da questa reciproca implicazione di “Uno qualunque” e del “mondo intero”, così come viene attivata nell'amore del “prossimo”, si sprigiona per il mondo della redenzione una fattualità che corrisponde alla realtà posta in essere, nella creazione, dall'azione congiunta dell'universale limitato e del particolare limitato. La fattualità assoluta che, per il mondo della redenzione sorge dal fatto che qui ogni mio singolo prossimo rappresenta legittimamente ai miei occhi il mondo intero, prende corpo nella strofa finale del canto nella quale le voci, che all'inizio alternandosi si spronavano a vicenda al rendimento di grazie, ora si uniscono nel possente unisono del “noi”. “Noi” non è un plurale; il plurale nasce dalla terza persona singolare, la quale, non a caso, indica l'articolazione dei sessi. Il “Noi” è la totalità sviluppatasi dal duale, la quale (diversamente dalla singolarità dell' “io” e del tu, che può solo estendersi) non è ulteriormente estensibile, ma si può solo restringere. Nel “Noi” comincia la strofa finale del canto della redenzione; -nell'esortativo esso era iniziato con l'appello dei singoli che si staccavano dal coro e con le risposte del coro; -nel duale proseguiva in un fugato a due voci; nel “noi” infine tutto si raccoglie per la credenza di nuovo corale del canto polifonico finale. Tutte le voci qui sono divenute indipendenti, ciascuna canta le parole secondo la melodia propria della sua anima, ma tutte le melodie si inseriscono nello stesso ritmo e si legano in una sola armonia. inizio. Solo per questo essa è compimento/piena fine. Vera durata è sempre un durare nel futuro e verso il futuro. Durevole non è ciò che è sempre stato > sempre stato è il mondo; neppure ciò che viene incessantemente rinnovato è durevole > è l'esperienza vissuta quella che si rinnova incessantemente; durevole è solo ciò che in eterno viene > il regno. Non la cosa, non l'atto, solo il dato di fatto è al sicuro dalla ricaduta nel nulla. Questa potenza dell' “e”, che fonda la figura e conferisce fattualità, ci è ben nota per l'importanza che aveva per il completamento degli “elementi”. Già là, in qualche sfera pre-mondana o inframondana avveniva un'intima autocreazione, autorivelazione, autoredenzione di ogni singolo elemento, Dio mondo uomo, in se stesso. Così ciò che là osservavamo nell “e” era indicato a quanto adesso constatiamo per la redenzione > che solo in essa avviene il compimento. Anche nell'arte la categoria della redenzione comprende il compimento. Le categorie della creazione avevano tracciato l'arco che va da un intero, in qualche modo presupposto, ad una quantità di particolari appartenenti al mondo dell'arte. Partendo dall'intero presupposto, le categorie della rivelazione tracciarono allora un nuovo aro, e questa volta verso il singolo particolare, che in questo modo diveniva contenutisticamente rilevante. Da questo singolo particolare, pieno di contenuto e di anima, al vasto “intero” che contiene tutti i particolari, le categorie della redenzione innalzano ora le volute di un terzo arco facendo sorgere il contesto pieno di contenuto e di anima, qualcosa di finito, concluso in senso estetico. L'opera sta qui nella sua irripetibilità, nella sua separazione dall'autore, nella sua inquietante vitalità piena di vita e tuttavia al tempo stesso estranea alla vita. Essa non possiede alcuna patria, alcuna dimora; non conosce tetto sotto il quale poter stare al riparo. Essa sta totalmente a sé, è il suo proprio genere e la sua propria specie; nessun'altra cosa e nessun'altra opera d'arte le è sorella. Anche l'autore non le dà più ricovero presso di sé; si è rivolto ad altre opere; l'artista infatti è ben più che tutte le sue opere. La singola opera è sua finché ne cullava l'idea; per lui è fuori causa quando se l'è sbrigata. Egli ormai è a malapena capace di godere un poco della propria opera. Chi dunque getterà ora il ponte dall'opera all'autore? Il fatto che in entrambi il mondo dell'arte sia solo all'inizio è dimostrato, nell'opera, dalla circostanza che essa è solo una singola opera, nell'autore invece dal fatto che egli è un autore solo possibile. Chi getterà il ponte con cui l'opera, uscendo dalla sua inquietante/non familiare condizione di isolamento, entra in una spaziosa dimora umana dalla quale non possa più esser strappata e dove si ritrovi insieme a molte opere sue pari, che vivono qui durevolmente in compagnia l'una dell'altra? Questo luogo in cui le opere fondando un'ampia, viva, durevole esistenza nel bello, in cui l'esser- dotate-di anima delle singole opere stesse anima esteticamente, a poco a poco, un ricco “intero” di vita umana è lo spettatore. Nello spettatore si fondono insieme la vuota umanità dell'autore e la caratteristica dell'opera di essere inquietante, piena di contenuto e di anima. Senza lo spettatore l'opera sarebbe muta, essa non “parla” all'autore. L'opera sarebbe solo qualcosa di “parlato” e non parola; solo allo spettatore essa “parla”. Senza lo spettatore sarebbe priva di ogni effetto durevole nelle realtà. Per entrare nella realtà l'arte deve trasformare gli uomini. Gli artisti, non-uomini, che vivono isolati, dispersi tra la massa, non sono certo interamente uomini. Non lo sono perché la loro condizione di autori, proprio come l'esserci creaturale del mondo, è reale solo nell'attimo della creazione della singola opera; da qui deriva il fatto che l'una e l'altra singola opera questa artisticità dell'artista par spenta finché non mostra, in una nuova opera, di esserci ancora. Negli artisti l'arte non si manifesta. Essa diviene realtà solo educando uomini ad essere spettatori e procurandosi un durevole “pubblico”. Solo una volta che si è fatto pubblico l'arte non può più esser tolta dal mondo; finché rimane solo opera e solo artista, vive solo una vita sommamente precaria, giorno per giorno. Solo per il creatore i suoi contenuti sono tutti riempiti di peso simbolico, egli è ben più che un artista cosciente, ben più che un cieco creatore, solo allora egli è un uomo. Per ogni opera noi avevamo stabilito i concetti di “epico” e di “lirico”, intendendo con il primo quelle qualità materiali dell'opera d'arte avvolte dall'unità della forma, con il secondo quelle qualità interiori dell'opera d'arte che fanno esplodere l'unità della forma. Già questo rapporto di contrapposizione rispetto alla forma sta ad indicare che essi ricevono consistenza solo se ancora un terzo concetti si leva sopra di loro, concetto nel quale si uniscono l' “epico” della vasta abbondanza della materia ed il “lirico” dell'attualità che, immediatamente, si accende e sprizza da ogni parte, cosi che i punti dell'ampiezza epica vengono vivificati fino ad attingere una tale immediatezza. I il “drammatico” di una sinfonia, di un quadro, di una tragedia, non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. La poesia, si trova però per sua essenza in una relazione più stretta con questa qualità del “drammatico” di quanto non lo siano l'arte figurativa e la musica. Quella essendo nell'elemento spazio, entrava spontaneamente nell' “ampiezza”, e dunque propendeva all'accantuazione “lirica” ed all'adempimento sentimentale del singolo istante; mentre la poesia non si trova immediatamente a casa propria né nello spazio né nel tempo, bensì la dove entrambi, spazio e tempo, traggono la loro intima origine > nel pensiero rappresentante. La poesia non è un'arte del pensiero, ma il pensiero è il suo elemento così come lo spazio è quello dell'arte figurativa ed il tempo è quello della musica; a partire dal pensiero essa pone poi al proprio servizio anche il mondo dell'intuizione esterna ed interna, spazio e tempo, l'ampiezza “epicamente” estensiva e la profondità “liricamente” intensiva. Ne consegue che essa è l'arte viva in senso proprio. Così al grande poeta appartiene, ancora più incondizionatamente che al pittore ed al musicista una certa maturità umana. Arte figurativa e musica conservano sempre qualcosa di astratto; quella appare muta, questa cieca. La poesia dona figura e discorso e dona anche più di questo > il pensiero rappresentante in cui ambedue sono vivi in un unico insieme. La poesia, essendo l'arte più viva, è anche la più indispensabile; e mentre non è necessario che ogni uomo abbia sensibilità musicale e pittorica, né che si diletti di produrre o riprodurre una di queste due discipline, ogni uomo completo deve avere sensibilità poetica. Se essere uomini si può fare senza fare poesia, uomini si può diventare solo se un tempo, per un periodo almeno, si sono composte poesie. -Per l'arte figurativa né visione né figura per sé sole costituiscono già l'opera d'arte. La visione è solo la prima visibile sinopia dell'opera che alla