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La storia del jazz walter mauro - Visione a 360 gradi sulla storia del jazz, Dispense di Storia

La storia del jazz walter mauro - Visione a 360 gradi sulla storia del jazz

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 29/03/2022

marialaura-di-fidio
marialaura-di-fidio 🇮🇹

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Scarica La storia del jazz walter mauro - Visione a 360 gradi sulla storia del jazz e più Dispense in PDF di Storia solo su Docsity! Walter Mauro LA STORIA DEL JAZZ 2 Walter Mauro è scrittore e critico musicale. Collabora ai programmi di musica jazz della Rai. Ha pubblicato numerosi testi saggistici sul jazz, fra i quali, Jazz e universo negro; Il blues e l'America nera; una biografia: Louis Armstrong il re del jazz e, per la Newton Compton, Gershwin, la vita e l'opera, e due antologie, Il Blues e Gli Spirituals, in collaborazione con Elena Clementelli. è inoltre autore della voce Jazz dell'Enciclopedia Treccani. 1. La leggenda di New Orleans Nata e sviluppatasi dall'epicentro degli Stati Uniti, per poi diffondersi nel nostro secolo in tutto il mondo con una progressione di interessi culturali che nessuna altra musica può esibire nel tempo, la storia del jazz, fin dalle sue origini, va a confluire, parallelamente e comparativamente, nella vicenda stessa del Nord America, in misura così evidente che molto spesso gli slanci e le crisi, i sobbalzi di coscienza e i momenti di depressione sociale, hanno finito con il reperire il loro naturale contrappunto nella suggestiva avventura di questa musica. Secondo un'opinione corrente, che gli storici di questa espressione della creatività hanno ormai codificato - pur con qualche contrasto - il centro motore dal quale il fenomeno ha preso l'avvio, lungo infinite componenti di sviluppo, va individuato nella zona della Louisiana, una regione del Sud degli States, e più particolarmente nella città di New Orleans, al delta del grande fiume, il Mississippi, che ne ha accompagnato, con il suo stanco e a volte impetuoso fluire, l'origine e lo svolgimento. 5 amori contrastati, violenti, tipici di una esistenza emarginata di dolore e di pena, dall'altra, nel blues urbano, lo stato di abbandono in cui la donna viene a trovarsi all'interno del nucleo, una solitudine provocata dall'assenza del compagno, costretto a vivere la propria giornata di lavoro nelle grandi fabbriche di Chicago, di Kansas City, di New York, di Detroit. L'America bianca, in tal modo, attraverso un patrimonio musicale quanto mai vario e fascinoso, cominciava a costruire la storia di una musica nata come condizione alternativa al conformismo del potere, e sviluppatasi poi anche sul filo di una fruizione, talvolta geniale talaltra mediocre e conformista, di moduli espressivi tipici e inconfondibili degli afroamericani: storie di prosperità e di miseria negli show-boats di New Orleans, di Chicago, di New York che servirono a diffondere negli States e nel mondo una musica angosciosa e crudele in cui la componente evasiva, tipica di tanta musica popolare, cedeva il posto alla tragedia di tutto un popolo. Il clima che si respirava nella New Orleans agli albori del secolo era esattamente quello descritto da Ida Cox, una delle tante blues-singers di città, in I've Got the Blues for Rampart Street: "Rampart Street a New Orleans è conosciuta per varie miglia all'intorno, /piena di creoli e con delle vere orchestre jazz, è il posto più bello della regione, /in quasi tutti i cabarets si fa musica tutta la notte fino a che viene il giorno, /mi sento triste dalla testa ai piedi, pensando alla cara vecchia Rampart Street. /Me ne tornerò al Carl Madison's Cafè, /voglio sentire quell'orchestra nera, /Cadillacs, Red Onions, Boudoirs e orchestre sui marciapiedi, /è tutto un divertimento su e giù per Rampart Street". Centro di confluenza di varie culture, quella francese di antica napoleonica memoria, quella spagnola delle contigue terre dell'America Latina, e infine la locale, costituita dai neri che da alcuni secoli erano giunti dall'Africa, New Orleans non tardò ad assumere un ruolo primario nella geografia dell'intrattenimento degli schiavi. In quella vasta, tragica area 6 chiamata Congo Square, simbolo oggi di una schiavitù nera durata nel tempo e ancora non del tutto conclusa, i neri si esibivano in giochi, in canti accompagnati dal tam-tam, ultima eredità di una terra lontana e simbolo dello sradicamento, in riti e cerimonie Voodoo. Erano nenie molto strane e singolari, suoni indecifrabili, antiche grida tribali, filtrate nel crogiuolo di altre culture, quella francese e quella spagnola. Dominavano le bamboulas, grandi tam-tam fatti con barili e pelle di vacca percossa con lunghi ossi di bue; le canne di bambù servivano a dare ai suoni primordiali un carattere di affascinante melodia. Da questa prima forma di espressione musicale, ereditata dall'Africa nera, verso la fine del secolo scorso i suonatori neri di New Orleans cominciarono a costruire i primi intrecci musicali, sotto forma di marce, soprattutto nell'accompagnamento di funerali e nel ritorno dalle sepolture, un rituale, questo, che nel tempo ha rivelato le radici stesse di questa musica. Stava nascendo un gigantesco repertorio musicale, una miniera di suoni così ricca e fertile da perpetuarsi nel tempo, fino alle più recenti fruizioni, da parte della pop e della rock music. Nacquero così anche le prime organizzazioni di divulgazione della musica jazz, e fra i protagonisti va ricordato Clairborne Williams, suonatore di cornetta, musicista tuttofare, impresario molto astuto e con lui John Robechaux, batterista e direttore, come Williams, di numerosi complessi che si esibivano sui battelli che risalivano la corrente del Mississippi, toccando le varie città sul delta: figure leggendarie, come leggendaria ci appare oggi la vita di questa straordinaria città, ancora viva e vitale, tutta musica ad ogni angolo di strada. Negli anni compresi fra il 1895 e il 1907 andò formandosi dunque un vero e proprio stile legato al nome della città del delta, soprattutto per merito della Ragtime Band di Buddy Bolden, un'orchestra che prendeva nome e sostanza dal ragtime appunto, una delle prime espressioni musicali 7 di intrattenimento per pianoforte solista, cui poi, nel gruppo di Bolden, andarono ad aggiungersi una o due cornette, clarinetto, trombone, contrabbasso, chitarra e batteria. Suonatore instancabile, capace di soffiare per ore nel suo strumento, Kid e King al contempo, ragazzo e sovrano, Buddy Bolden ha incarnato la leggenda di New Orleans meglio di chiunque altro, anche per aver proposto i canoni fondamentali per la disposizione armonica e melodica del jazz sotto forma di polifonia, di certo la componente più affascinante della musica di New Orleans: nel contesto la melodia veniva condotta dalla cornetta, mentre il trombone operava da controcanto, e il clarinetto forniva una elegante tessitura di raccordo. Questa era la front-line che si affacciava al proscenio, nelle sale dei battelli come nei numerosi clubs della città, mentre dietro si esibivano gli strumenti di accompagnamento, banjo o chitarra, pianoforte e batteria - che allora era ancora il washboard, la tavola per lavare che con i suoi gradini picchiati da un legno produceva i ritmi della percussione temporale - in modo da costituire un magma sonoro di rara intensità espressiva. Gli accordi erano quelli del blues, e Bolden se ne servì in abbondanza donandoli poi a Freddie Keppard, l'altro protagonista assoluto della musica nera di questi anni, stella nascente e lungamente viva al comando della Olympia Band, che annovera altri musicisti che hanno fatto la storia del jazz: Alphonse Picou, Louis "Big Eye" Nelson, Joseph Petit, suonatore di trombone a pistoni, inventore dell'accompagnamento ritmico forse più suggestivo del jazz delle origini. Su questa scia andò formandosi una infinità di altri gruppi orchestrali: la Original Creole Band di Bill Johnson, che aveva in organico altri personaggi di primo piano del jazz primitivo: il già citato Keppard, e inoltre i clarinettisti George Baquet e Jimmy Noone, un maestro, caposcuola di una serie di musicisti che vanno da Johnny Dodds a Sidney Bechet. Anche nella Eagle Band c'erano musicisti di primo piano, primo fra tutti Bunk Johnson, e ancora Mutt Carey, Lorenzo Tio e molti 10 verso le regioni del Nord degli Usa, soprattutto a Chicago. Pochi jazzmen rimasero nella città del delta, a cercare di tener viva la fiamma di una tradizione arcaica che ormai andava privilegiando altri luoghi e altre istanze della creazione musicale. Questa forma di autoemarginazione finirà poi per accendere qualche polemica fra chi era fuggito in cerca di gloria e di fortuna e quelli che erano rimasti a New Orleans: da una parte insomma Armstrong, King Oliver, Johnny Dodds, Kid Ory e tanti altri emigrati, e dall'altra, al di qua del grande fiume, Bunk Johnson, George Lewis, Billie e Dede Pierce e molti altri ancora che ogni sera si raccoglievano, e i superstiti ancora lo fanno, alla Preservation Hall, il più tradizionale club della città del delta, a rievocare antichi miti e remote leggende delle origini di questa musica. Louis Armstrong, a sua volta, giunto a Chicago, inizierà quel volo nell'universo del creativo musicale che lo ha reso protagonista assoluto di questa musica e maestro dello stile New Orleans, del quale è stato certamente il più valido esecutore. Per tornare alla città del delta, non mancavano le orchestre bianche in grado di aprire un solco e inaugurare una tradizione che avrà poi il suo splendido seguito a Chicago. La prima famosa orchestra bianca della capitale della Louisiana, diretta progenitrice dell'ancor più nota Original Dixieland Jazz Band, fu la Ragtime Band di Jack Laine, che trionfò tra la fine del 19esimo e l'inizio del 20esimo secolo. Fu proprio l'orchestra di Laine a lanciare, e avviare ad uno strepitoso successo, un famoso tema dixieland, The Livery Stable Blues, che diventerà un motivo di grande successo, ma ancora maggior riscontro nel pubblico incontrò Tiger Rag, eseguito infinite volte dai gruppi tradizionali, ricavato da una vecchia quadriglia che si ballava a New Orleans, che anticamente aveva il nome di uno squisito dolce locale, il Praline. Il gruppo di Laine serviva un po' a tutto: ad annunciare un incontro di pugilato come alla promozione di un 11 ristorante o di un veglione nel giorno del Mardi Gras, la più classica delle feste carnevalesche della città. Il suonatore di trombone restava appollaiato sul sedile posteriore del carro pubblicitario, muovendo la coulisse dello strumento al di fuori, per evitare di accecare gli altri suonatori. Altrettanto nota fu in quegli anni la Original Dixielaad Jazz Band, che non avendo ottenuto un grande successo nella città d'origine, New Orleans, si scelse l'appellativo di "Dixieland", che da allora in poi venne attribuito ad un genere e ad uno stile sviluppatosi a Chicago negli anni successivi alla leggenda della città del delta, a conferma di un progresso, oltre che dell'immissione di una più moderna sintassi espressiva. Il dettato della Original Dixieland Jazz Band era spesso volutamente ironico e comico, con l'imitazione di suoni animali, ad esempio in Barnyard Blues, o di voci umane deformate, una sorta di commedia drammatica priva di dialogo, ma al contempo ricca di suoni curiosi e anomali, con il commento di fragorose risate che scoppiavano all'improvviso, nel bel mezzo dell'esecuzione musicale. è da sottolineare che di questa orchestra facevano parte alcuni oriundi italiani, che vanno quindi annoverati fra gli inventori di questa musica: Nick La Rocca e Leon Roppolo su tutti gli altri, ma non va dimenticato Eddie Lang, che in realtà si chiamava Salvatore Massaro, e divenne un celebre chitarrista, nella stagione chicagoana di questa musica, assieme ad un altro ben noto personaggio di origini italiane, il violinista Joe Venuti. Essenziali e ben lontani da ogni forma di interpretazione barocca, questi musicisti bianchi appresero perfettamente la lezione dei maestri neri, al punto da ripeterne i modelli di vita, oltre che la musica: l'esistenza tragica ed emarginata di Leon Roppolo, italiano di New Orleans morto di stenti in un manicomio nel 1941, ne offre una tragica testimonianza. Ma ancor più che a dolorosi modelli esistenziali, questi jazzmen bianchi della Louisiana, prima di emigrare a Chicago, diedero inizio ad una musica 12 carica di dolenti significati: oltre alle bands già citate, ecco i New Orleans Rhythm Kings, guidati da Paul Mares, con un organico del quale andarono a far parte ancora Leon Roppolo, clarinettista di rara finezza, e il trombonista George Brunis con il sassofonista Jack Pettis, il pianista Elmer Schoebel, il banjoista Lew Black, il bassista Steve Brown e il batterista Frank Snyder. Se il mondo leggendario di New Orleans si colorava di tinte bianche e nere, in quel gran crogiuolo di avventure sonore che fu la musica del delta, un ulteriore contributo all'affermarsi di questa musica recarono, alle origini, i jazzmen che suonavano sulle chiatte che solcavano il Mississippi, che avevano qualche cabina per passeggeri e impiegavano tre o quattro mesi per risalire il grande fiume - il Grande Padre, come lo chiamavano i neri, con un timore reverenziale che derivava anche dalle paurose alluvioni e inondazioni che provocava - da New Orleans a Louisville. I marinai, fra un'operazione e l'altra a bordo dei battelli, ballavano, suonavano, litigavano con tutti e facevano l'amore ad ogni tappa del lungo viaggio. Non si conoscono i nomi dei primi musicisti di New Orleans che regalarono la loro musica ai passeggeri e ai marinai di quei battelli. Ma di qualcuno si conoscono alcuni particolari: di Sugar Johnny ad esempio, solido cornettista, alcolizzato e donnaiolo, costretto a smettere ancora giovane per questi suoi vizi incorreggibili; ma nel suo organico aveva gente che poi avrà un ruolo di rilievo alle radici di questa musica: il trombonista Roy Palmer, il clarinettista Laurence Dewey, il chitarrista Louis Keppard, il bassista Wellman Braud, che diventerà uno dei pilastri dell'orchestra di Duke Ellington, il batterista Minor Hall che, una volta emigrato a Chicago, andrà a far parte dell'orchestra di King Oliver. La più vivace e solida delle orchestre che suonavano sui battelli fu quella che faceva capo a Fate Marable. Eseguiva prevalentemente musica 15 Jefferson, racconta i rapporti bianchi-neri al tempo dell'emigrazione: "Com'ero giovane e ignorante, quando arrivai qui dal Mississippi! Ma ero più libera, capisci? Potevo darmi da fare un po' più di adesso. I bianchi allora non avevano tanta paura. Non eravamo così numerosi. Adesso siamo in troppi e secondo me si sono spaventati per questo. Allonon ti notavano. C'eri ma non si prendevano neppure il fastidio di vederti". Il più