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"La storia dell'arte: istruzioni per l'uso" di Pinelli, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

Riassunto del libro "La storia dell'arte: istruzioni per l'uso" di Antonio Pinelli

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022
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Scarica "La storia dell'arte: istruzioni per l'uso" di Pinelli e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! LA STORIA DELL’ARTE: ISTRUZIONI PER L’USO Cap. 1 PER COMINCIARE È necessario saper inquadrare in senso cronologico gli avvenimenti artistici. L’arte è strettamente collegata al concetto di durata, infatti uno dei suoi moventi più profondi è l’ambizione a realizzare opere destinate a durare nel tempo. L’opera d’arte va vista nell’ambiente in cui si trova, meglio ancora se questo coincide con il luogo cui essa era destinata e per il quale è stata concepita; come ad esempio “La crocifissione di San Pietro” e “La conversione di Saulo” di Caravaggio, eseguite per la Cappella Cerasi nella Chiesa di Santa Maria del Popolo. Se non avessimo in mente la loro destinazione non potremmo comprendere lo scorcio in diagonale. L’opera d’arte è il risultato di una somma di fattori: la personalità dell’artista, le richieste del committente, il peso della tradizione iconografica e stilistica, il riflesso della cultura dell’epoca in cui è stata prodotta. Non va sottovalutato il problema dell’iconografia, ossia la necessità di decifrare il soggetto di un’opera d’arte. Un esempio è quello della rappresentazione della natività, che nel corso della storia ha seguito dei topos ma anche variazioni. Possiamo trovare la capanna rappresentata come un rudere oppure come un’architettura moderna. Un esempio è la “Natività” di Martini del 1500, dove vediamo riprodotto un arco trionfale che sicuramente fa riferimento a Costantino e alla nascita del Cristianesimo. Umberto Eco nel 1962 afferma che tante opere d’arte contemporanea sono state concepite dal loro autore come “opere aperte”, come un progetto di comunicazione che si presuppone l’intervento attivo da parte del pubblico; questo concetto può essere riflesso a tutte le opere della storia dell’arte. Cap. 2 IL RUOLO SOCIALE DELL’ARTISTA Nel Medioevo vigeva una netta distinzione tra Arti liberali (Arti del Trivio: Grammatica, Retorica, Dialettica e Arti del Quadrivio: Aritmetica, Geometria, Musica, Astronomi) e Arti meccaniche, di carattere artigianale e artistico la cui principale modalità operativa era costituita da abilità manuali. Per via della forte componente manuale, le arti visive rientravano in quelle meccaniche. L’emancipazione da questa concezione avvenne nel XV secolo, grazie alla crescente considerazione sociale che stavano acquisendo gli artisti. Nella prima metà del 500 nacque a Firenze la prima Accademia delle Belle Arti, che svinvolava gli artisti dalla corporazione. Fra il XVII e il XVIII secolo, le Accademie si diffusero a macchia d’olio. Nell’antica Grecia, gli artisti erano definiti banausoi, ossia coloro che si guadagnano da vivere con il lavoro delle mani. Anche se poi troviamo eccezioni che esaltano grandi artisti sollevandoli dal loro stato di inferiorità sociale. Durante l’età arcaica e l’epoca di Pericle, gli artisti venivano remunerati con una tariffa oraria, escludendo qualsiasi capacità intellettuale. Con l’aumento del collezionismo cominciò ad affermarsi quel principio moderno per cui nell’opera d’arte il rapporto valore-lavoro non è quantificabile in termini esclusivamente temporali. Vasari nelle “Vite” del 1550-1568, parlando del “Cenacolo” di Leonardo fa riferimento al tema della rappresentazione degli affetti, cioè l’espressione dei sentimenti e degli stati d’animo, attraverso la mimica, la gestualità, la posa e la caratterizzazione fisignomica dei personaggi. Il