fine sarà visibile allo spettatore. La figura è l'esecuzione, rivolta sempre solo al singolo particolare determinato, nel suo rapporto con la natura. Solo se questa esecuzione, piena d'amore, ha percorso tutta l'ampiezza di ciò che è visto spiritualmente, unico modo in cui il suo “sentimento” immerso nel particolare può attingere legge e direzione, allora la figura visibile dell'opera d'arte è presente. -In modo analogo, nella musica, sopra il muto movimento del ritmo che attraversa l'insieme e sopra l'armonia che risuonando infonde anima al singolo particolare si eleva la linea del melos mossa e sonora insieme. La melodia è ciò che è vivo nella musica. In musica la melodia è l'essenziale. -La poesia ha alla base qualcosa che si potrebbe designare come metro. Nella teoria della poesia manca una distinzione come quella che la musica pone tra ritmo e misura di tempo musicale. Dove c'è ritmo c'è anche tempo, ma non il contrario. Così il metro è solo un fenomeno parziale di ciò che noi, nella sua globalità, vorremmo chiamare “sonorità”. La sonorità è ciò che, concezione originaria che abbraccia l'insieme in tutta la sua ampiezza, sta alla base dell'opera poetica > la sonorità sia nella dimensione ritmica sia in quella coloristica, tanto il movimento che attraversa l'insieme in tutta la sua estensione quanto il rapporto in cui si trovano tra loro i suoni delle vocali e i rumori delle consonanti. Si tratta di quella peculiarità alla base di ogni singola opera e la differenzia, come insieme, da tutte le altre opere già prima di ogni ulteriore determinazione. A questo carattere dell'insieme, determinato dalla “sonorità” si affianca ora l'immersione nel particolare che avviene nella scelta delle singole parole. Questo è ciò che si suol chiamare la “lingua” individuale di ogni singolo poeta, qualcosa che è più facile a cogliersi. La “sonorità” è altrettanto individuale, ma è percepita solo da chi si prende a cuore l'esortazione del poeta. Ma entrambe, per sé prese, non sarebbero ancora una poesia. Solo l' “idea” da vita all'opera poetica. L'opera poetica possiede un' “idea”. L'applicazione di questa espressione alla misura ed alla pittura l'ha resa sospetta. Perché l'unica “idea” dell'opera d'arte figurativa sarebbe la figura e l'unica idea dell'opera musicale sarebbe il suo melos. L'idea non rappresenta qualcosa che si cela dietro l'opera, ma al contrario è proprio ciò che è percepibile alla sensibilità estetica, ciò che davvero è effettivo ed efficace nell'opera. E per la poesia, nella quale il pensiero ha la stessa importanza che ha l'occhio nell'arte figurativa e l'orecchio nella musica, ciò in realtà non è altro che l'idea. L'idea è ciò che dall'opera poetica parla allo spettatore, come la melodia nell'opera musicale o la forma plastica nell'opera d'arte visiva. L'opera poetica, l'elemento nel quale essa ha la sua esistenza è quello stesso in cui anche la vita per lo più si sofferma; anche la vita parla più spesso la piana prosa del pensiero che non quella elevata e solenne del canto e del gesto plastico. Questa deviazione in direzione della vita, che noi percepivamo ovunque sotto la categoria di redenzione nella teoria dell'arte, per l'arte aveva luogo soprattutto nel pubblico, nello spettatore. In lui viene suscitato e agitato tutto ciò che era stato immerso nell'opera d'arte e che ora, venendo agito in lui, trabocca dentro la vita. Il fondo dell'anima dello spettatore è riempito con la somma delle rappresentazioni che l'arte ha suscitato in lui. Egli, come il momento “creativo” dell'autore, è interiormente pieno di figure. Rivolgendosi al singolo particolare egli diviene conoscitore, acquisisce consapevolezza. La disordinata vastità del possesso di rappresentazioni artistiche deve essere percorsa dalla coscienza perché l'arte non sia per lo spettatore un possesso gravoso o indifferente di rappresentazioni casualmente acquisite, ma ne diventi il prezioso possesso interiore ed il tesoro della sua anima amorevolmente ordinato. Così la porta del regno esclusivo dell'arte si disserra ed esso si apre la via verso la vita. -Sotto la categoria di creazione si poneva sempre una base in qualche misura naturale; -sotto la categoria di rivelazione di poneva sempre lo specialistico, il difficile, ciò che è specificamente “estetico”; -sotto la categoria di redenzione si poneva sempre l'autentico, il visibile, ciò che alla fine deve “venir alla luce” e il solo in vista del quale tutto il resto doveva precedere. È necessario che l'autore, il genio vi sia, non lo si può forzare ad essere, e nel genio l'elemento creativo, la fantasia non si può ottenere a comando come non si può comandare la fantasia recettiva dello spettatore. L'arte figurativa è la più antica delle arti. Visione, ritmo e sonorità sono i contenuti veri e propri dell'istante della concezione, dati una volta per tutte al punto che non vi si può cambiare nulla. L'opera è ciò in cui il mondo dell'arte è subito conoscibile all'esterno; sia il genio che il pubblico esistono anche al di fuori dell'arte. Sia nell'autore che nello spettatore ciò che non posseggono e si devono procurare è la consapevolezza, quello della sua capacità artistica, questo della sua competenza di conoscitore. Tra le qualità dell'opera c'è quella “lirica” è la più interiore, tra le arti è la musica quella di cui corre fama sia la più difficile. Come nello spettatore l'arte in generale va a finire di nuovo nella vita, così accade al genio nella sua umanità, all'opera d'arte in generale nella sua “drammaticità”, alle arti nella poesia, ai diversi tipi di arte nella figura, nel melos, nell'idea, nell'istante in cui si compiono e terminano in piena visibilità. Se ci troveremo ancora di fronte l'arte, non sarà più come episodio. L'ultimo insegnamento dell'episodio era appunto che esso non poteva rimanere episodio. Il regno d'ombre dell'arte, che aveva dovuto trarre in inganno l'idealismo circa l'assenza di vita del proprio mondo, esige esso stesso di ricevere vita. Come la creazione, in questa parte, non era più pre-mondo, bensì contenuto della rivelazione, così anche la redenzione non era ancora sovra-mondo, ma l'abbiamo considerata solo come un contenuto E se i primi tre punti corrispondono agli elementi Dio mondo uomo, questi tre nuovi punti, che individuano lo snodarsi del percorso creazione rivelazione redenzione, dovrebbero esser disposti in modo che un triangolo formato congiungendoli non venga a trovarsi all'interno di quel primo triangolo. Infatti in questo caso essi parrebbero investiti di un'assenza di relazione e di una esistenza a sé stante che non possiedono affatto. Ma al contrario il collegamento di un punto con gli altri due deve intersecare a sua volta il lato del triangolo originario, così che i triangoli si incrocino. In tal modo nasce una figura che, pur costruita geometricamente, tuttavia è estranea alla geometria, non è anzi neppure una “figura geometrica” bensì una vera figura. La figura differisce dalla figura geometrica perché, se può essere composta a partire da figure matematiche, in verità la sua composizione non è avvenuta secondo una regola matematica, bensì per una ragione sovra-matematica. Tale ragione era costituita dall'idea di caratterizzare i collegamenti tra i punti elementari come simboli di un accadere reale invece di farne delle pure realizzazioni di un'idea matematica. La figurazione a forma di stella che si produce viene ora a tramutare retroattivamente in figura anche gli elementi geometrici a partire dai quali è stata composta. Figurazioni geometriche semplici, punti e linee, possono però assumere una figura solo in quanto vengono separati dall'elemento vitale della matematica costituito dalla relatività universale. Se i punti e le linee dei due triangoli con cui abbiamo a che fare devono divenire figure dematematizzate, allora devono ricevere una posizione e una direzione assoluta. Ciò che non avevamo potuto attribuire loro nel passaggio dalla prima alla seconda parte del volume. Ed è ciò che ora possiamo fari, anzi, che abbiamo già fatto. Riconoscendo Dio come creatore e rivelatore, il mondo dapprima come creatura e l'uomo dapprima come anima amata, viene stabilito al di là di ogni “forse” che Dio sta in alto. E siccome Dio è creatore e rivelatore in modo parimenti originario, allora è stabilito che i punti designanti il mondo e l'uomo devono essere raggiungibili dal punto che designa Dio nello stesso modo anche se in direzioni diverse. E poiché uomo e mondo non sono più lontani tra di loro di quanto ciascuno, per sé preso, sia lontano da Dio e poiché l'azione dell'uomo nel mondo è, di fronte al suo accogliere la rivelazione solo l'altra faccia del suo uscir-da-se-stesso, così