immediato contraccolpo di tale situazione fu la nascita del ghetto, tipica invenzione delle grandi città del Nord: uno spazio dell'angoscia e della disperazione che proprio nelle dolorose e traumatiche notazioni sonore del blues e del jazz rintraccerà la propria ansia di comunicazione, la feroce condanna all'isolamento e alla solitudine. I due grandi universi concentrazionari della segregazione razziale di Chicago, il South Side, e di New York, Harlem, non casualmente saranno i due epicentri di sviluppo di questa musica, e non soltanto per gli afroamericani, ma anche per i musicisti bianchi che proprio a Chicago venivano ogni sera ad apprendere il dettato e la nozione di questa musica per poi filtrarla, a loro volta, nella propria condizione di emarginati dell'altra razza, ebrei, emigrati europei, creature dolenti ai confini della cosiddetta società civile. Anche i jazzmen neri emigrati da New Orleans si trovarono, come la signora Lucy, a dover fronteggiare la totale indifferenza, e l'irritazione, della borghesia bianca nella città del vento, in un ambiente carico di fermenti e di rischi, ricettacolo delle più difformi confluenze sociali. Fin dal 1830, quando veniva definita "il pantano delle praterie", Chicago era un covo di attaccabrighe, di canaglie, di vagabondi di ogni specie che frequentavano le centinaia di locali malfamati e di spacci alcolici sparsi per tutta la città. Ma la vera esplosione si verificherà negli anni Venti di questo secolo, in coincidenza con l'esodo dei musicisti dalla Louisiana, quando la capitale dell'Illinois pareva, per usare una colorita immagine del sociologo 16 Allsop, un'isola caraibica del Settecento, con le tante gangs di commercianti già ricchi, in perenne conflitto con il basso proletariato criminale, che sfruttava in ogni modo il crollo e la corruzione delle forze di polizia e le collusioni della magistratura. Lungo questo drammatico crinale, nel gorgo di una lotta senza quartiere in cui la posta in palio era il duplice monopolio dell'alcool e del vizio industrializzato, Al Capone aveva iniziato a costruire il suo mito con pazienza e cinismo, fino a raggiungere il dominio incontrastato della città. La sua ascesa si colloca entro precise concause sociali, e va di pari passo con la continua, tenace eliminazione di tutti gli avversari, a cominciare da quel Dion O'Banion che si era troppo montato la testa, fino a Mike Merlo - abbondano purtroppo i cognomi italiani - Carmine Vacco, Scalise e Anselmi, coppia di killers di eccezionale freddezza, e soprattutto Hymie Weiss che, dopo la fine di O'Banion, si trovò all'improvviso alla testa della famigerata banda del North Side. Di certo, la ragione per cui la musica che i neri produssero a Chicago fu più dura, spigolosa e amara di quella suonata a New Orleans, sui battelli o tra il profumo delle magnolie del Vieux Carré, va ricercata appunto nel difficile clima che tale condizione creava: "Nessuno si stupiva - ricorda Jain Lang - fra i suonatori dei locali notturni, se tornando sulla pedana dopo l'intervallo, ritrovava il suo trombone pieno di buchi provocati dai proiettili". Il senso profondo di comunità culturale creatosi nel ghetto, fin dall'avvio del suo drammatico costituirsi, agì sul jazz chicagoano suonato dai musicisti emigrati da New Orleans in modo determinante, così da far ritenere legittimamente il decennio fra il 1920 e il 1930 l'epoca d'oro di questa musica. I jazzmen neri, inoltre, operarono in modo suggestivo come matrice di ispirazione verso quel nutrito gruppo di musicisti bianchi che vivevano nella città del vento, contribuendo in modo decisivo alla nascita e 17 allo sviluppo di quella scuola jazzistica bianca, nata nel catino dell'Illinois, che ereditò nome e stile dalla città di origine. Del resto, già agli albori del secolo, Jelly Roll Morton aveva fatto qualche isolata capatina a Chicago, suonando e dando lezioni di piano-jazz al Pekin Theatre-Cabaret, e molti gruppi di New Orleans, fra il 1912 e il 1916, si erano esibiti al Lamb's Cafè nel cuore del Loop, il quartiere industriale della città. Ma il 1918 fu l'anno cruciale dell'evoluzione del jazz nero di Chicago, non soltanto in conseguenza dell'arrivo di King Oliver, che dopo poco si insedierà al Dreamland Cafè, epicentro musicale della città, ma anche perché fu quello l'anno di maggior flusso migratorio nella Chicago anni Venti, specialmente da New Orleans, dove la Marina degli Stati Uniti aveva fatto chiudere nel 1917 le case di tolleranza di Storyville per proteggere l'integrità fisica della flotta statunitense. Ecco la colorita descrizione di una tipica strada nera di Chicago, la South State Street, da parte del grande poeta afroamericano Langston Hughes: "Una formicolante via negra piena di teatri, di ristoranti, di cabarets sempre affollati. Ed eccitazione da sera a sera. Mezzanotte come mezzogiorno. I ladri, i gangsters, i truffatori avevano tutto un loro ambiente perfettamente organizzato". Un fermento di vita, anche crudele e traumatica, che tuttavia agì sulla musica jazz sì da provocare un vasto fenomeno di sviluppo e di ricambio culturale che andò a riconoscersi nei tanti locali, ristoranti, caffè, clubs e speakeasies del South Side, dove le orchestre si esibivano ininterrottamente, sforzandosi di ricostruire quel clima di Storyville, cosa che il mutare dei tempi rendeva molto ardua e difficile. Inoltre, a Chicago esisteva un folto gruppo di giovani jazzmen bianchi, fra i quali Eddie Condon, Muggsy Spanier, Pee Wee Russell, Mezz Mezzrow, George Wettling, Red McKenzie, Joe Sullivan, Dave Tough, Ray Bauduc, Bix Beiderbecke, Art Hodes, Jimmy McPartland, Bud Freeman, Frank 20 invano di esorcizzare, ad esempio nel famoso assolo di Chimes Blues, il primo eseguito da Louis. Una figura da collocare sull'opposto versante psicologico di Oliver, tenace nel reagire nel modo più disalienante alla logica del ghetto, e nel reperire in una esplosiva personalità artistica le sorgenti di uno scatto morale in grado di affrancarlo dallo stato di soggezione in cui invece King Oliver si sentiva tragicamente calato. La vita così diversa dei due, negli anni successivi, è la migliore verifica di quanto si dice: l'uno morirà povero, di stenti, e verrà trovato cadavere su una panchina dei giardini pubblici di una megalopoli che lo rifiutò, l'altro diventerà ambasciatore di una musica che per suo preciso merito al di sopra degli altri, si affermerà nel mondo. Il distacco dal maestro era inevitabile e venne legalizzato il 12 novembre del 1925, quando la casa discografica Okeh registrò per la prima volta, negli studi di Chicago, i primi brani sotto il titolo di Armstrong's Hot Five, autentiche pietre miliari nella storia del jazz. Era un piccolo complesso di cui facevano parte alcuni musicisti di Oliver, Johnny Dodds e Lil Hardin, prima moglie di Louis, ai quali si aggiunsero il trombonista Kid Ory e il banjoista Johnhy St. Cyr; e fu davvero un cantiere sonoro di capolavori, esecuzioni perfette in cui lo straordinario solismo di Armstrong domina su tutti, sul filo di una improvvisazione istantanea - forza motrice della componente più suggestiva di questa musica - che riesce a trasformare in raffinato fraseggio il più volgare dei motivi, come accade, per esempio, con una canzoncina in voga in quegli anni, Big Butter and Egg Man. Nacquero perle di spiccata luminosità in quelle sessions, My Heart, Gut Bucket Blues, Come Back Sweet Papa, Heebie Jeebies, Muskrat Ramble, Lonesome Blues, Cornet Shop Suey; e poi, con l'organico degli Hot Seven, con l'aggiunta del batterista Baby Dodds e di altri musicisti fra i più in vista del tempo, ecco nascere dal talento di Louis altri brani esemplari, Willie the Weeper, Wild Man Blues, Potato Head Blues, Melancholy Blues, Ory's 21 Creole Trombone, Savoy Blues, fino a quel West End Blues in cui Satchmo raggiunge vertici di assoluta liricità, rigenerando totalmente un brano che pure il suo inventore, King Oliver, aveva eseguito in modo impeccabile. è il preludio, per Armstrong, ad un'attività febbrile che dura negli anni, fino alla morte, con un'assiduità e un calore umano che percorrono trasversalmente non soltanto la storia del jazz, ma l'intera vicenda dei neri d'America, che in lui non videro uno zio Tom passivo e inerte, come spesso l'estremismo radicale della negritudine volle definirlo, bensì un simbolo, un esempio del riscatto di una intera comunità segregata, che poteva esibire il prorio talento in una musica che ormai andava percorrendo le strade del mondo. Sorretti anche psicologicamente dall'esperienza acquisita nel sodalizio con gli emigrati da New Orleans, i musicisti bianchi di Chicago suonavano negli anni Venti con una foga inesauribile, nelle posizioni più strane, in piedi sulle casse di sapone o chiusi in qualche stamberga: il problema era quello di ricreare la musica appassionante della città del delta, fondendola con talune confluenze provenienti dall'ambiente della borghesia chicagoana, in modo da raggiungere una perfezione stilistica la cui documentazione discografica è ancora oggi ben viva e vitale. L'improvvisazione collettiva, punto di forza dello stile New Orleans, andava così evolvendosi verso schemi più liberi e autonomi, centrata su sequenze solistiche improvvisate che seguivano le introduzioni affidate alla polifonia del vecchio formalismo della Louisiana. Stava nascendo insomma l'hot solo, che rifletterà la vera e autentica fase innovativa di questa musica, con forti proiezioni, sorprendenti se si pensa che alcuni dei chicagoani bianchi, a cominciare da Pee Wee Russell, diventeranno strutture portanti del ciclo evolutivo di questa musica, soprattutto nella stagione di passaggio del middle jazz. Ma ancora un altro aspetto di fondo si deve segnalare: per la prima volta bianchi e neri si 22 trovarono a suonare negli stessi gruppi; le formazioni miste negli studi di registrazione di quegli anni furono tante, con gli afroamericani Sidney Bechet, Jimmy Archey, Baby Dodds, Henry Red Allen accanto a Muggsy Spanier, a Mezz Mezzrow, ad Eddie Condon, grande artefice e protagonista di questa storica unione. Anche una dolente comunità di destini congiunse bianchi e neri nel grande catino della città del vento, la Windy City di continuo battuta dalle folate provenienti dal lago Michigan: i New Orleans Rhythm Kings, originari della città del delta, divennero ricchi a Chicago sotto la protezione di Al Capone e dei suoi, al Friar's Inn e in tanti altri clubs della metropoli, ma sperperarono ogni ricchezza, come accadde alla vita dolorosa di Leon Roppolo, che aveva assimilato esistenza e dolore dei neri, come dimostra in un blues struggente inventato da lui, She's Cryin'for Me; ma la biografia più emblematica di una vita e una musica alternative al potere fu quella di Bix Beiderbecke. Il luogo di nascita, Davenport, incise di certo sulla sua formazione: la vicinanza con il Mississippi, ma soprattutto il trasferimento a Chicago, fu determinante per lui, perché lo mise a stretto contatto con i grandi di questa musica, Louis e King su tutti, anche se la leggenda parla di un certo Emmet Hardy come primo, valido maestro. Chicago tuttavia fu decisiva per lui, e di quell'avventura tragica e breve ecco la testimonianza di colui che più di ogni altro gli fu vicino, Mezz Mezzrow: Bix era una specie dì giovane campagnolo, un po' più alto della media, che cominciava a crescere. I suoi occhi di rana affioravano da una faccia rosea; i capelli castani erano sempre spettinati e incolti. Aveva un'aria cinica e stanca. Già prima dei vent'anni aveva sviluppato quei gusti e quegli interessi particolari che mantenne poi per tutta la sua breve vita: e il suo atteggiamento mostrava chiaramente che quanto interessava la maggioranza della gente lo lasciava del tutto indifferente. Soltanto la musica lo commuoveva. Bix suonava una cornetta che portava con sé senza astuccio, un corto e grosso 25 3. L'impareggiabile Duke Il significato che la presenza di Edward "Duke" Ellington ha assunto nel corso della storia del jazz e, per una più precisa collocazione, nello spazio della musica in generale, va esteso verso approdi e motivazioni che in parte vanno oltre i confini del linguaggio jazzistico in senso stretto, per assumere un ruolo universale di proporzioni molto vaste, che accoglie tensioni culturali che coinvolgono il rapporto stesso fra le due razze negli Stati Uniti, oltre che la forte incidenza della creatività nera nell'avventura dell'invenzione e dell'immaginario. Questa notevole capacità di proiezione è andata sviluppandosi nelle più varie direzioni durante più di un cinquantennio di attività, e ha così costituito un ampio tessuto culturale che dalla musica si è poi dilatato nella letteratura, ponendo in modo ancora più marcato il problema di fondo della fruizione, da parte dell'intellettuale afroamericano, di tutti quei segnali che la coscienza del creativo occidentale poteva offrire come materia di studio e di ricerca. Duke Ellington pertanto, come James Baldwin, Ralph Ellison, Langston Hughes, Leroi Jones e tanti altri scrittori neri, è andato a cercare non i suoi modelli, bensì i suoi archetipi, nella forza inventiva della musica colta di matrice europea, dalla quale ricavare ed elaborare tutti quei frammenti dell'immaginazione, da utilizzare per offrire alla musica jazz un punto di riferimento capace di riscattare la primordialità creativa dell'Africa nera lungo i crinali di più complesse e profonde possibilità di sviluppo. Per questa ragione, se in punto preciso di riferimento è lecito rintracciare nella sua musica nei confronti dei tributi occidentali ed europei, esso va riconosciuto nell'incontro che Ellington seppe realizzare, ad una svolta importante della sua biografia interiore, con l'universo sonoro proveniente dall'impressionismo europeo, soprattutto francese. Tale linguaggio gli dava la possibilità di tradurre, in corpose 26 immagini, la radice stessa di quella drammatica vicenda della sua gente, proprio come in Baldwin o Ellison sono ben visibili tensioni dell'io profondo dedotte dai maestri della narrativa dell'inconscio, da Kafka a Proust, a Joyce, ai più moderni esempi della creatività decadente. Questa scelta culturale, pur conseguita da Ellington più concretamente in un preciso momento della sua lunga carriera - quando si fa strada in lui la volontà di lasciare una più vasta e significativa eredità culturale alla sua gente - comincia a manifestarsi fin dalle prime stagioni della sua attività di musicista, già negli anni in cui va realizzando il progetto di recupero e di individuazione di più vasti orizzonti culturali all'interno di una tradizione, quella africana, che già di per sé poteva offrirgli una consistente base culturale. Tutte queste confluenze si spiegano nel momento psicologico in cui l'artista nero, emigrando dal Sud verso il Nord, tende ad inserirsi con più decisa consapevolezza