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LA STORIA DELLE STORIE DELL'ARTE - Rossi Pinelli, Schemi e mappe concettuali di Metodologia della ricerca

Riassunto completo de LA STORIA DELLE STORIE DELL'ARTE a cura di Orietta Rossi Pinelli

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

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Scarica LA STORIA DELLE STORIE DELL'ARTE - Rossi Pinelli e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Metodologia della ricerca solo su Docsity! 1 LA STORIA DELLE STORIE DELL’ARTE Introduzione Perché è nato questo libro? Perché il settore umanistico e artistico è in crisi a causa dei tagli ai finanziamenti, ai pochi investimenti, allo scarso interesse dell’editoria e alla predilezione del pubblico per le scienze. Ciò non coinvolge solo l’editoria ma anche le opere stesse con danni, a volte, irreversibili. Lo scopo del libro è rafforzare quell’eredità sapientemente tramandata da illustri personaggi che hanno studiato il passato per meglio agire nel presente e comprenderne le contaminazioni culturali e tutelare il nostro patrimonio. Il libro prende in considerazione l’arte a 360 gradi, non solo la critica ma anche il restauro, le istituzioni, i musei e il mercato del patrimonio. Il focus è inizialmente sull’Italia. Dall’800 si sposta verso l’Europa fino agli Stati Uniti. Viene preso in esame il mestiere dello storico d’arte e dei suoi strumenti metodologici, i luoghi tipici della dissertazione artistica (editoria e musei) e i modelli storiografici contemporanei o in controtendenza. L’ordine in cui si affronta la critica è cronologico perché si è voluto mettere in risalto le diverse tendenze, a volte territoriali altre nazionali (nella prima metà del 1900 il discorso era nazionale; poi nel secondo dopoguerra con l’aumentare delle figure professionali di riferimento nella tutela e divulgazione del patrimonio artistico il discorso si è spostato a livello territoriale). Il primo testo di riferimento più o meno accettato è dell’artista-letterato Vasari (VITE) che è riuscito a sintetizzare tutti i saperi e le metodologie precedenti. Il libro arriva fino agli anni 70/80 del 1900 perché successivamente si verifica una disgregazione della storia dell’arte dovuta alle molteplici influenze (seppur positive) di altre discipline (sociologia, antropologia, economia, comunicazioni). Anche la rete e l’immagine digitalizzata ha prodotto uno sfaldamento della centralità della storia dell’arte in favore di una fluidità culturale. Sono stati individuati quattro indirizzi fondamentali su cui si è impostata la storia dell’arte: 1. La CONOISSEURSHIP = già dal 17° secolo i conoscitori hanno elaborato una metodologia improntata all’estetica, alla filologia e alla storiografia. Hanno analizzato l’opera in quanto intero sfruttando il loro occhio, la memoria visiva e l’esercizio continuo. 2. La RICERCA FORMALISTA = ha analizzato l’opera non solo stilisticamente ma anche prendendo in esame il contesto e il raffronto con altre opere 3. La STORIOGRAFIA POSITIVA = le opere sono analizzate alla luce dei fatti, dei documenti e delle fonti. Spesso ha lavorato in collaborazione con i connoisseur. 4. La STORIA DELL’ARTE COME STORIA DELLA CULTURA = un indirizzo molto ampio che abbraccia l’iconografia, l’iconologia, la storia sociale dell’arte, ecc. Questo perché il pensiero che vi sottende è l’interdisciplinarietà. ORIETTA ROSSI PINELLI Le arti del disegno (1550-1590) 1) Giorgio Vasari (Arezzo 1511-1574) nel 1546 stava affrescando la Sala dei cento giorni nel Palazzo della Cancelleria a Roma (ora sede del tribunale della Santa Sede) per commissione del cardinale Alessandro Farnese. Rappresenta l’incontro tra Papa Paolo III, Francesco I di Valois e Carlo V d’Asburgo avvenuto a Nizza nel 1538. 2 Negli incontri che fa in questo periodo, il Vasari rimane molto colpito da monsignor Paolo Giovio, storico e letterato, amante delle arti tanto da farsi costruire una villa sul lago di Como per accogliere una collezione di ritratti di uomini illustri. Il Vasari racconta il dialogo intercorso tra sé, il Giovio e il Farnese nelle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori da Cimabue insino ai tempi nostri (nella seconda edizione del 1568). Ciò gli permette di definire le competenze necessarie per scrivere di arte. Racconta che il Giovio volesse aggiungere ai suoi Elogia un trattato sull’arte del disegno e che avesse riconosciuto nel Vasari un competente scrittore d’arte. Il Vasari ebbe una folgorante carriera: • si formò ad Arezzo ma soprattutto a Firenze con Andrea del Sarto • fu pittore e architetto alla corte medicea di Cosimo I • fu storiografo dell’arte • fondatore della prima accademia d’arte europea, l’Accademia del disegno a Firenze nel 1563 • fu pittore e coordinatore di grandi cicli pittorici Era stato sicuramente investito dal fervore culturale e scientifico degli anni 30 del 1500. Ciò gli aveva fatto produrre le Vite, opera fondamentale per capire un periodo in pieno cambiamento culturale e figurativo. Scrisse in lingua toscana, lingua più umile che meglio si accostava a quella parlata nelle botteghe degli artisti e che conferiva all’opera un segno di innegabile modernità. Fece anche revisionare il testo in favore dell’accuratezza lessicale da noti amici letterati e intenditori. Lo scopo delle Vite era mantenere memoria delle opere del passato (pietra miliare della storiografia artistica). Era dedicato a Cosimo I. Le edizioni sono 2: 1. 1550 – chiamata anche Torrentiniana perché stampata dall’editore ducale Torrentino. Fa riferimento alla lingua toscana già nel titolo e il Vasari si descrive come pittore aretino. L’ordine in cui descrive gli artisti è architetti, pittori e scultori. In questa edizione solo Michelangelo era ancora in vita. 2. 1568 – edizione della neonata Giunti e chiamata Giuntina. Sparisce il riferimento alla lingua toscana e lui stesso mette in secondo piano il suo essere architetto in favore del pittore. Anche l’ordine viene modificato (pittori, scultori, architetti) probabilmente a causa del capolavoro michelangiolesco Il giudizio universale che aveva accentuato l’interesse nei confronti della pittura. Si amplia il numero degli artisti trattato, molti dei quali sono ancora viventi. Si spazia in altre regioni italiane. L’edizione è arricchita con ritratti a incisione degli artisti, in omaggio al museo gioviano. Paola Barocchi e Rosanna Bettarini hanno redatto un’edizione comparata delle Vite nel 1966. Le autrici insistono sulla profonda importanza storiografica delle Vite e ipotizzano probabili collegamenti col Machiavelli. Infatti il Vasari stesso ammette di aver usato un metodo ad imitazione degli scrittori di storie contemporanei i quali avevano sempre fatto convergere il loro discorso in un unico centro politico o città. Proprio come fa il Vasari con Firenze nell’edizione del 50. Questo perché per il Vasari, nato in provincia, era l’unico modo per poter entrare in contatto con l’innovazione e il progresso. (dal 200 fino al 500 Firenze riveste una posizione culturale egemonica che poi passerà a Roma grazie anche agli interventi di Michelangelo). La seconda versione delle Vite viene modificata su suggerimento di un amico letterato del Vasari. Tuttavia non diventa policentrica poiché le altre città vengono sempre trattate con una sorta di sufficienza. 5 erano solo prettamente artistici ma spaziavano dall’anatomia alla geometria, dalla prospettiva alla mitologia, tutti tenuti da illustri artisti. Oltre a ciò continuava la dissertazione teorica sul disegno come segno di Dio e alla creazione artistica in generale. Si riprende il concetto di imitazione che adesso però deve superare la realtà fenomenica in favore di una dimensione superiore vicina alla perfezione divina. Il lavoro di Zuccari porto anche a conseguenze più pratiche come un calmiere (prezzo massimo) dei compensi degli artisti e il diritto esclusivo di valutare le opere d’arte nello Stato Pontificio (dal 1595). Una posizione non molto diffusa ma di rilievo storico fu offerta da Giovanni Battista Armenini (1530 – 1609), pittore fattosi prete. Come il Vasari, parlava di progresso e declino dell’arte, ma credeva di star vivendo in una forte crisi dell’arte che doveva essere risanata. Dispensava precetti pratici e promuoveva una tecnica semplice lontana dalle maniere bizzarre in voga. Si rivolgeva non solo agli artisti ma anche ai committenti, ai commercianti e agli osservatori. Suggeriva anche delle norme di comportamento convenienti per un degno inserimento sociale. Arriva a rivelare i segreti delle botteghe nella preparazione degli ingredienti, delle tele e delle superfici. In un modo tutto suo Armenini portava avanti il rinnovamento dell’Accademia di San Luca in favore della liberalizzazione dei saperi e del progresso condiviso. MARIA BEATRICE FAILLA Il governo della vista e il primato dell’invenzione (1590-1640) 1. All’inizio del 17° secolo compare il metodo scientifico di Galileo che indaga la verità della natura e induce a un cambiamento in tutti i campi del sapere, arte compresa. La rivoluzione era già iniziata nel 600 con il ruolo della vista nell’acquisizione del sapere (studi di ottica, anatomia della visione, inganni ottici dell’arte figurativa). Insieme al ruolo del colore usato per esprimere la veridicità della natura si arriva alla supremazia della pittura sulla scultura. L’imitazione aristotelica è il parametro di giudizio per le opere e gli artisti. (MIMESI: Platone = le cose sensibili assomigliano alle idee; in arte = significato negativo perché, imitando le cose, che a loro volta sono copia delle idee, si allontana tre volte dal vero. Aristotele = significato positivo, arte come imitazione della forma ideale della realtà, per cui l’operare dell’artista diventa simile all’operare della natura). Già da fine 500 il rango dell’artista era stato elevato ma nel 600 si perderà l’esclusiva dissertazione sull’arte aggiudicata maggiormente a letterati, amatori o eruditi. La critica d’arte ha sempre come punto di riferimento le due edizioni delle Vite del Vasari che si cercherà sempre di superare in favore di una sistematizzazione della storia dell’arte. La letteratura artistica predilige l’aspetto territoriale aggiungendo anche realtà ignorate dal Vasari. Il 600 si apre con un’idea positiva di progresso che in arte viene incarnata da Annibale Carracci. In questo contesto vengono introdotte nuove categorie di suddivisione delle opere e degli artisti, nuove gerarchie di modelli (grazie al diffondersi del collezionismo), si favorisce la sperimentazione degli artisti e la riflessione teorica. Giovanni Battista Agucchi (1570-1632) e Giulio Mancini (Siena 1559-1610) sono gli storiografi di maggior rilievo dei primi decenni del 600 e non erano artisti. Mancini era un medico che nelle Considerazioni sulla Pittura (1614-21) si interrogava su chi si potesse arrogare il diritto di giudizio di un’opera d’arte. Seguendo lo schema aristotelico della Poetica, le arti figurative erano giudicate in base al soggetto trattato (cose inanimate, manifestazioni della natura, azioni umane). Tuttavia si pone l’accento sul processo intellettuale legato all’opera, all’invenzione dell’artista più che all’opera stessa. Pertanto si spostava il discorso a favore anche di chi addetto ai lavori non era. 6 Mancini, infatti, sosteneva che visto che gli artisti imitavano la natura, cioè soggetti a tutti conosciuti e da tutti percepiti, allora anche chi non faceva arte in prima persona aveva le capacità per poterle criticare. Anzi, il pittore è il meno indicato nel giudizio perché troppo coinvolto dalla sua opera, mentre l’intellettuale, da esterno, ha maggior autorità. Giambattista Marino (1569-1625) era poeta che si interrogava sul parallelismo tra arte e letteratura (colori/inchiostro, tele/carte, pennelli/penne). Il pittore Gaspare Celio (1571-1640) Principe dell’Accademia di San Luca prova a controbattere queste posizioni sostenendo che chi non sa far arte ma ne vuol parlare è anche quello che compra delle mediocri imitazioni spacciate d’autore ma che son solo dei falsi. Anche alcuni eruditi appoggiano questa posizione, come Girolamo Borsieri che rifiutò la catalogazione di collezioni sabaude dichiarandosi non all’altezza. Questa polemica la si ritrova a metà del secolo anche in Francia con il trattato di Abraham Bosse (1602-1676). Egli sosteneva la legittimità di giudizio anche da chi non fa arte. In particolare insisteva sulla pratica dell’osservazione per costruire una memoria visiva da usare all’occorrenza per paragonare le varie opere e distinguerne i falsi. Le Considerazioni di Mancini vennero stampate a metà 900 ma erano molto diffuse tra il 17° e 18° secolo. L’opera si apre con una parte dedicata al diritto di critica degli intellettuali e ai diversi tipi di pittura. Da medico crea un’articolata tassonomia per giudicare il valore di un pittore, usando categorie come la Bellezza/Bruttezza, Decoro, Grazie, Proporzione e Colore. Segue una parte in cui si interroga su come distinguere un vero da un falso e, infine, ragiona sugli aspetti commerciali (e si rivolge al ceto intermedio che cercava di affermarsi socialmente) e il posizionamento delle opere sulle pareti. Agucchi parla di “ingredienti” che servono per allenare occhio e mente nel classificare le tecniche, datare le opere e identificare le peculiarità di un artista. Li prende da altri ambiti disciplinari, come la paleografia e l’antiquaria. Nel suo Trattato definisce i gradi di riproduzione della realtà e come i soggetti dovessero essere rappresentati. La ‘maniera’ vasariana si arricchisce di ulteriori sfumature che coinvolgono il cosa si dipinge e come lo si dipinge. Inoltre, attingendo dalla letteratura, introduce una nuova terminologia per descrivere adeguatamente i fenomeni artistici emergenti. Vincenzo Giustiniani (1564 – 1637) nelle Considerazioni sulla Pittura suddivide la pittura in generi (o modi) in ordine crescente (l’apice è la pittura di storia) e in base alla complessità tecnica, al soggetto e al registro stilistico. Metteva in pratica la sua classificazione allestendo le sue prestigiose raccolte. Nonostante la ricerca di definire dei generi da parte degli intellettuali, gli artisti non gradivano essere confinati in una categoria. Rivendicavano la loro libertà espressiva in ogni soggetto e con ugual esasperata riproduzione della realtà. Anche se, come sosteneva il Carracci, occorre aggiungere qualcosa in più a ciò che si vede, perseguire la bellezza anche a discapito della similitudine (cosa che poteva essere riservata ai generi più bassi). La pura imitazione che non si rivolge al bello scade nel brutto e nel ridicolo, dove il carattere infimo del soggetto si coniuga con uno stile poco raffinato. Il paradigma dell’imitazione adesso si estende anche agli artisti del passato che non vengono più solo raggruppati in senso biografico ma si comincia a parlare di scuole pittoriche. Agucchi stesso parla di stile come parametro per individuare una corrente d’ispirazione comune nonostante ciascun artista abbia delle differenze. Sostiene che l’arte non sia nata da uno ma da molti. Divide, quindi, anche gli artisti del passato in scuole: • Scuola romana: Raffaello (1483 – 1520) e Michelangelo (1575 – 1564) sono i primi pittori, si sono ispirati alla bellezza delle statue • Scuola veneziana: Tiziano (1488/90 – 1576), imitazione della bellezza della natura 7 • Scuola lombarda: Correggio (1489 – 1534), imitazione della natura in modo personale • Scuola Toscana: cura dei dettagli, minuzia. Risultava molto più complicato discutere delle scuole contemporanee, invece, perché non si avevano termini di paragone o gruppi di artisti con uno stile forte e ben delineato come nel Carracci (1560 – 1609) e i suoi allievi. Mancini, con difficoltà, individua 4 scuole contemporanee: 1. Quella dei Carracci (2 fratelli e 1 cugino) 2. Quella di Caravaggio (1571 – 1610) 3. Quella del Cavalier d’Arpino (1568 – 1640) famoso per la sua abilità nel dipingere le teste. 4. Quella in cui non si riesce a individuare il modello. La storicizzazione delle scuole avviene ancora tramite l’imitazione e il raffronto con gli artisti precedenti, relativizzando il giudizio assoluto poiché si preferisce determinare il valore di un artista all’interno del proprio contesto storico. Si rivaluta anche la pittura primitiva che non è più vista come semplice ornamento religioso ma come vera e propria forma d’arte che ha gettato le basi della pittura. Anche le opere del 300 e 400 vengono riesaminate a faticosamente suddivise in scuole. Anche qui il Mancini polemizza col Vasari e la sua centralità toscana. Si sta avviando l’elaborazione di una nuova teoria artistica che punta a un più completo utilizzo delle fonti antiche. In questo contesto il testo di riferimento è il De pictura veterum di Franciscus Junius (tedesco). Aveva citato non solo i classici antichi (Aristotele, Plinio, Ovidio, Cicerone…) ma aveva anche riportato i testi medievali, bizantini e di arte ebraica. Junius mantiene la classificazione aristotelica in base alla capacità di rappresentare la natura, l’uomo e le sue azioni ponendo particolare attenzione alla fantasia dell’artista (si discosta dall’Idea platonica). La fantasia ha un ruolo fondamentale nell’invenzione dell’opera e nella scelta dei modelli da imitare perché permette un’imitazione selettiva della realtà e conferisce all’opera una propria dignità espressiva. Seguendo la tendenza, Junius applica le sue teorie a tutte le arte visive ma è chiara la supremazia della pittura. In questo periodo si ricerca la tridimensionalità in pittura (che manca rispetto alla scultura) attraverso l’utilizzo dei colori che riproduce la rifrazione della luce. Le sculture vengono spesso dipinte come esercizio per riconoscerne le luci e le ombre. Ispirato da Junius è anche Rubens (1577 – 1640) che nei suoi carteggi sostiene l’idea di imitazione della natura con una selezione della stessa. Lo stesso giudizio o fantasia permette anche di selezionare l’arte antica a cui ispirarsi. Insomma si è instaurato il dibattito tra novità e tradizione che porterà a guardare ai modelli del passato alla pari. Questo discorso si inserisce nella nuova idea di progresso che sta nascendo, grazie anche a filosofi come Francis Bacon (1561 – 1626) e letterati come Secondo Lancellotti (1583 – 1643). Nelle arti figurative questo discorso viene introdotto da Alessandro Tassoni (1565 – 1635) che nel 1620 applica il confronto tra moderno e antico a tutti i campi dell’ingegno umano. Il merito del presente è quello di aver conservato l’antico, quello delle collezioni è di averne agevolato la conoscenza. L’arte antica serve per capire maggiormente e rifondare l’arte moderna, superando quella antica. Il lavoro primario dell’artista è quello di mediare la sintesi dei modelli antichi scelti con accuratezza in favore della modernità. Paragone con l’ape = l’ape coglie la bellezza dei vari fiori (polline) per trasformarla in qualcosa di sublime (miele). I Carracci aveva un’importanza teorica fondamentale per il loro lavoro programmatico di ricerca stilistica e selezione tanto da inserirsi perfettamente nel progetto politico di Clemente III Aldobrandini che voleva creare una sorta di lingua artistica nazionale. 