come lo è la crescita della vita del mondo, di fronte al suo esser-creatura, perciò per i tre punti vale un solo tipo di triangolo > il triangolo equilatero. L'equilateralità di questo primo triangolo, il triangolo del pre-mondo, implica anche l'equilateralità del seondo, il triangolo del mondo. I vertici di quest'ultimo triangolo sono solo simboli che stanno per le linee del primo. E con la medesima necessità con cui nel triangolo pre-mondano Dio sta in alto, nel triangolo del mondo la redenzione deve stare in basso e le linee che si dipartono della creazione e della rivelazione devono venire a confluire in essa. Ciascun elemento del pre-mondo, ed anche ogni tratto del percorso viene fissato nel suo rapporto con gli altri due > se sta sopra è origine, se sta sotto è risultato. Quelle intime, segrete, preistorie degli elementi pre-mondani, teogonie, cosmogonie, psicogonie, solo ora ci divengono comprensibili nel loro svolgimento. Esse erano storie intime di autocreazione, autorivelazione, autoredenzione di Dio, del mondo e dell'uomo. Dalla loro origine nel nulla, e fino al loro compimento nella figura chiusa e finita, esse già percorrevano in se stesse la stessa via che percorreranno in seguito nel loro emergere l'una per l'altra e l'una con l'altra nel comune palesarsi. Gli oscuri sentieri del pre-mondo svelano il loro enigma come indizi dei palesi sentieri del mondo. Questo cammino era un cammino verso l'unità. L'unità che la filosofia aveva preteso come un'ovvietà, in veste di presupposto per il Tutto, per noi è solo un risultato ultimo, risultato del risultato, punto che si trova già tanto al di là del “percorso”, quanto la sua origine divina sta ben al di là del suo inizio. L'unità è solo un divenire unità, essa è solo in quanto diviene. Ed essa diviene solo come unità di Dio. Solo Dio è, diviene unità che tutto porta a pieno compimento. Per mondo e uomo creazione, rivelazione e redenzione significano lo stesso che per Dio? Per Dio i tempi di quel giorno sono sue proprie vive esperienze; per lui la creazione del mondo è il divenir-creatore, la rivelazione è il divenir-rivelatore e la redenzione il divenir-redentore. Così egli diviene fino alla fine. Tutto ciò che accade è in lui un divenire. E tuttavia poiché tutto ciò che accade, accade contemporaneamente, poiché dunque in verità la rivelazione non è in nulla più recente della creazione e anche la redenzione non è più recente delle altre due, così quel divenire di Dio per lui non è un mutare, né un crescere, né un aggiungere, ma fin dall'inizio egli è, ed in ogni istante egli è, e sempre egli è nell'atto di venire. E solo a causa di questo “contemporaneaente” del suo esser-perenne, del suo esser-in-ogni-momento e del suo esser-eterno il loro insieme si deve designare come un divenire. Quando noi diciamo Dio per l'eternità diviene, intendiamo dire che Dio non è stato solo un tempo ed ora si nasconde con discrezione dietro leggi eterne, e che Dio non è solo negli istanti in cui uno è totalmente beato per l'ardore celeste del sentimento, non intendiamo dire che egli “dovrebbe ancora divenire”. L'eternità rende perenne proprio l'istante, essa è il rendere-eterno. “Dio è eterno” significa > l'eternità è per lui il compimento pieno. Ma lo è anche per il mondo e per l'uomo? Nient'affatto. Per attingere la vita eterna essi devono entrare nel giorno-universale del Signore. L'immortalità viene loro solo in Dio. La pianta dell'eternità è piantata la dove si trova il fondamento comune; permette che le espressioni del “si” e del “no” si esprimano separatamente e persino in successione temporale. Se l'ingresso degli elementi nella forma della temporalità, significa per loro il cammino verso l'eternità, allora la possibilità della separazione deve essere sorretta dalla certezza del collegamento ed il giorno-universale del signore deve portare l'impianto del giorno-di-Dio dell'eternità. Questa garanzia dell'eternità nonostante la temporalità del rivelarsi consiste per Dio nella redenzione; essa unisce creazione e redenzione, non è solo la garanzia, ma è anche essa stessa la adempiente realizzazione dell'eternità. Che questo immediato coincidere di garanzia e adempimento dell'eternità non valga per gli altri due “elementi” è proprio ciò che i rende “altri” e fa di Dio l'Uno. È il vero motivo per cui Dio siede lassù a governare, mentre mondo e uomo gli sono sottoposti in un eterno ordine. -L'eternità dell'uomo è piantata nel terreno della creazione. La creazione sarebbe l' “e” tra i due istanti della vita dell'uomo separati davanti a Dio e tuttavia nell'uomo riuniti > quello dell'essere amato e quello dell'amare. Il primo, che gli viene da Dio; il secondo, che si rivolge al mondo. È consapevole di amare dio amando il prossimo perché egli nel più profondo e fin dal principio sa che il prossimo è creatura di Dio e il suo amore del prossimo è amore per le creature. È consapevole di essere amato da quello stesso Dio che egli ama nelle creature perché Dio ha creato ciò che è comune a lui e al prossimo, e che questi è “come lui” e che entrambi “sono uomini” creati ad immagine e somiglianza di Dio. Il suo esser-creatura-di-Dio e il suo essere-immagine-di-Dio sono il fondamento, posto in lui fin dalla creazione, su cui egli può edificare la casa della sua vita eterna nella corrente dell'amore di Dio e del prossimo, che nel tempo fluisce e rifluisce. -per il mondo il puro esserci ed il vivo crescere sono due cose diverse. Solo le due cose insieme lo costituiscono come mondo, dalla prima gli deriva l'abbondanza del fenomeno, nella seconda possiede la spina dorsale della sua durata. In forza dell'esserci la creatura volge lo sguardo fiduciosa alla provvidenza di Dio, in forza del crescere la vita guarda piena di attesa all'uomo, il quale soltanto è in grado di conferirle durata. Così il mondo pare diriga il suo sguardo ora da quella parte ora da questa, ora pare cerchi scapo nelle eterne braccia del creatore, ora pare attendere tutto dal signore terreno della creazione. Il mondo e l'uomo con lui, nella misura in cui anch'egli è un coabitante ed un cittadino del mondo. La fiducia nel divino creatore, l'attesa rivolta all'azione dell'uomo, natura e cultura, paiono in un'opposizione eterna. Il mondo pare debba rimanere in questa opposizione. Essa per il mondo scompare nell'eternità del giorno del Signore, nel venire redentivo del regno. Quindi nessuna opposizione eterna. Eppure come può aver luogo una simile unificazione tra azione umana e opera di Dio, se non perché anche l'azione stessa dell'uomo, in quanto azione, viene da Dio e perché l'opera creatrice di Dio si accresce e si compie nel risveglio dell'uomo? La rivelazione di Dio all'uomo è così la garanzia che viene data al mondo come pegno della sua redenzione, fondamento su cui per il mondo riposa la certezza che il dubbio un giorno sarà dissolto (ogni dubbio è un dubbio fra fiducia nella creazione e attesa dell'azione e il mondo vive nel dissidio insito in questo dubbio). La rivelazione è per il mondo l'atto che garantisce il suo ingresso nell'eternità. Così per il mondo il suo essere nella luce sarebbe inserito nel lasso di tempo “tra” rivelazione e redenzione, per l'uomo nell'intero intervallo tra creazione e redenzione e solo Dio stesso vivrebbe unicamente nella redenzione, nella sua pura luce. Dio vive la sua vita pura solo nell'eternità, il mondo è a casa propria in ogni tempo, mentre l'uomo è sempre stato lo stesso. Per l'uomo non c'è preistoria. Per il mondo, invece, e quindi anche per il suo abitante, l'uomo, vi è storia. Mentre l'uomo venne creato per il sovra-uomo, il mondo divenne sovra-mondo solo nella rivelazione di Dio all'uomo e prima che questa rivelazione entri in un ambito del mondo, quest'ambito è sottomesso alla legge dell'evoluzione che lo fa diventare maturo per la sovra-mondanità. Così tutto il mondano ha la sua storia in ogni tempo > solo nell'istante in cui tale illud nel mondo fa risuonare in sé l'eco della chiamata di Dio all'uomo perché si desti alla rivelazione, un pezzo di temporalità muore la morte-di-resurrezione dell'eternità. Ma il linguaggio, essendo umano e non mondano non muore e di conseguenza nemmeno risorge. Nell'eternità è silenzio. Ma Dio stesso pianta il virgulto della sua propria eternità non nell'inizio, né nel centro del tempo, bensì assolutamente al di là del tempo, nell'eternità. Il suo esser-redento è qualcosa che si trova totalmente al di là del mondo intero, così come il suo originario esser creato era qualcosa che si trovava prima di ogni tempo. L'originario esser-creato era qualcosa che si trovava prima di ogni tempo. L'originario esser-creato dell'uomo stava prima che a lui giungesse la