nel processo evolutivo dal quale la condizione di schiavo nel Sud e l'occupazione prevalentemente agricola che vi svolgeva lo avevano finora escluso. Si vuol dire che, fin dall'esordio, Duke Ellington, con la raffinata maestria dei suoi arrangiamenti, ha significato l'alternativa alla musica espressa da King Oliver, proprio su quel terreno evocativo del richiamo all'Africa nera che rappresentava un comune spazio del creativo. Se da una parte la Creole Jazz Band di Oliver volle esemplificare musicalmente tutto quel fondo di disperazione senza luce del country blues delle regioni del Sud, l'orchestra di Duke Ellington operò fin dagli inizi lungo un versante molto più ampio, in grado cioè di impegnare tutto quanto di suggestivo potesse trovarsi nell'esperienza africana. Un rapido sguardo alle origini della famiglia di Ellington può servire ancor meglio a chiarire quanto profondamente l'estrazione sociale abbia inciso sul tipo di musica che Duke ha prodotto nel corso degli anni: originaria di Washington, la sua famiglia godette sempre di un notevole 27 benessere rispetto alla normale condizione dei neri nella capitale degli Usa alla fine del secolo scorso. Il capo-famiglia prestava servizio come maggiordomo alla Casa Bianca, e tale qualifica socialmente voleva dire qualcosa in un tempo in cui la condizione di privilegio per un nero era un'utopia di ardua realizzazione. Una famiglia, quindi, della borghesia afroamericana, cui non mancava nulla, e già inserita in un contesto di vita propenso ad annullare le proprie origini africane o comunque ad attenuarle in un modello "cittadino". I neri che frequentavano le scuole superiori e l'università agli inizi del nostro secolo non erano numerosi, ma fra questi ci fu certamente il futuro "Duca"; lo troviamo per tre anni in una delle migliori scuole esclusive per neri di Washington, e bisogna anche ricordare che mentre i nomignoli di King per Oliver, di Count per Basie, provennero da incidenze musicali, ad Edward Kennedy Ellington il titolo nobiliare fu imposto ancora prima che diventasse uno dei grandi del jazz, proprio per definire i modi evoluti e nobili che già da allora distinguevano la sua personalità. In questo ambiente, Duke Ellington andò maturando le sue prime esperienze musicali: egli stesso ricorda che la prima impressione sonora fu quella della madre che sgranava il rosario quando lui aveva appena quattro anni. Episodio di rilievo, se a parecchi anni di distanza gli ispirerà uno dei brani più suggestivi del primo repertorio ellingtoniano, quel Saturday Night Function registrato nel 1929 da un gruppo che già comprendeva alcuni fra i maggiori solisti dell'orchestra, Barney Bigard al clarinetto, e il trombonista Tricky Sam Nanton. Gli incontri e i raccordi affascinanti fra musica colta da una parte e tradizioni africane dall'altra, erano già iniziati alcuni anni prima, quando Duke si era trasferito a New York nel 1922. Cinque giovani musicisti di Washington, Ellington, Hardwick, Whestol, Greer e il banjoista Elmer Snowden finirono in quel vasto universo sonoro che era l'irripetibile 30 cesello, di raffinata tessitura, in cui il trombone growl di Tricky Sam si insinua in ardui meandri, fino ad ottenere una temperie sonora di decadente suggestione formale. Una possibile identificazione delle ragioni della scelta ellingtoniana va ricondotta al modello di Debussy e di Ravel in modo particolare. Il senso di libertà espressiva che la musica dell'autore di La Mer riesce a sprigionare da un contesto sonoro al cui interno le colorature e i riflessi cangianti operano in modo determinante è davvero di ampia portata culturale, e si colloca nel novero raffinato del parallelo fenomeno pittorico e letterario: del resto, Duke è stato un discreto pittore negli anni della giovinezza e, da dilettante, ha sempre continuato ad alimentare questa iniziale passione. Questo vasto universo di dissonanze e di abbandoni, dominati da una forte componente di sensualità espressiva, finì per attrarre un intellettuale nero come Ellington. Ma al di là di tali pur importanti implicazioni, il linguaggio jazzistico del "Duca" è sempre rimasto vivo e presente come tessuto connettivo anche in quei brani in cui con maggior insistenza si fanno sentire gli influssi della musica colta. Basterà ricordare i quattro movimenti della suite Reminishing in Tempo e i due di Crescendo and Diminuendo in Blue, ma il più consapevole approdo di tutti questi tentativi rimane la Black Brown and Beige, un vasto poema musicale scritto per la gente nera, eseguito per la prima volta al Carnegie Hall di New York il 23 gennaio del 1943, della durata di 50 minuti. Il poema si apre con Work Song, un movimento di continuo riportato al suo tempo primordio da un incalzante rullare di tamburi, che fa da concitato sfondo agli assoli di Harry Carney al sax baritono e di Tricky Sam al trombone; subito dopo, Come Sunday riflette un di pausa nel fervore espressivo, introdotto dal violino di Ray Nance e dal lungo assolo, quasi sussurrato, del sax alto di Johnny Hodges. Seguono i due tempi della Brown, due danze con un chiaro riflesso sociale, la West Indian e la Emancipation 31 Celebration, mentre il terzo movimento consta di tre parti, The Blues, Sugar Hill Penthouse e Carnegie Blues, delle quali il segmento più significativo è il primo; The Blues è la raffigurazione sonora di uno stato d'animo, che la cantante Betty Roche esegue ai confini della drammaticità espressiva, ritmando le parole su accordi stoptime che servono a recuperare un drammatico impasto coloristico, rotto e spezzato di continuo dal ruvido innesto del sax. Il carattere decisamente "nero" che Duke Ellington cerca di salvaguardare nelle sue più ardite composizioni, dimostra come lo sforzo del musicista si orienti in realtà verso un rapporto fra musica nera e musica europea in cui vengano difese ad oltranza le suggestive origini del jazz. Su tale tentativo di inserimento dell'afroamericano in un più ampio contesto, agisce sicuramente la diversa situazione del nero ad Harlem rispetto a quanto era accaduto nel South Side di Chicago: mentre il ghetto dell'Illinois rifletteva l'universo della segregazione nelle sue più chiuse formulazioni, al nero di Harlem si prospettavano più sottese occasioni di ricambio culturale, a causa della grande affluenza di bianchi nel ghetto nero all'indomani della chiusura delle case di tolleranza al centro della città. La Lenox Avenue diventò un crogiuolo difforme e scompaginato nel quale tutta la fragilità psicologica dell'ex schiavo venne messa a dura prova: "I negri si accorsero di essere al centro dell'attenzione dei bianchi, e allora cominciarono a strafare per divertirli", racconta Jain Lang, "i ballerini si abbandonarono a danze acrobatiche, a salti, a scenette assurde che sicuramente non avrebbero mai fatto senza la presenza dei bianchi. I ballerini più famosi divennero ben presto maestri di ballo e impartirono lezioni ai visitatori bianchi". Ben altra lezione era in grado di offrire Duke, al Cotton Club, agli avventori di pelle bianca provenienti dalla contigua Broadway. La fama di Ellington comincia a diffondersi anche nel vecchio 32 continente: già nel 1933 Duke si era imbarcato sull'"Olympic" ed era sbarcato in Inghilterra, a Southampton, da dove si era trasferito a Londra, al Palladium, per il concerto di esordio. Alcune musiche, come il celebre Sophisticated Lady, vennero considerate troppo sdolcinate dal pubblico occidentale, e britannico in particolare; anche quando gli organizzatori vollero dedicare un concerto per soli esperti al Cinema Trocadero, le risate ironiche che accompagnarono il rauco growl di Tricky Sam o di Cootie Williams dimostrarono quale difficoltà di ricezione la musica ellingtoniana andava registrando al primo impatto europeo. Poi le cose cambiarono e le tournées dell'orchestra in tutto il mondo non si contarono più, creando così un rapporto di sintonia tra pubblico e orchestra tale da permettere di affermare che questo gruppo, assieme a quello di Armstrong, fu certamente il maggior divulgatore del jazz in Europa. Se Satchmo, infatti, recava la suggestione di una figura autentica e potenziata da grande umanità, le armonie ellingtoniane recavano i segnali di vaste possibilità cromatiche di cangiante sensualità espressiva. Proprio per questa ragione, ad un certo momento del suo cammino nel creativo, Duke immise nel tessuto melodico la pastosità espressiva del trombone di Lawrence Brown, sì da ricostruire al massimo grado quella temperie bluesy che si ritrova in tante memorabili composizioni, a ommciare da quel piccolo capolavoro che è Bundle of Blues. Al vivo del processo alternativo, riflesso speculare delle due anime conviventi nel musicista, quella razionale e occidentale e quella romantica e suadente dell'africanità divenuta dolorosa negritudine, Ellington fa confluire nell'orchestra musicisti in grado di contemperare un così fascinoso intrico di suoni. Di qui l'immissione nel 1935 della tromba di Rex Stewart, già compagno di sezione di Cootie Williams nell'orchestra di Fletcher Henderson e adesso elemento di raccordo molto importante per capricciosità di suoni e acrobazie armoniche; il successivo innesto di Ben Webster al sax, d'altro canto, equilibra ancor più l'organico e conferisce alla 35 all'interno del complicato congegno orchestrale. Scompariva nel frattempo Billy Strayhorn, il 31 maggio del 1967, ed Ellington perdeva un collaboratore insostituibile: l'orchestra non sarà più quella di un tempo, anche per le non buone condizioni di salute di Duke. Una impennata di orgoglio sarà la Latin American Suite, eseguita all'università di Yale nel 1968, ma il progressivo cedimento non ha soste, tanto più che scompaiono i protagonisti assoluti di quell'incomparabile congegno. Nel 1970 muore Johnny Hodges e la "corazzata" Ellington, come pittorescamente veniva definita, stenta a tenere il mare. Un estremo bagliore di luce molto viva fu la New Orleans Suite, presentata al Festival del Jazz della città del delta nel 1970, e a questa splendida fiammata di orgoglio creativo potrebbe aggiungersi la musica scritta per il concerto sacro presentato nell'Abbazia di Westminster nell'ottobre del 1973, in apertura dell'ennesimo viaggio in Europa. Le esibizioni tuttavia erano ormai un po' patetiche, l'orchestra sembrava aver perduto il suo smalto e dava l'impressione di esibirsi soltanto per onore di firma. Il suo settantacinquesimo compleanno Duke lo trascorse nel lettino del Columbia Presbyterian Medical Center di New York, in condizioni di salute molto precarie. Resisterà ancora per qualche tempo, e morirà il 24 maggio del 1974. Il figlio Mercer, dopo le esequie solenni nella chiesa di St. John the Divine, con più di diecimila persone presenti, tenterà di rimettere in piedi un monumento irrecuperabile, ma inutilmente, anche se ancora oggi gira per il mondo una Mercer Ellington Orchestra. Non era possibile ripetere un modello che non ha avuto confronti nella storia del jazz, e che figura certamente fra le più compiute vicende musicali. Resta oggi il problema di storicizzare al più presto un'opera e un artista che hanno agito all'interno di una cultura emarginata e sommersa, duramente ostacolata perché non potessero emergere genialità e talento. 36 Duke era solito ripetere spesso che non si preoccupava molto della posterità: "Noi", diceva, "siamo egoisti. A noi basta che la nostra musica sembri buona oggi. Non lavoriamo per la posterità". C'è l'intera condizione della negritudine in tale affermazione, che pure proviene da un artista che come nessun altro ha rappresentato il riscatto, sul filo del talento, della comunità afroamericana. Una riflessione che si può condividere soltanto sul piano della irripetibilità di un simile modello, del tutto inimitabile: ma per quello che concerne l'eternità della sua musica, la storia non potrà che produrre una condizione di continuità. 4. New York New York Intorno agli anni Trenta, New York era diventata l'epicentro del jazz, dopo che Chicago, nel precedente decennio, aveva accolto tutti quei musicisti che il proibizionismo aveva allontanato per sempre da New Orleans. La nuova musica, che doveva diventare la più alta espressione del creativo d'America, tardò tuttavia ad affermarsi ai confini della follia, vera cassa di risonanza dei più difformi umori, ritenuta da un'infinità di americani il simbolo stesso del male. Per i jazzmen, invece, il nomignolo più caro è sempre stato "The Apple", la mela, magari con qualche aggiunta poetica, "of the eyes", degli occhi, forse a memoria della tentazione di Eva in questa sorta di paradiso terrestre che è stata, e continua ad essere, la megalopoli sulle rive dell'Hudson. Se per mela, inoltre, si intende la pupilla degli occhi, si capisce anche la ragione per cui questa città, con i suoi clubs, i suoi teatri, i suoi ritrovi, la vita luminosa che si consuma fra Times Square e l'intrico che circonda la piazza, è sempre stata la mèta primaria di ogni sogno vissuto dal musicista nero, emarginato dapprima nella Louisiana e poi nel South Side chicagoano. L'epicentro era la Cinquantaduesima strada, 37 la "via" per definizione, dove questa musica sortiva da ogni locale, da ogni porta, da ogni cantina, con la sacralità di altre importanti arterie che hanno costruito la storia del jazz: la Lenox e la Seventh Avenue, ad Harlem, il ghetto nero della città dove per anni i bianchi di Broadway sono venuti per sentire e vivere in una serata fuori le righe la vicenda dell'altra razza, che con l'esorcismo della musica tentava di stordirsi dal disagio sociale della segregazione. La Centoventicinquesima strada era quella di due famosi locali, l'Harlem Opera House e soprattutto l'Apollo Theatre, mentre il Birdland, il club dei futuri bippers, era sinonimo stesso della Cinquantaduesima. Una topografia hot insomma, calda non soltanto per la musica che sprigionava, ma anche per l'ambiente, la temperie che sapeva accendere ogni sera, per un trentennio e più. Provenienti dai luoghi più lontani e disparati, Kansas City, Chicago, St. Louis, Tulsa, Pittsburgh, i jazzmen trovarono nella megalopoli quella libertà espressiva indispensabile per inventare e creare ben oltre le coercizioni cui il potere dell'altra razza costringeva l'afroamericano. Centro vitale della sperimentazione artistica, New York ha tenuto a battesimo un movimento di rivolta come il be-bop e il pianismo di Lennie Tristano, il grande musicista bianco che proprio a New York organizzò la propria scuola. L'impatto con la durezza di una mela non del tutto matura per accogliere il nuovo che proveniva dal Sud, fu faticoso e difficile: sia l'Original Dixieland Jazz Band che la Creole di King Oliver vennero accolte con una certa freddezza, e uguale accoglienza venne riservata a tanti altri pionieri del jazz. I musicisti all'inizio vennero relegati nei postriboli e nei clubs