messaggio di fondo consiste nel fatto che la creatività artistica è regolata da un tempo non quantificabile in termini di stretta equivalenza tra il valore di un manufatto e le ore di lavoro che sono state impiegate per realizzarlo. Nella seconda metà dell’800 si svolse un processo che ebbe come protagonisti James Abbott McNeill Whistler e John Ruskin. Ruskin aveva stroncato l’opera “Notturno in blu e oro: il vecchio ponte di Battersea” di Whistler. Emerge quindi il conflitto tra una concezione neomedievale rilegata all’amore per il manufatto artistico e la poetica di Whistler, ostile a una pittura intenta a riprodurre meticolosamente la realtà. Inoltre quest’ultimo si vantava di aver eseguito quadri in una sola giornata di lavoro, evidenziando l’impossibilità di ridurre il valore di un’opera d’arte alla mera quantificazione di ore di lavoro. Sullo sfondo della polemica tra Whistler e Ruskin si agitava lo spettro della nascita della fotografia, la riproduzione meccanica della realtà visibile. Inoltre nell’800 si diffusero i processi di industrializzazione e l’artigianato scadeva al rango di attività produttiva sempre più marginale. I Preraffaelliti evadevano idealmente in un mondo dove l’arte non era stata scalzata dal piedistallo sociale, ponendosi come modello dell’artigianato. Whistler invece puntava a un tipo di rappresentazione esotica e imprecisa, che rimanda all’improvvisazione esecutiva; secondo lui, ciò che spetta all’artista è andare oltre l’apparenza e questa concezione apre le porte all’arte astratta, intesa come rappresentazione di ciò che non fa parte della realtà fenomenica. Nasce quindi la concezione dell’artista come “antenna sensibile”, in grado di percezioni superiori negate all’uomo comune. Nell’antica Grecia una delle spie che ci sottolinea la volontà di emancipazione dell’artista è la firma; già nel mondo romano ciò accadeva più di rado, a dimostrazione di una minore considerazione sociale. Altro elemento, è la comparsa di una trattatistica in cui gli artisti riflettevano sulla propria disciplina, ne esaltavano il pregio e esponevano le proprie teorie sulla bellezza. Policleto, scultore greco del V a.c., compose il “Canone”, trattato dove espose la sua teoria del bello, incaranata dalla formula di composizione a chiasmo, cioè a X. Il chiasmo a cui obbedisce il “Doriforo” si fonda su un gioco incrociato di contrapposizioni, conferendo alla statua un’apparenza di moto, che la rende simile a un corpo vivente. La trattatistica d’arte ebbe un rilancio a fine 300 con il “Libro dell’arte” di Cennini, per poi proliferare nel 400-500 con un’infinità di trattati, e infine le “Vite” vasariane inaugurarono la moderna storiografia d’arte. Grazie ai “Commentari” di Ghiberti del 1450 e al “De re aedificatoria” e al “De pictura” di Alberti, l’arte persegue consapevolmente il proprio riscatto dalla subalternità artigianale. In questo contesto, assunse importanza l’asserzione tratta dall’”Ars poetica” di Orazio che ritrova una stretta analogia tra pittura e poesia. Secondo Simonide, la pittura è poesia muta mentre la poesia è pittura parlante. Da questo punto comincia a farsi strada la pittura di storia come genere pittorico di maggior prestigio, in quanto dipingere questo tipo di quadro comporta la padronanza della prospettiva e dell’anatomia, oltre la capacità di approfondire caratteri e sentimenti. Cap.3 ALLE ORIGINI DEL FARE ARTE L’artista opera dando forma alla materia attraverso procedimenti che sfruttano le potenzialità. Ne risulta una forma che dipende dalle sue capacità tecniche e dal loro interagire con le potenzialità insite nei materiali di cui l’artista si serve. Esiste inoltre un collegamento tra la pittura e la capacità di fermare il ricordo, ovvero fermare il tempo. L’arte all’origine equivaleva a una pratica magica e aveva il potere di infondere una magica