rivelazione e l'originario esser-creato del mondo sarà da esso totalmente assunto solo nella redenzione compiuta; ma l'originario esser-creato di Dio era prima che egli si decidesse/dis-chiudesse all'azione creatrice. Di questi originari esser-creati dei tre “elementi” abbiamo parlato nella prima parte. La seconda parte ha trattato del loro rivelar-se-stessi. Nel libro della creazione si è parlato del mondo, nascosto nella provvidenza e ivi quotidianamente rinnovato, che non del creatore; nel libro della rivelazione si è trattato più dell'amore d Dio che non dell'esser-amato dell'uomo; nel libro della redenzione si è esaminato più l'atto d'amore dell'uomo verso il prossimo che non la crescente vita del mondo. Se noi, dopo quella discesa nel pre-mondo creato all'origine e dopo questa salita attraverso il mondo manifesto, cerchiamo di gettare lo sguardo nel sovra-mondo redento, sappiamo quale visione ci attende. > là vedremo l'uomo totalmente redento da ogni particolarità e da ogni egoismo per l'essere immagine creata di Dio, vedremo il mondo totalmente redento dalla sua cosalità per essere pura anima e vedremo Dio redento da tutto il lavoro dell'opera dei sei giorni e da ogni amorosa sollecitudine per la nostra povera anima, come il Signore. Tale visione sarebbe più che un miracolo; non avrebbe più bisogno di alcuna profezia e se ci potesse essere concessa, noi cammineremmo nella luce stessa. Parte terza. La figura o l'eterno sovra-mondo. Introduzione. Che si possa tentare Dio è forse la più assurda tra le molte affermazioni assurde che la fede ha introdotto nel mondo. Dio creatore dovrebbe poter essere tentato dall'uomo, un lombrico, dal figlio d'uomo, un verme. E se pure con ciò non si intendesse il tentare proprio il Creatore onnipotente, ma piuttosto il Rivelatore, come ci si potrebbe immaginare, anche di lui, se davvero è il Dio dell'amore, che l'uomo lo possa tentare? O in definitiva è il Dio redentore quello che l'uomo dovrebbe poter La preghiera quando lo illumina, mostra all'occhio la meta più lontana; ma poiché chi prega è collocato nel preciso punto di vista/posizione della sua personalità questa remotissima metà comune a tutti appare dietro il primo piano di una prospettiva del tutto personale della prospettiva che è propria di tale punto di vista. L'immediatezza con cui si fa esperienza dell'avvistata distanza del più lontano (la quale non appare all'occhio spalancato a forza dalla volontà di raggiungere il fine, ma all'occhio illuminato nella recettività della preghiera), è l'immediatezza che consente all'amore di dirigersi immediatamente verso quell'oggetto. > Al suo occhio illuminato esso è vicino quanto lo era il prossimo per il cuore sensibile. Ma poiché nell'illuminazione gli viene illuminata al tempo stesso la via e questa, al contrario della comune universalità della meta, è la sua via personale, così egli si dirige innanzitutto alle tappe di questa via. Ed ora si affretta verso queste tappe avvistate, evitando ogni indugio e immaginando nell'indugiare ogni sorta di pericolo. Ciò che è il prossimo del sentimento viene ora scavalcato di un balzo; la tappa che nell'illuminazione viene ora riconosciuta essere la prima sulla via verso il più lontano viene messa al posto di quel prossimo, ad essa l'amore vorrebbe affrettarsi con i suoi balzi. In luogo del prossimo subentra per l'amore il successivo. Il successivo scaccia il prossimo dalla vista dell'amore. L'amore non vede né ode più quest'ultimo per raggiungere quell'altro in un balzo possente e violento. E poiché esso è l'amore e quindi agisce sempre, questo deve necessariamente riuscirgli. E così la preghiera, che in sé non possiede alcuna forza magica, illuminando la via all'amore perviene alla possibilità di sortire effetti magici. Essa può intromettersi nell'ordine divino del mondo. Può dare all'amore la direzione verso qualcosa che non è ancora maturo per l'amore, maturo per essere vivificato. Poiché evoca l'avvento di ciò che è lontano, può essere colpevole del fatto che l'uomo dimentica il suo prossimo, lo rinnega e così lui almeno non trova più alcuna strada per ritornare al suo prossimo. Quando la preghiera per la venuta del regno è preghiera di un singolo, corre il pericolo di preferire al prossimo il successivo. Tale preferenza è pre-ferenza, un anteporre, trarre avanti il futuro che viene, esitante, prima che questo futuro sia divenuto il prossimo istante presente e come tale maturo per l'eternizzazione. Così la preghiera del singolo se è esaudita e se colui che prega viene illuminato, corre sempre il pericolo di tentare Dio. La possibilità di tentare Dio dunque non contraddice affatto l'ordine divino del mondo. Sarebbe così solo se l'uomo avesse veramente la forza, non solo di amare colui che è oltre il suo prossimo ma, così facendo anche di renderlo eterno. Ma non è così. Certo l'uomo illuminato dalla preghiera vorrebbe far venire il regno dei cieli con violenza prima del tempo stabilito, ma il regno dei cieli non si lascia fare violenza, esso cresce. Così la forza magica del singolo orante, se si spinge al di là del prossimo, cade nel vuoto. Colui che è oltre il prossimo non l'accoglie in sé, e poiché essa non trova né il terreno dove posare in lui, né la via del ritorno da lui, anche il cammino in avanti le è interdetto. Questo è il lato infelice dell'amore per colui che è oltre il prossimo > benché esso operi un autentico atto d'amore, lo conclude nel suo obiettivo raggiunto, in piena analogia con l'atto finalizzato; la forzatura insita nella sua pretesa si punisce da sé. Il loro anticipare, il loro personale preferire/anteporre il successivo al prossimo, rimane privo di effetto. Il campo che il visionario ha prematuramente seminato non porta alcun frutto; solo quando sarà venuto il suo tempo sarà fecondo. Tempo e ora sono impotenti solo davanti a Dio. Infatti per lui la redenzione è senza dubbio antica come la creazione e la rivelazione, proprio perché egli non è solo redentore ma anche redento e la redenzione per lui è autoredenzione. Ogni idea di un divenire temporale che erroneamente gli si attribuisce si infrange contro al sua eternità. Non che egli abbia bisogno di tempo come tale per se stesso, ma ne ha bisogno come redentore del mondo e dell'uomo, e non già perché occorra a lui, ma perché sono il mondo e l'uomo ad averne bisogno. Per Dio il futuro non è anticipazione > egli è eterno, ed è l'unico eterno, l'eterno per antonomasia; sulla sua bocca “io sono” suona come “io sarò”. Per l'uomo e per il mondo, invece, la cui vita non è eterna, e che vivono nel puro attimo o in un ampio presente, il futuro è afferrabile solo in quanto esso, che viene esitante è tratto anticipatamente fin dentro il presente. Così per essi la durata è cosa della massima importanza, è ciò contro cui il futuro, mentre viene anticipato nell'attimo, fa incessantemente attrito. Per la preghiera tutto dipende da questo > se da essa il futuro del regno venga accelerato o ritardato. Poiché entrambi, l'accelerare e il ritardare, valgono solo agli occhi dell'uomo e del mondo, e non davanti a Dio, e poiché uomo e mondo misurano il tempo l'uno rispetto all'altro (l'uomo rispetto alla crescita del mondo che matura incontro a lui, il mondo rispetto all'abbondanza dell'amore profuso nel suo grembo) allora per la preghiera tutto dipende dal fatto che il raggio di luce, che essa getta nell'oscurità del futuro e che raggiunge la più remota distanza, nel luogo del suo primo impatto, nel più prossimo punto che il raggio di luce illumina all'orante, percorra l'amore, venga da questo superato e distanziato, oppure tenga il passo dell'amore. Solo in quest'ultimo caso la preghiera viene esaudita. Al di sopra di questa vuota idea di un “giusto” contenuto della preghiera, la fede innalza l'idea del giusto momento. Non c'è alcun contenuto di preghiera che in sé sia sbagliato. Ciò che in apparenza ha un contenuto errato, pregare per il proprio vantaggio, la preghiera egoistica, non è errata per il suo contenuto. Quanto al contenuto non ci sono richieste che siano peccaminose. Solo gli altri possono morire, l'uomo muore solo come altro, solo come ille. L' “Io” non può pensarsi morto; la sua paura di fronte alla morte è la paura di divenire ciò che egli solo on gli occhi può vedere degli “altri” morti. L'uomo non teme la propria morte, perché questa morte l'uomo, risvegliato dalla rivelazione, legato alle forme della creazione, non può immaginarsela, egli teme solo il proprio cadavere. Il vivente non si può mai immaginare se stesso come un morto, bensì sempre solo un “altro. L'altro, ogni altro, è morto già in quanto altro, già da che esiste il mondo. In quanto essere creato non è destinato