10 La controparte di Boschini (difensore della scuola veneta) era il Bellori che stava elaborando una difesa della scuola romana che ruotava attorno all’ideale del classicismo. Ancora una volta il dibattito si incentra sulle opere stesse e la loro circolazione in modo concreto più che teorico. Tema cruciale per Boschini è sempre l’aderenza al vero la cui anima traspira attraverso l’uso sapiente dei colori. Aggiunge, però, che la maestria sta nel mascherare la tecnica e l’inganno dell’occhio. Non manca una critica al Tiziano (un colpo al cerchio e uno alla botte…) che aveva peccato nel disegno, avrebbe dovuto esercitarsi maggiormente con le statue, le opere di Michelangelo e Raffaello. Anche se…la natura è viva mentre le statue son morte! Nega l’imitazione selettiva dei maestri del 500 perché non si può abbinare la vaghezza al colore. Riconosce il prestigio del Correggio (a anche di Raffaello) ma lo ritiene superficiale rispetto alla profondità di intenti di Tiziano. Boschini doveva molto in termini commerciali e ideologici a Pietro Liberi, pittore che aveva affrontato un viaggio a Roma per studiare lo stile romano. Ne aveva dedotto che la superiorità della scuola veneta era innegabile. Boschini ne ammirava anche le opere di cui era ottimo conoscitore. Boschini punta ad affermare la scuola veneta come moderna anche al di fuori del territorio e trova un sostenitore in Pietro da Cortona (infatti viene spesso citato nella Carta, in particolare per i suoi studi sul Tintoretto). La volta del salone Barberini a Roma con l’affresco sulla Divina Provvidenza di Pietro da Cortona era l’unico ad essere elogiato da Boschini in quanto si vedeva l’influenza della scuola veneta che Pietro era andato a studiare rimanendone abbagliato. La volta di Piche (ciclo di affreschi di Raffaello), invece, era molto critica perché, sebbene fosse di valore, mancava di scorci, di rilievo delle figure e di luce. Per tutta risposta, il Bellori risponde indirettamente al Boschini pubblicando il racconto del viaggio di Andrea Sacchi a Venezia. Sacchi viene paragonato a Pietro da Cortona e si sottolinea come il Sacchi fosse sollevato nel tornare a Roma ad ammirare le sale raffaellesche. A difesa di Boschini e della scuola veneta ci sono anche illustri pittori internazionali, come Rubens e Velasquez che durante i loro soggiorni a Venezia acquistarono dei dipinti. Se, però, Rubens ne subì l’influenza, Velasquez e in Spagna in generale non fu contaminato. Questo perché in Spagna si rimaneva nella formazione manierista senza voler approfondire più di tanto. Nonostante l’arte veneta fosse molto presente nelle raccolte spagnole (anche di corte), si preferiva non contrapporle alle nature morte caravaggesche o di Velazquez ma metterle in parallelo. La critica spagnola, insomma, non ha la maturità di indagine critica di quella italiana. 2.Nel 1647 viene riedita le Vite di Vasari a grande richiesta. Nello stesso periodo Schlosser si dedica alla bibliografia della letteratura locale italiana attestando il proliferare di storiografie artistiche regionali volte a colmare l’ammanco di Vasari. Si recuperano le fonti greche e latine e ci si rivolge anche all’arte etrusca e egizia per meglio completare una cronologia della storia dell’arte. Gli antichi servivano a dare un senso di continuità dell’arte, con le sue decadenze e rinascite, e ad avvalorare la nobiltà d’origine delle varie scuole. Giovanni Baglione nel 1642 scrive le sue Vite ordinando gli artisti in base alla successione dei papi, da Gregorio XIII a Urbano VIII. La città pontifica era il centro della produzione artistica e della committenza e le biografie degli artisti erano scarne e molto orientate. Giovanni Battista Passeri un po’ più tardi prosegue idealmente la cronologia di Baglione arricchendo le descrizioni e aggiungendo aneddoti, ordinando in base alla data di morte. Rinnega, però, gli schieramenti e i contrasti descrittivi in favore di una più equa distribuzione del talento. 11 Questa insofferenza per una visione partigiana dell’arte porta il medico forlivese Francesco Scannelli alla creazione di un sistema storiografico alternativo. Nel Microcosmo della pittura (1657) elimina totalmente le vite dei pittori e confronta le opere da inquadrare geograficamente e nelle varie scuole. Per far ciò paragona la pittura al microcosmo umano, dove l’anatomia e i processi fisiologici corrispondono alle peculiarità delle varie scuole mentre il metabolismo ne governa le relazioni. In particolare la pittura Toscana veniva riconosciuta come principale ma Michelangelo rappresentava la spina dorsale dell’arte, mentre gli organi vitali erano assegnati agli unici veri maestri: il cuore a Tiziano, il fegato a Raffaello e il cervello a Correggio (del resto era medico!). Fa un chiaro richiamo a Lomazzo e Zuccari nella storiografia dell’Idea e della selezione. Il più nobile dei pittori per Scannelli è Correggio, tant’è che gli assegna il cervello, organo dove risiede il pensiero. I Carracci, invece, erano la massima espressione della sintesi e la Galleria Farnese (a Palazzo Farnese, Roma) rappresentava l’apice della pittura contemporanea. Ciò suggerisce che non riuscì ad essere totalmente imparziale rivelando il proprio schieramento estense e modenese. Inoltre sembra che volesse semplicemente contrapporsi ai raggruppamenti di Agucchi e negare l’autonomia della scuola romana. Il sistema di Scannelli era, però, chiuso senza possibilità di ampliamento perché si concentrava più su una metodologia di valutazione e di organizzazione che su una valutazione oggettiva degli esiti della pittura contemporanea. Tant’è che i pittori contemporanei erano legati alle escrescenze callose o gli abiti, elementi inutili per la comprensione del corpo umano. Manca l’intelligenza dello stile, la competenza che Boschini aveva individuato parlando di intenditori e dilettanti. Scannelli aveva un approccio critico nei confronti della storiografia artistica perché riteneva che non doveva condizionare l’intelletto e l’osservazione diretta delle opere. Passa in rassegna le collezioni che gli permettono di paragonare le varie opere, in particolare quella di Francesco I d’Este a Modena. Denigra le collezioni monotematiche (solo di teste per ad esempio) perché una collezione rivela la sua importanza con la varietà delle opere rappresentative dei maestri migliori. Nel Microcosmo si parla anche dell’aspetto più commerciale delle opere rilevando l’importanza di poter visionare quelle che si sono salvate negli anni. L’esame diretto è fondamentale per la divulgazione del patrimonio artistico ma, questo, è minacciato dai continui spostamenti delle opere verso le collezioni europee oppure dalle collezioni private a cui è spesso difficili accedere. Questo è un problema molto sentito nella seconda metà del secolo a causa dell’ingresso nel mercato d’arte italiano delle più grandi monarchie europee. Da qui nasce la decadenza della biografia dell’artista nella letteratura artistica e l’osservazione diretta apre le porte al viaggio (seppur limitato) per dare maggior credibilità alle critiche d’arte. Luigi Pellegrino Scaramuccia nel 1674 scrive un’opera dedicata proprio a un viaggio immaginario lungo la penisola italiana. Attraverso figure realmente esistite, Scaramuccia tratta i vari temi teorici legati all’arte e culmina con la figura di Raffaello cerca di istruire un allievo (alter ego di Scaramuccia) sul giudizio e la gerarchia dei modelli da trasmettere. 3.Seconda metà del 600 – diffusione del De pictura veterum dell’olandese Junius: imitazione selettiva della natura si lega alla selezione dei modelli da parte dei grandi maestri. L’Idea di derivazione platonica era filtrata dalla fantasia dell’artista più che dalla divinità. I gradi di imitazione aristotelici erano anche usati per classificare gli artisti antichi e moderni. In Francia, invece, nel 1662 viene pubblicata l’opera di Freart de Chambray che si contrappone a quella di Junius per la diversa classificazione della pittura, ossia in 5 parti: invenzione, proporzione, colore, movimento (o espressione) e disposizione. Con il fratello 12 aveva intrapreso un viaggio a Roma anche perché gli era stata commissionata la traduzione del Trattato di Leonardo. In Francia si sosteneva una posizione anti-michelangelo. In questo periodo si traducono gli antichi e, quindi, ci si concentra sulla riscoperta archeologica dei reperti che necessitano di una nuova classificazione. La stessa necessità c’era per le arti figurative. Giovan Pietro Bellori, ispirato dal modello descrittivo di Junius, userà l’ecfrasis (descrizione) come metro di valutazione dell’invenzione e come giustificazione nella scelta biografica. Nel 1664 Bellori tiene un’orazione all’Accademia di San Luca in cui rimarca l’immaginazione dell’artista ma inserisce il suo discorso in un contesto nuovo, in cui esisteva una grave crisi istituzionale per i giovani artisti. In difesa della scuola romana, che aveva perso importanza a favore della Francia, sosteneva come essa fosse riuscita a unire più componenti guardando alla natura e depurandola del brutto alla maniera degli antichi. Aveva esaltato la scuola romana allontanandosi dall’equanimità (imparzialità) di giudizio. Si muoveva in un ambiente denso di rivalità sia dal punto di vista artistico che istituzionale. Le sue Vite erano state spesso rimaneggiate nella redazione e nella scelta dei materiali. Nell’edizione del 1672 contenevano 12 biografie (Annibale+Agostino Carracci, Domenico Fontana, Federico Barocci, Michelangelo da Caravaggio, Rubens, Van Dyck, Duquesnoy, Dominichino, Lanfranco, Algardi e Poussin. Maratta nell’edizione del 1730, Reni e Sacchi rimasero manoscritte fino al 1976). Annibale Carracci rappresentava l’apice della pittura moderna per la sua sintesi e selezione. Le altre vite ruotavano attorno a lui in base ai gradi di imitazione e bilanciamento della retorica classica, ripresi da Junius e Freart de Cambray. Tuttavia Bellori descrive le opere declassando il colore in favore dell’invenzione. L’uso del colore deve essere funzionale al gioco di luci ed ombre che creano l’emozione e l’equilibrio dell’opera. Il colore è parte della selezione artistica, non è mai artificio e, pertanto, va giudicato con l’intelletto più che con l’occhio. Si usava la parola temperamento che, con accezione scientifica, indicava la combinazione di diversi elementi. Lo stile narrativo di Bellori segue il temperamento e utilizza delle modulazioni cromatiche anche quando non si parla esplicitamente delle opere. Inoltre ogni biografia è introdotta da un’allegoria ad incisione che rappresenta il carattere distintivo dell’artista: ad esempio, Dominichino era associato all’immaginazione, Caravaggio alla praxis, Lanfranco alla natura e Poussin al chiaroscuro. Caravaggio viene proprio criticato per la sua imitazione senza invenzione, non riesce a trasformare l’umanità reale in figure sacre non idealizzate, usa la pittura in modo lusinghiero, con poco studio e lavoro. (posizione vicina a Poussin che non sopportava il Caravaggio). La figura di Poussin è quella che metterà più a repentaglio la fama di Bellori in Francia. Infatti l’artista viene analizzato solo nel suo periodo romano. L’opera di Bellori, incentrata sul patrimonio artistico dello Stato Pontificio, assume anche una dimensione politica nel momento in cui viene nominato Commissario delle antichità di Roma. Insieme al cardinale Camillo Massimo aveva il compito di arginare l’a dispersione e l’esportazione indiscriminata dei reperti antichi. Da qui il crescente interesse pubblico per il restauro e la conservazione. 4.Fine 700 – Le raccolte biografiche assumono una rinnovata importanza soprattutto per le nuove declinazione estere, come le grandi raccolte di erudizione ecclesiastica. Carlo Cesare Malvasia Felsina pittrice – assume una posizione anti-belloriana in quanto sostiene che le biografie devono essere scritte sui fatti non sui giudizi. Rispetto alle introduzioni letterarie, Malvasia preferisce uno stile più narrativo (come Vasari) che infarcisce con notizie risprese da fonti più disparate (carteggi, testimonianze orali, altre biografie…). Partendo dalle scuole pittoriche che si intersecano, Malvasia esegue un racconto 15 suddivisa per temi, unendo classificazione degli oggetti a racconto storico – un nuovo rispetto alle classiche raccolte antiquarie. L’obiettivo principale era la narrazione dei fatti storici ma sentiva l’esigenza di trovare prove materiali a sostegno delle sue parole. Così fece riprodurre oggetti medievali tratti dalla raccolta di disegni di un amico. In Italia una strada simile la intraprese Scipione Maffei. Era un drammaturgo di fama, un rinnovatore del metodo storico e combatteva la stregoneria e la magia. Non apprezzava il metodo antiquario basato solo sulla classificazione. Si avvaleva di diversi strumenti storiografici che potessero collocare le opere d’arte in un contesto morale e politico. Si formò tra Verona e Roma ma la sua attività si concentrò a Torino (1720-24), dove iniziò una riforma dell’università e divenne rinomato per il suo lavoro nei musei che divennero luoghi didattici aperti al pubblico per imparare la storia. Si specializzò in raccolte lapidarie non solo all’interno dei musei ma anche sulle pareti di edifici dove per la prima volte le lapidi erano murate sulle pareti come fossero quadri (portico Accademia Filarmonica). La classificazione seguiva un ordine topografico-cronologico e rappresentò un modo innovativo di presentare queste opere. Fu completata nel 1745 e nel 49 uscì un catalogo non propriamente fedele all’allestimento. All’inizio degli anni 30 scrisse Verona illustrata in cui voleva rivendicare e riscattare l’arte figurativa veronese dall’età cristiana ai suoi giorni. Attraverso l’uso di diversi documenti storici analizzava le opere trovando dei legami tra gli artisti. Rivalutava il Medioevo con l’analisi stilistica delle opere. Esortava infatti a criticare le opere non con le categorie critiche sue contemporanee ma quelle del periodo di composizione. Rimaneva un forte sostenitore dell’arte italiana ed esprimeva la sua preoccupazione per la veloce dispersione delle opere nel mercato internazionale. La Verona illustrata era un’opera molto scritta anche se conteneva delle illustrazioni. 2.La prima metà del 700 è dominata dallo spirito dei conoscitori che ricercano un metodo scientifico per la storia dell’arte. Ciò sempre supportato dall’illustrazione dell’opera come prova storica e di conoscenza. Jonathan Richardson scrisse 2 manuali tascabili che divennero uno degli strumenti più utilizzai da studiosi e collezionisti. Sosteneva che il conoscitore d’arte deve essere anche un buon logico. Perciò trasferisce il discorso artistico su un piano razionale affinché la conosseurship diventi una disciplina scientifica. R. era un artista e collezionista, da cui partiva la sua produzione storiografica. In nome della scientificità usava un inglese semplice e accessibile. Il suo primo discorso, The Conoisseur, rivendicava che chiunque sapesse esercitare la razionalità poteva dare un giudizio. Le maniere degli artisti erano considerate uniche perché non esiste uomo al mondo che possa pensare o agire allo stesso di un altro. Nel secondo discorso, invece, voleva affermare la scienza del conoscitore, che qualsiasi inglese colto poteva raggiungere sia sul piano personale che sociale. Era determinante una buona conoscenza della storia in generale e in specifico della storia dell’arte e pittura (cioè una delle declinazioni della storia). Suddivideva la storia dell’arte in epoche sintetizzandone i passaggi principali e dedicando un interesse speciale per le scuole pittoriche. Consigliava anche una bibliografia essenziale delle vite in voga a quel tempo. Jean-Pierre Mariette fu un collezionista che intrattenne un vasto intreccio di conoscenze e un’ampia produzione letteraria. La prima opera degna di nota è del 1717 quando riordinò la raccolta di incisioni e i disegni del principe Eugenio a Vienna. Suddivise il materiale in scuole e cronologie. Impose, inoltre, le Recueils (Raccolte), di cui era editore, come strumento didattico per l’allenamento dell’occhio. Nel Recueil Crozat del 1721 (da Pierre Crozat, banchiere e collezionista) viene anticipato il suo metodo di raccolta e mette a punto un nuovo modo di 16 redigere i cataloghi d’arte, che diventava non solo uno strumento di raccolta ma anche uno strumento critico con testo e immagini come base della ricostruzione storiografica. I tomi erano 2: il primo edito nel 1729 e dedicato alla scuola romana. Il secondo uscì nel 42 e Mariette ne curò solo l’edizione mentre Crozat era già morto. Crozat scelse gli artisti ai quali affidare la riproduzione delle opere. Mariette scrisse il testo. L’elaborazione dell’opera fu comune. Si rivolgeva ad un ampio pubblico non solo agli esperti e i percorsi artistici venivano spiegati con le immagini di riferimento, concrete e verificabili. Si aggiungeva anche la storia collezionistica delle opere (novità). Le vite dei pittori erano corredate da una breve biografia, i principali dipinti o disegni e le riproduzioni a incisione degli stessi. Si faceva riferimento al soggetto rappresentato e allo stile dell’artista, citando le fonti e inserendo la collocazione, la provenienza, le dimensioni, la tecnica e il supporto dell’opera. L’importanza del Recueil Crozat risiede nell’aver animato il dibattito critico attorno alle attribuzioni e di aver affermato una tipologia di catalogo ragionato. Da qui la messa a punto di un lessico specifico e la distinzione delle maniere. Il problema ora era l’esattezza della classificazione e la completezza delle sequenze storiche. Nonostante l’acclamazione del sistema di Mariette, non mancavano i conoscitori più legati alle scienze naturali che prediligevano la classificazione per genere invece che per scuola, in favore di una minore monotonia tassonomica. Merita attenzione in questo senso Antoine- Joseph Dezallier d’Argenville che nelle sue biografie compiva uno sforzo per razionalizzare la classificazione delle opere e paragonava lo stile di ogni autore alla scrittura personale. Ripercorreva tutte le principali scuole ponendo particolare interesse a quella tedesca, secondo lui troppo spesso trascurata. Tra gli anni 40 e 60 del secolo, infatti, la Galleria di Dresda era diventata il centro degli scambi culturali dei conoscitori grazie al mecenatismo dei suoi regnanti. Nel 1742 arrivò qui Francesco Algarotti, conoscitore e collezionista attivo nella diffusione del pensiero scientifico, in particolare newtoniano. Fu grande viaggiatore in Europa e intessitore di rapporti proficui per la sua carriera (Voltaire e Maffei). Per questa sua fama internazionale fu chiamato a Dresda con incarico politico e di soprintendenza. Qui espresse la sua intenzione di raccogliere le opere in modo ragionato per scuola, prendendo spunto per la disposizione alle pareti probabilmente dal lapidario di Maffei. Strumenti essenziali di analisi erano le incisioni ma anche i disegni che permettevano di interpretare l’opera fin dalle origini. Suggeriva poi di parlare del miglior dipinto di un artista, che meglio esprimesse il suo stile e il suo tempo. Il suo Progetto però non ebbe successo tanto che le opere a completamento delle collezioni venete non furono nemmeno esposte nella Galleria ma finirono presso privati. Tornato in Italia si dedicò alla dissertazione critica, anche del restauro, attività fondamentale per la conservazione delle opere che, tuttavia, era poco professionale all’epoca. In questo periodo prende piede l’epistolografia artistica (raccolta di lettere a tema artistico) di cui max esponente era Giovanni Gaetano Bottari. Difensore del restauro conservativo esprimeva tutto il suo riserbo sui restauratori e sugli intermediari. Aveva pubblicato molte opere di documentazione per la storia dell’arte e aveva ipotizzato (perché non riuscì a realizzarlo) l’arricchimento della nuova edizione delle Vite vasariane (1759-60) con illustrazioni delle opere trattate dal testo (in linea con la moda contemporanea). La sua Raccolta di lettere aveva goduto del contributo di molti artisti, dando voce ai contemporanei. Il dibattito sul restauro si era acceso anche alla luce degli errori di attribuzione causati dalle modifiche del tempo. Inoltre si riconosceva che occorreva maggior sensibilità da parte dei restauratori, animando, così, un dibatti teorico e tecnico della conservazione. Sempre a Dresda nel 1746 arriva Pietro Guarienti, pittore veronese che riedita l’Abecedario del Pittore di Orlandi. Il testo è un pretesto per poter affermare la sua formazione ed 17 esperienza professionale, difendendo i conoscitori capaci di incrociare le conoscenze storico- artistiche attraverso i viaggi, l’osservazione diretta e l’esercizio del disegno e della copia. Argomento molto importante erano i falsi che cominciavano a circolare copiosi. Qualche anno dopo arriva a Dresda anche Giovanni Ludovico Bianconi che viene assunto a corte come medico personale e consigliere per gli acquisti d’arte. Ma la vera svolta la da Christian Ludwig von Hagedorn chiamato alla direzione delle collezioni. Sarà lui a rivendicare il gusto dell’arte tedesca, troppo facilmente accostata al gotico. Ne riconosceva le peculiarità e il ruolo nello sviluppo dell’arte europea. Si iniziava così l’osservazione delle trasformazioni dello stile su base territoriale. Inoltre, von H. era contrario a una visione razionale dell’arte in favore del sentimento come strumento critico. Alla metà del secolo si rileva anche una nuova forma monografica illustrata che si fonda sempre sulle biografie storiografiche tradizionali ma vi aggiunge anche una raccolta di pensieri che illustrava la vita dell’artista. 