vitalità negli idoli cui era capace di dare forma. Il topos dell’artista mago e veggente, che agisce in preda all’ispirazione, si perpetua nel topos dell’artista malinconico e saturnino, la cui predisposizione a operare è di Questo processo fu influenzato dalla scultura di Nicola Pisano e dei suoi seguaci come Arnolfo di Cambio e Giovanni Pisano, che abbandonarono la tradizione bizantina ispirandosi a quella classica. Gli artisti cominciarono a firmare sempre più spesso le proprie opere e tornò in auge il concetto di progresso, ossia l’idea che ispirandosi al passato remoto si poteva progredire rispetto alla tradizione più recente. Questo possiamo vederlo anche nell’architettura: viene introdotto l’arco ogivale, a sesto acuto, e i grandi pilastri a fascio, polistili, cosìcche l’architettura gotica possa fare sfoggio di una tecnica edilizia audace. La cattedrale diventa l’insegna stessa della comunità cittadina. L’edificio gotico è più verticale e meno massiccio rispetto a quello romanico: si passa dall’equilibrio statico dell’edificio romanico, all’equilibrio dinamico di quello gotico. In Francia, nacque un dibattito sulle due diverse concezioni dell’architettura religiosa: secondo Bernardo da Chiaravalle le chiese dovevano essere spoglie per evitare distrazioni dei fedeli, mengtre secondo l’abate Suger di Saint-Denis era necessaria un’architettura lussuosa e ornata, che doveva richiamare i fedeli. Un riflesso di quest’ultima concezione si riflette nella pratica di decorare le cattedrali con ricche vetrate policrome, che avevano anche una funzione educativa, oltre che spettacolare, sui fedeli, per la maggior parte analfabeti. Nel Cristianesimo convivono due radici storiche ben precise: quella giudaica, contraria alla rappresentazione dell’immagine del Dio, e quella della civiltà classica greco-romana, che ha dato forma alle proprie divinità fatte a somiglianza dell’uomo. Papa Gregorio Magno sosteneva la necessità delle immagini nelle chiese per svolgere la funzione di bibbia per gli analfabeti. Un edificio tipico del Gotico fiammeggiante è il Duomo di Milano, che ha le sue radici nel Gotico internazionale: Palazzo di Città di Lovanio e il Chiostro grande della Cattedrale di Gloucester. A Venezia, il Gotico internazionale ha assunto caratteri peculiari, poichè la città fungeva da snodo tra Occidente e Oriente, favorendo la contaminazione tra civiltà gotica e civiltà bizantina. Il Gotico internazionale corrisponde a una fase che gli storici denominano “autunno del Medioevo”: un autunno sofisticato in cui prevale la cultura delle corti europee, che si discosta dal misticismo religioso per coltivare modelli e ideali profani. La Lombardia fu uno dei centri di maggior proliferazione del Gotico cortese in Italia, e la cultura figurativa in questi anni si diffondeva velocemente grazie alla mobilità degli artisti. Prima di cedere ai canoni razionalizzanti del Rinascimento, il Gotico diede via a uno stile cortese, caratterizzato da linearismo e culto ostentato per la squisitezza dei modi e dei costumi; in esso si incontravano due modalità di rappresentazione: quella che nasceva da un’attenta osservazione della realtà e quella che si rifaceva alla fiaba. Uno dei massimi capolavori del Gotico cortese alpino è il “Ciclo dei Mesi” di Venceslao del 1400, commissionato dal vescovo Giorgio di LIechtenstein per il Castello del Buonconsiglio. Il ciclo deriva da un modulo iconografico che ha una lunga tradizione e prevede che ciascun mese sia contraddistinto dal segno zodiacale, dalle condizioni climatiche e dalla attività che gli sono peculiari. In questo ciclo si incontra il gusto per l’eleganza sofisticata e per il mondo della favola. Inoltre viene sottolineata la pacifica convivenza di signori e sudditi, e quindi traspare un intento ideologico che appartiene al regno delle aspirazioni. Gentile da