a sopravvivere a qualcun altro; infatti il punto più alto della creazione non è la vita, ma ciò che gli è dato è di sovram-morire a se stesso. La morte, non la vita, porta la cosa creata al suo compimento di realtà singola e sola; le conferisce la suprema solitudine. La preghiera per la morte di un altro esige quindi che egli debba rimanere per l'eternità ciò che egli da che esiste il mondo già è > cosa creata, altro; mentre personalmente si vorrebbe essere “sé”, sopravviventi per antonomasia. Un eterno muro di divisione deve continuare ad esistere tra l' “io” e tutti gli altri. Il ponte che conduce dall' “io” all' “egli”, dalla rivelazione alla creazione, e sopra il quale sta scritto “Ama il tuo “altro””, egli non è un altro, un “egli” ma un “Io” come te, “egli è come te”, questo ponte è quello che l' “Io” che prega per la morte dell'altro si rifiuta di varcare. Costui vuole continuare a rimanere nella rivelazione e abbandonare agli “altri” la creazione. Così il peccatore nega la redenzione. Che altro sarebbe la redenzione se non questo > che l' “Io” apprende a dire “tu” al “lui”. Questa preghiera per la morte dell'altro è quindi già esaudita prima di ogni pregare; l'uomo è già nel suo “essere proprio”. Non è il contenuto della preghiera ad essere peccaminoso; esso non è contrario alla volontà di Dio; bensì è peccaminoso il fatto che l'uomo nella sua preghiera, invece di considerare già esaudita questa invocazione e invece di ringraziare perciò Dio per il suo “essere proprio” condizionato/cosificato attraverso l'umano e creaturale essere-altro di tutti gli altri, prega per questo e lo considera quindi come non ancora esaudito. In questo modo egli prega fuori tempo; dopo essere stato creato egli può solo ringraziare per il suo “essere proprio” e se invece prega per questo spreca il tempo di grazia e mentre prega per il suo “essere proprio”, che già gli è stato concesso nella creazione e nella rivelazione, gli sfugge irrimediabilmente l'istante in cui dovrebbe pregare per il suo prossimo. Così accade quando la preghiera non riesce a stare al passo dell'amore e resta indietro, quando prega il peccatore che è in noi. La preghiera del peccatore ritarda la venuta del regno perché, con il suo rimanere entro il suo “essere proprio”, si esclude da sé dall'abbondanza dell'amore che l'attimo del tempo favorevole si attende e di cui ha bisogno. L'opposto si può vedere nella preghiera del visionario, il quale, nel suo desiderio appassionato di accelerare il futuro del regno, di far sì che esso venga prima del tempo, cerca di impadronirsi del regno con la forza nel punto che il riflettore della sua preghiera gli indica come il prossimo e che invee è sempre solo un punto ulteriore. La sua preghiera e il suo amore si inaridiscono, e anch'egli ha sottratto se stesso all'attimo ricco di grazia, e ha così ritardato la venuta del regno che voleva invece accelerare. Solo la preghiera elevata nel tempo opportuno non ritarderà la venuta del regno. -La preghiera di Goethe, uomo della vita, è rivolta alla propria fortuna, ai cui piedi egli depone l'opera giornaliera delle proprie mani pregandola di poterla portare a compimento lui stesso. Questa è la preghiera che questo grande uomo di preghiera ha ripetuto finché divenne per lui un grande e palese esaudimento. Poco importa a questo orante se è l' “essere proprio” o estraneo ciò che diviene contenuto della sua vita e del suo amore. Non chiede di conservare il suo “essere proprio”, è bendisposto a riversarsi all'esterno, ad allargare all'eternità il suo angusto esserci, ma in questa aspirazione egli si sente come un servo del suo proprio destino e, se è pronto ad abbattere le mura della propria persona, però non crede che gli sia possibile né concesso abbandonare lo spazio sacro del proprio destino. L'uomo è una parte indivisibile di un mondo ricco di parti. Il mondo cresce attraverso le sue proprie età. Ha il suo proprio destino. Il destino dell'uomo è una parte di questo destino. Ma non si esaudisce in esso. È una parte, certo, ma una parte non divisibile. L'uomo è microcosmo. E così il suo destino nel destino del mondo; è simile ad un istante determinato dentro alla corrente del tempo, non lo si può scambiare con un altro, né differirlo, né dissolverlo nell'insieme della corrente; esso è una parte di questo tutto, ma irriducibile, indivisibile. Un istante nelle età del mondo, o un'ora. Questo destino è pieno di un contenuto molteplice e complesso, e l'ora è il tempo che l'uomo stesso inserisce come un punto fermo nel corso temporale dei segni celesti come ricettacolo della propria ininterrotta esperienza vissuta, il cui elemento minimo, non ancora suo proprio, di cui si deve ancora appropriare è l'attimo. Questa sua propria ora nelle crescenti età del mondo, è quella afferrata dall'uomo che prega il proprio destino. E poiché è così, questa preghiera viene sempre esaudita. Nel momento in cui viene pronunciata, essa si intreccia col destino del mondo e non fallisce il bersaglio, non è mai prematura né troppo matura. E siccome avviene nella sua ora, giacché si tratta di una preghiera al proprio destino e non ad un destino altrui, così essa è sempre nel tempo favorevole, nel tempo della grazia ed è esaudita proprio così come chiede. Viene esaudita da che esiste il mondo; poiché qui l'uomo entra nel proprio destino, essa è al tempo stesso l'intimo e confidente entrare dell'uomo in ciò che è da che esiste il mondo > nella creazione. È un grande momento nella storia dell'umanità quello in cui per la prima volta l'uomo leva le braccia pregando rivolto al proprio destino. L'uomo Goethe, nel quale questo grande attimo si è prodotto lo sapeva, lo ha espresso. Nello stesso momento in cui si designa come “forse” l'unico cristiano del suo tempo, Goethe attribuisce a se stesso una posizione particolarissima nella storia del cristianesimo, al di là di ogni possibilità di conoscenza e di comprensione. Essere cristiano non significa aver accettato un dogma, bensì porre la propria vita sotto la signoria di un'altra vita, quella di Cristo, e una volta avvenuto questo, condurre avanti la propria vita solo come un effetto della forza che di là affluisce. Se dunque Goethe afferma di essere forse l'unico cristiano dei suoi tempo, vuole dire solo che l'intera forza scaturita da Cristo, “oggi” si è raccolta in lui, e nel suo vivo, continuo scorrere è legata in qualche modo a lui e al suo apparente paganesimo. Quel porsi sotto l'autorità dalla vita di Cristo, impone delle conseguenze dogmatiche > che quella vita sia unica al mondo e che i suoi effetti possano provenire da essa soltanto; che i singoli, nella loro inconsapevole vitalità possano promanare solo da lei in un'unica ininterrotta corrente. In questo senso la vita di Cristo sarebbe certo un dogma, il dogma della cristianità. In un primo tempo, quando il cristiano voleva vivere la sua vita in modo incondizionato come Cristo l'aveva vissuta, legato al destino del mondo intero, la sequela di Cristo doveva significare che corso del mondo; trovano la giustificazione del loro esserci nella vitalità del loro destino. Solo ora ci sono dei popoli cristiani, mentre nell'epoca paolina vi erano autorità mondane e in quella petrina vi erano nazioni suddite di un unico sacro impero. Solo ora i popoli hanno in se stessi una vitalità intera in via di compimento. Il pagano esteriore sacrificava il suo corpo e riceveva in cambio l'amore; il pagano interiorizzato nella memoria sacrificava il suo spirito e riceveva in cambio a fede. Il pagano vivente, grande pagano, sacrifica la sua vita e non riceve in cambio altro che questo > che gli è concesso e gli è possibile sacrificarla. Avere il diritto e la possibilità di sacrificare la propria vita, dal punto di vista di Dio è il dono della fiducia. Per chi ha fiducia e spera non c'è offerta sacrificale che sia un sacrificio; per lui è naturale sacrificare, non sa fare altro. L'amore era molto femminile, la fede molto maschile, solo la speranza è sempre infantile. E così Goethe è sempre infantile. Ha fiducia nel suo destino. Spera nel suo proprio futuro. Non può immaginare che gli dei non gli concedano di portare a compimento l'opera delle sue mani. Spera come Agostino ama, come Lutero crede. La speranza diviene ora la cosa più grande. Nella speranza si inseriscono le antiche forze, l'amore e la fede. Dall'innocenza infantile della speranza esse ricevono nuova forza così da ringiovanire nuovamente. È come un nuovo mattino del mondo, un grande ricominciare-da-capo. La fede che si invera nell'amore, l'amore che porta la fede nel proprio grembo, vengono ora entrambi portati in alto sulle ali della speranza. La speranza viene donata all'uomo solo