3.A portare il metodo dei conoscitori sul piano dell’antiquaria fi il conte di Caylus, incisore, collezionista e studioso oggi considerato il padre dell’archeologia moderna. Fu grande viaggiatore che gli permise di entrare in contatto con l’arte dell’antichità (Grecia, Turchia, Medio Oriente) e quando si stabilì a Parigi divenne incisore. Conobbe Mariette e vari conoscitori europei con cui partecipò attivamente al dibattito critico dell’epoca. Collaborò al Recueil Crozat per cui realizzò 30 tavole della scuola romana. Collaborò spesso con Mariette. Rivendicava il ruolo dell’amatore come giudice senza pregiudizio. Da solo pubblicò nella seconda metà del secolo una raccolta di arte egizia, etrusca, greca e romana. Qui criticava molti storici tra cui Bellori perché riteneva che avessero parlato dell’arte antica in modo disordinato e confuso, poco attinente alla realtà dei fatti. Secondo lui, infatti, occorreva un metodo scientifico basato sulla comparazione. Privilegiava il dato materiale anche rispetto ai testi analizzando la sua collezione personale di reperti raccolti negli anni. Gli antiquari avevano sempre trattato gli oggetti come prove storiche o in modo isolato, Caylus invece applica la stessa analisi che si faceva per i dipinti, ricercando il gusto del tempo e luogo espresso attraverso la mano personale dell’artista. La tecnica e lo stile di un’opera erano gli elementi fondamentali per la critica della stessa e della società di appartenenza. Un’altra critica che fa agli antiquari del tempo era rivolta alla qualità delle riproduzioni. Rivendicava di aver illustrato oggetti presi dal vivo e sotto diverse angolature. Infatti ogni illustrazione era corredata di dettagli molto precisi sulla provenienza, i proprietari, la data di ritrovamento, l’uso, ecc. Purtroppo oggi si è scopeto che molti degli oggetti erano falsi, ma al tempo era normale che accadesse. Tuttavia è il metodo che ci interessa, non tanto l’accuratezza storica. Fu infatti il primo a catalogare oggetti minuti e di uso quotidiano. Caylus si avvaleva anche di chimici e medici per studiare i componenti dei materiali e criticava i restauratori per le loro intromissioni. Dal punto di vista storico, vedeva un’evoluzione dell’arte a partire da quella egizia fino alla greca per poi finire in un declino. Valutava però le particolarità di ogni popolo mettendo in risalto ciò per cui si erano distinti. Parlò anche dell’arte gallica, in onore del popolo francese. Il suo discorso procede sempre nel dubbio perché ritiene che la verità assoluta rimanga per sfere più alte. Riprende il Muratori e il suo monito a vigilare ed accertare. A questo modello si ispira anche Winckelmann che unisce filosofia e storia erudita espressa da un linguaggio nuovo per un pubblico nuovo. Per lungo tempo W. È stato l’inventore della storia dell’arte, poi è diventato di moda negarlo. Certo è che per molto tempo è stato un punto di riferimento. Nasce in Sassonia e ha umili origini. Studia teologia per poi dedicarsi alla medicina e alla matematica. Dal 1748 al 54 ha il compito di ordinare l’immenso patrimonio librario di un 20 l’intento è dimostrare quali teorie estetiche contemporanee ci fossero nelle sue scelte stilistiche. Altro personaggio di spicco dell’epoca che si occupò della pubblicazione di Mengs fu Francesco Milizia. Formatosi a Padova, arrivò a Roma nel 1761 dove conobbe Winckelmann, Bottari e Mengs. Si interessò soprattutto di architettura e nel 1768 pubblicò le Vite de’ più celebri architetti. Seguendo il modello vasariano, usava le vite degli artisti per fare una selezione degli stessi e veicolare i propri giudizi ed orientamenti estetici (inclusi anche nel saggio introduttivo alle vite). Un altro motivo per cui Milizia merita nota è che pubblicò in forma anonima (ma presto a lui attribuita per lo stile recensorio) un’edizione tascabile dell’architettura di Roma. L’opera doveva essere più ampia ma in vita riuscì a completare solo l’architettura. Presentava gli edifici in ordine cronologico e non c’erano illustrazioni. Sperava che diventasse un progetto complesso ed esteso a tutte le città in modo da redigere una storia generale delle belle arti del disegno. Questo era il periodo in cui avevano preso piede e riconoscimento i dizionari, le lettere pubbliche e i discorsi accademici in tutt’Europa. Infatti Milizia aveva pubblicato nel 1797 un dizionario per le belle arti del disegno perché riteneva che per far conoscere le cose era definirne i termini in modo esatto. Ciò si inserisce in un contesto in cui le enciclopedie che fino ad allora erano state universali si stavano muovendo verso un ambito più particolare e settoriale del sapere. Il suo Dizionario, comunque, rimane sempre in un contesto prettamente militante, in cui si voleva dar voce ai propri orientamenti critici in favore della contemporaneità e del riconoscimento della pubblica utilità di tali competenze. Questo si accompagnava ad un pubblico sempre più ampio che chiedeva maggiori informazioni, resoconti, recensioni e testi divulgativi. I periodici dedicati ebbero molto successo soprattutto per i dibattiti critici e storiografici sull’arte, ad esempio le Efemeridi letterarie di Bianconi (1772). (effemeridi = tavole in cui si registravano avvenimenti giornalieri e poi in ordine cronologico). Le caratteristiche principali di questi periodici erano la prospettiva internazionale e l’aggiornamento, sempre veicolate da un orientamento estetico preciso. Mentre Parigi è più orientata alla modernità, Roma si presenta come centro internazionale di confronto tra artisti e studiosi. Mantiene lo studio del passato come canone fondamentale per studiare il presente ed intreccia la storia dell’arte con la critica. Per questo le riviste seguivano sia gli artisti contemporanei che gli scavi e gli allestimenti dei musei, rilanciando sempre polemiche scottanti. Sono importanti per la loro tempestività nel dare notizie e per l’affermazione di un lessico specifico. 5.Nel 700 i molteplici scavi e conseguenti ritrovamenti ampliarono le conoscenze dell’antico e posero il problema della fedeltà delle illustrazioni stampate. Tra il 1757 e il 92, in seguito agli scavi di Ercolano e Pompei, uscirono Le antichità di Ercolano in 8 volumi. Tuttavia si decise di far circolare le copie con parsimonia e sotto la distribuzione del re, quasi ad esercitare un diritto di esclusiva dei ritrovamenti da parte del ministro e del soprintendente. Questa operazione infastidì particolarmente Caylous che accusò la dinastia borbonica di aver intralciato i suoi studi non fornendogli possibilità di verifica diretta. I ritrovamenti, comunque, scatenarono una gran polemica che si esplicitò in diverse pubblicazioni critiche senza illustrazioni. Tra questi alcune lettere di Winkelmann che riuscì a visitare il museo di Portici. Criticò aspramente la conduzione degli scavi attirandosi le inimicizie partenopee. Tuttavia affrontò problemi topografici, esami filologici dei papiri e analisi stilistiche delle opere. 21 In questo periodo si sviluppa anche un altro filone sull’antichità che vuol far conoscere altri tipi di antico, non più solo i greci e i romani. Ad esempio Robert Wood pubblicò a Londra i risultati delle sue ricerche in Medio Oriente corredandole di poco testo e molte tavole illustrate nei dettagli sia degli oggetti sia delle bellezze naturali (paesaggi) in favore di una documentazione esatta. Su questa scia Stuart e Revett pubblicarono The antiquities of Athens tra il 1762 e il 1816. A seguito della spedizione ad Atene nel 1751 produssero un’opera ampia, di grande formato e con le misurazioni degli architetti effettuate direttamente sul campo. Erano tutte opere molto note ma conosciute nei dettagli da pochi perché i viaggi nel 600 erano stati pochi e di consguenza le illustrazioni. Per la prima volta furono disegnati accuratamente i dettagli dei rilievi del Partenone e dei monumenti dell’Acropoli, rivelandone per lo stato frammentario. Altra opera importante fu quella di Robert Adam che aveva offerto dei disegni precisi e molto apprezzati delle rovine del palazzo di Diocleziano a Spalato (Croazia) nel 1764. Questo clima favorì anche il campanilismo, infatti in toscana fiorirono gli studi sugli Etruschi. Tra di essi il De Etruria Regali commissionato da Cosimo II per dimostrare come i toscani discendessero da un popolo antico. Venne pubblicato tra il 1720 e il 26 da Thomas Coke (fondatore della Società dei Dilettanti inglese) che trovò il manoscritto e lo fece corredare di immagini minuziose sotto il coordinamento di Filippo Buonarroti dopo averlo revisionato e corretto. Tra il 37 e il 43 fu pubblicato il Museum Etruscum di Anton Francesco Gori che illustrava la storia etrusca con la metodologia corrente epurata dal campanilismo che era fuorviante e tendenzioso. Nel 1756 si scoprono le tombe di Tarquinia (VT) in un momento in cui critica e mercato dell’arte etrusca erano molto vivi. Addirittura ci furono ricadute anche sul collezionismo che, tra l’altro, portò all’allestimento di vasi etruschi nella galleria Clementina in Vaticano nel 1732 circa. Winkelmann poi inserì di fatto l’arte Etrusca nel sistema della sua storia individuando 3 stili differenti. In Italia dobbiamo a Luigi Lanzi lo schema tripartito winkelmaniano sulle opere custodite negli Uffizi. Questo studio filologico-antiquario fu poi utilizzato anche per le opere medievali, a cui si attribuivano anche delle qualità formali fino ad allora oscurate dalla loro considerazione meramente storica. Furono anche prese in considerazione le cornici miniate (quelle dei manoscritti su pergamena) e i corredi illustrati da iniziali come forme artistiche. Le collezioni cominciarono ad arricchirsi di manufatti medievali. Il 300 fu rivalutato non più solo in chiave religiosa e storica ma più prettamente artistica da Bottari, il quale introdusse 3 nuove categorie per la comprensione del periodo: diligenza, semplicità e verità. Bottari si pose anche problemi sulla conservazione e sulla collocazione nei contesti originari delle opere e questo diventò un tema comune a molti storici e critici. La storiografia in questo periodo è segnata dalla monumentale opera di Edward Gibbon del 1776-88 sugli imperatori Antonini fino alla caduta di Costantinopoli nel 1453 in cui intendeva separare i fatti dagli errori e invenzioni del passato. Nonostante parlasse del dissolvimento dell’impero romano e della cristianità in senso molto critico, ne aveva incentivato lo studio. Nella seconda metà del secolo prendono piede le pubblicazioni sull’arte medievale in particolare sull’architettura gotica, anche sulla scia di The castle of Otranto di Walpole (1764). Il metodo critico era quello contemporaneo, quindi partendo dall’interesse storico si verificavano le fonti direttamente sulle opere corredando con incisione di grande effetto. Si consigliava lo studio dell’arte gotica e della sua conservazione. Ciò ebbe notevole influenza sull’architettura del 700 inglese. 22 In Italia il primo a trattare l’architettura gotica fu Paolo Frisi nel 1766. In effetti verso la fine del secolo si sentiva l’esigenza di tutelare le opere medievali. Nascono così opere dedicate alla pittura (Etruria Pittrice di Lastri) che si spingono anche verso fuori Firenze, come ad esempio Siena con le Lettere Senesi di Della Valle che rivendicava una datazione più antica delle opere di Guido da Siena rispetto a Cimabue in base alle incisioni che permettevano un giudizio sullo stile e la cronologia. 6.Le raccolte museali e le collezioni ordinate favorivano le disquisizioni storiografiche e critiche. Nei cataloghi si trovavano schede di opere dettagliate dedicate ad un pubblico sempre più ampio di studiosi e viaggiatori, e diventarono un luogo editoriale per il dibattito storiografico. La fruizione divenne più accessibile per il formato e il linguaggio. Le collezioni vennero aperte al pubblico. Insomma, l’arte diventata un po’ più sociale. Per questo nel 1733 si aprì il Museo Capitolino anche se il catalogo arrivò ben più tardi (41-82) affidato a Bottari. Ogni scultura aveva un’incisione di altissima qualità e il testo seguiva il modello degli studi antiquari, per la suddivisione tematica e i contenuti delle schede. Le opere erano viste soprattutto per il loro valore storico più che tecnico e stilistico, si parlava di chi rappresentavano in base alle fonti letterarie. Un cambiamento arriva nel 1782 con l’ultimo tomo del capitolino curato da Foggini e soprattutto il primo tomo del Museo Pio-Clementino (Visconti padre e figlio). Qui infatti cambiava radicalmente il metodo descrittivo che si basava sulla semplicità di esposizione, sulla selezione e sulla qualità dell’opera più che la cronologia e lo stile. Infatti le schede erano ricche di dettagli sui materiali, il ritrovamento, le tecniche di esecuzione e la storia collezionistica. Azzardava una datazione in base all’area culturale di appartenenza e si facevano confronti stilistici e iconografici. Il tutto era corredato da immagini di grande formato. C’era anche riferimento illustrato e senza testo alla sala appositamente creata per ospitare le sculture, dettaglio che accomunava anche altre istituzioni (spesso in opere edite a scopo celebrativo). C’era addirittura un filone editoriale che pubblicava illustrazioni di opere e del loro allestimento all’interno (pianta del museo) di un museo come il catalogo di Von Heineken della Galleria Reale di Dresda o quello per la Galleria di Dusseldorf da parte di Mechel che ebbe grande successo editoriale (anche nel formato tascabile senza incisioni). I cataloghi tascabili (più economici) mostrano una nuova strategia editoriale che voleva raggiungere maggior pubblico. Si pensava infatti al museo come luogo didattico. A Mechel durante la sua esperienza viennese si deve anche un nuovo tipo di allestimento museale simile a quello bibliotecario, corredato da cartellini e con apertura di 3 giorni settimanali, improntato sulla suddivisione per cronologia, luogo e scuole. Nel catalogo addirittura afferma per la prima vera volta come il suo allestimento non fosse solo didattico ma anche che rappresentasse la storia dell’arte in modo visivo oltre che letterario. L’apertura della galleria Imperiale Reale fu un evento anche se le critiche non mancarono. Non veniva apprezzato l’intento puramente tassonomico a sfavore del piacere dell’accostamento delle opere, oltre alla difficoltà per gli artisti di trovare i modelli da imitare. Nelle polemiche alla Galleria di Vienna si trovano le idee contrapposte di come concepire una collezione, cioè: • Piacere per l’occhio ed esposizione accademica per gli artisti • Intento istruttivo aperto a un ampio pubblico In queste polemiche fini anche Lanzi quando gli fu commissionato il riordino della Galleria degli Uffizi. Ce lo dice in una lettera pubblicata nel 1782 in cui diceva di voler fare un nuovo tipo di allestimento. Eliminò armi e oggetti naturali che trovarono altra collocazione. Come Mechel adottò un sistema di classificazione bibliotecario seguendo una disposizione varia e spesso sperimentale. Conoscitore degli studi sugli Etruschi e riconoscendone il valore, allestì 25 SUSANNE ADINA MEYER Epoche, nazioni, stili (1815-1873) 1.1815 Congresso di Vienna – si devono restituire le opere conquistate = decade il museo enciclopedico dell’età illuminista. Tornate in patria queste opere assumono un valore ideologico perché rappresentano la nazione. Parte un dibattito in Italia e Germania sul possesso delle stesse: stato, chiesa o privati? e sulla loro collocazione. Tornano anche gli incunaboli (scritti tipografici fino al 500) e gli archivi: si inizia una distinzione tra “archivi storici” e “archivi amministrativi correnti”. Per i musei nacquero molte fondazioni: • 1819 apre il futuro Museo del Prado a Madrid (prende questo nome nel 69) in cui i tesori reali diventano patrimonio nazionale • 1830 apre l’Altes Museum odierno in Prussia dando inizio all’Isola dei musei tedeschi (5) • 1830 in Baviera (rivale della Prussia) apre il Glyptothek • Aprono musei in tutte le capitali degli stati tedeschi • 1822 si inaugura un nuovo braccio dei Musei Vaticani sotto Canova • 1852 l’Hermitage di San Pietroburgo • A Parigi i buchi delle opere che rimpatriavano venivano riempiti con quadri e sculture della scuola francese • 1824 National Gallery a Londra (nel 38 si trasferisce a Trafalgar Square) A Londra ebbe luogo un’altra importante discussione sui marmi del Partenone giunti da Atene e acquistati dal British Museum nel 1816. L’esposizione ebbe un enorme successo sia dal punto di vista storico (civiltà estinta) sia estetico (monumenti). Alla metà del secolo nascono anche altri tipi di museo, legati al territorio e alla cultura, come quello di Norimberga del 1852. 1851: prima esposizione universale a Londra nascono una trentina di musei delle arti applicate (l'insieme delle applicazioni di forme d'arte alla progettazione e alla decorazione di oggetti per renderli esteticamente gradevoli. Il termine si distingue da quello di belle arti, che mira a fornire stimoli intellettuali ed estetici piuttosto che funzionali) come il South Kensington Museum già esistente in tutta Europa (Vienna, Berlino, Amburgo, Napoli, Firenze, Budapest) = ETÁ DEI MUSEI. Si vengono a formare delle professionalità museali tra cui spiccavano gli artisti. Si distingue tra amministratori museali, conoscitori e storici dell’arte impegnati nella ricerca d’archivio e nella divulgazione al pubblico. A causa di tutto questo fermento alcune capitali emersero come centri maggiori di riflessone culturale e artistica. 2.La costituzione di un nuovo museo in Prussia con le opere di ritorno da Parigi si inserisce anche in una situazione economica, politica e culturale post napoleonica stimolata dalla riforma amministrativa, militare, istituzionale e del sistema formativo. Nel 1810 veniva promossa la Bildungsreform secondo cui l’università doveva basarsi sull’insegnamento E sulla ricerca utilizzando l’arte per dare forma all’individuo e alla collettività. Così riformata, l’università berlinese attirò personalità di rilievo come Hegel che insegnò estetica. Emergeva l’importanza della Storia sia dal punto di vista hegeliano come filosofia della storia sia sul piano della scienza della storia con metodo filologico-critico. Secondo questo paradigma scientifico positivista il compito dello storico era quello di raccontare i fatti senza giudicare. 