malfamati, nelle boŒtes ad imitazione parigina, ma tanto più sordide e deprimenti. Eppure fra i jazzmen costretti a vivere e suonare in questi locali c'erano Bubber Miley, l'inventore dello stile "rauco" alla cornetta, e ancora il trombonista Jimmy Harrison, Edgar Sampson e 40 Shuffle Along, firmata da Noble Sissle ed Eubie Blake, due figure leggendarie del ghetto. Fu proprio Ethel Waters a sostituire Florence Mills al Plantation, e con un motivetto di successo, Dinah, divenne la regina incontrastata di quel club. Qui la raggiunse Fletcher Henderson, già noto per aver accompagnato molte blues-singers, Ma Rainey e Bessie Smith fra le altre, a capo di un gruppo che comprendeva stelle di prima grandezza di quel tempo, dal cornettista Joe Smith al trombonista Charlie Green, al clarinettista Buster Bailey, al banjoista Charlie Dixon. Chimico mancato, Fletcher Henderson aveva disobbedito al padre, che lo avrebbe voluto in un laboratorio, e aveva cominciato a studiare il piano, acquistando rapidamente una tale padronanza dello strumento da saper suonare indifferentemente ogni tipo di jazz e di musica popolare. Si esibiva al Club Alabama con un'orchestra che incise molti dischi per la Vocalion prima che Louis Armstrong - che faceva un po' la spola fra Chicago e New York - entrasse nell'organico, dove rimase per due anni prima di venir sostituito da Rex Stewart. Don Redman rimase nel gruppo per qualche anno, fin quando non giunse Bobby Carter, suo degno sostituto, che si impose rapidamente come miglior solista del gruppo. Forte di un organico di grande valore, nel quale passarono anche i trombonisti Benny Morton e Claude Jones e il trombettista di New Orleans Tommy Ladnier, uno dei più grandi solisti della storia del jazz, scomparso giovanissimo, Fletcher Henderson dominò la scena musicale di Harlem per molti anni, incidendo anche dischi memorabili grazie al talento di solisti dallo stile molto diverso l'uno dall'altro: alla morbidezza di tonalità della cornetta di Joe Smith in Snag It, faceva riscontro la superba asprezza del solismo di Armstrong in Sugar Foot Stomp e in Money Blues, un brano al cui ascolto si fa la conoscenza con il maestro incontrastato del sax tenore Coleman Hawkins, allora alle prime armi, in seguito protagonista assoluto della scena del jazz dei decenni successivi, caposcuola indiscutibile fin 41 quando non comparve alla ribalta Lester Young. L'atmosfera che l'orchestra di Fletcher Henderson era capace di creare nelle esecuzioni era dominata da una grande foga interpretativa, una febbrile concitazione che contaminava i musicisti uno dopo l'altro, sì da creare delle vere e proprie battaglie musicali: il tutto intessuto entro un reticolo di arrangiamenti magistrali, dovuti al talento di Fletcher e all'esecuzione di solisti che nessun'altra orchestra - tranne quella di Duke Ellington - potrà mai più vantare nello stesso organico e nello stesso tempo. Il contributo che un musicista come Coleman Hawkins recò al gruppo fu determinante, con tutto il rispetto per solisti del valore di Don Redman, Benny Carter, Rex Stewart, Charlie Green e tanti altri. A quei tempi il sax tenore si identificava con Bean, il nomignolo che gli avevano dato i compagni dell'orchestra, inventore dalla sonorità irripetibile, maestro dell'improvvisazione jazzistica per il grande profluvio di idee che sortivano dal suo strumento, inimitabile al punto che forse soltanto Chuck Berry e Ben Webster ne seppero raccogliere l'eredità. Anche Duke Ellington venne a gustare la Grande Mela nel 1923 con un ristretto gruppo di amici, il batterista Sonny Greer e gli altri, provenienti da Washington, e di qui, dal Cotton Club di Harlem, spiccò quel volo che lo condusse in tutto il mondo: accortasi del jazz, New York ne stava aiutando e promuovendo la conoscenza in tutta l'America e nei vari continenti. Più tardi, non soggette al fenomeno dell'emigrazione, arrivarono a New York le grandi orchestre bianche, quella di Paul Whiteman che suonò al Palais Royal, e che ben poco aveva da spartire con il jazz, a parte la presenza nell'organico di jazzmen del calibro di Bix Beiderbecke e Frankie Trumbauer; ma furono soprattutto i gruppi di Red Nichols e di Phil Napoleon ad emergere sulle altre formazioni. Un buon jazz era quello prodotto dagli Original Memphis Five di Napoleon, che operarono dal 1923 al 1928 con il clarinetto di Jimmy 42 Lytell, il piano di Frank Signorelli e il trombone di Milfred Mole, il migliore del gruppo. Una musica sicuramente superiore, seppure non al livello dei jazzmen neri, fu inoltre quella che si poteva ascoltare dai Five Pennies di Red Nichols, un nome divenuto celebre a New York dopo il 1925; nel gruppo andranno via via a confluire alcuni dei grandi protagonisti del jazz bianco come Benny Goodman, Joe Sullivan, Jack Teagarden, Glenn Miller, Tommy e Jimmy Dorsey. La musica che l'orchestra era l'antitesi di quella di Henderson: l'una, quella nera, dominata da una foga irruenta che sembrava provenire direttamente dalla rabbia dello sradicamento; l'altra, quella bianca di Nichols, molto intellettualistica e raffinata, che si caricava di un potenziale di sviluppo che nasceva dal talento dei migliori solisti, ma anche dal diverso clima che il gruppo respirava, molto meno privo di affanni. Per tutti comunque andava avvicinandosi come un fantasma, che diventerà negli anni ben visibile, lo spettro della crisi economica, esplosa il martedì 29 ottobre del 1929, quando le quotazioni di 50 titoli principali scesero di circa quaranta punti. Migliaia di persone che avevano acquistato non poterono più sostenere il valore dei titoli e si ridussero sul lastrico. Tutta l'America entrava in una crisi profonda e irreversibile, che avrebbe avuto la lunga durata di cinque anni e di cui anche il jazz risentirà, poiché una enorme quantità di musicisti si troverà senza lavoro. I locali di Harlem, dove il jazz newyorkese era esploso, dopo tanto splendore, si ritrovarono a vivere una vita grama. Osserviamoli più da vicino, poiché è in queste caves che il jazz di New York è nato e ha vissuto felicemente per anni. Il Cotton Club e l'Apollo Theatre furono sicuramente i due locali più alla moda e più frequentati dal pubblico dei bianchi di Broadway e dei neri del ghetto. Situato al numero 644 di Lenox Avenue, all'angolo con la Centoquarantaduesima strada, fondato nel 1918 e chiamato all'inizio Club Deluxe, il Cotton Club assunse questo nome nel 45 che invitava irresistibilmente al ballo, oltre che rappresentare qualcosa di diverso, una sorta di distrazione per esorcizzare i tempi duri che la Grande Depressione del 1929 aveva imposto agli americani. Sicuramente sulla swing craze, come appunto venne definita, agiscono concause sociali ed economiche di vasta portata, prima fra tutte la grave crisi che colpì gli Stati Uniti nel 1929, quando le banche di Wall Street andarono in tilt e la Borsa di New York dovette registrare squilibri così sensibili da gettare nel pànico un numero infinito di risparmiatori. Il presidente Hoover adottò il metodo dell'autosuggestione per costringere gli americani a controllare le proprie spese, magari approfittando dei forti ribassi per acquistare con maggior raziocinio. Ma tutto ciò significò ben poco di fronte al precipitare degli eventi, che coinvolsero l'America per quattro anni, proprio fino all'inizio dell'era dello swing. Identificare quindi la swing craze con la fine di un incubo e con la conseguente esplosione di gioia di tutto un popolo, liberato da una condizione di paura durata ben cinque anni, può essere giusto e lecito, ma lo swing all'interno del ciclo storico di questa musica non fu soltanto il contraccolpo psicologico ad una condizione di incertezza e di timore. Fenomeno prevalentemente bianco, cui il nero diede poi il suo contributo, lo swing sta ad indicare un aspetto del jazz che trasferisce sulla psiche di chi ascolta una sorta di febbre incontenibile, fatta di una scansione ritmica fortemente evidenziata che infonde uno stimolo dinamico molto particolare: più che naturale, pertanto, che contribuisse a creare una condizione evasiva nel fruitore, come accade di constatare nella musica di un jazzman che solo marginalmente visse l'avventura dello swing, ma che certamente ha dato un rilevante impulso ai successivi sviluppi di questa musica. Fats Waller, pianista e compositore morto giovanissimo e nel pieno del suo fervore creativo, fu davvero il prototipo del musicista swing 46 concitato e rumoroso, maestro di jazzmen come Lionel Hampton e Cab Calloway, divertente e al contempo capace di costruire un suggestivo discorso musicale. Molte orchestre nere ne seguirono la tendenza, ma sebbene i gruppi di Louis Russell, di Fletcher Henderson, di Chick Webb, di Jimmy Lunceford, di Benny Carter, di Count Basie e dello stesso Duke Ellington si sforzassero di riaffermare un predominio musicale che andava inesorabilmente spostandosi verso il mondo dei bianchi, solo in parte riuscirono a recuperare quel contatto popolare che era nelle loro intenzioni, e che esisteva ai tempi eroici delle origini. Malgrado il mutare della situazione, non diminuiva il flusso della borghesia bianca verso i locali di Harlem, che continuarono ad affollarsi di un pubblico quanto mai eterogeneo, che esigeva anche uno scenario kitsch: ragione questa per cui, durante gli anni di permanenza dell'orchestra di Ellington al Cotton Club, gli addobbi erano costituiti da palmeti di cartapesta ed altri elementi evocativi del paesaggio africano in omaggio a quello style jungle con il quale l'orchestra intratteneva il pubblico proveniente da Broadway. I neri, a loro volta, chiedevano qualcosa di diverso, una musica che consentisse loro di recuperare quelle radici culturali che la swing craze pareva avere smarrito; anche per questa ragione, nacque la consuetudine dell'"after hours", un dopomezzanotte, quando i jazzmen si raccoglievano in un piccolo locale appartato e, dopo aver suonato tanta musica commerciale per far muovere i piedi di chi cercava la distrazione e il divertimento, improvvisavano per tutto il resto della notte, dialogando fra loro con quel linguaggio dell'azzardo e della sfida che poco dopo assumerà i contorni di autentica avanguardia con l'avvento del be-bop. Di qui, da tale condizione, nasce lo stato di precarietà in cui si trovano ad operare le grandi orchestre nere anche in un ambiente, come quello di Harlem, contagiato fin nelle sue più segrete strutture dalla follia 47 dello swing: tranne che le orchestre di Duke Ellington e di Count Basie, tutte le altre big bands, pur ospitando in sezione i migliori musicisti di quel periodo, si trovarono a dover vivere sotto un certo predominio dell'altra razza, che dominava il business dello spettacolo di Manhattan, da Harlem fino a Broadway, con figure di grande spicco, Benny Goodman su tutti, Glenn Miller, Gene Krupa. Nell'universo dei neri nascono figure drammatiche, come quella di Chick Webb, gobbo e fisicamente deforme, uno dei più grandi batteristi della storia del jazz (cui va il merito di aver scoperto Ella Fitzgerald), scomparso ancora giovane, ma al pieno della maturazione espressiva, per consunzione; o temperamenti di artisti colti e sensibili, già in grado di fornire soluzioni alternative, come Benny Carter, Fletcher Henderson, Sy Oliver, che offrivano, con grandi risultati espressivi, i loro arrangiamenti alle grandi orchestre bianchè, in uno sforzo reciproco di consolidamento culturale fra le due razze che rappresenta uno degli aspetti più fertili e pesitivi della swing craze. L'orchestra di Jimmy Lunceford, a sua volta, riesce a trovare uno spazio intermedio certamente interessante, creando una musica di atmosfera che ricorda un po' quella di Ellington; almeno fin quando al gruppo, molto omogeneo e affiatato, non riesce un sound più libero e autonomo, che per qualche anno renderà inconfondibili i suoni di questa orchestra, con il sostegno di solisti di grande valore come Trummy Young e Willie Smith. Ma il gruppo non avrà vita lunga e facile. Se per alcuni anni la band di Lunceford non ebbe rivali sullo scenario dello swing di Harlem, il cui epicentro continuava ad essere il Cotton Club, l'orchestra di Count Basie ne raccolse subito l'eredità, inventando un sound del tutto nuovo e diverso, marcato suggestivamente sull'ossessione del riff (unisono di strumenti a fiato che introduce gli assoli), qua e là trapunto dalle brevi, rapide, folgoranti note del piano di William Basie, nero di Red Bank, nel New Jersey, batterista all'avvio di 50 e divise con Duke Ellington la gloria del musicista più ricercato nei balli e nei concerti di musica hot. Tale tendenza, al processo di incontro e di colloquio fra le due razze, in Goodman era anche conseguenza della sua origine ebraica, e quindi dell'adolescenza già vissuta entro lo spazio dell'emarginazione e della diversità: ebreo di origine russa cresciuto nell'America dei ghetti e fra i suoni del jazz nascente di Chicago, il clarinettista era nato nel 1909 nel West Side di Chicago, abitato quasi interamente da ebrei e da pochi italiani, a due passi da quel quartiere della città dell'Illinois che pochi anni dopo sarebbe diventato la roccaforte della malavita italo-americana. Aveva iniziato lo studio dello strumento alla sinagoga, ed era solito ascoltare ogni tipo di musica compresi i concerti che si tenevano al Douglas Park la domenica pomeriggio o i dischi dell'orchestra di Ted Lewis; ma un posto di rilievo, in tale universo così variegato di ascolto, ebbero alcuni grandi del jazz, a cominciare dai New Orleans Rhythm King che annoveravano nel gruppo quel Leon Roppolo di origine italiana che più di ogni altro aveva assimilato alla perfezione la lezione dei grandi clarinettisti creoli e neri della città del delta, Jimmie Noone, Buster Bailey, Johnny Dodds, Sidney Bechet (che poi diventerà uno specialista del sax soprano). Proprio a Chicago, fu importante per lui il tirocinio dell'Austin High School, dove ebbe modo di suonare per le feste studentesche e fece importanti incontri con i jazzmen bianchi della città: il sassofonista Bud Freeman, il batterista Dave Tough, Frank Teschmaker e soprattutto Bix, un maestro per tutti. Ancora molto giovane, a sedici anni, poteva già vantare l'offerta di Ben Pollack, che in quegli anni era leader di una prestigiosa orchestra; e, poco dopo, si aggiungeranno al gruppo di Pollack il trombonista Glenn Miller, altra stella nascente della swing craze, e ancora il trombettista Jimmy McPartland e l'altro trombonista chicagoano Jack Teagarden. Di qui, da questa prima importante esperienza, Benny Goodman 51 spiccherà un volo che coprirà quasi l'intero arco della sua vita, con punte di successo tali che neppure il famoso "giovedì nero" di Wall Street e la conseguente grave crisi economica dell'intera America lo sfioreranno, nel viaggio trionfale verso la gloria e la fama in tutto il mondo. La conoscenza, e l'avvio di una fruttuosa collaborazione con John Ammond, all'Onyx Club, significarono per lui l'ingresso nelle grandi case discografiche, e quindi la possibilità di organizzare quei piccoli gruppi, trio, quartetto, quintetto, che nella discografia goodmaniana sono altrettante perle molto vive e luminose: proprio in tale contesto, il clarinettista realizza quell'idea, già presente a Chicago, di incontro fra bianchi e neri che significò per lui, oltre che il superamento dell'antitesi razziale, anche l'incontro, e la fusione, fra due linguaggi e due scuole notevolmente diversificate, anche se collocabili alla sorgente di una unica matrice nera. I nomi giusti che Ammond suggerì a Goodman furono il batterista bianco Gene Krupa e i due neri Lionel Hampton al vibrafono e Teddy Wilson al pianoforte. Nel corso degli anni, questi mirabili gruppi di studio andarono ad arricchirsi fino a comprendere altri protagonisti della storia del jazz: il sassofonista George Auld e il pianista Count Basie, il trombettista Cootie Williams e soprattutto il chitarrista Charlie Christian, futuro avanguardista di questa musica. Quando Benny Goodman, con i suoi small groups e con l'orchestra, molto affiatata e solida, si trasferì a New York per suonare dapprima al Pennsylvania Hotel e poi, dal marzo 1937, al Paramount Theatre, venne rapidamente incoronato re dello swing e poté avvalersi di questo appellativo per un gran numero di anni, anche quando la swing craze aveva ormai ceduto il posto ad altre avventure di questa musica: Stompin' at the Savoy, Sometimes I'm Happy, Blue Skies, Body and Soul, After you've gone, Dinah, Moonglow, Vibraphone Blues sono soltanto alcuni fra i tanti temi che accompagnarono al successo l'orchestra e i piccoli gruppi di Goodman. 