se egli già la possiede; mentre l'amore veniva donato proprio al cuore duro, e la fede all'eretico, Dio dona la speranza solo a colui che spera. La speranza non istituisce una nuova chiesa. Qui non si presenta nessun nuovo pagano, ma solo il pagano vivente, che unifica i piccoli paganesimi del corpo e dell'anima nel grande paganesimo della vita; già questa unificazione, il semplice presentarsi del pagano, significa la sua conversione. In questo tempo una terza chiesa cristiana, con i suoi popoli, è entrata nel cerchio della cristianità, antichissima quanto le altre due > la chiesa orientale. La chiesa della Russia ha mostrato di essere un fertile terreno di coltura di una infinita forza di speranza. E anche l'altro grande evento nella storia della chiesa, che si affianca all'ingresso dei russi nell'ambito cristiano > la liberazione e l'accoglienza degli ebrei nel mondo cristiano, anch'esso ha come effetto non una nuova formazione ecclesiastica, ma ancora una volta, una rivivificazione delle vecchie chiese. Qui dall'eterno popolo della speranza, popolo bambino di Dio fin dall'inizio fluisce immediatamente la forza fondamentale del nuovo mondo compiuto, la speranza, verso i popoli cristiani meglio esercitati nell'amore e nella fede che nella speranza; e poiché questa volta il cristiano, invece di dover convertire un pagano, deve convertire se stesso, il pagano dentro di sé, in questo inizio del compimento dei tempi, è proprio l'ebreo accolto nel mondo cristiano colui che deve convertire il pagano presente nel cristiano. Solo nel sangue ebreo vive sanguigna la speranza, di cui l'amore ben volentieri si dimentica e la fede pensa di poter fare a meno. Ma, priva di ogni altro contenuto all'infuori di se stessa, la speranza sbiadisce nello sconfinato e vuoto auto-rispecchiamento di un desolato e inerte “spero di continuare incessantemente a sperare”. In questa chiesa giovannea priva di figura, non organizzata e perciò sempre bisognosa delle chiese costituite, Goethe è il primo dei padri, anche se dovette passare per un pagano. Nella sua preghiera rivolta al proprio destino si compie la vivificazione di ciò che è morto, che costituisce la precondizione ineludibile del suo divenire eterno. Nelle preghiere del corpo per avere amore, nelle preghiere dell'anima per avere fede, sono divenute viventi le parti della parte che, nel loro comporsi la rendono più “indivisibile”. Nella preghiera dell'uomo divenuto così individuum, cioè insieme di corpo e di anima, per ottenere ciò che già possiede, il proprio destino, ora viene vivificato anche quest'intero singolo in quanto tale > egli si inserisce nel tutto e tuttavia non cessa di essere singolo. Dove questa preghiera viene pronunciata, là è spuntata quella vitalità della vita creaturale che rende immediatamente matura questa vita per l'irruzione dell'eternità della vita divina. Quella preghiera, quando viene pronunciata, rende un frammento di vita maturo per l'eternità. Non lo rende già eterno essa stessa, lo rende solo vivo. La vita di Goethe è una salita in cresta tra due precipizi; egli è riuscito a non perdere mai il suolo della terra ben fondata e durevole sotto i suoi piedi. La religiosità della preghiera rivolta al proprio destino confina direttamente con la preghiera del peccatore, che presume gli sia permesso pregare per ogni cosa e con quella del visionario il quale, in vista del remoto unum, che l'attimo della preghiera gli indica come necessarium pensa di doversi proibire tutto ciò che non sia quell'unum, tutto ciò che è prossimo. Goethe non è scivolato in nessuno di questi due precipizi, è riuscito a passare. La preghiera di Goethe, preghiera del non-credente, non sa proteggersi da sé contro un tale scivolare nella bifida falsificazione del tempo, nel troppo-tardi del peccatore e nel troppo-presto del visionario. Certo, essa afferra il preciso istante del momento giusto, del tempo favorevole, del tempo di grazia. Solo da quando si è pronunciata tale preghiera il tempo comincia a compiersi realmente. Da allora il regno di Dio viene realmente nel tempo. Per la prima volta si sia iniziato seriamente a fare delle istanze del regno di Dio delle istanze di questo tempo. Da allora si sono intraprese quelle grandi opere di liberazione le quali, per quanto da sole non producano il regno di Dio, sono però le precondizioni necessarie della sua venuta. Libertà, eguaglianza, fraternità, da parole-poste-nel-cuore della fede. Finché l'antica chiesa di Pietro da sola, crebbe solo lo spazio > “andate in tutto il mondo”. La chiesa era solita leggere la crescita del regno in qualche misura sulla carta delle zone di missione. Contro una tale espansione del tempo nell'elemento spaziale l'epoca paolina rappresentò l'immersione del tempo in se stesso; esso si arrestò in ogni uomo credente. E così la chiesa di Paolo semplicemente dimenticò l'espansione della fede nello spazio, unica dimensione sulla quale si poteva leggere il tempo. Solo il mondo giovanneo creò davvero, nella preghiera rivolta al proprio destino, un tempo vivo, corrente che, fluendo in se stessa, invece di inghiottire e annullare in sé il singolo istante, lo porta sulle proprie spalle verso l'oceano e, invece di disperdersi e attraverso l'ampiezza del tempo, l'attraversa fluendo in mille canali e irrigandola. In questo flusso del tempo vivo la temporalità della vita è giunta a compimento. Se la vita si risolvesse completamente in questa sua temporalità allora la preghiera rivolta al destino sarebbe la sua suprema, completa, preghiera e così mediante questa preghiera la venuta del regno non solo non sarebbe né accelerata né ritardata, ma se fosse possibile pregare solo quest'unica preghiera, sarebbe addirittura arrestata. A partire dal breve istante in cui poteva parere che qui realmente fosse concesso pregare questa preghiera, il tempo pare arrestarsi. Ma temporalià non è eternità. La vita vivente, puramente temporale, di Goethe, il più vitale dei figli d'uomo, era, anche nella pura temporalità, solo un unico istante da imitare solo a rischio della vita. Ciò che è temporale necessita del sostegno dell'eterno. Ma prima che la vita sia divenuta totalmente temporale, prima che il tempo sia divenuto totalmente vivo, un flusso del tutto reale che scorre attraverso l'ampio spazio oltre lo scoglio dell'istante, l'eternità non può giungere sopra di loro. La vita deve essere divenuta totalmente temporale, interamente vivente, prima di poter divenire vita eterna. All'esatta temporalità della pura vita, che è sempre nel punto giusto del tempo e giunge sempre al momento opportuno, deve aggiungersi una forza di accelerazione. L'eternità cioè deve essere accelerata, deve sempre poter venire già “oggi”; solo così essa è eternità. Se non c'è una preghiera tale che possa accelerare la venuta del regno, esso allora non viene per l'eternità, ma per l'eternità non viene. Stando a quanto ora sappiamo, quest'accelerazione positiva può avvenire solo in un modo > il regno deve essere anticipato e non solo nell'illuminazione personale, nella quale l'eternità, pur divenendo visibile, non giunge però così vicina da poter essere afferrata; nell'illuminazione del visionario veniva ad illuminarsi come vicina, come ciò che è prossimo, una tappa della sua via personale all'eternità, e, ponendo la sua magica forza d'amore nello sforzo di raggiungere questo prossimo apparente, che in verità era ciò che è oltre il prossimo egli dissipava nel vuoto le sue forze e invece di un acceleratore diveniva un ritardatore del futuro. La preghiera del credente non può rimanere invischiata unicamente nella buona volontà. Siccome essa è completamento della preghiera dell'incredulo, la quale giunge sempre a suo tempo, nel tempo favorevole del creatore, e siccome è efficace solo in quanto completamento di quella, il minimo che si possa esigere da lei è che non giunga né troppo presto né troppo tardi. Ma da lei bisogna esigere di più; che raggiunga realmente ciò che la preghiera dell'incredulo non vuole e quella del visionario non sa ottenere > accelerare il futuro, fare dell'eternità ciò che è più vicino, l'oggi. > anticipazione del futuro nell'attimo, trasformazione dell'eternità in un “oggi”. Un tale oggi non dovrebbe essere transuente. Occorre che l' “oggi” costituito in eternità corrisponda a questa definizione con un infinito “adesso”. Un “oggi” non-transuente. Resta un'unica via d'uscita > l'attimo che noi cerchiamo, nel momento stesso in cui è appena svanito deve già cominicare di nuovo, nel suo immergersi deve già nuovamente risalire, il suo trascorrere deve essere al tempo stesso un ricominciare. Non gli è permesso giungere di nuovo, deve ritornare. Deve essere davvero lo stesso