26 Nasce anche il museo di Berlino (Altes Museum) grazie all’acquisizione di importanti collezioni e dimostra di avere la più importante raccolta di pittura d’Europa. Era di fronte al Palazzo Reale, tra il Duomo e l’armeria, in una posizione che sottolineava l’importanza della cultura della monarchia prussiana. Il museo doveva essere un luogo di studio scientifico per artisti e intenditori, oltre a presentare una storia visibile dell’arte sulla scia dei musei di Roma, Vienna e Parigi. Nel 1828 il museo cambia direzione artistica (Hirt e Waagen) e diventa un luogo in cui prima viene il diletto e poi l’istruzione, si comprende e si sperimenta la bellezza (esperienza estetica). Erano esposti un numero importante di sculture e dipinti, divisi in due percorsi (italiano e nordeuropeo). Poi c’era una parte dedicata agli studiosi dove erano esposte delle opere importanti più dal punto di vista storico che artistico. Già dall’apertura del museo il discorso sull’arte si affermava anche all’università dove Hirt e Waagen tenevano corsi. Waagen in particolare è importante perché rappresentava un nuovo tipo di specialista in grado di collegare la ricerca scientifica con il lavoro di funzionario museale. Scrisse un libro sui fratelli Van Eyck (1822) aprendo così anche in Germania gli studi sull’arte fiamminga. L’analisi delle loro opere avviene in un contesto storico-culturale che la definisce e giustifica. Nel 1830 divenne primo direttore e curatore del catalogo del museo di Berlino segnando un legame con l’università che darà origine alla ‘scuola di Berlino’, un gruppo di studiosi in costante discussione sui metodi e sulle competenze degli storici dell’arte. Il modello seguito era scientifico-filologico e l’analisi si otteneva facendo l’autopsia dell’opera e criticando le fonti. Nello stesso periodo il modello illuministico enciclopedico modificava la costruzione dei manuali e delle storiografie universali. Le storie generali di fine 700 vennero pubblicate prediligendo la suddivisione per epoche piuttosto che per maestri. Questa strada era stata già percorsa da Cicognara nella storia della scultura che credeva fosse di pertinenza italiana. L’aveva divisa per in quattro epoche: 1. Il risorgimento dell’arte (Nicola Pisano) 2. Il progresso (Donatello) 3. La perfezione (Michelangelo) 4. La corruzione (Bernini) 5. L’ultima epoca gloriosa era la contemporanea con Canova. Stessa cosa fece Rosini molti anni dopo (1839-47) con la pittura ma non fu apprezzato perché ritenuto anacronistico alla luce del rinnovato lavoro critico sulle fonti. Maggiore convinzione si ebbe in quei materiali che incrociavano il materiale settecentesco con i nuovi metodi critici: i corsi di storia dell’arte dell’università e delle scuole tecniche, oltre alle preparazioni propedeutiche per i visitatori dei musei. I materiali erano aggiornati, sommativi e di facile lettura anche per i non esperti. Gli storici cominciarono a scrivere anche per la piccola e media borghesia, non solo per le elites. Il pubblico diventava più ampio. Tra i primi manuali che seguivano questa nuova filosofia di divulgazione ci sono quelli di Kugler: 1. Nel 1837 pubblica quello sull’arte da Costantino (300 circa) all’epoca contemporanea suddiviso prima in epoche e poi in scuole (simile al museo di Berlino) e basato sugli studi da Vasari in poi. 2. Nel 1842 pubblica un testo come riferimento nei licei e nelle scuole tecniche, quindi era un condensato della storia artistica mondiale. Diviso in epoche: • Arte primitiva (extraeuropea e pregreca) • Periodo classico (greci, etruschi e romani) • Periodo romantico (romanico, gotico, arte islamica) • Periodo moderno (dal 400 italiano all’arte contemporanea) 27 Ogni arte aveva un contesto e una dignità. Era sicuramente stato influenzato dal collega all’Università Alexander von Humboldt (naturalista e geografo) per l’impostazione geografica dei manuali. Sono il punto di riferimento per le storie dell’arte successive. Erano privi di illustrazioni. Su questa scia in Inghilterra si affermano gli handbook iniziati dalla storia dell’architettura dello scozzese Fergusson (3 vol 1862-67), ricchi di illustrazioni. In Francia, invece, il modello era diverso: Charles Blanc insieme ad altri illustri collaboratori scrive una storia della pittura con le biografie dei più grandi pittori europei divisi per scuole producendo un’opera scientifica ed enciclopedica rivolta ad un ampio pubblico. 3.I musei pubblici e i collezionisti privati facevano a gara e si affidavano a professionisti in grado di garantire scientificità. In particolare queste nuove competenze scrivevano i cataloghi distinguendo artisti, stili e scuole e sapevano distinguere i falsi. In questo si distinguevano nettamente dalle figure dei pittori. Ormai la scena artistica era a livello internazionale e i centri di maggior rilievo erano Berlino, Parigi e Londra. L’Italia negli anni 30 e 60 dell’800 veniva depredata delle sue opere. In questo clima di cambiamento anche formale dell’analisi dell’arte si inserisce Carl Friedrich von Rumohr che scrisse saggi su riviste specializzate in particolare sull’arte italiana del 300 e 400 in seguito ai suoi viaggi romani. La sua opera di maggior rilievo è Ricerche italiane del 1827-31 in cui parla usando il saggio dei mosaici paleocristiani di Ravenna fino a Raffaello. I 3 volumi nascono dal progetto ambizioso (e incompiuto) di verificare le Vite di Vasari incrociando diversi dati da diverse fonti. A partire dagli anni 30 l’interesse per Vasari in Germania è alto. Le Vite furono tradotte in tedescon nel 1831 da Schorn che, sulla scia vasariana, fondò anche una rivista di critica (Kunstblatt) che divenne un’importante piattaforma di ricerca. Tra i corrispondenti della rivista c’era Johannes Gaye il quale pubblicò Carteggio inedito d’artisti in cui documentava i rapporti personali tra artisti, mecenati e società, rivendicandone la storicità e verità non solo per la storia dell’arte ma anche per la storia politica e culturale italiana del tempo. Sia Ruhmor che Gaye (e tanti altri) avevano frequentato assiduamente musei, gallerie e archivi italiani per i loro progetti. Questo era stato reso possibile anche dalla passione con cui in Italia (soprattutto in Toscana) si costituivano gli archivi, luogo diventato d’eccellenza per gli incontri intellettuali europei. In particolare si faceva rifermento all’opera sugli artisti senesi di Ettore Romagnoli mai edita ma di fondamentale importanza per la catalogazione delle opere di ritorno dalla Francia. Sempre dagli archivi senesi parte il lavoro dei fratelli Milanesi che, ispirati dall’incontro con Rohmor e Goye, avevano intuito la necessità di un nuovo metodo per la critica dell’arte, più moderno e in linea con quello europeo. Nacque così una raccolta di documenti per la storia dell’arte senese pubblicata nel 1861 da Gaetano Milanesi, il quale insieme al fratello e altri fondò la Società degli Amatori delle Belle Arti per promuovere l’edizione di fonti dell’arte toscana (le Vite del Vasari edito da Le Monnier nel 1846-70). Gaetano Milanesi si poneva anche la questione dell’erudito e del conoscitore, che dovrebbero coesistere nella stessa persona, unendo la conoscenza storica e documentale alla conoscenza tecnica e visiva. Milanesi si riferiva a una folta schiera di conoscitori e commercianti d’arte che assumevano un ruolo nuovo poiché erano attivi nei musei e nei mercati ma anche nelle botteghe di restauro. Fornivano anche dei documenti scritti rilevanti: i taccuini di viaggio, pieni di dettagliate informazioni e disegni. Tra questi spiccava Waagen che era in stretto contatto col collega inglese Eastlake e altri travelling agents. Waagen, oltre ad essere direttore del museo e docente universitario, viaggiava molto per acquisire nuove opere per il museo. Tra il 1841 e il 42 era in Italia dove acquistò molte opere di Tintoretto, Tiziano Luini 30 Sulla pittura intervenne Rumohr che contestando Vasari e dopo attenta lettura di fonti e documenti sosteneva che la scuola toscana non fosse da attribuire totalmente a Cimabue ma che anche Duccio di Buoninsegna avesse avuto un ruolo fondamentale. Inoltre insisteva sul ruolo socio-economico nello sviluppo dell’arte. Il suo testo ebbe risonanza in Francia e in Italia per questa sua innovativa visione della scuola toscana. Rio, ad esempio, lo esaltò anche se non ne condivideva la visione storica della pittura del 300-400. In particolare Rumohr si allontanava dalla concezione romantica e soggettiva di Rio, soprattutto quando si trattava di Giotto che egli ridimensionava a circostanze storiche mentre Rio lo riteneva innovatore e inventore dell’arte cristiana. In Italia a cavallo tra il 1700 e il 1800 il Medioevo era stato ampiamente riscoperto ed in parte studiato. Inoltre gli eruditi avevano iniziato a documentare in modo capillare il patrimonio medievale a causa della dispersione delle opere. La ricerca medievale si strutturava soprattutto a livello locale con il recupero conservativo di monumenti ritenuti centrali alla memoria della comunità di riferimento (Camposanto di Pisa e basilica di Assisi). In particolare si riscoprirono gli affreschi della cappella degli Scrovegni (Padova, Giotto) da parte di Pietro Estense Selvatico che la innalzò a monumento nazionale piuttosto che municipale. Fu proprio lui a insistere su una riforma culturale a livello nazionale piuttosto che territoriale ammodernata anche dal nuovo metodo filologico-storico. In questo senso Selvatico rappresentò una svolta negli studi e nell’interpretazione del Medioevo (Notizie storiche sull’architettura padovana dei tempi di mezzo – 1834). 5.Il termine Rinascimento venne usato per la prima volta dallo storico francese Jules Michelet per indicare una nuova epoca di rinnovamento totale della vita (1855 – Storia della Francia). Non più lo sguardo rivolto alle crudeltà della vita ma alla speranza del futuro. Nel fare ciò aveva anche cambiato il metro di giudizio del passato, cioè del Medioevo. Aveva anche dato origine all’uomo moderno e prefigurato la Rivoluzione francese, nonostante il Rinascimento fosse nato in Italia e solo successivamente arrivato in Francia. Il termine renaissance era già stato usato anche nel 1700 ma non aveva mai significato un periodo storico-artistico. Fu però lo svizzero Burckhardt a codificare il termine Rinascimento (in relazione alla cultura fiorentina del 15° sec.) in un contesto di conoscenza scientifica del mondo e dell’uomo di cui anche l’arte aveva subito fortemente l’influenza. B. era docente universitario di storia e storia dell’arte in Svizzera ma aveva collaborato alla riedizione degli handbuch di Kugler e nel 1853 aveva pubblicato un lavoro su Costantino che gli aveva permesso di studiare la decadenza del mondo antico. Il suo testo più famoso è una guida per viaggiatori tedeschi in Italia del 1855 che ha influenzato la percezione dell’arte e della cultura italiana da parte dei turisti nordici per oltre un secolo. Nel 1860 pubblica un altro libro importante sul Rinascimento italiano (Le civiltà del Rinascimento italiano) più dal punto di vista storico e socio-culturale che artistico (la parte di arte in progetto non fu mai portata a termine, solo alcune parti furono pubblicate postume). Trattava dello Stato, dell’individuo moderno, della vita sociale, della scienza attraverso dei grandi affreschi di vita senza ordine cronologico e geografico, aprendo così la strada alla trattazione dell’arte per epoche. Si inizia, così, a metà 800 a improntare gli studi di arte alla storia generale affrontando le questioni in relazione al contesto storico, scientifico e morale, come se il periodo di appartenenza fosse un’epoca statica composta da usanze, religioni e regime politico. In Francia Burckhardt fu molto apprezzato da Hyppolite Taine anche se quest’ultimo non condivideva pienamente il pensiero ma riconosceva che avesse scritto l’opera sul Rinascimento più completa e filosofica. Taine era un professore di Estetica alla Scuole di Belle Arti di Parigi e scrisse la Philosophie de l’art pubblicata tra il 65 e il 69. Era in 5 parti una delle quali era sull’arte italiana ritenuta un fatto storico risultante dall’interazione di 31 circostanze fisico-ambientali (clima, razza, ambiente, momento storico = milieu = contesto). Da qui nasceva la differenziazione tra scuole, stili e singole opere. Sulla stessa scia teorico-estetica si inserisce l’inglese John Ruskin (pittore, poeta, critico d’arte) che indagò il rapporto società-arte soprattutto alla luce della Rivoluzione Industriale e del distacco provocato tra intellettuali e lavoratori. Per lui l’arte era uno strumento di trasformazione sociale. Per questo sosteneva i pittori moderni come Turner considerandoli superiori agli antichi (Modern Painters, 1843). Si occupò anche di architettura (anche a Venezia) che intendeva come espressione artistica connessa alla morale civile. Riteneva l’arte gotica altamente morale ed etica perché legata alla produzione artigianale ed individuale che la Rivoluzione Industriale aveva distrutto. Si opponeva al restauro perché deturpava la verità dell’opera, era una menzogna. 6.1851 Great Exhibition: la Gran Bretagna vuol dimostrare la sua supremazia in campo industriale ed imperiale e, dall’altra parte, vuole celebrare il progresso scientifico e tecnologico sperando in un futuro armonioso e pacifico. Molti dei prodotti esposti vennero sistemati a fine esposizione nel nuovo Museum of Manufacturers, il primo museo di arti decorative (1852) che si inseriva nella discussione sulle arti minori e maggiori. Al museo venne annessa una scuola di disegno al fine di produrre opere che potessero poi essere riprodotte con le nuove tecniche industriali. Nell’Esposizione c’era anche una parte dedicata al Medioevo con una ricca collezione di opere medievali e gotiche. Da qui in poi le esposizioni universali furono un luogo ideale per valorizzare le arti minori. Nel 1867 a Parigi si mise in mostra la storia del lavoro con molteplici manufatti pubblici e privati dai primitivi ai giorni contemporanei per raccontare la storia dell’umanità accessibile a tutti non solo ai letterati. I paesi aveva un padiglione dedicato e gli allestimenti erano in ordine cronologico. La Francia presentò 300 acquerelli raffiguranti monumenti medievali, a testimonianza dell’impegno conservativo francese. I musei di arti applicate sorti non solo raccoglievano opere per la riproduzione ma avevano anche l’intento di comunicare una storia della cultura attraverso percorsi storici, tecnici e formali. In questo. Clima museale si snoda anche la riflessione teorica riguardante le arti applicate, la cui produzione permetteva di capire le diversità dei popoli e si potevano trarre insegnamenti per la produzione futura. Owen Jones, infatti, scrive un compendio universale sull’ornamento (1856) intitolandolo La grammatica dell’ornamento. L’accostamento con la lingua (grammar) era voluto perché l’ornamento non era solo una decorazione ma un vero e proprio linguaggio con sviluppo autonomo e leggi proprie da analizzare e codificare come Linneo fece con la botanica. In particolare separò la storia dell’architettura da quella dell’ornamento. In Francia le arti applicate trovavano un esponente in Jules Labart che redasse un catalogo sulla collezione del defunto suocero ricca di opere medievali e rinascimentali (1847, pubblicata tra il 64 e il 66). La sua Storia delle arti industriali rappresenta il tentativo di redigere una storia delle arti minori e delle loro tecniche in un ampio quadro geografico: Francia, Germania, Inghilterra, Italia e Oriente bizantino. L’approccio era storico e suddiviso per materiali (avorio e legno), tecniche (smaltatura e vetrate) o funzioni (armi o mobilio). Questo a causa della natura ambigua degli oggetti stessi: oggetti artigianali, da collezione e documenti di epoche passate. In Italia il mercato delle arti minori era molto fiorente ma non sotto controllo, infatti innumerevoli pezzi fuoriuscirono dalla nazione. Inoltre c’era interesse per le sculture, bassorilievi e ceramiche del 400 fiorentino perché rappresentavano il perfetto equilibrio tra arte e artigianato (soprattutto per gli inglesi). Il caos ea dovuto anche alla soppressione degli 32 enti ecclesiastici e a una mancanza di adeguati strumenti legislativi che regolamentassero il mercato. Durante il periodo in cui Firenze fu capitale (1865-71) venne allestita una esposizione di oggetti medievali e rinascimentali (1861) e il Palazzo del Bargello diventò un museo permanente di arti industriali come quello inglese. Venivano raccolti i molti oggetti derivanti dai conventi soppressi per raccontare la storia della Toscana attraverso i manufatti. Gottfried Semper era architetto e professore all’Accademia delle Belle Arti di Dresda, oltre che teorico e storico dell’arte. Visse in esilio a Londra per aver partecipato ai moti del 48-49 e qui entrò in contatto con le arti applicate. Rifletteva sul problema dello stile sostenendo che esisteva una forma originale, di base dell’opera che veniva poi plasmata in base ai materiali, alle tecniche, alle influenze esterne e, non da ultimo, dal committente. La sua opera più importante era incentrata sul concetto di ‘estetica pratica’, ossia un connubio di teoria e storia. L’estetica per lui era una ricerca di leggi universali della bellezza che doveva unirsi alla morfologia storica delle forme. All’origine della creazione c’era un bisogno non una soddisfazione estetica e ciò portava alle forme fondamentali visibili in natura. Le forme erano in numero limitato MA le varianti erano infinite nei secoli. Il suo percorso di ricerca è assimilabile a quello che stava compiendo la linguistica nel cercare l’origine delle parole e i loro mutamenti in base alle varianti del tempo e delle società. Divide gli oggetti in 4 grandi categorie: 1. Tessili 2. Ceramica e vetro 3. Metalli 4. Legno e mobilio L’arte tessile era all’origine di tutte perché univa protezione e decorazione = bisogni umani che definiscono l’arte. Il suo sistema scientifico fu applicato al Museo austriaco per l’arte e l’industria di Vienna (primo in Europa continentale) fondato nel 64 sul modello di South Kensington. Era impostato sull’utilità dell’arte e dell’educazione al buon gusto per il benessere della nazione e aveva una scuola di arti applicate annessa. L’allestimento si ispirava alle teorie di Semper, con il tessile al centro, anche perché egli aveva donato un manoscritto (Il museo ideale). Dal 1890, però, il reparto tessile cambiò direttore e iniziò una revisione critica sul rapporto tra materiali, tecnica e stile. In Austria, del resto, il museo dal 48 è il luogo deputato allo studio e sviluppo degli studi storico-artistici che porterà alla fondazione della scuola di Vienna. Nel 58 nasce l’Istituto per la ricerca storica austriaca dove si studiava in modo scientifico, cioè storico-filologico, la storia austriaca. Lo scopo era formare archivisti, bibliotecari e personale museale. SUSANNE ADINA MEYER La storia dell’arte tra Nationbuilding e studio della forma (1873-1912) 1.1909 – 9° Congresso internazionale di storia dell’arte, Monaco di Baviera. Discorso di Adolfo Venturi, primo italiano a intervenire in un congresso del genere. Testimonia un clima fervido in Italia, capitanato da giovani che volevano far diventare i patrimoni artistici dei beni nazionali. Il congresso era scientifico, quindi a differenza di quello politico voleva stringere alleanze senza temere egemonie. Si auspicava una comunità scientifica sovranazionale e mentre Venturi criticava aspramente i ricchi mercanti americani che stavano razziando il patrimonio alla stregua di Napoleone. C’era chi sosteneva che questa vivacità del mercato era positiva (Warburg), tant’è che aveva decretato a livello mondiale la sovranità della cultura visiva italiana nell’arte. 35 l’aspetto romantico dell’arte popolare ma sottolineare come l’evoluzione dell’economia, della società e dei materiali avesse condizionato (soprattutto nelle campagne) i processi produttivi. Il rapporto tra industria e arte tornerà anche in un altro testo del 1901 che contribuirà a cambiare lo sguardo sull’arte tardoromana e paleocristiana. Lo studio di questo periodo si inseriva in un contesto di multinazionalità che l’Impero cercava di portare avanti all’inizio del 900 in contrapposizione a quella nazionale del giovane impero tedesco. Anche qui Riegl pone le distanze con la decadenza attribuita a questo periodo perché per lui si tratta di semplice evoluzione stilistica (Kunstwollen, neologismo coniato ad indicare l’impulso artistico, l’intenzione e la volontà d’arte di un’opera). Quest’evoluzione della forma segna il passaggio da una percezione tattile a una ottica, in linea con gli studi psicologici del tempo sulla percezione. Dopo essere diventato prof all’uni, si dedicò a un’altra epoca considerata di decadenza: il barocco italiano. E infine scrisse un saggio sul ritratto di gruppo olandese (16° e 17° sec) in cui affermava che in questo caso l’impulso all’evoluzione era dovuto anche dalla letteratura, la filosofia, la religione oltre alla struttura sociale ed economica. Il ritratto veniva concepito come opera corporativa in cui ogni figura rappresentava una personalità ben distinta e autosufficiente. Sospendendo ogni giudizio sul gusto, sottolineava l’importanza anche del pubblico per cui era stata creata l’opera. In questo modo la storia dell’arte diventa anche storia della percezione, una sintesi della cultura di un’epoca. 