Fabriano (1370-1427) nasce nelle Marche, si forma in area lombardo-veneta, cantiere del Gotico internazionale, e si ritrovò ben presto ad essere conteso dai più illustri committenti dell’Italia centro-settentrionale. Realizzò a Firenze la pala dell’ “Adorazione dei Magi” del 1423, per il mercante Palla Strozzi. La pala si distingue dai trittici trecenteschi che si potevano trovare a Firenze: la scena raffigurata non è suddivisa in tre scomparti distinti, ma si articola in uno spazio unitario. I Re Magi che portano le loro ricchezze a Gesù, per compiere un atto di umiltà nei suoi confronti, sono la metafora della ricchezza e del potere terreno sottomessi alla maestà divina. C’è un ampio uso della foglia d’oro per conferire un effetto di naturalismo e suggerire la luce di un tramonto: non si tratta più dell’oro piatto della tradizione medievale. Inoltre utilizza la pastiglia, un impasto di gesso che permetteva l’applicaizone di pietre e ornamenti in vetro, per impreziosire l’opera. La composizione non obbedisce a una logica prospettica rigorosa, ma ad una spazialità di tipo empirico. Negli sproni esterni della pala, Gentile ha ricavato degli spazi in cui ha dipinto una serie di fiori, che hanno un significato simbolico da collegare con l’episodio sacro dell’Adorazione dei Magi, e che offrono la possibilità all’artista di rappresentare un erbario. Un confronto che viene fatto spesso è quello fra l’”Adorazione dei Magi” di Gentile e fra l’”Adorazione dei Magi” di Masaccio del 1426: la visione del primo è molto legata al mondo figurativo del Gotico cortese, mentre quella masaccesca è improntata alla grande rivoluzione del Rinascimento fiorentino. La prima è una pala di grandi dimensioni mirata a simboleggiare la ricchezza del committente, mentre la seconda è uno scomparto di una predella. Solitamente il linguaggio della predella è più vivace e narrativo e mira a instaurare un dialogo più ravvicinato con i fedeli, mentre il linguaggio della pala è più aulico e solenne e si offre alla contemplazione e alla preghiera. Masaccio adotta un tono narrativo essenziale e evita la profusione di ori, argenti, pastiglue e ornati. Solo la sedia su cui è seduta la Madonna è impresita dall’oro, ma rimanda al seggio del sacerdote romano: si tratta di una citazione di stampo umanistico. Ogni personaggio ha la propria solida concretezza e fisicità, sottolineata dalla rigorosa geometria degli scorci prospettici: siamo agli antipodi dell’empirismo con cui Gentile gestisce la rappresentazione. Inoltre la rivoluzione prospettica non ammette scarti dimensionali o salti di scala che non siano motivati da concrete situazioni spaziali. Masaccio nacque a San Giovanni Valdarno nel 1401 e morì a Roma nel 1428. Si affermò prestissimo nel campo della pittura di maggior rango, entrando in contatto con Brunelleschi e Donatello. Inoltre Masaccio era molto legato a Masolino da Panicale. Quest’ultimo, con le sue figure e scene di gusto tardogotico, si contrappone a Masaccio, con la sua visione naturalistica legata all’uso della prospettiva, la saldezza volumetrica delle forme e la concretezza della narrazione. L’opera “Madonna dell’umiltà” del 1423 di Masolino, mostra di non aver ancora recepito le novità masaccesche: le figure possiedono una consistenza plastica grazie all’uso del chiaroscuro, ma non hanno ancora quella massiccia fisicità che Masaccio conferisce sempre alle figure. Si tratta di un linguaggio figurativo di transizione tra l’eleganza del Gotico cortese e la sobrietà del Rinascimento. L’opera “Sant’Anna Metterza” del 1424 è frutto della collaborazione di Masaccio e Masolino: il gruppo della Madonna con bambino, i due angeli in primo piano e l’angelo reggicortina sono stati sicuramente eseguiti da Masaccio e sono infatto caratterizzati dalla resa volumetrica. Entrambi gli artisti lavorano insieme anche agli