istante. Questo attimo deve avere come suo contenuto qualcosa di più che il semplice attimo. L'attimo/colpo d'occhio mostra all'occhio, ogni volta che questo si apre, sempre cose nuove. Il nuovo che noi cerchiamo dev'essere non un attimo che svanisce ma un attimo “che sta”. Un “adesso” che sta si chiama “ora”. L'ora può già avere in se stessa la molteplicità del vecchio e del nuovo, la ricchezza degli istanti; la sua fine può sfociare di nuovo nel suo inizio, perché essa ha un centro, molti istanti centrali tra il suo inizio e la sua fine. Con inizio, centro e fine essa può diventare ciò che la pura sequenza di singoli istanti sempre nuovi non poteva mai diventare > un cerchio che ripercorre se stesso. Ora essa può essere in sé ricca di istanti e tuttavia sempre di nuovo identica a se stessa. Questo ricominciare non sarebbe possibile per l'ora se essa fosse solo una sequenza di istanti, è possibile solo perché essa ha un inizio e una fine. Nell'ora l'istante, che doveva essere transuente, viene quindi trasformato in qualcosa di sempre nuovamente iniziale e quindi di non-transuente, in eternità. E l'uomo trasforma i tempi che la creazione ha imposto alla sua vita secondo il modello dell'ora da lui istituita, nella quale egli si redime dalla transitorietà dell'attimo. L'orbita senza il punto fisso dell'inizio e della fine, non sarebbe ancora null'altro che la semplice successione degli istanti; solo attraverso la fissazione di quel punto diventa percepibile la ripetizione che avviene nel percorrere l'orbita circolare. Puramente umana è l'alternanza che per l'uomo rende un nunc stans la settimana, posta come un alternarsi di giorni di lavoro e giorni di riposo, lavoro e contemplazione. Così la settimana con il suo giorno di riposo, è il giusto segno della libertà umana e tale la dichiara anche la scrittura là dove ne dice il fine. Essa è la vera “ora” tra i tempi della vita umana comunitaria costituita per l'uomo soltanto, divenuta libera e però in tutto e per tutto legge per la terra e per i tempi alterni del servizio della terra. Il servizio della terra, il lavoro della “cultura” essa lo deve regolare ritmicamente e così nel piccolo, nel presente, sempre ripetuto, essa deve raffigurare l'eterno in cui inizio e fine confluiscono, nell' “oggi” deve raffigurare il non-transuente. In lei che è legge della cultura della terra liberamente istituita dall'uomo e per l'uomo, l'eterno è solo raffigurato, come semplice eternità terrena. La settimana è più di ciò che essa è come legge della cultura istituita dall'uomo > è parabola terrena dell'eterno; essa non solo metaforicamente ma effettivamente introduce l'eterno nell' “oggi”. Può essere cellula germinale del culto, poiché è il primo frutto maturo della cultura. È la pura fissazione umano-terrena del fuggevole istante, ogni eternizzazione divino-ultraterrena dell'istante parte da lei. A partire da lei anche il giorno e l'anno divengono “ore” dell'uomo, dimore temporali in cui viene invitato l'eterno. Nella ripetizione quotidiana, settimanale e annuale dei cicli di preghiera culturale, la fede rende “ora” l'istante, rende il tempo pronto ad accogliere l'eternità; e quest'ultima, da che trova accoglienza nel tempo, diviene a sua volta come il tempo. generazione del futuro è immediatamente rendere testimonianza al passato. Il figlio viene generato perché renda testimonianza del padre. Sopra le tenebre del futuro brilla il cielo stellato della promessa > così sarà la tua discendenza. C'è solo una comunità, in cui una simile concatenazione di vita eterna procede da nonno a nipote, c'è una sola comunità che non può pronunciare il “noi” della propria unità senza percepire al tempo stesso nel suo intimo anche il complementare “siamo eterni”. Una comunità di sangue, poiché solo il sangue offre alla speranza nel futuro una garanzia nel presente. Ogni comunità che non si perpetui per mezzo del sangue, se vuole stabilire per l'eternità il suo “noi”, può farlo solo assicurandogli un posto nel futuro; ogni eternità che non si fonda sul sangue si fonda sulla volontà e sulla speranza. Solo la comunità di sangue sente fin da oggi la garanzia della propria eternità scorrerle calda nelle vene. Solo per lei il tempo non è un nemico da sottomettere, ma è figlio del figlio. Ciò che per altre comunità è futuro e quindi ancora al di là del presente, per lei sola è già presente. Mentre ogni altra comunità che aspira all'eternità deve preparare dei dispositivi particolari per poter trasmettere al futuro la fiaccola del presente, la comunità di sangue, sola, non ha alcun bisogno di tali dispositivi della tradizione, non ha bisogno di scomodare lo spirito; nel riprodursi dei corpi essa ha la sua garanzia di eternità. Il popolo ebraico, è tra i popoli della terra > il popolo unico. I popoli del mondo non possono accontentarsi della comunanza di sangue; essi affondano le loro radici nella notte della terra, di per sé morta ma tuttavia datrice di vita e dalla sua durata traggono garanzia della propria. Al territorio, si àncora saldamente la loro volontà di eternità. Attorno alla terra della patria scorre il sangue dei suoi figli; essi non confidano in una comunità viva del sangue, che non sia ancorata al saldo suolo della terra. Noi soltanto confidammo nel sangue e lasciammo la terra. Separammo il nostro elemento vitale da ogni comunanza con ciò che è morto. Infatti la terra nutre, ma al tempo stesso lega, e là dove un popolo ama il suolo della patria più della propria vita, sopra di lui sempre incombe il pericolo che una volta su dieci il suolo resti il più amato e la vita del popolo sia versata a perire su di esso. La terra tradisce il popolo che aveva affidato la propria durata alla sua; essa dura, è vero, ma il popolo che l'ha abitata perisce. Perciò la saga delle origini del popolo eterno non comincia, come quelle dei popoli del mondo, con la narrazione della sua autoctonia. Solo il padre dell'umanità è sorto dalla terra, solo per quanto concerne il corpo; il padre progenitore di Israele invece è migrato; la sua storia inizia con il comando divino di uscire dalla terra della sua nascita e di recarsi in una terra che Dio gli mostrerà. Nella chiara luce della storia, il popolo diviene popolo attraverso un esilio, quello egiziano prima e quello babilonese poi. E la patria, in cui la vita di un popolo del mondo prende dimora nella terra, per il popolo eterno non diviene mai sua in tal senso; a lui non è concesso incanaglirsi a casa propria, ma mantiene sempre l'indipendenza di un viaggiatore. La terra è sua, nel senso più profondo solo come terra della sua nostalgia, come terra santa. Per questo, diversamente da quanto accade agli altri popoli della terra, la piena proprietà della sua terra gli viene contestata, egli stesso è solo uno straniero ed un meteco sulla sua terra. “Mia è la terra”, Dio gli dice, e la santità della terra sottrae il paese alla sua spregiudicata presa di possesso; essa accresce all'infinito la sua nostalgia della terra perduta; non gli permette di sentirsi mai più totalmente a casa propria in nessun'altra terra. Lo costringe a concentrare l'intero peso della sua volontà di essere popolo in un unico punto, nel punto puro e semplice della vita, nella comunanza del sangue. La volontà di essere popolo qui non si può aggrappare ad alcun mezzo, ad alcunché di morto, può realizzarsi solo mediante il popolo stesso; il popolo è popolo solo mediante il popolo stesso. La lingua dei popoli del mondo non è, almeno così pare, legata ad alcunché di morto, di esteriore; essa vive insieme all'uomo, all'uomo intero con l'unità indisgiungibile finché vive, della sua vita fisica e spirituale. Ma essa condivide anche l'ultimo evento della sua vita, muore anch'essa. La lingua dei popoli segue fin nel più piccolo particolare l'alterna vicenda dei destini del popolo, ma questo suo seguire passo passo il vivente la coinvolge anche nel destino ultimo del vivente, che è la morte. Essa è viva perché può persino morire. L'eternità sarebbe per lei un pessimo dono; solo perché non è eterna, perché rispecchia i tempi mutevoli del popolo che cresce attraverso le età della sua vita, ed i suoi destini, essa merita di essere chiamata la parte più viva di un popolo, la sua stessa vita. I popoli hanno quindi ragione di lottare per la loro lingua, ma così facendo non combattono per la loro eternità, bensì ciò che conquistano in tale battaglia è sempre solo qualcosa di diverso dall'eternità, è tempo. È avvenuto che il popolo eterno abbia perso la sua propria lingua e parli ovunque la lingua dei suoi destini esteriori, la lingua del popolo presso il quale risiede come ospite. Mentre ogni altro popolo è tutt'uno con la propria lingua