4. Josef Strzygowski: entra in collisione con Riegl e Schlosser. Nell’analisi del rapporto tra occidente e oriente rivendicava le radici orientali dell’arte medievale. Secondo lui il 4° secolo non rappresentava un’evoluzione dell’arte romana e le radici dell’arte cristiana non erano a Roma (come sostenevano Wickhoff e Riegl). Metteva in discussione la dipendenza dell’arte cristiana egiziana (arte copta) dai modelli romani, bizantini e persiani ma li avvicina più alla tradizione siriana e dell’antico Egitto. Questa polemica si protrasse fin dopo la prima guerra mondiale conferendo molta fama a Strzygowski anche oltreoceano. Si stava già delineando il suo filone antisemita e nazionalista che lo porterà in seguito ad aderire al nazismo. Ciò comporterà anche una spaccatura del mondo intellettuale ed accademico del tempo. Tutti questi studiosi, comunque, concordavano su un tema: l’attenzione per la conservazione del patrimonio artistico e monumentale dell’Impero. In particolare Riegl ne Il culto moderno dei monumenti del 1903 si batté per svincolare l’aspetto estetico del restauro in favore del recupero del valore intrinseco dell’opera (es. il palazzo di Diocleziano a Spalato dovevano mantenere la stratificazione storica della città antica). Definisce una ‘teoria dei valori’ in cui i valori attribuiti a un’opera da parte dell’uomo moderno si intrecciano con quelli storici. Era importante perché nell’Impero asburgico coesistevano lingue e culture diverse, spesso non conciliabili tra loro. Riegl rivendicava il valore dell’antichità su quello storico, cioè mentre quello storico è legato agli specialisti, quello dell’antichità è per tutti. Per le masse che assumono un nuovo ruolo sociale e storico nel 19° sec. 3.Dresda, 1855 apre la Galleria che espone la Madonna del Borgomastro Meyer attribuita a Holbein il Giovane e acquistata nel 1743. Nel 22, però, era apparsa un’altra Madonna sul mercato di Darmstadt. Quindi dagli anni 70 si apre un dibattito a cui partecipano anche specialisti su quale fosse l’originale e se il secondo dipinto fosse una copia, un falso o una copia autografa (disputa chiamata Holbeinstreit). In questa controversia si misero in campo diversi saperi: dalla connoiseurship all’indagine archivistica, dall’analisi del contesto storico ai problemi iconografici. Si concluse con un documento firmato da 14 storici dell’arte in cui si dichiarava vero il dipinto di Darmstadt e copia quello di Dresda. Fu presentato a un 36 congresso a Dresda che rappresentava l’antecedente al primo congresso internazionale di storia dell’arte di Vienna del 1873. Fu allestita una mostra su Holbein in cui si poteva mettere a confronto le due opere. Anche i non esperti furono chiamati ad esprimere il proprio parere sulle 2 Madonne, col risultato più propenso a quella di Dresda. Questa disputa fu importante per mettere in luce che giudizio estetico e giudizio sull’autenticità non coincidevano. Inoltre si instaurava in un dibattito molto più ampio del periodo in cui si metteva in discussione: • la competenza degli artisti, del pubblico, dei conoscitori, degli storici dell’arte • il rapporto tra copia, riproduzione e originale (anche fotografia) • lo statuto scientifico della disciplina storico-artistica dopo l’unificazione della Germania sotto la Prussia, ci furono tensioni politiche e culturali volte a proteggersi dalle influenze delle culture cattoliche ultramontane, dalle leggi anti- socialiste, dal boom economico dell’industrializzazione e dalla speculazione finanziaria. Kultur e Bildung (formazione) diventarono i concetti fondamentali per costituire l’identità nazionale. Il patrimonio culturale, però, non veniva gestito centralmente ma dagli antichi Stati (a parte l’isola dei musei di Berlino). Nelle università si lavorava sul concetto di unità attraverso discussioni di storia, archeologia e storia dell’arte. In questo contesto e fino alla prima guerra mondiale furono spese ingenti somme per il complesso museale di Berlino che si allargò e si progettò la Galleria Nazionale soprattutto per l’arte contemporanea. La politica museale rifletteva l’aspirazione della Germania unità e imperiale, oltre alla sua potenza economica. La disputa sulla Madonna aveva sancito la competenza degli storici dell’arte che spesso venivano chiamati ad amministrare i musei. Tra essi si distinse Wilheim von Bode che diventò il più potente direttore museale tra il 1905 e il 1915, primo a non avere una formazione all’accademia ma universitaria. Bode progettò il museo Kaiser-Friedrich-Museum (1904 - oggi Bodemuseum) dedicato principalmente all’arte rinascimentale italiana. Qui l’esposizione era allestita per epoche in modo da ricreare l’atmosfera che aveva ispirato le opere più che ricrearne il contesto. Bode si ispirava a Burckhardt e aveva studiato un percorso espositivo che tenesse conto dei generi, delle funzioni e delle serie iconografiche (decorazioni degli altari, monumenti funebri e arredi liturgici). Bode attuò una politica spregiudicata di acquisizioni non solo in Italia ma anche sul suolo tedesco. Polemizzò aspramente con Morelli per la rivoluzione del mercato che mise in atto coinvolgendo ragioni politiche, strategie di mercato e questioni metodologiche. Morelli fece di tutto per minare l’autorità e la competenza di Bode e dei suoi cataloghi, insistendo sugli aspetti dell’attribuzione, dell’individuazione dell’originale e della metodologia di conoscitore. Infatti mentre Morelli optava per un metodo scientifico, Bode parlava di impressione d’insieme e di intuito nel giudizio critico. Nel 1880 nacque un’istituzione specifica per la diffusione dei dati della ricerca sulle collezioni. In questo contesto l’università si contrapponeva spesso in modo polemico a questa politica museale. Con le prime cattedre in storia dell’arte fu lampante che gli atenei non appartenessero a città in cui ci fosse un museo rilevante a livello internazionale (a parte Berlino). Dopo l’Holbeinstreit si comincia a discreditare il metodo filosofico-letterario (analisi formale e stilistica). Di conseguenza anche i grandi progetti editoriali non trovavano terreno fertile. Nel 1881 Anton Springer pubblica Conoscitori e storici dell’arte in cui rivendica la non sovrapponibilità dei 2 ruoli: se il conoscitore ha l’esercizio dell’occhio, lo storico dell’arte ha la scienza della disciplina. Entrambe però sono fondamentali perché l’uno raccoglie le opere, l’atro ne individua il contesto storico-culturale. Si passa da un’estetica hegeliana (connubio 37 forma-intuizione, oggetto-spirito) a un approccio storico-empirico (dell’esperienza) dell’arte del passato. Nel 1860 gli fu assegnata la cattedra di storia dell’arte medievale e moderna all’università di Bonn, segnando l’inserimento dell’arte nell’università. Anche in altre università gli furono assegnate cattedre nuove: è stato l’apripista per l’istituzionalizzazione della storia dell’arte come disciplina in Germania. Springer divenne famoso per le sue lezioni supportate da documenti fotografici e per i suoi seminari, tanto che molti studenti migrarono verso le università in cui insegnava. Springer è importante per i suoi scritti su argomenti molto vari, di cui la pittura carolingia (8°/9° sec) e ottoniana (9°/10° sec) si devono le basi. Il suo approccio metodologico era vario, sicuramente scientifico volto al superamento della critica estetico-letteraria. Ricercava una sintesi tra storia esterna dell’opera (contesto storico) e la storia interna, cioè il collegamento formale e iconografico tra opera e opera. Sono importanti i suoi studi sull’arte medievale per cui rivendicava dei modelli iconografici comuni all’epoca e bizzarri per la sua età contemporanea. Secondo lui esisteva un immaginario condiviso e ricco di riferimenti all’antichità di un’epoca che doveva essere ricostruito in modo filologico ed empirico più che teorico. A Lipsia (1871-3) fu probabilmente influenzato da Wilhem Wundt, suo collega universitario che aveva fondato la psicologia sperimentale, quella dei popoli o psicologia sociale. Questa inseriva l’individuo nella sua epoca e lo analizzava ne rapporto col linguaggio, l’arte, i costumi e i miti. Si intrecciava, quindi, alle scienze umane e a quelle naturali. Un classico di Springer fu il manuale per artisti, studenti e viaggiatori pubblicato nel 1855. Da allora venne sempre implementato fino a coprire anche il 19° secolo e redatto da più storici anche dopo la morte di Springer. In Italia fu pubblicato nel 1904. Jacob Burckhardt ne frattempo stava riflettendo sul rapporto tra l’arte, la cultura e la società. Nel suo studio sul Rinascimento si prefiggeva l’obiettivo di intrecciare la storia dell’arte con e degli artisti con lo sviluppo formale e stilistico, inserendo le opere in un contesto culturale che ne esaltasse la valenza sociale. Scrisse alcuni saggi pubblicati dopo la sua morte e centrati sul rapporto tra religione e arte, tra politica e arte e la figura del collezionista. Sempre individuava l’opera come risposta o soluzione ai problemi extrartistici come la politica e la religione. Per questo individuava una divisione morfologica e funzionale delle opere (pale d’altare, ritratti) in base al compito che dovevano avere nella società. Era necessaria, perciò, una corretta analisi del contesto storico e sociale dell’opera che, tuttavia, trascendeva la sua funzione perché dotata di bellezza e fantasia (piacere estetico = Genuss). Alla fine dell’800 in Germania si sviluppò il filone biografico, soprattutto legato al Rinascimento italiano. Erano compendi non solo artistici ma anche storico-culturali e sociali. Tra i maggiori esponenti di questo filone fu Carl Justi il quale rifondò il genere ponendo delle basi oggettive, scientifiche (anche se con qualche scivolone letterario). Henry Thode dedicò una biografia a San Francesco e all’influenza che ebbe su Giotto. Quest’ultimo era profondamente legato ai dettami del suo periodo e rappresentava l’inizio del Rinascimento Italiano segnato dall’inquietudine religiosa di fine 200. Scrisse anche di Michelangelo (1902) deviando, però, la sua critica verso il nazionalismo estremo che lo portò a dividere la cultura meridionale (ellenica) da quella nordica (cristiana). In questo contesto di fine secolo si comincia a rinnegare l’empirismo positivista che aveva sepolto la ricerca sotto documenti e fatti storici censurando l’aspetto estetico. Perciò si sviluppo un filone della critica simile a quello viennese basato sullo studio della forma con volontaria esclusione del contesto storico-sociale, passando dalla storia dell’arte alla scienza dell’arte. Sotto l’influenza delle teorie sulla percezione si spostava l’attenzione dal visto al percepito. Si cercava anche un pubblico più ampio, non solo di esperti, per la dissertazione 40 espressione di una cultura colta ed intellettuale. Infatti tra il 1898 e il 1922 pubblicò una grande trilogia sullo studio iconografico medievale francese e sulle fonti di ispirazione. In particolare il primo si inserisce nella separazione tra Stato e Chiesa in atto sancita da una legge del 1905 e il rinnovamento spirituale del mondo cattolico. Famosa è la frase d’apertura “Il Medioevo ebbe la passione per l’ordine” strutturato dai dogmi cattolici e contrapposto a chi voleva vedere nel periodo stesso un momento di rivolta. Le opere d’arte erano ‘scritture sacre’ che arrivavano fino ai più umili e le cattedrali erano ‘delle Bibbie per i più poveri’. Il suo approccio quasi filologico si focalizzava sui dettagli più che sulla grandezza delle opere architettoniche gotiche in favore di un sapere enciclopedico dell’uomo medievale. Il suo studio si basava sull’osservazione diretta in loco perché sosteneva che anche la collocazione dell’opera Medievale aveva un senso preciso, non collocata in un museo. Attraverso la lettura delle immagini leggeva la storia e la cultura del tempo, non solo a livello descrittivo ma anche aprendo all’aspetto delle emozioni e dei sentimenti di un’epoca. A Mâle, nonostante il caldo apprezzamento, veniva criticato l’aver sottovalutato l’influenza delle arti vicine, soprattutto quella italiana (questo perché era un nazionalista). Durante la prima guerra mondiale i tedeschi bombardarono la cattedrale di Reims, simbolo della Francia medievale e luogo dell’incoronazione dei re. Questo evento mise fine ai rapporti intellettuali di Mâle con i contemporanei tedeschi tanto da fargli scrivere un saggio comparativo tra le arti dei due stati per dimostrare la supremazia della Francia – la cattedrale fu bombardata per invidia. • Prima dello scoppio della guerra André Michel aveva iniziato un progetto ambizioso e collettivo di storia dell’arte dai tempi cretesi a quelli suoi contemporanei. Si occupava di vari argomenti come la storia in generale e la lingua, e il libro sull’arte richiese 25 anni per il completamento. Parteciparono molti intellettuali francesi (tra cui Mâle) e alcuni tedeschi a sorpresa che parlarono della storia dell’arte europea in generale, passando dalle catacombe alle arti applicate, alle macchine dei tempi moderni. Non voleva essere un repertorio o un trattato di estetica perché si incentrava sull’evoluzione delle forme e della vita dei monumenti per suggerire le problematiche e le soluzioni adottate, l’evoluzione delle credenze e dei sentimenti, i mutamenti delle forme e la loro elaborazione. Tutto per arrivare a una vera e propria storia dell’arte. 5.Unità d’Italia = 14/3/1861. Problema: come tutelare e amministrare il patrimonio artistico. Due fazioni: controllo centralizzato + controllo delocalizzato e più autonomo. I rischi erano alti dopo la soppressione del potere ecclesiastico, abolizione del fidecommesso (eredità) il vorace mercato internazionale. Già Cavalcaselle nel 63 si occupò del tema del riordino e dell’amministrazione del patrimonio artistico italiano e tra il 70 e il 75 cercò di fornire una progettazione per la gestione e la valorizzazione del patrimonio che voleva riordinare le gallerie e fare un censimento delle opere su scala nazionale. Lo stesso interesse lo ebbe Adolfo Venturi nel 1887 sostenendo il rinnovamento degli studi e della ricerca italiani. Infatti in questo periodo si cominciava a sentire la mancanza di figure professionali preparate e aggiornate. Tant’è che all’inizio del 900 non tardarono ad arrivare le prime leggi nazionali sulla tutela (legge Nasi 1902) e vennero istituite le soprintendenze (1907). Esistevano anche istituzioni di ricerca straniere in Italia che concedevano borse di studio e portavano menti straniere a ricercare nei nostri archivi e musei. Figure chiave della fine dell’800 sono sicuramente Morelli e Cavalcaselle i quali, nonostante le cariche statali (Cavalcaselle) pubblicavano le loro ricerche all’estero. Le loro ricerche erano soprattutto di stampo storico-archivistico. Venturi, invece, spostò l’attenzione dal documento all’opera d’arte senza, tuttavia, abbandonare il metodo storico. Sentì anche l’esigenza di una cattedra di storia dell’arte che venne istituita formalmente nel 1901 a Roma. 41 Fondò anche una Scuola di perfezionamento in storia dell’arte medievale e moderna che voleva formare i nuovi incaricati statali in vista dell’istituzione delle Sovrintendenze. Dagli insegnamenti i Venturi uscirono i maggiori storici dell’arte italiani del 900 e anche molte donne che divennero insegnanti a scuola poiché nel 32 la legge Gentile istituì l’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole, oltre a funzionari nella tutela, nella direzione museale e nelle università. Venturi ebbe il pregio di voler fondare una storia dell’arte nazionale intrecciando l’attività museale, quella universitaria e l’impegno politico per la tutela del patrimonio ad uno studio scientifico e indipendente. Le sue pubblicazioni furono innumerevoli soprattutto perché si avvalse delle riviste in particolare “l’Arte” che nel tempo fu un laboratorio di ricerca verso La storia dell’arte italiana. Quest’ultima venne pubblicata da Hoepli tra il 1901 e il 1940 in 11 volumi e partiva dalla storia paleocristiana al 500 (il 600 era rimasto incompiuto dopo la morte di Venturi). L’opera si presentava come una specie di catalogo di opere nazionali che procedeva in modo dettagliato tra stili, autori anche minori e scuole attraverso il confronto. La critica che si può fare è che nonostante il fine fosse nazionale, spesso Venturi si disperdeva in territori minori e attorno alle singole personalità artistiche. Se Venturi si dedicava studio del patrimonio italiano all’università (con l’aiuto dei suoi studenti che sguinzagliava con macchina fotografica alla mano), la parte amministrativa vede in Corrado Ricci l’esponente più significativo e attivo nella tutela e nelle istituzioni. Ricci, comunque, affiancò alla sua funzione di funzionario e organizzatore, anche quella di divulgatore grazie alle sue opere monografiche e sull’arte dell’Italia settentrionale tradotte in varie lingue. Le sue produzioni erano un mix di dati archivistici, ricostruzione dei contesti storici e analisi stilistica indirizzata al crescente pubblico interessato di arte e della sua storia. I primi concorsi del 1908-09 furono vinti da molti studenti di Venturi tra cui Federico Hermanin, studente alla scuola di perfezionamento. H. ebbe un rapporto conflittuale con Venturini soprattutto dopo la scoperta del Giudizio Universale di Pietro Cavallini a Santa Cecilia a Roma che segnò la loro rottura nel dibattito sulla centralità della scuola romana. Al contrario ebbe un buon rapporto con Ricci, soprattutto per quanto concerneva la politica degli acquisti che si concentrò sull’arte del 600 testimoniando il nuovo interesse per l’arte barocca. 6.Marzo 1903 – esce il primo numero del Burlington Magazine, rivista d’arte antica specializzata che andava a colmare il vuoto in questo settore. Strano perché comunque la Gran Bretagna era sempre stata meta degli amatori d’arte che visitavano le collezioni delle famiglie aristocratiche: Vero è anche che alla fine dell’800 erano state venduti capolavori a collezionisti e musei stranieri. La rivista si rivolgeva a veri appassionati d’arte più che ai mercanti e si promuoveva un approccio storico e scientifico svincolato dalla produzione artistica contemporanea. Inizialmente vi scrissero nomi eminenti (tra cui Von Bode) che contribuirono ad aggiornare la storiografia artistica britannica. Le discussioni sulle competenze, la gestione dei musei e la cura dei monumenti che appassionava il continente interessava la GB maggiormente rispetto all’aspetto accademico (solo nel 1869 furono attivati alcuni corsi di storia dell’arte a Oxford, Cambridge e Londra grazie al collezionista Felix Slade). Il continente ispirava invece i musei, soprattutto la National Gallery. Qui William Boxall successe a Eastlake dopo la sua morte nel 1865, continuandone la politica di acquisizioni dall’Italia (nonostante l’incremento dei prezzi dovuto al neonato Stato Italiano) e ampliandola verso l’Olanda. Negli anni 80 dell’800 ci fu una svolta. Gli aristocratici furono costretti a vendere le loro collezioni a causa della svalutazione dei terreni e alla diminuzione delle rendite. La National Gallery cercò di impedire la svendita al di fuori del paese (Germania e America) e mantenne 42 saldo il patrimonio britannico. Tuttavia anche negli anni successivi con Frederic Burton e sir Edward Poynter le ostilità del consiglio di amministrazione (Board of Trustees) della Gallery impedì le acquisizioni poiché molti membri erano aristocratici che volevano salvaguardare i loro interessi finanziari più che il prestigio del patrimonio. Durante questi scontri la GB sentiva l’esigenza di persone più competenti alla direzione della gallery che potessero tenere testa ai membri della Board. Il tutto precipitò quando uno di questi vendette The Mill di Rembrandt a un collezionista americano. Dalle pagine del Burligton Magazin si alzavano le voci indignate e Roger Fry scriveva Our Patrimonio Culturale, usando le parole italiane per sottolineare come nel nostro paese si era impedita l’esportazione di opere private perché comunque vincolate allo Stato. Si ricercava una personalità dall’esperienza e conoscenza critica più che un amministratore e la scelta cadde su Charles Holroyd (Fry dovette declinare perché impegnato a New York), artista incisore che fu anche l’ultimo direttore-artista. Gli studi storico-artisti cominciavano a spostarsi verso il 500 con le monografie di Crowe e Cavalcaselle. Si studiò anche la scultura rinascimentale. Il Rinascimento diventa l’argomento centrale degli scritti della fine dell’800 anche da parte di donne come la moglie di Eastlake, Elisabeth Rigby Eastlake ed Emilia Pattison Dilke (esperta anche di 700 francese) con approccio fililogico-scientifico. L’opera sul Rinascimento più complessa fu di John Addington Symonds pubblicata nel 1875- 86: Renaissance in Italy. Era in 7 volumi ed analizzava diverse tematiche, dalla cultura alla religione, dalla letteratura alle arti. Fu soprattutto il poeta Walter Pater a portare all’affermazione il Rinascimento. Infatti lo poneva sotto una luce positiva (a differenza di Ruskin) riunendo in modo spiritualistico ed estetizzante elementi eterogenei dell’arte e della cultura rinascimentale (Studies in the History of Renaissance – raccolta di saggi sui grandi protagonisti del Rinascimento e non solo). Ma la svolta negli studi sulla pittura rinascimentale più significativa la darà Bernard Berenson, americano che ne 1896 pubblicò a Londra Florentine Painters of the Renaissance. ORIETTA ROSSI PINELLI La disciplina si consolida e si specializza (1912-1945) 1.Gli americani giocano un ruolo di rilievo a inizio 900 per i loro investimenti nella cultura e arte in tutto il mondo, soprattutto musei, collezioni e università. In Germania nei musei e nelle università si stavano delineando due tipi di personalità: gli storici (visti negativamente) che partivano dall’astratto per arrivare al concreto; e gli esperti che nei musei facevano il percorso opposto senza mai incontrarsi. Si parla di ‘mania delle attribuzioni’ perché negli anni Trenta i conoscitori tendevano a stilare elenchi di opere attribuite ai vari artisti molto spesso in modo troppo generoso e avventato. Questo trend subì uno stop nella crisi dal 1929 al 31, in cui lo stallo del mercato d’arte mise in discussione la figura del conoscitore. Pertanto il mercato virò a favore delle opere del 1800 e 1900 perché più facilmente certificabili. Emilio Cecchi, studioso dell’800 italiano, parla diffusamente di ciò. Addirittura qualche conoscitore inventava i nomi degli artisti minori influenzati da quelli maggiori in senso poetico per mantenersi nei limiti del rischio dell’errore (es. il maestro del bambino vispo). Max Friedländer (fridlender) durante l’esilio i Olanda per il Nazismo scrive Il conoscitore d’arte. Fornisce le sue riflessioni sulla connoiseurship anche se non usa mai il lemma (parola) conoscitore. Anti morelliano, cercò di definire i metodi della concretezza attributiva, in cui l’occhio era sempre protagonista, assoluto e intuitivo. Il conoscitore possedeva un immenso archivio mnemonico e guardando un’opera si innescava il riconoscimento riconoscendo stile e composizione. L’archivio mnemonico doveva essere costruito 45 solo quella italiana e fiamminga. Introdusse lo studio dei collezionisti di grafica e fondò Old Master Drawing, rivista che accelerò gli studi filologici in UK e oltre diventando una delle più prestigiose. Hermann Voss, tedesco, era esperto di medioevo, rinascimento italiano e arte francese del 600 e 700. A lui si deve l’identificazione di una serie di opere di Georges de la Tour nel 14- 15 che raccolse in un catalogo e lo pose all’attenzione degli specialisti. Si occupò di attribuzioni e correzioni, collaborò con Longhi anche se non sempre in accordo. 