affreschi della Cappella Brancacci nel 1424-25. La scena più famosa è quella de “Il tributo”: i personaggi ricordano quelli della statuaria classica e Masaccio sembra aver preso spunto da “I quattro santi coronati” di Nanni di Banco. Nel “Battesimo dei neofiti” Masaccio dimensiona le figure in base all’imparziale legge della prospettiva e un altro elemento importante è l’attenzione per la rappresentazione dell’anatomia umana. Il realismo di Masaccio è strettamente funzionale al racconto, cui conferisce forza espressiva e attendibilità. La diversità del linguaggio degli artisti la ritroviamo nelle opere “Peccato originale” di Masolino e la “Cacciata di Adamo e Eva dal paradiso terrestre” di Masaccio. Le figure di Masolino hanno un aspetto gentile e elegante, dove si percepisce lo studio della statuaria antica. Lo spazio alla spalle dei personaggi è indefinito e i piedi delle figure non sono poggiati saldamente a terra, come accade nei dipinti tardogotici. I personaggi di Masaccio poggiano i piedi a terra e proiettano le proprie ombre sul terreno, possiedono una struttura massiccia e i corpi hanno un forte rilievo tridimensionale. Inoltre la scena ha un tono altamente drammatico e questa intensità tragica ne deforma i tratti fino a sfigurarli. Per la rappresentazione di Eva, Masaccio si è sicuramente ispirato alla “Venere pudica” del IV a.c. L’iconografia della Madonna della Misericordia, simbolo della protezione divina, è cara a quelle Confraternite della Misericordia assai diffuse fin dal Medioevo: erano associazioni laiche ma con fini religiosi, come quello dell’assistenza agli infermi. La “Madonna della Misericordia” di Clemer dell’inizio XVI sec. è un manifesto di persistenza del linguaggio ornato del Gotico cortese: fondo oro, decorazione suntuosa, assenza di profondità prospettica. Il “Polittico della Misericordia” del 1445-60 di Piero della Francesca viene realizzato per la Confraternita della Misericordia della sua città. Abbiamo sempre la presenza del fondo dorato, anche perchè era una sorta di vincolo all’epoca, ma in questo caso la Madonna si erge frontalmente, solenne e rigida. La luce e l’ombra modellano la figura, conferendole un risalto di tipo statuario. Cap. 5 BREVE STORIA DELLA RAPPRESENTAZIONE ILLUSIONISTICA DELLO SPAZIO La rappresentazione di illusoria tridimensionalità su una superficie bidimensionale costituisce una delle pricipali ambizioni della pittura occidentale. Questo gusto per l’illusionismo spaziale deriva dall’epoca classica. Anche nella tradizione romana vediamo dalle pitture parietali, la volontà di simulare sulla superficie piana marmi o altri materiali di rivestimento e soprattutto di sfondare illusioriamente la parete, rappresentando spazi aperti. Per fare ciò si usavano criteri puramente mpirici che non erano privi di incoerenze ottiche. Nel Medioevo ci si allontanò da questa ricerca in favore di un’ambientazione spaziale più indefinita con un conseguente appiattimento nella rappresentazione di figure e oggetti. Durante il V e VI secolo furono realizzati dei mosaici nella volta del Palazzo arcivescovile di Ravenna, dove le figure appaiono appiattite con qualche accenno alla tridimensionalità grazie allo sfondo dorato. Un altro mosaico è “L’imperatrice Teodora e il suo seguito” sempre del V secolo, dove i personaggi adottano uno stile bizantino di rappresentazione: i piedi non sembrano poggiare a terra e l’effetto è bidimensionale. Giotto viene considerato come colui che rimutò l’arte del dipingere di greco in latino, e la ridusse al moderno; come possiamo vedere dal ciclo affrescato delle “Storie di San Francesco” nella Basilica di San Francesco d’Assisi. Vediamo delle figure Alberti nel 1435 scrive il “De pictura”, tradotto anche in volgare per consentire la lettura anche ai pittori; l’obbiettivo del trattato era quello di spiegare e divulgare