e la lingua gli si dissecca in bocca, se cessa di essere popolo, il popolo ebraico non si identifica mai totalmente con le lingue che parla; anche là dove parla la lingua del popolo che lo ospita, un suo lessico particolare, la collocazione delle parole tradiscono il fatto che la lingua che parla non è la sua lingua. La sua lingua infatti da tempo immemorabile non è più la lingua della vita quotidiana e tuttavia è tutt'altro che una lingua morta. Essa non è morta, ma, come il popolo stesso la chiama, è una lingua “santa”. La santità della sua lingua ha aspetti analoghi alla santità della sua terra, essa distoglie dalla quotidianità il momento più alto del sentire; impedisce che il popolo eterno viva totalmente in sintonia con il tempo > proprio con il rinchiudere la vita ultima, la vita più alta, la preghiera, entro lo steccato di un ambito linguistico santo, gli impedisce di vivere totalmente libero e spontaneo. Infatti tutta la libertà e la spontaneità della vita riposa sul fatto che l'uomo possa dire tutto ciò che pensa, e che sappia di poterlo fare; la dove egli perde questa facoltà, non solo la forza linguistica di un popolo è infranta, ma è turbata senza più speranze anche la sua spontaneità. Proprio quest'ultima e più ovvia spontaneità di vita è negata all'ebreo, poiché egli parla con Dio una lingua diversa da quella che parla con il suo fratello. Perciò egli non può affatto parlare con il suo fratello, e non c'è nulla che sia più ebraico di una estrema sfiducia nei confronti del potere della parola e di un'intima fiducia nella potenza del silenzio. La santità della lingua santa, nella quale egli può solo pregare, fa sì che la sua vita non getti radici nel terreno di una lingua propria. Testimonianza del fatto che la sua vita linguistica si sente sempre in terra straniera e che egli sa che la sua vera patria linguistica è sempre altrove, inaccessibile al discorso quotidiano, è la curiosa circostanza che la lingua quotidiana cerca di mantenere il collegamento con l'antica lingua santa, estranea da lungo tempo all'uso quotidiano, tramite i muti segni della scrittura; in maniera diversa da quanto avviene presso i popoli del mondo, presso i quali è la lingua a sopravvivere ad una forma di scrittura perduta piuttosto che una forma di scrittura ad una lingua ormai estranea al quotidiano. Nei silenziosi segni del discorso l'ebreo sente che anche il suo linguaggio quotidiano è ancora di casa nella lingua santa delle sue ore di festa. Così anche la lingua, per tutti gli altri popoli portatrice e messaggera della vita temporale, mutevole e cangiante e perciò transuente risospinge il popolo eterno appunto verso la sua vita più propria, al di là della vita esteriore, nelle vene della sua vita corporea, ed è perciò imperitura. Se possedere un proprio suolo e una propria lingua è vietato, quanto più gli sarà interdetta anche la vita visibile, che i popoli del mondo vivono secondo i loro costumi e la loro legge. In queste due dimensioni, costumi e legge, in ciò che ci è tramandato da ieri con la forza dell'usanza ed in ciò che è saldamente stabilito per domani, ogni popolo vive il suo giorno. Questo giorno sta tra il giorno di ieri e quello di domani, ed ogni vita convalida la sua vitalità non rimanendo immobile ad un solo giorno, ma sospingendolo quotidianamente verso lo “ieri” e facendo avanzare al suo posto il giorno di domani e così via. I popoli sono vivi nella misura in cui continuano a mutare il loro “oggi” in nuovi costumi, in un nuovo “eterno-ieri” e contemporaneamente traggono dal loro “oggi” una nuova legge per il domani. Nella vita dei popoli “l'oggi” diventa un attimo che se ne vola via veloce. Finché sempre nuovi costumi si sostituiscono ai vecchi, nuove leggi cassano le vecchie, il flusso della vita dentro un popolo continua a scorrere vivo, e l'attimo non può irrigidirsi in qualcosa di stabile, ma rimane tra il passato continuamente accresciuto e il futuro continuamente raggiunto e sorpassato. Così vivono i popoli nel tempo. Per loro il tempo è campo da coltivare e porzione di eredità. Esso, nel crescere dei costumi e nel rinnovarsi delle leggi, si guadagnano l'estrema garanzia della loro vita > un loro proprio tempo. Finché un popolo calcola il proprio tempo esso ha potere sopra il tempo e non è morto. -E ancora una volta il popolo eterno acquista la sua eternità al prezzo della sua vita nel tempo. Per lui il tempo non è il suo tempo, non è campo e porzione di eredità. Per lui l'istante si irrigidisce e sta fermo tra un passato non accrescibile ed un futuro immobile; così l'istante cessa di volare via. Costume e legge, passato e futuro, divengono due masse immutabili, cessano di essere passato e futuro e divengono, così irrigidite, un immutabile presente. Inaccrescibili e inalterabili, costume e legge stillano nell'unico bacino di raccolta di ciò che è valido sia oggi che in eterno. Una forma di vita unica che colma l'istante e lo rende eterno. Così l'istante viene certamente sottratto alla corrente del tempo, e la vita, essendo santificata non è più viva. Mentre il mito dei popoli si trasforma di continuo, e parti del passato vengono dimenticate mentre altre ricordate; qui il mito è reso eterno e non si trasforma più. E mentre i popoli vivono la legge cambia continuamente la sua vecchia pelle, qui domina la legge che non è abolita da alcuna rivoluzione, legge a cui ci si può sottrarre, ma che non si può mai cambiare. Il santo insegnamento della legge, facendo uscire il popolo da ogni temporalità e storicità della vita, gli toglie anche il potere sul tempo. Il popolo ebraico non conta gli anni secondo una propria cronologia. Il ricordo storico è un ricordo sempre ugualmente vicino ed in verità nient'affatto passato, ma eternamente presente. Qui non ci sono legislatori che abbiano rinnovato la legge nel vivo scorrere del tempo. Persino ciò che forse è innovazione deve tuttavia sempre darsi come se fosse già compreso nella legge eterna e fosse già rivelato con la sua rivelazione. Il popolo eterno è senza tempo, non ha alcun tempo. Ma deve contare gli anni secondo gli anni del mondo. -E nuovamente, vediamo per la terza volta qui nel rapporto con la propria storia, come in precedenza nel rapporto con la lingua e la terra, che al popolo è interdetta la vita nel tempo in nome della vita eterna; non può vivere pienamente e creativamente la vita storica dei popoli del mondo; sta sempre in qualche misura tra il mondano ed il sacro, separato da entrambi per la presenza del momento rispettivamente opposto e così in definitiva non è vivo come i popoli del mondo, in una propria vita nazionale, collocata visibilmente nel mondo, in una propria lingua popolare che esprime/fa parlare sonoramente la sua anima, in un territorio appartenente al popolo, solamente delimitato e fondato sulla terra. Esso è vivo invece unicamente ed esclusivamente in ciò che assicura il perdurare del popolo al di là del tempo, la non-transitorietà della sua vita > nell'attingere la propria eternità dalle oscure sorgenti del sangue. Proprio perché ha fiducia solo nell'eternità che si procura da sé, questo popolo crede realmente alla propria eternità, mentre i popoli del mondo, in fondo tutti simili al singolo uomo, si attendono la propria morte prima o poi. Anzi, il loro amore per la propria gente è dolce e grece di questo presentimento della morte. Solo per chi è mortale l'amore è completamente dolce; solo nell'amarezza della morte è rinchiuso il segreto di questa estrema dolcezza. Così i popoli del mondo prevedono un tempo in cui la loro terrà stara ancora sotto il cielo come oggi, ma altri uomini l'abiteranno; la loro lingua sarà sepolta e le loro leggi avranno perso la loro viva potenza. Noi soli non possiamo immaginare un tale tempo, tutto ciò a cui i popoli del mondo ancoravano la loro vita ci è stato strappato da molto tempo. La nostra vita non è più intrecciata a nulla di esteriore, abbiamo gettato radice in noi stessi, privi di radice nella terra, e perciò eterni erranti, e tuttavia profondamente radicati in noi stessi, nel nostro corpo e sangue. Questo radicamento in noi stessi ci è garanzia della nostra eternità. Ciò che è singolo, in sé, non è eterno proprio perché ha l'intero fuori di sé e può affermarsi nella sua singolarità solo in quanto in qualche modo si inserisce nell'intero come parte di esso. Quindi un ente singolo che contemporaneamente volesse essere eterno dovrebbe avere il Tutto completamente dentro di sé. E ciò vorrebbe dire che il popolo ebraico assomma nel suo intimo gli elementi Dio mondo uomo di cui il Tutto consiste. Il Dio, il mondo, l'uomo di un popolo sono Dio, mondo, uomo
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