52 Una incoronazione che ebbe il suo cerimoniale di lusso nel memorabile concerto alla Carnegie Hall del 16 gennaio 1938, quando l'epoca della musica con il dondolìo andò a identificarsi con il nome del clarinettista. All'interno della swing era vissero e si consumarono anche sperimentazioni interessanti in altre direzioni: ad esempio, il tentativo di filtrare il linguaggio del jazz di New Orleans con il tessuto armonico dell'orchestra da ballo. Ne fu promotore e protagonista Bob Crosby, fratello del più noto Bing, cantante di successo di quegli anni, il quale mise insieme i resti dell'orchestra di Ben Pollack nell'intento di recuperare almeno in parte la musica di New Orleans; il centro motore del gruppo era il sassofonista di New Orleans Edfie Miller, cui si aggiungevano, al vivo di un sound molto sostenuto e solido, il clarinetto di Matt Matlock, la tromba di Yank Lawson, la chitarra e il canto di Nappy Lamare, il contrabbasso di Bob Haggart e la batteria di Ray Bauduc. Ma vanno ricordate, in questo paesaggio così composito e articolato, anche le orchestre dei fratelli Dorsey, il clarinettista e sassofonista Jimmy e il trombonista Tommy, inventore di un sound molto dolce e sfumato, quella di Charlie Barnet e quella di Woody Herman, aperta a sbocchi espressivi molto interessanti, poiché di questo gruppo faranno parte nel tempo alcuni protagonisti del jazz californiano. Una sperimentazione del tutto nuova nella logica espressiva delle grandi orchestre swing di questi anni andò a riconoscersi nella musica, ma meglio sarebbe dire nel sound del gruppo che si raccolse attorno ad uno dei più sensibili musicisti bianchi dell'epoca, Glenn Miller, scomparso con il suo aereo militare durante un trasferimento da Londra a Parigi, alla fine della guerra, in circostanze che non sono state mai chiarite. Nato a Clarinda, nell'Iowa, nel 1904, cresciuto nel Missouri, chicagoano per educazione musicale, visse le sue prime avventure con l'orchestra di Ben 55 standardizzato, Goodman re dello swing, Harry James intento a suonare sulla tromba, innanzi a turbe di giovanottelli plaudenti, il Volo del calabrone, i pianisti di boogie woogie impegnati in assurde esibizioni ai concerti della Carnegie Hall, i superstiti di Chicago che tentano, incidendo dischi a limitata tiratura, di resuscitare un'epoca finita, questo in poche parole l'aspetto del jazz alla fine del decennio 1930-40". Verdetto drasticamente eccessivo, di certo: tuttavia, una nozione di dura crisi, le cui matrici sociali e storiche sono rintracciabili ancora nella logica perversa della segregazione razziale, oltre che in talune responsabilità storiche della borghesia nera, sospinta alla commercializzazione dai falsi miraggi che il bianco andava offrendole, troverà il suo sbocco dopo qualche anno di preparazione e di intenso lavorio critico quando, proprio dai clubs sparsi per la Cinquantaduesima strada, il jazz riprenderà il suo cammino alternativo, il più naturale e congeniale ai suoi moduli espressivi. 6. Le voci La voce, nella storia del jazz, ha un'origine remota, collocabile nel momento in cui il canto spiritual cominciò a configurarsi come forma di evangelizzazione delle comunità nere prima ancora che qualche strumento di accompagnamento, l'organo nelle chiese ad esempio, iniziasse il suo lavoro di supporto. Lo stesso fenomeno caratterizzò l'avvento del canto profano, isolato in un primo tempo, e solo in seguito sostenuto dal supporto di uno strumento, la chitarra o il pianoforte. Ciò significa che la voce, nella vicenda di questa musica, ricopre spesso il ruolo sostitutivo di strumento, e ciò spiega la ragione del suo diffondersi successivamente agli spirituals e al canto blues, quando il jazz eseguito in forma polifonica iniziò la sua opera di espansione. 56 Si è parlato, nella parte dedicata alle origini, di un segno di comunicazione, e di intrattenimento, che doveva coinvolgere il fruitore sì da provocarne l'abbandono mistico o lirico: e se fra le voci spirituals, nel progredire degli anni, l'appellativo di caposcuola spetta sicuramente a Mahalia Jackson, di certo la più grande interprete di musica religiosa nera che tale modulo espressivo abbia avuto in tempi più vicini a noi (non si conoscono invece i nomi dei primi interpreti di questi canti religiosi), seguita da Marian Anderson, per quello che concerne il blues la voce di Bessie Smith ha rappresentato un punto costante di riferimento, anche perché, a somiglianza della Jackson, la classica impostazione da contralto delle due cantanti ha finito per riconoscersi nella più tipica e categorica individuazione del rapporto che la loro voce-strumento ha saputo stabilire fra esecutore e fruitore. Le voci del blues, a differenza di quelle degli spirituals, sono numerose: dapprima voci maschili nel country blues, come quelle di Charlie Patton e Robert Johnson, di Big Bill Broonzy o di John Lee Hooker, in tempi a noi più vicini e nell'area chicagoana; dopo l'emigrazione verso le metropoli d'America, si è detto, la voce blues è andata a identificarsi con numerose figure femminili, a cominciare da Bessie Smith, con Mamie e Clara che avevano lo stesso cognome, poi con Ma Rainey, Ethel Waters, Lizzie Miles. Quando il jazz si afferma a New Orleans e Louis Armstrong comincia a dominare la scena del jazz dapprima della Louisiana, poi di Chicago e infine di New York, allora la voce inconfondibile di Satchmo diventa in realtà l'alternativa di fondo al suono della sua cornetta e poi della sua tromba, con l'aggiunta della nascita (sua specifica invenzione) del cosiddetto scat-chorus, vocalizzo tutto fondato sulla scansione ritmica in cui l'emissione della voce si realizza attraverso l'uso di monosillabi, in tutto sostitutivi dello strumento. La leggenda racconta che ad Armstrong, in una seduta d'incisione, cadde a terra il foglio con le parole di una canzone, e a Louis venne allora l'idea di sostituire 57 parole che non conosceva, con uno scat-chorus appunto, che poi, nel corso degli anni, verrà più volte imitato ed avrà grandi personaggi fra le voci-jazz ad eseguirlo, prima fra tutte Ella Fitzgerald. L'era dello swing non poteva che rappresentare il momento di maggior diffusione del canto nella storia del jazz: il bisogno di evasione della gente, che faceva ogni sforzo per dimenticare la durezza della Grande Depressione, e successivamente l'ansia liberatoria dell'uscita dal tunnel della crisi, furono le due strutture portanti di un vasto fenomeno di divulgazione, ma i cantanti mediocri furono in questo periodo una maggioranza rilevante, con poche eccezioni. Nasce il crooner, una sorta di cantante confidenziale che poco ha a che vedere con la storia del jazz, ma fra i tanti vanno menzionati due dominatori della scena del business della musica leggera, Bing Crosby e Frank Sinatra, al proscenio per molti anni, soprattutto il secondo; Crosby morirà ancora giovane e nel pieno dell'attività. Le grandi orchestre bianche e nere reclutavano le migliori voci: Artie Shaw si avvalse per un certo tempo di Billie Holiday e Chick Webb di Ella Fitzgerald mentre, nel 1936, in piena era della follia, Red Norvo, vibrafonista molto noto in quegli anni, e Mildred Bailey vennero chiamati "Mr. e Mrs. Swing"; e realmente riuscivano ad esprimere col suono e la voce il tipico dondolìo di questo stile. Mildred Bailey era nata nei dintorni di Washington nel 1903, aveva nelle vene sangue indiano per parte di madre, e da giovane aveva ascoltato tanta musica della sua gente; entrò nel gruppo di Paul Whiteman, pur senza mai incidere con questa orchestra, mentre le sue esibizioni migliori interessano gli anni Trenta della swing craze, con le orchestre di Benny Goodman, del marito Red Norvo, di Teddy Wilson. Era la stagione d'oro delle esibizioni, correva il 1935 e l'America era da pochissimo fuori dalla Grande Crisi, una sera al Savoy Ballroom di Harlem per uno spettacolo di beneficenza: fu la sua esibizione trionfale ma 60 Benny Goodman. Si esibì per lungo tempo al Cafè Society, nel Greenwich Village, e ancora in tutti i locali della Cinquantaduesima strada, a Chicago, a Los Angeles: prese parte ad un famoso film sulla vicenda del jazz, New Orleans, insieme a Louis Armstrong, ma la giustizia non la mollava: arrestata a Filadelfia per possesso e uso di stupefacenti, fu condannata ad un anno di reclusione. Uscì nel febbraio del 1948 e tornò a New York, guardata a vista da quelli del Bureau of Narcotics; più volte arrestata, trovò aiuto da parte di Norman Granz e poi di Leonard Feather, i due massimi managers americani di jazz, ma ormai Billie, la deliziosa Lady Day, aveva i giorni contati: non fu una sorpresa per nessuno l'annuncio della morte, al Metropolitan Hospital di New York, il 25 di maggio del 1959, con un poliziotto davanti al letto di morte per un nuovo arresto. Molta critica jazzistica l'ha paragonata a Bessie Smith: a parte una esistenza ugualmente dolorosa e tormentata, le due voci avevano in comune il dono del più spontaneo dettato poetico, conseguito dall'una attraverso una tipica voce nera da contralto, l'altra sorretta da un vibrato singultante e sensitivo, di rara limpidità armonica. Certo, i blues sono rari nel suo repertorio, ma basterebbe quel canto struggente, titolato Fine and Mellow, per poter dire che Billie ha ereditato da Bessie la musica del ghetto nero di New York, potenziandola con un carico di dolore e di pena difficilmente riscontrabile nelle altre voci di questa musica. La stanca malinconia della voce di Billie trova ancora un riscontro nello splendore fisico di Lena Horne, altra protagonista dell'era successiva a quello dello swing: debuttò con Benny Goodman al Carnegie Hall, nel 1947, e fu quella la sua pedana di lancio per Hollywood, dove girò almeno un film dedicato alla saga della sua gente, Stormy Weather: il fascino che sprigionava dalla sua bellezza trovava un esatto corrispettivo nella voce, molto melodica, tutt'altro che nera bisogna dire, anche se le tonalità del suo canto toccavano un'ampia gamma di percezioni, al punto che, con l'aiuto di 61 Billy Strayhorn, riuscì ad interpretare uno dei più ardui brani di Stravinskìj, La sagra della primavera. Questo esigeva la disponibilità verso un variegato registro sonoro, e Lena Home dimostrò di possederlo al completo, anche se con la voce non riuscì mai a compiere le acrobazie di cui sono state capaci Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan. Nata a Newark, nel New Jersey, a differenza di tante altre voci del jazz, oltre che di tanti musicisti, Sarah Vaughan non ha avuto alle spalle l'adolescenza misera di Ella o quella angosciosa di Billie, e la sua carriera ha avuto uno svolgimento abbastanza regolare: soprattutto la madre, cantante nel coro della chiesa del quartiere, educò la voce di Sarah verso quella gamma variegata e difforme che appartiene all'inconfondibile personalità della Vaughan, certamente la voce più spiritual e più "nera" fra quelle che hanno fatto la storia del jazz. Si mise in luce per la prima volta nel 1942, quando vinse un concorso per dilettanti all'Apollo Theatre di Harlem: in quell'occasione l'ascoltò Billy Eckstine, allora cantante dell'orchestra di Earl Hines, una vera fucina di jazzmen che dopo poco opereranno la rivoluzione del be-bop, di certo la più consistente di tutta la vicenda di questa musica. Entrò subito nell'orchestra e si ritrovò a cantare con Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Wardell Gray, che proprio in quel periodo stavano mettendo a punto la nuova musica. Proprio con i boppers intraprese la sua carriera di cantante, entrando appieno nella musica rigenerata che stava nascendo. Quando Billy Eckstine decise di staccarsi da Earl Hines e formare un suo gruppo, si portò dietro Sarah, anche se con un ruolo di cantante scarsamente impiegata nell'orchestra. Fu l'esecuzione di un brano che poi diventerà famoso, Loverman, nella seduta d'incisione dell'11 maggio del 1945, accompagnata dal quintetto di Dizzy Gillespie, con Parker, Al Haig, Curley Russell e Sidney Catlett, a far esplodere "Sassy" - nomignolo che le diede il mondQ del jazz - poiché la Vaughan ebbe la possibilità, offertale dalla vastità della gamma armonica di quel 62 tema, di inserirsi pienamente nella logica del be-bop, con accenti e marcature che la distinguevano nettamente da tutte le altre voci del jazz. Grazie ad un fraseggio ricco di articolazioni sonore di ampio raggio e di raffinata squisitezza formale, Sarah non ha punti di riferimento in altre cantanti di jazz, anche perché la sua tecnica di impiego della voce come strumento presuppone l'innesto all'interno del vocalizzo di una variabilità cromatica che è poi quella che ritroviamo intatta negli assoli di Gillespie e di Parker, i due musicisti jazz che più di altri l'hanno influenzata. Fino alla recente scomparsa, Sarah Vaughan è stata la cantante tecnicamente più dotata che il jazz abbia avuto, pur senza possedere la drammaticità della voce della Holiday o la leggera freschezza della Fitzgerald: e via via che è andata migliorando le capacità di estensione della sua voce, più acrobatico e spericolato