la teoria e la pratica prospettica messa a punto da Brunelleschi. La rappresentazione prospettica si fonda su presupposti ottici che rispecchiano le convienzioni medievali sul funzionamento dell’occhio umano. La prospettiva brunelleschiana è il sistema di rappresentazione, basato su rigorose leggi geometriche, che proietta su una superficie piana gli oggetti visibili e lo spazio a tre dimensioni in cui essi si collocano. Inoltre il sistema brunelleschiano è governato da leggi matematiche certe che determinano un punto di fuga prospettico unificato. Anche Durer scrisse un trattato di prospettiva e geometria mostrando due metodi: il velo, che fungeva da quadrettatura, e lo sportello, che rappresenta un notevole passo avanti verso una delineazione quasi meccanica del disegno in prospettiva. Con il passare del tempo, gli artisti si accontentarono di accorgimenti meno rigorosi e macchinosi, disinteressandosi di ottenere un’assoluta precisione; inoltre una rigorosa applicazione del metodo prospettico comporta una serie di complicazioni e aberrazioni ottiche. Ci fu un rinuncia all’unificazione del punto di fuga e i pittori impararono ad operare una serie di aggiustamenti empirici. La messa a punto della prospettiva affonda le sue radici in un contesto sociale, economico e culturale caratterizzato da una forte spinta allo sviluppo della conoscenza, in rapporto alla pratica imprenditoriale; ne evince la volontà di dominio dello spazio fisico e di esplorazione territoriale. La storia della prospettiva è parte integrante della storia della veduta, un genere artistico la cui specialità consisteva nel rappresentare monumenti, piazze, panorami reali o immaginari. Vanvitelli, attraverso l’uso della camera ottica, rifondò il genere della veduta paesistica tardo-seicentesca, aprendo la strada al vedutismo settecentesco di cui furono protagonisti Canaletto e Bellotto. Il sistema prospettico leonardesco non differisce da quello divulgato dall’Alberti, se non per l’uso di un vetro al posto del “velo”. La novità è racchiusa nella cosìdetta prospettiva aerea, ossia la rappresentazione degli effetti percettivi prodotti dalla presenza dell’atmosfera. La densità atmosferica crea una diversificazione dei colori attraverso il processo di rifrazione della luca e attenua i contorni degli oggetti più lontani. La tecnica della prospettiva aerea trova un’applicazione sistematica che va di pari passo con la tecnica dello sfumato: la distanza prospettica produce una sora di sfocatura dell’immagine. La prospettiva investe anche la scultura e Donatello applicò i suoi principi inventando lo “stiacciato”: rende la tridimensionalità mediante la maggiore o minore sporgenza del rilievo scultoreo. Nelle rappresentazioni di Paolo Uccello traspare la scelta di privilegiare la rappresentazione prospettica sopra ogni cosa, esibendo complicati virtuosismi geometrici e audaci scorci. Nella predella della pala con la “Comunione degli apostoli” del 1467 sono rappresentati gli episodi del “Miracolo dell’ostia profanata”, una leggenda di significato antisemita. Nella scena vediamo le figure della donna e del mercante ridotte a elementi secondari, mediante un sistema di involucri prospettici. Uccello fu il pionere delle sperimentazioni prospettiche all’insegna del puro virtuosismo fine a se stesso, come vediamo in “Disegno con solido a 72 facce irto di punte” e aprì la strada a un vero e proprio filone che appassionò soprattutto maestri nordeuropei. Nel 400 e nel 500 si diffuse la tarsia lignea, che consiste nell’accostare a intarsio forme ricavate in legni di diverso colore, al fine di realizzare figure, ornati e vedute di vario genere. Le opere più famose di Paolo Uccello sono le tre tavole dipinte con scene della “Battaglia di San Romano” del 1456, commissionate da Bartolini Salimbeni e qacquistate dai Medici. Le tavole