2.Inizio 1900: pubblico nei musei/mostre ed editoria in forte crescita. Si sentiva la necessità di un intermediario e di strategie pubblicitarie per attirare il pubblico più o meno esperto. Roger Fry cambiò il gusto del suo tempo con i suoi scritti e fece innamorare dell’arte con le sue conferenze. Solo Ruskin prima di lui aveva inciso così tanto nella cultura inglese. L’amica Virginia Woolf gli dedicò una biografia esaltando il suo metodo: il quadro viene messo sotto una lente d’ingrandimento e Fry ne definisce gli aspetti, poi fa collegamenti con altre opere sparse per il mondo e di altri artisti e ne rivela (parola molto usata in questo periodo) il legame, giungendo, così, a una teoria. Fry lesse Morelli e si avvicinò molto a Berenson di cui apprezzava il metodo nella ricostruzione della paternità delle opere e l’analisi degli elementi formali che lo faceva giungere alla qualità dell’opera. La sua teoria era legata alla forma come principio qualitativo estetico che modella il contenuto (che diventa quasi accidentale). La grammatica e la sintassi delle forme si costruisce attraverso nuove in questo contesto: purezza, struttura, emozioni, astratto. Per Fry un artista puro era Piero della Francesca perché non aveva un vero contenuto drammatico, ossia nulla che potesse separarsi dalla sua forma. Le teorie sull’emozione erano già state esplorate in Germania alla fine dell’800 ma Fry aggiunge un aspetto empirico dell’esperienza. Non da sottovalutare riguardo al contenuto sono anche le avanguardie storiche che avevano per la prima volta infranto la sacralità del soggetto, le gerarchie dei generi pittorici e le strutture espressive legate alla creatività. Quindi gli storici cercavano di tradurre il fare e il vedere con parole inedite basate sull’empatia. Insieme a Clive Bell, Fry teorizzò la forma significante scaturita dalle emozioni provocate dalla mostra su Monet e i Post Impressionisti del 1910. La potenza di quelle immagini fece dire ai due critici inglesi che ogni manufatto capaci di evocare un’emozione condividesse una qualità (la forma significante) scaturita dalla relazione tra linee, strutture, colori e altre proprietà sensoriali. In questo senso le più opere disparate potevano essere accostate. Nel 1913 Fry organizzò una mostra con Cezanne, Van Gogh, Picasso, Gauguin, Seurat (pressoché sconosciui) che provocò molto disagio e fu tacciata di pornografia, nonostante le sue teorie sulla forma significante fossero state molto ben accolte. Per Fry questa reazione fu positiva perché il suo scopo era quello di dirottare il pubblico inglese verso una nuova sensibilità artistica. E lentamente ci riuscì, a suo di saggi e conferenze. La più importante iniziativa in questo contesto fu l’Omega Workshop (1913-19) in cui giovani artisti furono chiamati per produrre artigianalmente degli oggetti d’arredo che avrebbero modificato il gusto britannico con la loro modernità e i colori sgargianti. Questo passaggio dalla teoria alla pratica era già stato usato nelle Arts and Crafts del 1861. Fry lo riprende e quando deve chiudere il laboratorio per mancanza di fondi (post-bellico) pubblica il catalogo (1920) che ebbe molto successo. Questo mette in luce il collegamento tra la creatività degli antichi e quella dei giovani artisti contemporanei delle avanguardie. Insisteva sulle influenze di Paolo Uccello (1397-1475) sulle opere cubiste (inizio 900), oppure di Giotto (?-1337) su Cezanne (1839-1906). In particolare Fry scrisse un testo su Cezanne (1927) in quanto incarnava l’artista che aveva saputo cogliere la potenza costruttiva degli antichi attraverso una pluralità di riferimenti sia di genere che di periodo. Questo portò a una grande e apprezzata (dal 46 pubblico e dalla critica)esposizione su Cezanne nel 1939 (Fry muore nel 35) consolidando l’obiettivo pedagogico di Fry. Herbert Read, fortemente influenzato da Fry e Bell, scrisse The meaning of art (1931) che riscosse molto successo e anticipò i temi della teoria dello studioso. Read lavorò a lungo al Victoria and Albert Museum nel reparto ceramiche e insegnò all’Università di Edimburgo. Si interessò alle avanguardie europee e a Mondrian (olandese, quadri a quadrati e rettangoli colorati) e Henry Moore (scultore astratto, inglese). Collegò le teorie estetiche alla dimensione sociale superando l’antitesi forma-contenuto tipica degli anni tra le 2 guerre. Elaborò la Significant form di Bell e Clive definendo la sua Forma Relativa. Che saldava forma e contenuto. Distingueva tra forma estetica (valenza collettiva) e forma artistica (espressione dell’esperienza individuale e variabile) che erano rispettivamente due forme dell’essere e dell’agire dell’uomo. Non ebbe consenso unanime ma suscitò molto interesse. Il contenuto emozionale rendeva la forma estetica una forma artistica. Ispirato dalla teoria dell’empatia (o immedesimazione) di Worringer e dalla psicanalisi freudiana, era convinto del valore catartico dell’educazione attraverso l’esperienza artistica per superare le brutalità, le frustrazioni e le alienazioni. Anche Berenson aveva appoggiato le teorie formaliste sostenendo che la critica d’arte doveva guardare all’intensificazione di vita che deriva dall’identificarsi con un oggetto goduto o il mettersi al suo posto. Per far ciò l’oggetto deve far appello al nostro essere sia fisico che psicologico. L’arte poteva intensificare la vita solo con i valori tattili, simili alla forma significante, MA la f.s. alludeva a una qualità estetica interna alle opere MENTRE i v.t. venivano attivati proprio da quelle qualità. Sosteneva che la pittura fosse un’arte bidimensionale e che proprio al pittore e al suo vissuto spettava il compito di far vedere la terza dimensione all’osservatore, regalandogli la sensazione di poter toccare l’oggetto stimolando i suoi valori tattili. Giotto era l’artista per eccellenza perché aveva reso la realtà ancora più fisica della realtà stessa. Questo senso maggiorato della realtà provoca il piacere e il valore di un artista andava misurato nella sua capacità di coinvolgere quasi fisicamente lo spettatore nella propria opera. La comprensione degli aspetti pittorici poteva avvenire solo attraverso un’analisi cromatica e compositiva, oltre che stilistica. La teoria di Berenson prese molto piede tanto che nel 1908 Forster scrisse A room with a view in cui faceva provare a una delle protagoniste un senso di smarrimento quando entra nella chiesa di Santa Croce a Firenze e non ne riconosce la grandezza perché non possiede riferimenti storico-artistici nel comprendere i valori tattili. Questi vengono citati nuovamente quando Forster vuol spiegare perché si va in Italia: non per capirne i valori tattili giotteschi o la corruzione del papato, ma per conoscerne gli abitanti e i paesaggi. La sua velata ironia era perché era amico di Fry il quale era sempre vissuto all’ombra di Berenson. Tuttavia ci fa capire l’impronta che comunque B. aveva lasciato. Roberto Longhi, altro esponente della critica stilistica, vicino (ma non sempre concorde) a Berenson e dichiarato idealista crociano. L’influenza di Croce era supportata dal successo che il filosofo napoletano ebbe negli anni 10, in cui vennero pubblicate le sue opere sull’estetica in varie lingue. Longhi fu anche influenzato da Fiedler, Riegl e Wölfflin, dai formalisti e dai futuristi. Tendeva ad analizzare l’arte del passato (italiana e rinascimentale) attraverso chiavi moderne, come le linee, le coordinate spaziali e cromatiche. Inizialmente Longhi concepiva l’opera d’arte come pura forma, conclusa nella sua fisicità, dotata di potere espressivo ma non di narrazione letteraria che a farebbe scadere nella documentazione. Lionello Venturi, conoscitore per autodefinizione, coniuga Berenson e Croce. Come molti, lavorò prima in museo e poi passò all’insegnamento. Il suo approccio era filologico, estetico e teorico perché riteneva che la storia dell’arte fosse una disciplina seria e non improvvisata o materia da salotto. Pertanto la verifica delle fonti letterarie era fondamentale. A Berenson 47 doveva l’interesse verso la qualità e il distacco verso le attribuzioni. Recuperava la distinzione tra illustrazione e decorazione, dove la prima era riferita alle componenti psicologiche e drammatiche di un’opera, mentre la seconda era l’essenza dell’arte. Il suo fulcro di studio era il rapporto tra i pittori primitivi (Giotto, Botticelli) e gli artisti della seconda metà dell’800 e i primi del 900 (impressionisti – soprattutto Manet – macchiaioli, Cezanne, postimpressionisti), studio che aveva riconosciuto per primo Berenson. Parlava di libertà creativa nei confronti del vincolo della natura che aveva reso le loro opere poesia, umanità e vita. Alla fine degli anni 20 scoprì Modigliani che rappresentava una straordinaria sintesi tra il linearismo decorativo dei primitivi senesi e il filtro cezanniano. Nel 1926 pubblicò Il gusto dei primitivi in cui metteva a fuoco il concetto di gusto, inteso come le preferenze di un artista o un gruppo aveva rispetto alla cultura visiva del proprio tempo. Era il gusto a legare un artista alla propria epoca. Da Croce fece suo il pensiero che storia della critica e storia dell’arte fossero indissolubilmente legate. Lamentava che non ci fosse più il valore del giudizio, tant’è che sembrava che al suo tempo tutte le opere avessero diritto all’ammirazione solo perché avevano un valore storico. Non tollerava che le opere di valore reale fossero accostate a quelle di mestieranti. Inoltre, come Croce, non accettava il nazionalismo e l’autarchia (autosufficienza di una Nazione) culturale così diffusi a inizio 900. Stessa cosa per la totale autonomia del linguaggio visivo, che non poteva essere ridotto a un mero esercizio estetico da ricercare nelle tecniche pittoriche che caratterizzavano la pittura e non la poesia, ad esempio. Da Wölfflin Venturi riprese la teoria degli schemi della visione, non considerandoli, però, come categorie estetiche MA come mezzi per orientarsi nella vasta produzione pittorica, classificazioni provvisorie. Erano un inizio per la critica artistica. In questo senso Venturi confessa il suo interesse per il metodo purovisibilista di Fiedler e Hildebrand. In un’epoca in cui il trend critico prediligeva la linea, la forma, l’uso del colore, Venturi sosteneva che quegli elementi erano solo il mezzo dell’artista scelto per esprimere la sua estasi, che dona vita e forma perfetta all’opera. Tra i suoi detrattori ci fu Cecchi che interpretò l’estasi venturiana come una regressione verso il misticismo. Venturi fu un antifascista radicale, perciò esiliato volontariamente in Francia e in America. Qui nel 1936 pubblicò la sintesi de suo lavoro: History of Art Criticism. Qui la sua storia viene epurata da quelle teorie critiche che non avvaloravano le sue. Inoltre Venturi era un militante dell’arte a lui contemporanea e si inseriva in un più ampio contesto di stampo ancora classicistico. Ma a New York e sulla costa orientale il clima culturale era centamente più progressista. Si pensi all’imponente esposizione newyorkese del 13 (Armory Show) in cui si aprì la strada alla più intensa sperimentazione d’avanguardia. Del resto il collezionismo americano da parte di famiglie facoltose era famoso ed aveva aperto la strada al MOMA. Nacque come museo per le collezioni permanenti ma anche temporanee dedicato a numerose tipologie d’oggetti (tra cui anche le pellicole cinematografiche). La prima mostra fu nel 29 con Cezanne, Van Gogh, Seraut e Gauguin, cioè i padri del modernismo. Gli allestimenti seguivano le tendenze più innovative: sale chiare e ben illuminate, quadri su un unico registro e distanziati, cornici semplici. Questo perché l’idea era una fruizione decontestualizzata e nella essenzialità formale. Il primo direttore fu Alfred Barr, laureato a Harvard, seguace dell’orientamento formalistico della sua Università, esperto osservatore dal vivo di opere che venivano memorizzate ed esaminate anche in base al loro inserimento museale. La sua analisi era incentrata sul colore e la composizione, sulle caratteristiche materiali dell’opera = metodo Fogg, da Fogg Museum (museo di Harvard, Cambridge, Massachussets) le lezioni di storia dell’arte si tenevano in 50 Questo interesse per la storia e il rinnovamento dei suoi studi rimase anche nei primi decenni del 900 in Europa, con l’insofferenza per una storia solamente politica e diplomatica e l’avvento di nuove discipline come la sociologia, l’antropologia, la filologia eccetera. Nel 1929 in Francia esce il periodico di Lucien Febvre e Marc Bloch Annali di storia economica e sociale (Les Annales), fondamentale per lo sviluppo culturale del 900 e che si inoltrava, attraverso la forte critica delle fonti, in territori inesplorati dalle precedenti ricerche storiche. Anche in America la rivista The new history di Robinson, docente della Columbia University, aprì le porte alle nuove discipline per spiegare i flussi migratori che stavano modificando gli Stati Uniti. In questo contesto anche l’arte si adeguò. In Francia fu soprattutto Mâle ad essere un punto di riferimento per questi nuovi studi. Nel 22 pubblica un testo sull’arte religiosa del 13° secolo in Francia in cui pone l’accento sul profondo pensiero religioso degli artisti. Le cattedrali erano il cuore del Medioevo, la più alta espressione artistica e le opere andavano analizzate proprio nella collocazione che avevano in esse (non nei musei). Mâle si interessò anche di arte religiosa europea a cavallo del 500 e 600 mettendo in luce un linguaggio figurativo basato sulla gerarchia ecclesiastica, la fede e la liturgia. Dal punto di vista sociale, invece, è rilevante il testo dell’olandese Huizinga che nel 1919 cercò di porre il Tardo Medioevo sotto nuova luce. Partendo dal suo interesse per i dipinti di Van Eyck, voleva comprendere maggiormente lo spirito di questo periodo di cambiamento che non vedeva come una rottura che aveva originato il Rinascimento, bensì come un’evoluzione lenta e lunga dei modelli culturali e dei sentimenti (che per lui erano malinconici). Dall’altra parte si sviluppò un filone storico basato sulla geografia e la cronologia, fedele ai documenti. Esponente di spicco fu Georg Gronau il quale generalmente scriveva brevi saggi su riviste specializzate usando un linguaggio essenziale per convalidare la paternità di un’opera in base a un’attenta analisi dei documenti d’archivio e delle fonti. Tra il significato culturale di un’espressione artistica e l’ancoraggio ai fatti esistevano anche tante altre forme di ricerca. Tra tutti Pietro Toesca, il quale lavorava sulla ricostruzione storica attraverso il riconoscimento stilistico e la ricerca iconografica, per poi inserirli in un contesto. Così scopriva la natura intima, il carattere e le qualità estetiche di un’opera. Quindi per lui la percezione estetica non poteva essere separata dalla ricostruzione storica (come Croce). Sosteneva, a differenza di Croce, che non si dovesse fare i paragoni con le forme d’arte predilette, bensì riconoscere il variare dell’arte e dei suoi intenti estetici. Da qui l’esigenza di uno studio iconografico approfondito, che tuttavia egli ritiene ancora non ben gestito, stranamente visto che conosceva bene Mâle e Warburg. Ne parla nella sua opera più famosa, Il Medioevo pubblicata in dispense dal 1913 al 24 e poi in unico volume nel 27. Lo suddivide in 3 fasi cronologiche e ne dimostra la coerenza culturale. Rifiutava il concetto di decadenza stilistica già introdotto da Riegl e parlava di continua trasformazione. Sottostimava le invasioni barbariche e dava un peso rilevante al cristianesimo in questo processo. I tipi di arte che distingue sono: 1. quella delle catacombe, prima arte in Italia (non italiana), un’arte collettiva in cui il singolo si perde nel gruppo e i cui mutamenti sono lentissimi 2. quella tra il 9° e il 10° secolo, non ancora italiana e molto frammentaria. 