si è fatto il suo walking lungo l'intera gamma sonora, attraverso un variare dal registro basso a quello acuto sempre sostenuto da una cristallina limpidezza di voce. Fra i cantanti bianchi la voce per antonomasia, è ben noto, è quella di Frank Sinatra, straordinario interprete della musica leggera americana di oltre mezzo secolo, di una grazia così raffinata da creare attorno a sé un mito che il tempo e la storia non hanno minimamente scalfito. La sua presenza in una storia del jazz è legittimata dal suo debutto, nel 1940, con l'orchestra di Tommy Dorsey, uno dei maggiori gruppi della swing craze; giocoliere abilissimo, in grado di intrattenere ogni tipo di pubblico e di coinvolgerlo in virtù di una voce davvero unica e irripetibile, Sinatra ha costruito all'interno dello swing un edificio stilistico di rara precisione e di solida autenticità formale, con una morbidezza di accenti e una ostentata fiducia nelle sue possibilità vocali che fanno di lui un dominatore assoluto del paesaggio musicale d'America. A non poca distanza vanno situati gli altri cantanti bianchi, a cominciare da Bing Crosby, di certo il più vicino nel confronto, in possesso di un'avvincente tonalità sul registro basso, e 65 a far muovere i piedini alla borghesia bianca di Broadway era il giorno del riposo settimanale. Una gran folla, soprattutto di curiosi, si addensava all'ingresso del piccolo club, anche perché fra i musicisti che da mezzanotte in su si abbandonavano a fascinosi after hours c'erano jazzmen che l'era dello swing aveva reso celebri: Coleman Hawkins, Art Tatum, Teddy Wilson, Benny Carter, Chu Berry, Mary Lou Williams, e con loro molti giovani cultori della nuova musica, provenienti dalle più disparate regioni degli Stati Uniti. Il chitarrista Charlie Christian, che Benny Goodman con attento fiuto aveva voluto nel suo gruppo, era fra i primi ad arrivare e a deliziare con un tocco dotato di magica fantasia, capace di coinvolgere in un dialogo serrato e captante tutto quel pubblico di neri che aveva finalmente un angolo di Harlem dove vivere la propria musica lontano dagli avventori bianchi. Lo seguivano Lester Young, il sassofonista dell'orchestra di Count Basie che stava inventando una sonorità nuova e del tutto mutata sul suo strumento, il trombettista Roy Eldridge, dallo stile spericolato e acrobatico, capace di suonare sui più acuti registri con la massima disinvoltura. Frattanto una terza generazione, ancora più giovane, si affacciava alla ribalta e comprendeva alcuni personaggi che avrebbero fatto la storia del be-bop: Gillespie, Charlie Parker, Bud Powell, pianista di grande talento e allievo prediletto di Thelonius Monk, Tadd Dameron, Kenny Clarke, Max Roach. Tutti insieme suonavano qualcosa che nessuno aveva mai sentito prima, frutto di esperienze personali che nel piccolo locale avevano la possibilità di tradursi in mirabile sintesi: Parker, per esempio, aveva scoperto che era possibile realizzare un discorso sonoro estremamente fresco e mordente con un sapiente gioco d'anticipo sulla partitura tradizionale, e Kenny Clarke aveva capito al volo che utilizzando i piatti al posto della grancassa alla batteria, avrebbe prodotto lo stimolo di un accompagnamento vivo e vitale, fuori dagli schemi del tradizionale beat 66 della batteria. Nel momento in cui le orchestre di Earl Hines e di Billy Eckstine cominciavano a disgregarsi, nacquero piccoli gruppi di studio e di ricerca, il quintetto di Gillespie e Oscar Pettiford con Parker, Bud Powell e Max Roach, con l'aggiunta del sassofonista Don Byas, tuttavia troppo tradizionale per resistere ad un urto così violento con la nuova musica, tanto che passò sul gruppo come una meteora. Lo schema era oltremodo semplice: esposizione del tema da parte dell'unisono formato da tromba e sassofono, poi libero sfogo all'improvvisazione individuale, quest'ultima un singulto continuo con rapidi e folgoranti scansioni ritmiche della batteria: tutto sotto la guida lucida di Dizzy Gillespie e di Charlie Parker, l'uno al fianco dell'altro a inventare, a ricostruire sulle rovine dello swing, al Three Deuces, nel tunnel dei nuovi suoni che ormai cominciavano a farsi strada, a farsi accettare in nome di un rinnovamento che muoveva dalle fondamenta stesse di questa musica in pieno progresso, che si poneva ormai il problema di fondo di rompere ogni legame con lo stereotipo dello swing, categorica musica da ballo che rappresentava proprio quello che i boppers volevano che non fosse il jazz: musica "pura" da ascoltare, quindi, in piena antitesi con quei tradizionali giri armonici che ormai producevano noia e disinteresse. La testimonianza di un grande musicista bianco, il pianista Lennie Tristano, può fornire una chiave di spiegazione molto precisa e illuminante, quando si confrontano le due situazioni: "Lo swing era caldo, pesante, rumoroso. Il be-bop è fresco, leggero e soffice. Il primo procedeva sferragliando, e sbuffando come una vecchia locomotiva... il secondo ha un beat più sottile, che diventa più pronunciato per mezzo dell'implicazione". Anche nel modo di vestire si notava la profonda frattura: allo smoking della swing craze fa riscontro un'immagine consistente in un berretto basco in testa, un paio di occhiali nerissimi con montatura molto pesante, sotto il labbro un piccolo ciuffo di peli, che Dizzy conserverà gelosamente fino al 67 momento della morte recente. Chiarito il significato tecnico-musicale del be-bop e descritta nei suoi termini essenziali l'esteriorità di un aspetto che celava profonde concitazioni interiori, è necessario andare a verificare quali furono le concause di ordine sociale, ideologico, civile che determinarono la rivolta dei boppers. A tale riguardo illuminanti risultano due figure di neri, Lester Young e Charlie Parker, non soltanto per le innovazioni di carattere stilistico che hanno apportato alla storia del jazz, ma anche per quanto hanno rappresentato, forse a livello dell'inconscio privato e collettivo, nella vicenda dei neri d'America. Lester Young era stato forse il musicista più importante che l'era dello swing avesse prodotto e nella stagione successiva, quella del be-bop, assunse rapidamente il ruolo di caposcuola, anche in virtù del lavoro dirompente che il sassofonista di Count Basie aveva svolto all'interno della swing craze, con impennate rivoluzionarie, trasgressioni al vivo della ferrea rigidità del linguaggio dello swing. La musica di Young pertanto si innesta entro tale contesto conformistico con un potenziale di ribellione in grado di offrire una vasta gamma di soluzioni armoniche alla tecnica dell'assolo. Si tratta di momenti fondamentali lungo il drammatico tracciato che la musica del sassofonista percorrerà, di continuo frantumata dall'uso e dall'abuso dell'alcool e della droga; fino alla morte, del resto, il trauma dell'esistere ha finito per avvicinare l'uomo Young alla più dolente figura che il canto-jazz abbia avuto, a Billie Holiday, la cui biografia, si è detto, soprattutto negli anni estremi che hanno preceduto la morte, immatura come quella di Lester, è stato un continuo, tormentoso calvario, un lento trascinarsi struggente da una plaga all'altra del mondo, con lo sguardo spento dal vizio irrefrenabile. Per tornare a Lester Young, il processo di distacco e di isolamento iniziato nell'orchestra di Basie troverà la sua più concreta realizzazione negli anni successivi, quando Lester riuscirà ad affrancarsi dalla compressione 70 tradizionale commise in quel momento fu di ritenere transitorio un movimento che, guidato da Young e da Parker, da Gillespie e da Monk, da Powell, da Clarke, da Max Roach e da Miles Davis, l'altro genio musicale che condurrà poi fino alle estreme conseguenze il discorso dei boppers, rappresentava invece una svolta storica di enorme significato, tale da condizionare l'intero corso della storia del jazz, dopo gli anni Quaranta. Lo stesso concetto di swing subì via via una diversa configurazione, poiché sia Parker che i boppers dimostrarono come fosse vero che il be-bop utilizzava le strutture del blues, la più vera componente della musica afroamericana, pur attraverso moduli di totale frantumazione. Sorretto dal supporto di una sonorità senza eguali, del tutto diversa da quella di Willie Smith, di Benny Carter, dello stesso Johnny Hodges dal quale pure tanto ha ereditato, Bird riuscì a recuperare i congegni ardui e complessi della tecnica di Young fornendoli di un nuovo, rigenerato sostegno creativo, con una più sottesa varietà di intervalli, che rendono ancor più tragicamente frantumato l'intero fraseggio sullo strumento, dominato dall'imprevedibilità e dalla sorpresa nella sequenza stessa degli accordi, che lasciava stupiti gli stessi musicisti che suonavano con lui. Improvvise e folgoranti, quali nessun jazzman prima di Bird aveva avuto, le accensioni di un subconscio marcatamente deciso che lo spingeva ad improvvisare nell'improvvisazione, in obbedienza ad una libertà creativa totale, assoluta; tutto questo gli accadeva nei momenti più drammatici della sua vita di musicista, quando le allucinazioni dell'alcool e della droga aprivano squarci improvvisi di lucidità mentale, intervalli della follia, tali da produrre un segreto, imprevedibile legame fra accensione lirica e la sua conversione nella realtà di una musica irripetibile. La seduta di registrazione, negli studi McGregor, del 29 luglio 1946, dalla quale venne fuori un drammatico Lover Man eseguito, oltre che da Parker, da Howard McGhee alla tromba, Jimmy Bunn al pianoforte, Bob Kesterton al basso e Roy Potter alla batteria, è 71 sintomatica di tale rapporto stabilito fra il musicista, la realtà e il mondo circostante. Il blues, con tutto il suo peso di dolore compresso e di solitudine, è di continuo presente in questi momenti di allucinazione: soltanto il ruolo risulta rovesciato, poiché la tematica del blues finisce per subire con i boppers una vera e propria rivoluzione interpretativa, come se il linguaggio fosse costretto ad assoggettarsi a regole e impegni nuovi che il nero, fino a quella stagione storica non aveva pensato di dover affrontare. Nel momento in cui l'intensità timbrica e melodica e l'idea da realizzare sullo strumento ritrovano un proprio comune terreno d'azione, nasce un senso di rivolta che non riguarda più solamente la storia del jazz, ma investe contesti molto più ampi che avvolgono l'intero universo della segregazione in una spirale diversa per impegno sociale e civile. La lucidità e il raziocinio con cui Parker esprime le proprie idee, in stridente contrasto con un subconscio che travalica ogni possibilità di raccordo con il vero e il reale, per situarsi in una sfera di totale solitudine dalla quale ancora più difficile si fa il colloquio con il resto degli uomini, convincono che ben oltre le esemplificazioni musicali, del resto convergenti nel nostro discorso, con Parker e con gli altri boppers, come soggetti e come gruppo, si verifica un netto sforzo di recupero di quella matrice africana che l'era dello swing sembrava aver del tutto smarrito. Sta per verificarsi il ritorno alla poliritmia e alle strutture musicali dell'Africa nera, pur con dettati molto diversi, ma ora, in piena stagione del be-bop, l'atteggiamento anche psicologico dell'uomo parkeriano, del nero che rifiuta il patrimonio artistico del bianco per cercare rifugio in un contesto nuovo e diverso, va sottolineato come momento di recupero di origini smarrite lungo un aspro cammino. La psicologia dell'africano solitario si manifesta in artisti come Parker, Young, in intellettuali come Leroi Jones, Eldridge Cleaver, Malcolm X, quale esigenza di riannodare il 72 filo perduto del nesso più stretto fra vecchio e nuovo. Una volta isolatosi dalle istanze standardizzate dello swing e accettata l'idea della rigenerazione e del ribaltamento della tradizione, il be-bop si trova ad agire in una condizione di disagio e di ostilità da parte di molti musicisti tradizionali, che già malvolentieri avevano ingoiato le quattro battute entro le quali si esprimeva il beat della migliore musica swing; tale situazione sospinge l'intero movimento a ricercare formule nuove proprio in quel mondo africano che lo swing aveva respinto per correre dietro a più proficue esigenze commerciali. In questa direzione, uomini come Max Roach e Kenny Clarke diventano portatori di una nuova musica che non può più limitarsi ad un ruolo "esterno", ma deve penetrare al vivo della decomposizione armonica tradizionale. Nel momento in cui il batterista bopper comincia ad usare i piatti sospesi per tenere il tempo, lasciando al tamburo basso le intermittenze occasionali, egli trascina decisamente nella nuova dinamica il basso e il pianoforte, e offre così agli strumenti a fiato quell'ampia libertà d'azione che Parker e Gillespie utilizzeranno al massimo grado, e che consentirà a Miles Davis di arrivare agli ultimi suoi approdi musicali, dopo il filtro dell'esperienza del cool jazz. Il "nuovo nero", in grado di proseguire e condurre alle conseguenze estreme il discorso aperto dai boppers, fu certamente John Coltrane, scomparso anch'egli nel pieno della sua maturazione, ancora una volta vittima inconsapevole dell'universo concentrazionario: quel processo di isolarnento e di solitudine apertosi con Parker diventa in Coltrane una forma di intensa malinconia, frutto e conseguenza di una lacerante contraddizione interiore. Coltrane diventa così l'intellettuale che cerca drammaticamente il dialogo, per sconfiggere il mortale senso di alienazione che una negritudine sofferta e subita determina nel soggetto umano. Tale ansia, unita ad un naturale senso di riserbo che lo spingeva ad evitare il pubblico e a rifugiarsi 75 ribalta vecchi jazzmen della città del delta come Kid Ory e soprattutto Bunk Johnson, Papa Celestin, il clarinettista George Lewis, che si incaricarono di far resuscitare, con successo, il vecchio mito della Louisiana. 