rappresentano tre momenti diversi della battaglia che si svolse nel 1432 nella piana dell’Arno e che vide prevalere l’esercito fiorentino sui senesi. In questo caso, Uccello lavora come un intarsiatore, operando sulle diverse e nette sfumature del legno, per accentuare l’effetto tridimensionale. A partire dal 500, un altro campo di applicazione delle leggi prospettiche fu la scenografia teatrale. Nel clima di fervore umanistico, si cercò di resusitare il teatro all’antica, imitandone sia i testi che le forme di rappresentazione scenica. Il genere che considerato il più nobile era la tragedia, che metteva in scena vicende drammatiche in cui era coinvolti personaggi di rango elevato e divinità. Nel “De architectura”, Vitruvio accosta la prospettiva alla scenografia, indicando una tripartizione delle scene a seconda del genere: scena comica, scena tragica e scena satirica. Uno dei pochissimi edifici teatrali stabili cinquecenteschi è il Teatro olimpico di Vicenza, realizzato da Andrea Palladio, dove grazie alla prospettiva, la veduta di città appare più profonda di quanto sia nella realtà. Sebastiano Serlio nel suo Secondo linro del “Trattato dell’architettura” del 1545, dedica un capitolo alla questione dei teatri moderni, esemplificando le tre diverse tipologie di scena con altrettante incisioni. Nella seconda metà del 500 la veduta prospettica fissa fu sostituita da uno scenario mutevole, ovvero da scene che cambiavano a vista davanti lo spettatore. A ridimensionare il ruolo del testo della commedia e della tragedia, fu la crescente importanza assunta dagli intermezzi: avevano quasi sempre una funzione allegorica a scopo enomiastico, con allusioni alla virtù del principe. Nella seconda metà del 500, soprattutto alla corte dei Medici, si sviluppò una pratica scenografica caratterizzata dal virtuosismo e da illusioni sceniche. Un aspetto interessante della scenografia teatrale è il suo impatto sull’architettura della città: la ricaduta dell’effimero sul permanente. Uno dei maggiori protagonisti della prospettiva quattrocentesca fu Piero della Francesca e uno dei suoi capolavori è il ciclo di affreschi con la “Leggenda della vera croce”, eseguito nel coro della chiesa di San Francesco a Arezzo. Conterraneo di Piero fu Luca Pacioli che scrisse due trattati “Summa de Arithmetica” 1494 e “De divina proportione” 1509: in questo secondo libro tratta la sezione aurea, un rapporto matematico-geometrico che si basa sulla divisione di un segmento in due parti tali da far sì che la parte maggiore corrisponda alla media proporzionale tra l’intero segmento e la parte minore. La composizione della “Flagellazione di Cristo” del 1455 si basa proprio sulla sezione aurea: la parte sinistra, che termina con la colonna di destra della loggia del Pretorio, sta infatti in rapporto proporzionale di sezione aurea con la parte destra. Gli studiosi hanno stabilito varie interpetazioni per capire chi fossero i tre personaggi in primo piano. Ginzburg sostiene chestiano discutendo di organizzare una crociata contro i Turchi, che nel 1453 avevano conquistato Costantinopoli abbattendo l’Impero romano d’Oriente. Anche l’interpretazione di Silvia Ronchey ruota attorno al rapporto politico tra Occidente e Oriente. Charles Hope e Paul Taylor interpretano quella scena con il “Rilascio di Barabba”: il personaggio di sinistra sarebbe un dignitario romano che esegue gli ordini del governatore Pilato, il giovane al centro sarebbe Barabba e l’altro uomo rappresentarebe l’intera collettività ebraica. Secondo altre interpretazioni, il quadro sarebbe puramente dimostrativo della maestria prospettica: si tratterebbe di una rivoluzione ottica e mentale che abolisce le tradizionali gerarchie medievali. Cap. 7 DISTINGUERE, ACCORPARE, IDENTIFICARE: L’ATTRIBUZIONISMO, OVVERO LA PRATICA DEL CONOSCITORE L’attribuzionismo è un metodo di