3. Quella tra l’anno 100 e il 1200, finalmente italiana perché riconoscibile da alcuni elementi. Molto legata al passato, si preparava però all’era del rinnovamento (il 300 e le sue forti personalità artistiche a cui dedica un volume a parte). Nel 1912 pubblica un’altra opera di rilievo: La pittura e la miniatura nella Lombardia. Il testo era avvalorato dall’interesse internazionale che quel tipo di arte aveva ricevuto da parte di Courajod e Schlosser che avevano già parlato dei rapporti tra i Visconti e i Valois di Francia. Nel 1904 c’era stata l’Expo a Parigi sui primitivi che aveva risvegliato gli interessi 51 per gli scambi tra questi due paesi tra il 300 e il 400. L’opera è importante perché per la prima volta si parla di un’arte che né Courajod né Schlosser avevano ben riconosciuto. Toesca analizza un linguaggio pittorico che si estese per 10 secoli in Lombardia ma non isolò le testimonianze, le mise a confronto per trovare similitudini e differenze, spesso anche con opere di altre aree. Così individuò gli elementi che portarono alla continuità e al mutamento. Tra il 1913 e il 1923 Francesco Malaguzzi Valeri pubblica un altro testo sull’arte lombarda alla corte di Ludovico il Moro. Nonostante la cura nella ricostruzione culturale e l’apprezzamento dei più, fu criticato per la scelta metodologica, una malinconica documentazione dei fatti che avevano accompagnato le opere. Nella sua esperienza emiliana, Malaguzzi Valeri portò alla riscoperta di artisti del 6/700 un po’ dimenticati come Crespi, Creti, Bibiena e Gandolfi. Nel 1924 curò il riallestimento della Pinacoteca di Bologna portando particolare attenzione al pubblico e al territorio, arredando con dipinti, mobili e suppellettili dello stesso periodo per evocare l’atmosfera delle antiche residenze (modello assodato e superato di organizzazione museale). Era un allestimento per un pubblico poco erudito in fatto di arte che si differenziava da quello dei musei formalisti che, invece, amava l’isolamento dell’opera per poterne godere pienamente. Bologna si inseriva in un ampio contesto di nazionalizzazione e valorizzazione del territorio, gestito in modo centralizzato dallo stato i cui funzionari venivano formati da Venturi all’Università di Roma. Questo progetto in Umbria fu portato avanti da Umberto Gnoli che nel 1923 dedicò un testo sulla sua arte tra il 14° e il 15° secolo. Opera prettamente documentale, senza giudizio ma piena di notizie recuperate dagli archivi locali. Tra una peste e l’altra, l’arte risentiva molto dell’aspetto devozionale rinsaldando il legame tra arte e sentimento religioso. Di tutt’altra idea era Jacques Mesnil, medico e storico dell’arte operante in Germania che mette in discussione la storiografia tedesca, la migliore in campo documentale e archivistico, priva di interpretazione. Contestava anche il concetto di ‘scienza dell’arte’. Per lui l’unico modo di fare critica d’arte era essere libero di interpretare e giudicare attraverso i legami tra le varie opere. Su questa scia si inserisce Max Dvorák, legato agli ambienti viennesi. Sentiva l’esigenza di nuovi strumenti di ricerca e sottolineava la crisi della storiografia positivista. Era ottimo conoscitore e si era formato con Wickhoff e Riegl. Di quest’ultimo sottoscriveva il rifiuto di valutare certe epoche migliori di altre e svincolava il giudizio di un’opera dal suo valore. Era stato influenzato da quelle teorie filosofico-psicologiche secondo cui lo spirito e le strutture storico-temporali erano strettamente legate nella vita, quindi da un particolare si poteva cogliere l’universale. Dvorák usa queste teorie per analizzare minuziosamente l’opera nei suoi aspetti formali per coglierne la visione del mondo in essa contenuta. Questo era evidente già dall’opera giovanile che scrisse sui fratelli Van Eyck: la verità naturale espressa dai pittori si coniugava con lo sviluppo economico delle Fiandre nel primo 400, ma Dvorák non ne fece una critica a sfondo sociale. A lui interessava la storia delle idee, nel senso che l’aspetto stilistico formale doveva essere inserito in un contesto religioso-culturale perché l’arte no era solo una visione formale, ma del mondo stesso. Tra il 1915 e il 17 pubblica il suo studio sul Medioevo, nato dall’insoddisfazione della critica a lui contemporanea. Contestava gli impulsi ideologici che sottendevano i giudizi, come la circoscrizione geografica dello stile gotico alla cultura nordica. Per lui comprendere l Medioevo voleva dire liberarsi di tutti i paradigmi classici e rinascimentali che erano estranei al periodo in oggetto. Per questo rilesse la letteratura dei grandi pensatori del 12°, 13° e 14° secolo e rivendicò l’importanza del Medioevo come qualsiasi altro periodo storico-artistico. Rifiutava anche il concetto di collettività spesso legato ad esso sostenendo che già dal 12° secolo si era afermata nello spiritualismo cristiano il concetto di personalità. Poi grazie a Giotto si erano affermati anche il naturalismo e l’idealismo gotico. Aveva messo in luce uni 52 ‘stile ideale eroico’ derivato dalla padronanza della raffigurazione dello spazio e dalla costruzione di azioni drammatiche. Grazie a Dvorák si rivaluta anche il Manierismo (16°-inizio 17° secolo), spesso negletto o giudicato negativamente (in particolare ammirava El Greco). Sempre in ambito viennese, Schlosser lasciò il segno con la sua storia della letteratura artistica particolarmente ampia e dettagliata (La letteratura artistica, dal 1914 al 20 in fascicoli e dal 24 in un testo unico). Infatti mutò il concetto di ‘fonte’, prestando attenzione non solo alle informazioni scritte nei testi ma anche alle implicazioni teoriche ed estetiche implicite nei documenti storici dall’antichità a tutto il 700. Altra questione che dibatté fu il dilemma sulla successione dei processi culturali per consequenzialità o per frattura. Con un saggio sul Medioevo del 23 voleva dimostrare come questo stile si fosse dissolto in favore di un nuovo linguaggio. Fornì un’attenta analisi dei pittori italiani del Settentrione nella fase in cui cominciavano a inserire il mondo reale nelle loro composizioni monumentali, suggerendo una convergenza tra l’arte rinascimentale italiana (soprattutto lombarda) e quella fiamminga (ma non venne compreso). Stranamente non vengono citati il libro di Toesca del 12 e quello di Huizinga del 19, difficilmente sconosciuti ai ricercatori del campo. L’ambiente viennese era molto legato a quello amburghese, soprattutto grazie a Fritz Saxl, assistente di Warburg. Da subito aveva sentito l’esigenza di andare oltre lo stile e di indagare le connessioni tra arti e culture coeve, attraverso anche e discipline complementari. Grazie alla ricchezza di testi in svariate discipline della Biblioteca di Warburg, Amburgo attirò facilmente giovani studiosi viennesi. Inoltre nel 20 venne fondata l’università in cui vennero chiamati ad insegnare nomi prestigiosi come Panofsky e Cassirer. Quest’ultime aveva introdotto lo studio alle forme simboliche, cioè quelle rappresentazioni mentali che collegavano un contenuto spirituale a un concreto segno sensibile. L’asse Vienna-Amburgo-Londra, invece, si deve a Otto Kurtz, allievo di Schlosser. Scrisse un testo singolare sulla psicologia dell’artista (1934) che, deviando da quella consueta e popolare, gli conferiva genialità. Warburg aveva parlato di psicologia dell’espressione umana, riferendosi alla sua raccolta bibliografica come stimolo della memoria e al suo metodo indagativo che non temeva l’accostamento di antico e moderno, senza confini e che potesse spiegare lo sviluppo generale umano. Per questo parlò di iconografia (= studio degli elementi grafici e compositivi) MA ANCHE di iconologia (= studio dei cambiamenti ideologici e culturali), quando i termini non erano ancora ben distinti. Dal 18 al 24 soffrì di disturbi psichici. SCUOLA DI AMBURGO - Le idee di W. dei primi anni 10 anticiparono gli anni 30, quando si formò una vera e propria cultura warburghiana. Secondo questa scuola di pensiero si doveva ovviamente partire dall’immagine per poi scavare nei contesti, nella letteratura coeva, nella filosofia, nella simbologia e nelle allegorie. Infatti le forme erano portatrici di significato. Con la ragione ci si voleva spingere oltre la ragione stessa (teorie psicanalitiche), con la razionalità si voleva indagare il mistico, il magico, il primitivo. Questa fascinazione in Warburg era insorta alla fine dell’800 in seguito a un viaggio in Messico in cui entrò in contatto con la ritualità locale. Da qui partì la sua riflessione psicologica, secondo cui le immagini e i gesti erano simboli si un’idea più profonda. L’ultima sua opera rimasta incompiuta è Mnemosyne, un atlante illustrato che doveva spiegare la storia dell’espressione visiva della cultura mediterranea. Nasceva dall’abitudine di Warburg di mettere il materiale che stava studiando su dei telai portatili che facilitavano il movimento e il raffronto. Ciò serviva a fare collegamenti sempre nuovi in un processo simile alla creazione artistica. Nel 29 muore ma la sua influenza permette ad altri studiosi di portare avanti il suo percorso critico, soprattutto nel caaso di Saxl e Panofsky: il primo si concentrò sul rilevamento delle immagini come manifestazione significative delle idee, mentre il secondo, invece, cercava 55 dall’alluvione a Firenze nel 66. La tradizione della conservazione era ben radicata in Europa, meno in America, ci volle la guerra per far avvicinare gli storici a questo ambito. Il restauro venne visto da alcuni come un momento di redenzione, dove si potevano scoprire o riscoprire settori artistici negletti o sottovalutati in passato. Irving Lavin in particolare portò all’attenzione l’atteggiamento con cui gli americani si rivolsero al restauro e notò che questo avveniva su due piani: uno formale e uno intellettuale. Lavin si era formato con Friedländer a NY ed aveva poi preso il posto di Panofsky a Princeton. Grazie a F. Lavin (e i suoi allievi) si interessò di Manierismo (fini 500-inizio 600), considerato come un’espressione del malessere delle generazioni di artisti per la crisi culturale e politica che vivevano, in cui si riconoscevano anche i giovani del 900. F. aveva iniziato a studiare il Manierismo negli anni 20 e già aveva capito che il movimento artistico non fosse una degenerazione stilistica, bensì una reazione alla clama e compostezza rinascimentale (basti pensare all’uso dello spazio, ritmico e vorticoso, quasi irreale). Tra il 1590 e il 600 poi aveva individuato una modificazione dello stile che aveva cominciato ad allontanarsi dalla maniera per rivolgersi a modelli più classici e a una maggiore oggettività. I suoi saggi vennero raccolti nell’opera Mannerism and Anti-Mannerism in Italian Painting, più volte ristampato e libro di riferimento per lungo tempo. Negli anni F. aveva maturato una forte attenzione al linguaggio, probabilmente per l’influenza di de Saussure (linguista e semiologo) frequentato a Ginevra. Ciò lo portò ad un equilibrio nell’analisi degli aspetti formali e di quelli contestuali, liberandosi in modo discreto da quei modelli che riteneva desueti. Affrontò soggetti che innescarono nuove prospettive critiche, soprattutto in riferimento a Caravaggio in cui intravide una dimensione di inquietudine religiosa. Emil Kaufmann (viennese, emigrato in America, studia con Schlosser e Dvorák) si dedicò all’architettura, soprattutto quella di fine 700 francese perché poco studiata. Il suo lavoro (e la sua importanza) si concentra sulla tridimensionalità della disciplina, l’uso degli spazi, atteggiamento tipico americano ma non europeo che ragionavano sempre sulla bidimensionalità, ananlizzavano l’architettura come fosse una scultura. Operativo negli anni 50, K. scrisse un testo sui 3 grandi architetti francesi Ledoux, Boullée e Lequeu per poi concentrarsi sul Barocco e il post Barocco in America, Italia e Francia. Qui capì che si doveva parlare di momenti di transizione più che di rottura e che si dovevano analizzare tutti i momenti della storia del gusto e della cultura senza curarsi troppo della direzione che avrebbero preso, senza trascurare il contesto politico e sociale. Richard Krautheimer, medievalista tedesco, aveva dato un contributo ulteriore nella direzione di Kaufmann. In relazione alle sinagoghe medievali aveva puntualizzato come esse non solo fossero una forma ma soprattutto un luogo destinato alla riunione di molte persone per riti specifici o manifestazioni culturali. Ciò rendeva l’architettura una disciplina da inserirsi in una visione storica complessiva. Già agli inizi degli anni 40 emerge il suo pragmatismo analitico volto a non lasciarsi trascinare da interpretazioni che ricercano una simbologia obbligata negli edifici. Successivamente si lasciò affascinare dai fenomeni di lunga durata soprattutto nelle forme cicliche e ai significati che assumevano. Quando si trasferì in America nel 35 fu profondamente influenzato. Iniziò un corso di storia dell’arte in Kentucky dove non esisteva e conoscevano pochissimo l’Europa. Qui uscì nuovamente il suo pragmatismo perché doveva far lezione in una lingua non sua (l’inglese – rivalutazione sintattica) e a persone inesperte, perciò era essenziale chiarezza ed esaustività per definire gli ambienti storici e culturali di riferimento. Insisteva già sulle motivazioni che avevano spinto alla costruzione degli edifici, che generalmente erano religiose. Early Christian and Bizantine architecture del 65 racchiudeva tutto il suo pensiero sull’arte cristiana da Costantino alla caduta di Costantinopoli (1453). Gli edifici erano collocati nel contesto storico per identificarne la funzione, la spazialità, la luminosità e le tecniche. Inoltre il suo studio non 56 voleva essere un preludio all’architettura medievale ma un’ultima fase dell’arte tardo antica, e che non era prettamente occidentale ma si estendeva anche nelle zone mediterranee orientali e sulle regioni costiere del mondo tardo romano. K. si allontana dall’architettura solo per scrivere la monografia di Ghiberti, un artista che aveva attraversato due fasi culturali distinte trasformandosi da artigiano gotico ad artista dell’umanesimo fiorentino. Gli studi su Medioevo in Europa e in America erano molto in voga. Un altro studioso a fornire una teoria interessante fu Arthur Kingsley Porter (Harvard) il quale sosteneva che l’arte e l’architettura non aveva confini nazionali, come la poesia. In particolare aveva notato che l’arte si era diffusa seguendo le vie dei pellegrini lungo il cammino di Santiago de Compostela. Altro esponente di questi studi era Meyer Schapiro (Columbia University), immigrato dalla Lituania in età prescolare. Marxista non per scelta probabilmente visto il dilagante fascismo scrisse diversi saggi sull’arte gotica (conoscendo bene lo yiddish riusciva a capire bene molti testi tedeschi) puntualizzando ne Lo stile del 53 che l’arte andava sì messa in relazione col contesto culturale e sociale MA occorreva cautela e ricerca sistematica per poter verificare. Non cercava un metodo migliore degli altri; voleva affermare la relazione inscindibile tra stile e significato in un’opera ricercando strumenti concreti che dessero una risposta alle domande che le opere stesse ponevano. Un’opera era il frutto della creatività libera di un artista e della sua reazione psicologica a un contesto sociale, per questo forma e contenuto potevano diffondere aspetti culturali e radicalizzarli. Già dalla sua tesi di dottorato del 31 si dichiarava aperto all’incontro di più discipline. Subì l’influenza dell’empirismo britannico da cui si discostò mettendo in discussione che gli stili fossero sempre in corsa per superare i precedenti e criticando l’esercizio dell’attribuzione che risultava in mera classificazione. Per lui lo storico doveva cogliere i valori strutturali ed espressivi delle opere di qualsiasi periodo. Criticò aspramente anche il formalismo spiritualista (Fry, Bell, Barr) che veniva accusato di astrattismo, di riduttività metodologica e di mancata verificabilità delle conclusioni. Shapiro si occupò anche di arte contemporanea di fine 800 ma a modo suo: riconosceva l’arbitrarietà delle interpretazioni della critica e, quindi, invocava degli strumenti adeguati e la correttezza nel loro uso. Innescò nel 35 una celebre polemica con Marin Heidegger, il filosofo, accusandolo di usare degli strumenti di pura fantasia. Il dipinto di partenza era le scarpe contadine di Van Gogh, grosse e consunte che secondo H. comunicavano delle verità sul protagonista che le doveva calzare, soprattutto nell’ambito dei sentimenti. A tutto ciò Shapiro contrappose argomentazioni concrete e documentate rivendicando la necessità di riportare l’opera nel proprio contesto. Questa polemica ne innesco un’altra nel 1977 con protagonista Jacques Deridda il quale provocò Shapiro sostenendo che l’interpretazione romanzata di Heidegger era inadeguata quanto la sua poiché le parole sono inadatte a raccontare le immagini e il discorso estetico non riesce a tenere separati aspetti estrinseci ed intrinseci dell’opera d’arte. 2.Otto Pächt arriva a Londra da Vienna nel 36. Insieme a Hans Sedlmayr (storico dell’architettura) aveva annunciato l’esistenza di una seconda scuola viennese. Sostenevano un ritorno a Riegl perché preoccupati per il crescente riferimento ad elementi esterni all’opera per giustificare il mutamento degli stili. Loro volevano riaffermare l’autonomia dei linguaggi e del succedersi degli stili. Pächt si era avvicinato subito al Warburg Institute a Londra ed era stato influenzato da Schlosser e Dvorák, soprattutto nella sua critica della pittura nordica (rivendicava che il paesaggio moderno fosse prerogativa italiana e non nordica) e lo studio di Panofsky che aveva dimenticato l’occhio in favore della fonte letteraria. L’apporto principale che diede alla 57 critica inglese fu la pubblicazione di 3 volumi (66, 70, 73) dedicati all’arte miniata medievale con relative influenze europee. Il Warburgh Institute, trasferitosi a Londra, si confermava come punto di riferimento per gli studiosi in ambito internazionale e confermava la sua missione storica: studi umanistici, interdisciplinarità della ricerca, trasmissione dell’antico, iconografia e studio dei significati simbolici. Rispetto all’America, questi studiosi rifugiati non trovarono un contesto di storici dell’arte a cui fare riferimento, bensì dei curatori di musei e dei liberi professionisti. Non c’era nemmeno una cattedra di storia dell’arte, solo cicli di lezioni (Slade Professor = dell’accademia delle belle arti fondata da Felix Slade nella seconda metà de’800, normalmente artisti che facevano lezioni). Nel 1932 Samuel Courtauld che si unì alla biblioteca di Warburg fu un’inversione di tendenza che attirò eccellenti storici dell’arte favorendo la creazione della disciplina storico artistica anche nelle università anglosassoni. La prima cattedra fu assegnata solo negli anni 50, però, a Edgar Wind, studioso di spicco della Biblioteca. Edgar Wind fu chiamato a Oxford nel 54 (nel 55 la cattedra ufficiale) dopo aver insegnato a NY e a Chicago, rappresenta il collegamento culturale tra Gran Bretagna e Stati Uniti dei gruppi di esuli. Il suo interesse si rivolgeva alla natura e al significato dei simboli delle rappresentazioni artistiche soprattutto rinascimentali. La summa delle sue ricerche è racchiusa in Pagan Mysteries del 58. Sosteneva che gli artisti del 15° e 16° secolo fossero stati fortemente influenzati dal pensiero platonico e dai miti pagani. Ne parlò soprattutto riguardo 3 dipinti conservati alla National Gallery: 1. Venere e Marte di Botticelli (1482-3) 2. La Madonna del prato di Giovanni Bellini (1505 c.) 3. Sogno del cavaliere (o di Scipione) di Raffaello (1503-4) I simboli servivano a svelare le immagini e la cultura dei pittori era più incisiva se si eliminavano in modo filologico gli ostacoli della comprensione. Wind si occupò anche di storia della cultura in senso generale, ponendo all’attenzione quella del 700 soprattutto inglese, così spesso screditata. Anche la modernità lo interessava ma non riponeva totale fede nel progresso perché preferiva porre le opere nel loro contesto (negli anni 50 Malraux aveva dato vita a un museo immaginario senza pareti dove ogni tipo di opera, dalla più piccola alla più grande, poteva assumere con la tecnica a guazzo (simile all’acquerello ma più pigmento, quindi asciuga prima) lo stesso valore purché stampata. Rudolf Wittkower: anche lui insegna sia a Londra, prima, sia negli USA, dopo. Come studioso si aprì all’interdisciplinarità dopo aver conosciuto Warburg a Roma e studiò i simboli alla luce dell’antropologia e dell’etnologia. Era interessato alla ricostruzione dei percorsi che avevano portato alla trasformazione, all’adattamento e alla diversificazione dei simboli nell’incontro con contesti differenti. Le sue analisi procedevano dagli aspetti stilistici, alla cronologia, alle fonti, alle testimonianze d’uso, alle ritualità di cui erano oggetto fino alle vicende socio-culturali del tempo. Ricorreva alle fonti letterarie, filosofiche, teologiche, i trattati e ai saperi tradizionali della cultura umanistica per individuare le relazioni tra l’architettura calcolata di un edificio e la ricerca dell’artista che vuole riprodurre l’ordine dell’universo. Art and Architecture in Italy 1600-1750 è il suo libro più ristampato perché fa chiarezza sul periodo indicato nel titolo. Ricostruiva le molteplici presenze sui singoli territori, le tendenze diverse, i contatti tra artisti e i rapporti con istituzioni civili e religiose, oltre che i committenti. Ernst Gombrich, arrivato da Vienna e autorità indiscussa tra gli storici dell’arte. Avendo frequentato Freud e Schlosser, i cardini del suo pensiero erano la ricezione, la visione e la psicologia dell’arte. Rifiutava i paradigmi hegeliani come ‘lo spirito del tempo’. Sosteneva 60 Molto apprezzato fu anche Art and Architecture in France 1500-1700 (1953) pubblicato nella collana dei Penguin: si apriva con un quadro di riferimenti politici e culturali. Tra il 47 e il 51 uscirono 3 libri che iniziarono la storia sociale dell’arte con taglio marxista: 1. Art and the industrial revolution di Klingender (inglese) 2. Florentine Painting and social background di Antal (ungherese) 3. The social history of art di Hauser (ungherese) Le opere furono pubblicate per pura coincidenza anche se gli autori avevano dei tratti comuni nel loro percorso formativo. Quello sicuramente più interessante che non godette però di un immediato successo fu quello di Francis Donald Klingender. Nonostante il tema curioso mai studiato prima, gli effetti della rivoluzione industriale sull’arte della Gran Bretagna, fu pioniere di un metodo innovativo che assumeva i documenti artistiche come opere prime della rivoluzione, delle macchine e dei manufatti. Gli artisti non erano delle figure intermedie che registravano i fenomeni che stavano vivendo ma erano protagonisti delle mutazioni a cui loro stessi contribuivano con i loro strumenti e i loro punti di vista proprio come gli inventori, i filosofi o gli economisti. Attivò anche un degerarchizzazione dei generi artistici (primato della pittura, attenzione solo per i grandi maestri…) e collocò sullo stesso piano pittori, ingegneri civili, architetti, ceramisti ecc. Frederick Antal legato al Warburg e marxista, sosteneva gli studi sul contenuto (che si preferiva chiamare soggetto) e non le ricerche formali. Questo grazie a Riegl, Dvorák e Warburg. Apprezzava che W. avesse preso in considerazione non solo opere maggiori ma anche minori e che avesse tolto l’opera d’arte dall’isolamento dei criteri estetici e formali. D., invece, affrontava la storia dell’arte come facente parte della storia delle idee. Wind e Saxl, infine, avevano aperto la strada a una storia dell’arte che guardava alla storia sociale, economica, politica, religiosa alle diverse mentalità e modelli di società. L’opera di Antal del 48 fu molto criticata da Gombrich perché riteneva che avesse dato troppo peso ai committenti. Tuttavia apprezzava l’accurata ricostruzione storica e storiografica in cui i mutamenti stilistici e iconografici avvenivano nel contesto della dinamica sociale. Gli unici che apprezzarono il testo del 51 furono gli studiosi della scuola di Francoforte perché lo considerarono un testo di rottura con la prassi culturale diffusa. Anche il pubblicò lo accolse con entusiasmo per la chiarezza di comprensione e le soluzioni mirate dei problemi in esame. Arnold Hauser ebbe una risonanza internazionale con la sua opera ma non creò una tradizione di studi. La sua storia dell’arte era molto vasta e con continui riferimenti ad altre discipline, come letteratura e cinema, chiara, semplice e definitiva. Più rilevante fu Le teorie dell’arte. Tendenze e metodi della critica moderna (58) scritto dopo la sua esperienza di docente a Leeds. Esaminando la metodologia della critica d’arte sottolineava l’importanza dell’approccio sociologico, la cultura di massa e popolare, la psicanalisi. Herbert Read, inglese, economista di formazione, divenne curatore del dipartimento di ceramica al V&A Museum. Era un socialista anarchico. Si impose con Education through art del 43, una celebrazione della creatività innata dell’essere umano (soprattutto nell’infanzia quando non c’è contaminazione dei modelli egemoni) che gli ha permesso l’adattamento all’ambiente. L’attività estetica era al centro di ogni forma di sviluppo sia singola che collettiva, era il solo principio valido di ogni azione pedagogica. Pertanto auspicava che i giovani entrassero in contatto con l’arte non in modo teorico ma in modo attivo, facendo. Questa proposta ebbe molto successo perché arrivava dopo un periodo di guerre e di utopie. Il risultato fu che in molti musei si attivarono laboratori pratici per bambini sollecitati dalla visione delle opere contemporanee. 