8. La via californiana Con l'intervento della California al nodo degli sviluppi e delle ramificazioni della musica jazz lungo le ampie venature della terra d'America, il nero si trova di fronte a problemi imprevedibili e nuovi, che l'età dello swing aveva di certo evidenziato con caratteri talvolta negativi, e che la nuova situazione, creatasi lungo la West Coast, accentua e al contempo orienta in direzione diversa. C'è quindi da chiedersi perché proprio in California sia nato, negli anni Cinquanta, sviluppandosi poi per un breve arco di tempo, un nuovo e diverso tipo di jazz, prevalentemente bianco, anche se taluni innesti di musicisti di colore si riveleranno poi determinanti ai fini di una ipotesi di rinnovamento, a differenza di quanto era accaduto presso altre aree di sviluppo. Ampliare il discorso attorno ad un fenomeno del genere vuol dire anche sottolineare in quale misura il grande esodo dei profughi della Dust Bowl abbia contribuito a fare della California una sorta di terra promessa che gli slogans pubblicitari definivano con frasi piuttosto attraenti e strane: "La terra del mare al tramonto", "Lo Stato dell'occasione d'oro". La prima conseguenza del flusso migratorio fu l'impatto tra i neocaliforniani, poveri e costretti a provvisori lavori stagionali, e uno schema borghese alquanto mistificatorio. La conseguenza fu la nascita, a cavallo degli anni Cinquanta, del movimento della beat generation - che ebbe con il jazz rapporti molto stretti - al punto che la definizione di jam session andò ad adattarsi anche 76 alla poesia: in effetti, furono pittori, poeti, narratori, jazzmen, gli uomini della bear generation californiana, e tutti potrebbero riconoscersi nella concitata biografia di Allen Ginsberg: la madre morta in manicomio, lui prima facchino in una stazione di autobus, poi estensore di discorsi politici per un candidato al Congresso, lavapiatti in un locale alla moda, mozzo di bordo su navi da carico. Giunto a San Francisco in autostop, Ginsberg vi trovò due nuclei di artisti, i tradizionalisti che si adagiavano su situazioni di comodo, di sicuro retaggio, e giovani ribelli ansiosi di novità. Nel 1954, Ginsberg organizzò una riunione di poeti davanti ad una gran folla incuriosita, costituita dalla borghesia della città, e lesse il suo poema Howl: per la prima volta nella storia delle tornate letterarie si verificò fra il pubblico bianco il singolare fenomeno di ritrovarsi ad accompagnare i versi di Ginsberg con il tipico beat della musica jazz, quasi a voler realizzare un più diretto incontro non solo fra le due espressioni, ma fra le due razze. Il lungo processo liberatorio si era compiuto nel connubio fra musica e verso, non più recepito come anarchica liberazione, come accadeva fra i neri nei riguardi della stessa simbiosi, bensì sul filo teso di una alienazione individuale che conduce direttamente ad una totale resa metafisica, ad una sorta di esorcismo fortemente intellettualistico, che ha sostituito la libera e primordia voce dei poeti neri che fornivano il sottofondo al sax di Charlie Parker. C'è insomma una radice diversa, frutto inevitabile di un lontano e diverso processo di acculturazione, di evidente estrazione europea e occidentale, che tenta di contrapporsi, e in qualche caso di integrarsi, con la condizione nera espressa ad Harlem dalla disperazione prodotta dall'universo del ghetto e della segregazione. L'inno a Moloch, che fa parte appunto di Howl, esprime certamente tutta l'esigenza protestataria di un poeta che cerca traumaticamente l'antidoto alla propria alienazione, ma tale processo liberatorio 77 dall'equivoco della civiltà massmediale cerca di riconoscere se stesso in un retaggio culturale del tutto diverso, compresso entro radici difformi che risultano individuabili nel processo estetico della cultura europea e occidentale. Comincia insomma a serpeggiare quel contesto di ribellione tipicamente bianca che avrà largo riscontro nella cultura degli hippies e sarà facile identificare nella figura inquieta di Neal, il protagonista dell'altro testo-chiave dei beatniks, On the road di Jack Kerouac. Lungo una simile proiezione culturale, si muove il jazz degli anni Cinquanta in California, al nodo di una ribellione che a quel tempo aveva invaso tutta la West Coast. C'è anche da sottolineare che l'alternativa a tale movimento avanguardistico, che andrà poi a sfociare nel cool jazz, il jazz freddo molto cerebrale che ebbe il suo antesignano in Lester Young e avrà il suo protagonista in Miles Davis - il maggior talento che abbia prodotto il jazz moderno - era costituito dall'impegno di un gruppo di jazzmen bianchi nel far rivivere certe formule espressive del vecchio jazz di New Orleans attraverso quel fenomeno del revival che non tarderà a rivelarsi una mediocre operazione commerciale. Una situazione, come si vede, abbastanza simile a quella che aveva trovato il poeta Ginsberg al momento del grido di protesta che la sua letteratura intendeva esprimere. Ancora San Francisco - come per la cultura dei beatniks - fu l'epicentro del revival californiano, e il profeta di tale operazione si chiamò Lu Watters, che si assunse il ruolo non facile di far "rivivere" la musica di King Oliver, di Jelly Roll Morton, di Louis Armstrong, come d'altronde era già accaduto a New York, ma con musicisti neri come Bunk Johnson. Se il movimento revival assunse gli aspetti piuttosto negativi di una operazione commerciale, il movimento progressista del jazz californiano offrì a sua volta elementi molto più utili e positivi di sviluppo del linguaggio jazzistico. I musicisti che si resero protagonisti di tale movimento furono soprattutto il trombettista, arrangiatore e compositore 80 musicista nero avverte la necessità di un ritorno alle autentiche radici della "sua" musica, ben oltre il malinconico e improduttivo revival da una parte, e al di là delle barriere gelide del cool, lungo un asse in grado di ricondurlo alle sorgenti del gospel e del canto popolare come impegno di vita e di lotta a fronte delle manovre eversive della musica californiana. Sulla scia di Lester Young, il musicista nero rappresentò il momento culminante di quel vasto processo di dolorosa soggezione, riconoscibile sul filo di una globale sottrazione spirituale alla tensione emotiva della segregazione razziale, e comprese inoltre che era giunto il momento di compiere il grande passo verso quel tipo di rivoluzione totale, a tutto campo, che i boppers avevano solo iniziato e poi interrotto per il timore di non trovare più la necessaria comunicazione con il pubblico. La suggestiva ipotesi della data di nascita dell'hard bop attorno al 1955, anno della morte di Charlie Parker, ha un suo reale fondamento e può essere accettata proprio in funzione di tale registro di riscatto e di risveglio; come punto di partenza, vale a dire, di una rinascita che darà ulteriori frutti rivoluzionari, in larga misura con l'avvento del free jazz. Definitosi East Coast Jazz, in polemica con la costa californiana anche nella nomenclatura, l'hard bop si riconobbe nella sostanza di una musica dura e impietosa, protestataria nel sangue, nella stessa misura con cui il cool aveva reperito, in un dolente, disperato solipsismo le ragioni di fondo della sua espressione. Non andarono molto lontano nelle loro elaborazioni musicali gli hard-boppers, tuttavia realizzarono un universo di rivolta che mai fino allora aveva manifestato sintomi altrettanto forti e robusti, persuasivi nella misura in cui trovarono più difformi canali espressivi per realizzarsi. Anche in questo frangente, la componente psicologica serve a verificare come il diverso atteggiamento del nero al cospetto dell'hard bop stia ad indicare quanto grande e sensibile fosse in quella particolare stagione il senso di 81 speranza e di attesa dell'afroamericano, nei confronti della stagione piena del riscatto, del recupero delle radici. L'operazione di rivolta si mosse attraverso le linee interne dei recessi dell'anima, tanto che l'hard bop non tardò a riconoscersi, e a confondersi talvolta, con la soul music, sì da provocare impulsi iniziali sicuramente più profondi degli eccessi che produrrà in seguito. Il senso di aggressione sociale riconoscibile nel tempo di passaggio dalla non-partecipazione della cool music al nuovo schema proposto dall'hard bop, riflette realisticamente una svolta di estrema importanza nella storia della cultura afroamericana, poiché penetra al vivo della preistoria della sua attuale emancipazione in termini ancora più sensibili, anche se musicalmente meno validi, di quelli espressi nel be-bop. Il simbolo più concreto dell'irruenza con la quale l'hard bop aggredì il mondo del jazz, proponendo i termini della rivolta in modo perentorio e inconsueto, fu il trombettista Clifford Brown, morto prematuramente proprio nella stagione in cui stava esprimendo il meglio di sé. Né va sottovalutata l'ipotesi che il tramonto dell'hard bop, come musica impegnata e non commerciale, abbia coinciso con la fine del suo esponente più sensibile e appassionato, che assieme ad Art Blakey e a Max Roach ha dato vita ai momenti più emotivi che il jazz degli anni Cinquanta abbia saputo offrire. La definizione secondo la quale Clifford Brown è stato una sintesi di tutto quanto i trombettisti, da King Oliver in poi, avevano pazientemente scoperto, forse non rende piena giustizia ad un musicista che dette una rilevante impronta di originalità a questa variante del creativo, compresa quell'autonomia da modelli, stili e tendenze, in un frangente alquanto confuso e concitato di questa musica: aver saputo guidarla con il supporto di una forte componente spirituale, senza mai indulgere in formule retoriche o consumistiche, rappresenta di certo uno dei maggiori meriti del trombettista, caso più unico che raro di musicista che si lasciò alle spalle, dopo la morte immatura, un esercito di imitatori, pur per quel 82 poco che la sorte gli consentì di esprimere. Infine, anche se nel circuito del creativo dell'hard bop andarono a situarsi fenomeni commerciali come il rock and roll e il rhythm and blues, almeno quello proveniente dalla cultura nera non contaminata dalle numerose imitazioni bianche che i due movimenti musicali produssero, è innegabile che l'hard bop ha rappresentato una forza di continuità solida con il jazz moderno espresso dal be-bop, dal quale ha ereditato il substrato culturale, fino a condurlo alle estreme conseguenze. Al seguito di Clifford Brown, di Art Blakey e di Max Roach, non furono pochi i jazzmen che percorsero quella strada impervia, dal pianista Horace Silver al sassofonista Sonny Rollins, artefici assoluti di una improvvisazione senza soste che si svolgeva dal principio alla fine, per cui in ogni session d'incisione, come in concerto, il blowing, il soffiare nello strumento, rifletteva una ragione di vita, una riflessione necessaria e inderogabile, seguendo sempre - va detto a chiare note - lo schema armonico del blues, la musica madre di ogni reazione. Via via negli anni si infoltì la schiera degli hard boppers, con apporti di grande rilievo da parte, per esempio, di Julian Cannonball Adderley, con il fratello Nat alla tromba a seguirne gli schemi rivoluzionari. Né va trascurato il fatto che con l'avvento dell'hard bop entrarono in crisi tutti quei vecchi standards sui quali la musica jazz precedente aveva costruito la sua fortuna, mutuandoli dalla musica leggera americana, anche quella di gran classe. In coincidenza con gli anni Cinquanta, si moltiplicarono le composizioni jazzistiche originali, emarginando la voce umana e affidando agli strumenti il ruolo di protagonisti assoluti, in grado di trasmettere al fruitore della musica l'integro sviluppo del discorso mentale. Tutto quanto è accaduto nei tumultuosi anni Sessanta, la Rivoluzione Nera, l'affermarsi negli States di una nuova sinistra, il fiorire della cultura underground, una vera e propria controcultura, le rivolte studentesche, lo scardinamento di miti che 85 neri e bianchi aumentò notevolmente, facendo crescere il numero dei disoccupati e provocando continue crisi nel fenomeno della segregazione razziale, così come andava manifestandosi nei grandi centri industriali del Nord. Il Movimento Boicottaggio Autobus, iniziato a Montgomery da Rosa Parks nel 1957, non fu che uno dei tanti episodi della preistoria del Black Power, le cui concause vanno poi ricercate nella condizione stessa di subordinazione in cui le due razze continuavano a vivere. La figura di un eroe enigmatico come Malcolm X, autoelettosi capo dei Muslims appena uscito di prigione, cominciò ad assumere proporzioni vistose e la sua morte violenta nel 1965 rappresentò per lui l'ingresso nelle regioni stravolte del mito, come del resto accadrà qualche anno dopo al fratello nel martirio, Martin Luther King. Al discorso integrazionista, sostenuto dalla Corte Suprema degli Usa, alla politica della "mano tesa", Malcolm contrapponeva l'esigenza primaria e inflessibile da parte dei neri di non lasciarsi gestire dai bianchi, bensì di avere propri capi e autonome guide politiche, come per le comunità ebraiche e irlandesi. Di qui l'esigenza di una indispensabile base culturale da parte degli uomini del Black Power, come assunzione di una coscienza liberatoria fondata su sicuri elementi di giudizio e di analisi. Il programma socio- politico dell'Islamismo e il concetto di religione come totale definizione del mondo, diventarono così le necessarie strutture portanti di un impegno culturale di ampie proporzioni e di più certa capacità di penetrazione. L'angolazione dalla quale il movimento dei Black Muslims osserva e giudica la progressiva azione di autonomia del nero, disincagliato dall'universo concentrazionario, tipica di Malcolm X, di Cassius Clay e dei loro seguaci, ritrova un suo più vasto terreno di correzione e di revisione nel momento in cui il problema della nazione islamica come modello di sviluppo civile viene affrontato da una generazione più colta di neri, legati al Black Power, certamente, ma con esigenze interiori ancora più ampie e 86 profonde. Si precisa così il passaggio definitivo dalla negritudine alla negrità, lungo componenti culturali che investono le esigenze di fondo del popolo nero: nel momento in cui il ghetto si identifica con il Terzo Mondo, gli uomini del Potere Nero acquisiscono a loro volta il diritto a una leadership, che sul piano politico continua a risultare problematica, ma al contempo rappresenta la nozione di un rilevante impegno culturale. Torna la rappresentazione dell'inferno dantesco in un poeta nero come Leroi Jones, e assume accenti e tonalità di un mito nuovo, reale questa volta per l'evidenza di un risvolto umano riconoscibile nella logica di Harlem come somma dei dolori del mondo, enorme catino nel quale vorticano traumaticamente i sensi di colpa e la frustrazione, in cui marciscono doni inestimabili di saggezza, di amore, musica, scienza, poesia, in ibrida comunità con la più degradante corruzione dei sentimenti. Se dalle tante testimonianze di sociologi, uomini politici, intellettuali neri, scrittori come Leroi Jones, Malcolm X, Eldridge Cleaver, Angela Davis, si passa ad analizzare quelle dei nuovi jazzmen che furono espressione del New Thing definito free jazz, si avverte come il linguaggio ancor più si chiarifica, poiché per il musicista di jazz il recupero dell'Africa nera, ben oltre la pur macabra ideologia, significa anche ritorno ad un universo di suoni in parte ignorato prima, e in parte mistificato dalla logica della commercializzazione, che aveva inventato quel paesaggio di cartapesta fatto di palmeti e di dune, che erano sullo sfondo del Cotton Club mentre Ellington si esercitava nello stile jungle. Di ritorno dal Festival delle Arti Nere di Algeri, Archie Shepp, uno dei padri spirituali del nuovo linguaggio, non nascondeva il senso di rivelazione che ebbero per lui taluni suoni, certe percussioni particolari, il ritmo "nero", così diverso da quello della tradizione jazzistica d'America, soprattutto il senso comunitario del tessuto connettivo e infine la riconquista, la riappropriazione di quella gioia del creativo che il bianco aveva perduto. 