lavoro che mira a identificare l’autore di un’opera d’arte e a stabilirne, in via approssimativa, la cronologia, basandosi su dati visivi ricavati dal suo stile. Occorre tener presente che gli artisti ricorrono a registri stilistici differenti in funzione del tema da trattare e soprattutto del pubblico a cui si rivolgono. Beato Angelico fu incaricato di affrescare la nuova Cappella dell’Incoronata, detta anche di San Brizio, nel Duomo di Orvieto, nel 1447. Portò a compimento due vele che raffiguravano “Cristo giudice fra gli angeli” e “I profeti”. Nel 1489 venne ingaggiato il Perugino ma l’opera fu terminata tra il 1499 e il 1502 da Luca Signorelli, con le “Storie dell’Anticristo”, la “Resurrezione della Carne”, i “Dannati”, i “Beati”, l’”Avvento del Paradiso” e l’”Inferno”. Le vele dipinte dall’Angelico riflettono il suo stile, che in virtù del suo soggiorno romano e del suo ruolo di pictor papalis, ha assunto un tono più aulico. È probabile però che l’Angelico avesse lasciato le sagome utilizzabili a più riprese che venivano appoggiate sulla superficie da affrescare per delineare i contorni delle figure, a Benozzo. La decorazione delle fasce che incorniciano le vele è formata da una ventina di esagoni per ogni vela, raccordati di festoni vegetali, che incorniciano teste di persone maschili di ogni età e condizione; questi esagono sono molto simili a quelli raffigurati sulla porta del Paradiso del Battistero di Firenze realizzati da Ghiberti e inoltre pare che quest’ultimo si sia avvalso della collaborazione di Benozzo. Gran parte delle testine appaiono dipinte con estrema maestria e cura esecutiva, e alcune si prestano ad essere veri e propri capolavori di ritrattistica. Quelle di fattura più modesta sono attribuite a Pietro di Nicola Baroni, mentre quelle di tono più elevato sono assegnate a Benozzo e agli aiuti dell’Angelico, ossia Giovanni di Antonio della Checca e Giacomo da Poli. Benozzo si presenta con la sua doppia faccia: quella che riproduce il repertorio del maestro e quella più naturalistica, dove da il meglio di se rifacendosi a modelli in posa. Cap. 8 IL TEMPO IN TRAPPOLA: LE ARTI DELLO SPAZIO ALLE PRESE CON LA DIMENSIONE TEMPORALE DELLA NARRAZIONE Il tema del rapporto tra la narrazione di una sequenza di azioni che si svolgono in un determinato arco temporale e la loro rappresentazione figurativa nello spazio unitario di un dipinto o di una scultura è una questione fondamentale per la storia dell’arte. La sentenza oraziana “ut pictura poesis”, ovvero la poesia è come la pittura, fu ribadita infinite volte nella trattatistica rinascimentale, perchè conferiva autorevolezza alla similitudine tra letteratura e arti figurative. Equiparare la pittura alla poesia equivaleva a affermare che la pittura e la scultura erano degne di entrare nel privilegiato campo delle arti liberali. Lessing nel “Laocoonte, ovvero sui limiti della pittura e della poesia” del 1766, demolì la vecchia massima di Orazio, affermando che le arti della parola sono arti del tempo, perchè la narrazione possiede una propria temporalità, mentre le arti figurative sono arti dello spazio, perchè si offrono allo sguardo simultaneamente. David e Canova mostrano di aver riflettuto sulle parole di Lessing in quanto si impegnano a intrappolare la durata nello spazio figurativo: questo tema verrà nominato la scelta del momento pregnante. Questo sistema di tradurre una sequenza narrativa in tante unità spaziali è diffuso fin dall’antichità con l’espediente della narrazione continua, che prevede la raffigurazione ripetuta di uno o più personaggi. Tale ripetizione stimola lo spettatore a riconnettere la sequenza degli eventi, spostando il proprio sguardo sulla superficie del dipinto; si tratta di raffigurare in un unico riquadro una pluralità di istanti narrativi.
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