87 Tale nuovo rapporto ha posto un problema di fondo che la musica jazz non aveva mai avuto in passato, e che ora si pone in modo netto per le forti implicazioni politiche che la New Thing musicale avanzava in modo così deciso: il confronto fra ideologia e libera ispirazione del creativo all'interno di un movimento così politicizzato come il free jazz. Alla svolta di una dura radicalizzazione della lotta, era inevitabile che il nodo del problema riguardasse appunto tale confronto, anche per le marcate tendenze marxiste all'interno del Black Power, pur con le dovute sfumature. Mai era accaduto prima che il rischio della valorizzazione dell'ideologia comprimesse o isolasse del tutto il senso estetico dell'esecuzione: è chiaro che questo problema non aveva acceso né prodotto la musica di Ellington o di Armstrong, ma neppure musicisti come Miles Davis o John Coltrane, del quale è ben noto il disagio quando per la prima volta si trovò a suonare con uomini del free come Ornette Coleman o Archie Shepp. Ma per lui il trauma iniziale, che mai verrà superato dai jazzmen della tradizione, fu vinto in virtù dell'acquisizione del free jazz come libera rivolta alle regole rigide del colonialismo bianco. D'altro canto, anche il risarcimento dell'immenso patrimonio africano si pone come struttura portante della nuova musica, anche sul piano del discusso incrocio arte-ideologia. L'esempio più provocatorio e probante di tale rapporto è di certo offerto dal lungo brano che ha dato il nome a tutto il movimento del New Thing: fu storica la registrazione, avvenuta a New York nel 1960, di Free jazz eseguito dal Double Quartet di Ornette Coleman: non solo per il titolo che ha poi dato nome all'intero movimento, ma anche perché è stata la prima manifestazione ufficiale e collettiva dell'avanguardia jazzistica. Era un doppio quartetto, appunto, costituito da due ottoni, due ance, due contrabbassi, due batterie, e la musica che ne esplose risultò un impasto sonoro fortemente traumatico, al limite della provocazione, secondo una consuetudine che Ornette Coleman 90 in lotte analoghe, come avviene in Los Olvidados, un brano fortemente impressionistico, ma al contempo scopertamente espressionistico per i risvolti realistici esasperati fino allo stremo, ispirati chiaramente al noto, allucinante film di Bunuel. Raggiunta l'unità orchestrale di cui aveva bisogno, Shepp attua così il disegno ideologico di risarcimento dell'universo umano e sonoro della temperie di New Orleans, alle radici del blues, e lo realizza con la collaborazione di Gracham Moncur III come secondo trombone, che gli permette di obbedire finalmente a quel tipo di improvvisazione che doveva significare la sua militanza di artista e di poeta, oltre che di uomo calato nella logica di una dura lotta contro il bianco. Il recupero della polifonia africana quale era andato realizzandosi nelle orchestre del Sud degli anni Venti, si concretizza ora con più netta evidenza attraverso i nuovi mezzi espressivi di cui può servirsi Shepp con un simile organico: laddove ogni strumento, nei gruppi di New Orleans, aveva un ruolo precisamente assegnato, qui invece opera in libertà assoluta, in una condizione di felice anarchia, anche come contraccolpo di più vaste avventure in questo campo, dovute a Coltrane, ad Ornette Coleman, ad Albert Ayler, drammatica figura di jazzman, morto tragicamente nel pieno della maturità espressiva. Nel momento in cui la libertà polifonica diventa globale e coinvolgente, il processo di partecipazione e di corresponsabilità del pubblico è compiuto e il quadro generale viene allora rifinito con l'innesto di un più ampio incrocio culturale, che comprende la lettura di brani e di poesie dello stesso Shepp e degli altri uomini del free, secondo una consuetudine già inaugurata dagli intellettuali della beat generation californiana: "Una canzone", inizia a dire Shepp in apertura del brano Malcolm Malcolm Semper Malcolm, "non è solo quello che sembra un tema musicale, un uccello che può cantare felice anche in America. Ascoltate, noi suoniamo, ma siamo sempre schiacciati. Siamo assassinati". 91 Un ulteriore aspetto del problema provocato dalla nuova musica, oltre che quello del rapporto fra ideologia e fatto creativo, riguarda e coinvolge l'incontro con l'avanguardia informale con cui la New Thing va sovente ad identificarsi. Si è parlato dei casi Pollock-Coleman e Shepp- Bunuel, altro evidente esempio della tenacia con cui il nuovo afroamericano stabilisce raccordi e fili con l'avanguardia novecentesca, entro la quale poter reperire il filo smarrito di una condizione analoga; si ritrova in una poesia di Leroi Jones, Black Dada Nichilismus, in cui il senso di libertà prodotto dal rifiuto ormai lucido dell'universo segregazionista si realizza sul filo teso di un transfert linguistico che consente al poeta di offrire uno strato culturale fortemente sperimentale all'intero contesto dell'inferno nero. La parola, accompagnata dal commento sonoro del New York Jazz Quartet, che ne completa e vitalizza i segreti traslati, esplode allo stato coscienziale e puro come dolorosa e tacita esemplificazione del vero e del reale, e allora il processo di simbiosi immagine-suono trova la più limpida enucleazione al bivio del concetto che non sfugge alla realtà, ma si realizza invece dentro un più ampio universo: quello allucinato di un Harlem-grumo-sconvolto di pagani, di lussuriosi incontinenti, di ingordi, di iracondi, di seduttori, di adulatori, di simoniaci, di indovini, di barattieri, di ladri, di seminatori di discordie, tutti calati entro una fossa che è già teatro, perché la pièce che vi si recita possiede in sé tutti i sintomi della tragedia. Ecco quindi che, in questa fase della sua storia, il jazz diviene il comune denominatore di una totalità di culture, crocicchio demoniaco per mille ramificazioni interiori, che agiscono nel subconscio di una intelligenza stravolta: "è vero, bimbo. Io parlo. Io ho. Blues. Steamshovel blues. Blues. Io ho. Blues dell'espressionismo astratto. Blues dell'esistenzialismo. Io ho. Più blues di quelli per i quali tu puoi dimenticare le chiappe. Kierkegaard blues, eccoli qui ragazzo, un 92 sussulto, una contorsione. Ho persino il blues del giornale. O, completamente folle, il blues del blues. Niente mi sfugge. Tutti questi blues sono cose nelle quali ti imbatterai. Io ho soltanto visioni e parole e ombre. Io ho la tua visione nelle mie dita. Qui è tutto ciò che pensi. E fuori di questa tenda, il resto della tua vita". Il linguaggio jazzistico, emerso dal paesaggio della contemplazione e della liricità, va dunque proiettandosi verso soluzioni del tutto nuove, deciso a rompere per sempre le barriere della tradizione: se personaggi come Parker, lo stesso Coleman, Coltrane, Mingus, Cecil Taylor appartengono per certi aspetti al tema libertario precedente, ben più rivoluzionari materiali espressivi sono reperibili nei suoni di Alber Ayler, dello stesso Shepp, di Sun Ra, di Marion Brown: si passa repentinamente, e con una manovra d'urto marcatamente provocatoria, all'impatto globale, al grido entro il quale confluiscono strumenti acustici esasperati e persino apparecchi riceventi. Si fa enorme e intollerabile il fastidio da arrecare al fruitore di questa musica, e la batteria, decomposta e dissacrata la sua funzione originaria, diventa il viatico di maggior violenza per chi ascolta, non più il referente che produceva quel ritmico dondolìo che la tradizione definiva swing. L'assolo non ha soluzione di continuità, poiché deve innestarsi al vivo del sound, così da condizionarne pienamente le capacità ritmiche. Nell'ossessione urlata all'unisono, si immettono gli strumenti a fiato che accendono il clima "impossibile" e "illeggibile", che in quanto tale ferisce direttamente la realtà della fruizione, un'azione aggressiva che ebbe non pochi protagonisti, oltre a quelli già ricordati: i sassofonisti Sam Rivers, Robin Kenyatta, Jimmy Lyons, Byron Allen, Frank Wright; i trombettisti Clifford Thornton e Don Ayler; i contrabbassisti Gary Peacock, Alan Silva, Reggie Johnson; i pianisti Dave Burrell e Don Pullen; i batteristi Sunny Murray, Milford Graves e Andrew Cyrille. Fuori di New 95 questa musica, Davis riesce a individuare le strutture più segrete del blues lungo un crinale di risarcimento afroamericano, ricavandone un universo di suoni irripetibile, un archetipo che nelle sue mani e nel suo talento avrà in seguito un senso e un significato difficilmente reperibili nei suoi seguaci e negli epigoni. Si corre infatti sul filo di un rischio totalizzante: la musica jazz finora era stata qualcosa di molto diverso, e diventa "un'altra cosa", poiché si introduce un linguaggio e un credo estetico finora del tutto ignorato. Basta osservare l'organico di cui Davis si è servito per la realizzazione della suite per giungere subito a conclusioni di incontro e di connivenza con la musica rock, che riflette la nuova moda della musica americana; oltre alla tromba di Miles Davis ci sono Wayne Shorter al sax soprano, Benny Maupin al clarino basso, Chick Corea al pianoforte elettronico, Joe Zawinul e Larry Young come pianoforti elettronici aggiunti in alcuni frammenti della saga, Dave Holland al contrabbasso elettronico, John McLaughlin alla chitarra elettronica, Lenny White, Charles Alia, Jack De Johnette alle batterie e Jim Riley allo strumento a percussione. All'orologio della storia dei neri d'America, l'età degli anni Sessanta e Settanta ha significato immissione entro un impegno duro e impietoso, sul quale anche la musica finisce per agire in modo determinante: se il free jazz volle dire, come si è notato, estrema e radicale rivolta agli schemi armonici tradizionali, in virtù di una violenta frantumazione del linguaggio che voleva anche esibire l'esigenza primaria dell'intolleranza verso lo stato di soggezione del nero delle origini del jazz, d'altro canto un senso profondo di risentita aggressività si riscontrava almeno in altre due strutture portanti dell'espressione nera in quegli anni, il rhythm and blues e il rock in tutte le sue varianti, compreso quell'hard rock che si riconosceva nello zoccolo più duro della protesta. Alla quale non si sottrassero quelle comunità bianche emarginate o per matrice sociale o per scelta ideologica. 96 Derivato alquanto spurio del jazz, il rock aveva trovato nei suoni elettrificati di Miles Davis una sua sublimata individuazione, ma il "caso Davis" restò un fatto isolato e la delusione prodotta dai documenti esibiti in quegli anni dagli uomini del pop, del rock e del rhythm and blues furono tali da vanificare ogni serio tentativo di incontro o di confronto. Fra il 1968 e il 1969 il processo di saldatura fra jazz e pop era ai primi passi, e tuttavia l'industria discografica americana già guardava con un certo interesse ad un possibile incrocio di esperienze. La rivista Jazz di New York cambiò la propria testata che diventò Jazz e Pop e ospitò numerosi articoli di rilievò dovuti a personaggi collaudati della critica jazzistica come Nat Hentoff, che esaltava la possibile ecumenicità delle varie musiche popolari che avevano costruito la storia del creativo in America; ad essa andò ad unirsi la più autorevole delle riviste musicali americane, il Down Beat, che iniziò una vera e propria crociata per far posto al pop nelle pubblicazioni specialistiche degli Usa. Inoltre in quegli anni, nei Festivals di jazz più importanti, sia negli Stati Uniti che in Europa, i jazzmen della tradizione, come dell'avanguardia, si trovarono a dover condividere podio e pedana con i musicisti dell'hard rock, del folk rock, del soft rock, anche se in una reciproca condizione di disagio. Ciò accadde in particolare al Festival di Newport del 1969, quando sulle stesse pedane si incrociarono i più famosi jazzmen del momento, e i reduci dalla oceanica adunata di Woodstock. Il tentativo di legame, lo sforzo di mediazione era rappresentato dagli uomini del nuovo blues, non più con il diavolo a tracolla o con la scimmia sulle spalle, ma in pieno assetto elettrificato, con amplificatori che dovevano servire a "stordire" la platea più che a far godere della musica: c'era B.B. King che poteva vantare un nobile passato di bluesmen, ma accanto a lui davano la replica Johnny Winter o John Mayall, in pittoresca tenuta da cacciatore di frontiera. L'unico comune denominatore, importante perché spiega in larga parte il 97 confronto e l'incontro, era il fatto che tutti, bianchi e neri, jazzmen e rockmen, appartenevano all'"altra" America, quella ribellatasi all'Establishment, contestatrice della guerra sporca in Vietnam, dalla foggia stravagante, talvolta stramba e balorda. Immesso ormai nel mercato discografico, con annessione logica ai festivals e ai grandi concerti oceanici, il jazz-rock, all'indomani di Bitches Brew di Davis, incontra sempre maggior fortuna, anche in virtù dei buoni esiti conseguiti, oltre che da Davis, da Gary Burton e da Don Ellis; ma al di là di questi nomi, il connubio andava avviandosi verso la sua commercializzazione, purtroppo guidata da musicisti di tutto rispetto come Joe Zawinul e il sassofonista Wayne Shorter, ex compagno di Davis, unitisi ora nel gruppo dei Weather Report, Tony Williams, ex batterista ancora di Davis, convertitosi alla nuova formula con il trio Lifetime, il chitarrista inglese John McLaughlin, lanciato negli Stati Uniti da Williams e Davis il quale, con la sua Mahavishnu Orchestra, divenne famoso nel 1973 vincendo i referendum del "Down Beat" con largo margine; quindi l'italo- americano Armando "Chick" Corea, passato con sospetta disinvoltura da un solismo molto raffinato ad un free piuttosto ambiguo, fino ad un rock alquanto facile e scontato con il gruppo Return to Forever; infine Herbie Hancock, ottimo pianista di jazz, trasformato fin troppo rapidamente in esecutore di un confuso e volgare rock elettronico. Entro un simile contesto va sottolineata l'importanza che è andata assumendo l'elettrificazione degli strumenti, tipico emblema dell'età del rock, anche se in precedenti stagioni culturali non pochi musicisti avevano adottato tale sistema: Les Paul aveva iniziato ad elettrificare le prime chitarre, Charlie Christian aveva realizzato una ricognizione al vivo di certe esperienze di grande significato estetico, in virtù dello straordinario talento che certamente possedeva e, per quanto concerne il più ristretto mondo del blues, T-Bone Walker rappresenta il caso di un bluesman che per la prima volta tenta avanguardistiche e
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