3.In Italia nel dopoguerra gli intellettuali percepivano il loro ruolo come una chiamata personale alla ricostruzione materiale, morale sociale e politica del paese. Lo stesso sentivano 61 anche alcuni architetti, designer e imprenditori: ad esempio Adriano Olivetti con la sua rivista (Rivista di Comunità, 1946) e la sua casa editrice (Edizioni di Comunità, 1946) diede sfogo ai suoi ideali utopistici. Anche la casa editrice Einaudi fu un punto di riferimento intellettuale. Nel 53 si cominciarono a tradurre i testi di Braudel, Hauser, Antal, Panofsky e Wittkower. Altro dato importante è la pubblicazione nel 46 di L’esistenzialismo è un umanismo di Sartre che influenzò fortemente gli intellettuali di sinistra. E poi la Scuola di Francoforte ricostruitasi dopo l’esilio dei suoi esponenti negli Stati Uniti. La funzione dell’arte era il fulcro della discussione. Il Partito Comunista nell’immediato dopoguerra godeva di forte approvazione tra gli intellettuali e tentava di imporre scelte figurative in direzione del realismo perché facilmente comprensibili da tutti. Dall’altra parte c’erano le avanguardie internazionali, innovative, liberatrici e volte al progresso e al futuro. La querelle che i originò tra le due fazioni ebbe risonanza internazionale, soprattutto in Francia e in Italia e coinvolse in particolare l’arte contemporanea. I protagonisti di questa querelle erano occupati anche nella difesa del patrimonio artistico (minacciato dalle guerre), il restauro delle opere d’arte e dei monumenti e le scelte urbanistiche nella ricostruzione del paese. Inoltre ritenevano che l’arte fosse uno strumento di emancipazione del popolo oppresso dalla dittatura. Per questo ci fu un grande sforzo nella scuola e nei musei. Fu posta molta attenzione anche alla circolazione delle idee attraverso le riviste, spesso fondate da personalità che volevano condividere le loro personali proposte operative e scientifiche. Ad esempio: • La critica dell’arte (1935-43) di Ranuccio Bianchi Bandinelli e Carlo Ludovico Ragghianti a cui si aggiunse Roberto Longhi nel 38. Lo scopo era combattere il debole modello della filologia documentaristica su cui si basava l’archeologia italiana. Si occupava anche di tutela del patrimonio. • SeleArte (1953-66), curata da Ragghianti e appoggiata da Olivetti, formato agile per fornire un’informazione artistica di respiro internazionale ed ampio. • Dialoghi di Archeologia (1967), fondato da Bianchi Bandinelli, era un luogo di incontro multidisciplinare per specialisti di studi sull’Antichità. • Paragone (1950), Longhi, discussione su metodo, tutela e restauro, approfondimenti scientifici. • Storia dell’arte (1969), Giulio Carlo Argan, riflessione sulla disciplina e sulle metodologie. Giulio Carlo Argan era legato alle Edizioni di Comunità di Olivetti con cui condivideva l’idea di un’arte salvifica per una democratica integrazione sociale. Inoltre pensavano che l’esperienza artistica avesse un valore catartico. Argan tradusse Educare con l’arte di Read ed era un sostenitore di Dewey tanto da ritenere Art as Experience un testo pedagogico. Progettò la costituzione dell’Istituto Centrale per il Restauro che si realizzò nel 39 con la direzione di Brandi. Dopo la chiusura culturale del Fascismo, in Italia c’era voglia di apertura. Tant’è che Argan insieme alla curatrice della Galleria d’Arte Moderna di Roma (Palma Bucarelli) organizzò delle mostre di arte contemporanea che sveltirono il processo di aggiornamento culturale. Nel 53 partì con Picasso per poi proporre Mondrian, Scarpa, Pollock, Fontana, etc. Aggiunse anche delle conferenze pubbliche domenicali che venivano supportate anche dagli incontri nella libreria Einaudi di via Veneto. Argan si interessò anche dei ‘musei della ricostruzione’ negli anni 50, oltre ai programmi educativi collegati. Infatti dopo il periodo bellico si era cominciato a ricostruire in chiave rinnovata alcuni musei italiani. Gli allestimenti erano sempre simili: opere ben distanziate, prive di cornici, atmosfere rarefatte ma luminose che ne 62 esaltavano la forza comunicativa. Le opere venivano scelte per le loro qualità estetiche non per scuole (allestimento antiquato). Argan divenne un’autorità indiscussa per diversi anni tanto da diventare anche sindaco di Roma nel 76. Sa senatore (83) si occupò della legislazione per la protezione del patrimonio italiano vista l’imminente apertura alle frontiere europee. Nel 91 fondò l’Associazione Bianche Bandinelli che coinvolgeva gli operatori dei beni culturali e storici dell’arte di ogni estrazione nella protezione del patrimonio. I suoi scritti hanno diverse influenze: purovisibilismo (Venturi), Riegl e Dvorák per l’importanza alle tecniche e alla storia delle idee, Wölfflin per i caratteri identitari del Barocco e Neoclassicismo, Panofsky per la metodologia di ricerca e l’attenzione alla storia spirituale, Herbert Read (che tradusse) e Arnheim per la modalità di rappresentazione più che per l’oggetto rappresentato. Si occupò anche di architettura e urbanizzazione, tipico atteggiamento suo contemporaneo che voleva un interesse artistico ampio. Scrisse L’Europa delle capitali (64) fornendo un’analisi dell’urbanistica moderna influenzata sicuramente dall’ Stato ma anche da interessi particolari (questo lo riprende da The city in history di Mumford, 61, equilibrio tra potere centralizzato e economia di mercato). In Walter Gropius e la Bauhaus (51) mostrò ammirazione per colui che aveva unito creazione artistica a industrializzazione. La sua opera più acclamata fu Storia dell’arte italiana, manuale che iniziò la pubblicazione nel 68 e adottato in molte scuole e università. Affrontava le arti visive guardando alla storia delle idee e alle scelte formali conseguenti. Nella sua visione evolutiva della storia, raccontò un percorso lineare verso la modernità. Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo e storico dell’arte antica, interessato al rinnovamento della sua disciplina quando si usavano ancora i metodi classificatori. Inserì l’Antichità in una dimensione storica e cercò di legarla alle dinamiche della cultura contemporanea. Il suo scopo fu perseguito nelle università in cui insegnò preparando una nuova generazione di archeologi. Questa rinnovò l’archeologia con lo scavo stratigrafico di ispirazione britannica. Progettò l’Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale (1964-68), un compendio dell’arte antica in tutta la sua dimensione complessiva. Gli interessava la comprensione del fenomeno della creatività artistica nei luoghi e nel tempo, il perché sorsero certe forme e cosa significavano culturalmente, il perché si mantennero nel tempo e si trasmisero da un’epoca all’atra oppure sparirono. Non approvava una critica basata sull’autonomia delle forme e sull’estetica. Tralasciò l’arte greca e quella dei grandi centri per specializzarsi in quella delle aree periferiche. SI interessò alle epoche di passaggio e anche all’arte dei ceti sociali non elevati. Roma. L’arte romana nel centro del potere (1969) è la summa del suo pensiero storiografico, in cui separa l’archeologia positivista dalla storia dell’arte figurativa. Fu influenzato anche dal marxismo e dal partito comunista italiano facendogli intrecciare nel suo metodo la lettura stilistica, quella iconografica e fisiognomica che condizionavano e erano condizionate dalle situazioni storico-sociali-religiose del tempo. Si inserì senza successo nella querelle tra astrattismo e realismo, ritenendoli due tendenze opposte dagli albori delle civiltà. In particolare l’astrattismo rappresentava l’irrazionale mentre il realismo rispondeva a un’esigenza di realtà (Organicità e astrazione, 56). Si batté per la salvaguardia e la tutela del patrimonio, la ricostruzione dei monumenti abbattuti in guerra. A questo riguardo sosteneva che la ricostruzione non dovesse essere fedele qualora si presentassero problemi di statica. Le integrazioni dovevano essere, però, ben visibili e realizzate con materiali ben riconoscibili. Bruno Zevi, architetto e storico dell’architettura, docente universitario. Rinnovò la tradizione storiografica italiana sull’architettura. Aveva promosso l’architettura organica di Lloyd 65 I musei non subirono questa contaminazione perché negli USA erano soggetti a continui mutamenti, allargamenti o restringimenti, chiusure o aperture, segno che c’era molta attenzione ad ogni più innovativa forma di comunicazione. In GB, invece, i musei erano strutture molto accoglienti, didattiche e legate alle tradizioni grazie anche alla gratuità dell’ingresso e il prestigio storico. In particolare al Warburg diretto da Gombrich cominciarono ad emergere nuove figure. Michael Baxandall, marxista e soprattutto influenzato da Gramsci. Ampliò l’orizzonte metodologico e gli obiettivi della storia sociale dell’arte che confluiva in una storia culturale aperta all’antropologia. Non approvava i modelli normativa, preferiva mettersi sempre in discussione per andare a fondo dei problemi e sperimentare vie nuove. In primis dubitava molto sulla sua figura: era storico dell’arte o della cultura? Le sue influenze furono varie e molto legate a simpatie culturali: ad esempio, sentiva nostalgia per la tradizione inglese troppo contaminata dal pensiero tedesco ma riconosceva di essersi formato su di esso, oppure si sentiva distante dagli Annales ma riconosceva di esserne stato influenza in qualche modo. Nel 1972 pubblicò Painting and Experience in the Fifteenth Century Italy che riscosse subito molto successo. Sfatava la liberà creatività dei primitivi, vincolati com’erano ai contratti anche solo nell’uso dei materiali (foglia d’oro o blu ultramarino). Sosteneva che la pittura incontrasse la religione e la vita civile, concorrendo a modulare le scelte stilistiche e iconografiche. Le immagini sacre avevano un ruolo centrale nella società italiana del 400 e diventavano un vero e proprio documento di storia sociale. Infatti gli studi e le classificazioni in base allo stile di inizio secolo non erano più abbracciate. Tuttavia lo stile aveva un valore culturale e non formale, diventava un period eye, lo sguardo di una comunità in determinato luogo e tempo. Questo non aveva niente a che fare con lo Zaitgeist (spirito del tempo) viennese. Infatti il concetto di Baxandall affondava le sue radici nell’antropologia culturale. Egli infatti sosteneva che gli artisti del 400 non caratterizzassero figure e luoghi per poter far sì che chiunque potesse accostarsi alle loro opere. Nel 1980 pubblicò The Limewood (tiglio) Sculptures of Renaissance Germany ma solo con Patterns of Intention (1985) abbandonò la ricerca socio-culturale ormai esauritasi e cominciò ad indagare le cause che avevano da origine ai manufatti artistici. Scelse opere molto distanti tra loro, ne analizzò il contesto operativo, individuò il problema che l’artista si era posto e di cui l’opera era la soluzione. Non era interessato ai processi mentali che avevano indotto l’artista alla creazione. Parlava di intenzionalità sia dell’artista che dell’opera. Ciò suscitò molto interesse e molti dibattiti. Gli anni 80 sono caratterizzati dagli studi teorici sulla visione, la natura dell’immagine e della sua ricezione. Svetlana Alpers, ancora in vita, americana, legata a Gombrich e Baxandall, organizza un colloquio Art and Society. Must we choose? (1985) in cui si interroga sulla natura dell’esplorare l’arte e la natura, su cosa si focalizzano i nostri occhi. Le nuove ricerche avevano permesso anche di studiare la visione e lo sguardo, con i problemi dell’attenzione e della messa fuoco. Stessi interrogativi che si era posta due anni prima in The art of describing. Dutch Art in the 17th Century, che era molto piaciuto a Gombrich per la radicale riforma degli studi sull’arte olandese del 600. La Alpers contestava la consuetudine degli specialisti di calibrare la valutazione delle arti europee in relazione alla produzione italiana del tempo (ad esempio Panofsky per il 300/400 fiammingo). Occorreva usare strumenti adatti alla cultura che si stava studiando. Infatti i nordici non seguivano degli schemi normativi né narrativi. Dipingevano la natura e gli interni domestici in modo descrittivo, analitici e rigoroso, anche perché un paese mercantile come l’Olanda aveva una visione scientifica e analitica del reale. Come Baxandall, anche Alpers mantiene un equilibrio tra teoria e osservazione delle opere. 66 Hans Belting, ancora vivo, tedesco, bizantinista, si concentra sulla natura dell’immagine e sulla distanza nella percezione che si aveva in epoca medievale e rinascimentale (Bild und Kult, 1990). Anche se non esplicitamente dichiarato, assume il paradigma del period eye per spiegare questa distanza. Nel Rinascimento l’immagine aveva un’intenzionalità estetica ed artistica collegata alla narrazione, e come tale la percepiva il fruitore. Per la cultura religiosa bizantina per il Medioevo occidentale l’immagine era puro oggetto di culto, privo di finalità estetica sia per l’artista che per l’osservatore devoto. David Freedberg, vivo, sudafricano/statunitense, aveva un’altra chiave d’indagine. Aveva studiato a lungo le immagini religiose dei Paesi Basse durante la Riforma e non solo si chiedeva come potessero essere recepite, ma anche quali reazioni potessero provocare. Ne parla in The Power of Images. Studies in the History and Theory of Response (1989) prendendo in considerazione un periodo molto vasto che arriva addirittura fino agli atti di vandalismo odierni. Infatti non voleva scrivere un libro di storia dell’arte, voleva solo analizzare il rapporto tra immagini e individui in tempi e luoghi diversi. Quindi non parla più di valore artistico dell’opera d’arte MA di tutte le immagini al di là dell’intenzionalità artistica. Metodo di ricerca e obbiettivi si avvicinano sempre più all’antropologia culturale. Timothy James Clark, vivo, attivo sia in America che in GB. Le sue opere più famose sono del 1973 e analizzano il periodo tra il 1848 e il 51: The Absolute Burgeois e Image of People. Gustave Courbet. Rispetto alla critica del tempo, Clark introduce una nota altamente polemica in nome di una New Art History dal taglio marxista, attenta al genere, alle differenze culturali delle etnie, alla strumentazione tradizionale. I manufatti avevano una natura sociale, che esprimeva le esigenze dei committenti, dei committenti o dell’uso, ma essendo prodotti in una società borghese non potevano rappresentare la cultura dominante. Si doveva, però, trovare quell’analogia che c’era tra forme e contenuti, che per Clark costituiva la frattura, la tensione e la partecipazione di un evento. Nei dipinti di Courbet, trovava un disordine compositivo contrapposto ai dipinti promossi dall’accademia francese: a significare il rifiuto dell’artista dell’ordine politico a lui contemporaneo e l’adesione alle idee socialiste. Due tra le riviste più importanti del periodo sono: 1. October, americana, 1976, interessata alla visione gramsciana del ruolo degli intellettuali nella società 2. Art History, britannica, 1978, legata alla New Art History con ricerche che collegavano la storia dell’arte al femminismo, alla psicanalisi, allo strutturalismo e alla semiotica. Usava il marxismo come arma per scardinare la storia dell’arte dominante e influenzata dai gender studies post 68. Linda Nochlin, morta nel 2017, americana, realizzò la prima grande mostra di artiste a Los Angeles dal 1550 al 1950. Infatti nel 71 aveva scritto un saggio chiedendosi perché non ci fossero delle grandi artiste. La critica femminista iniziò in modo marginale ma si affermò prepotentemente nelle università dagli anni 80. Analizzava le strutture sociali e i modelli culturali che nel tempo avevano permesso l’estromissione della donna dai circuiti pubblici. Griselda Pollock, sudafricana/inglese, viva, molto vicina a Clark e alla New Art History, militante politica, influenzata da Foucault. Il suo testo di riferimento è Vision and Difference. Femmininity, Feminism and Histories of Art (1988) in cui analizzava le artiste e la loro rappresentazione della femminilità in un contesto di dominazione maschile. La tendenza era di associare gli aspetti sociali a quelli intimi, tra potere e corpo, sessualità e violenza, in particolare nelle immagini di intimidazione sessuale. Ne desume che il corpo femminile era sempre stato rappresentato e definito secondo lo sguardo maschile. Ancora una volta lo sguardo assumeva un rapporto attivo tra artista, pubblico, contesto e studioso. Rosalind Krauss, co-fondatrice di October, i suoi testi tracciano una strada ancora diversa. Rifiutò il formalismo in favore dello strutturalismo, del decostruzionismo e della psicanalisi 67 nell’analisi dell’arte contemporanea. I sui punti di riferimento teorici furono Roland Barthes e Georges Batailles. Nel 1985 pubblica The Originality of Avant-Garde and Other Modernist Myths. Parte da una mostra del MOMA dedicate a Picasso (1980) per definire il suo pensiero. Voleva superare la tendenza a trovare motivazioni esterne ai dipinti (contenuti) e anche quelle descrittive per arrivare a interpretare l’arte contemporanea in modo più profondo e complesso, usando gli strumenti della linguistica e della psicanalisi. L’arte diventa un metalinguaggio (linguaggio di cui uno specialista si serve per studiare e descrivere una lingua, costituito in genere dai termini stessi, nonché dagli usi sintattici, appartenenti alla lingua analizzata; sono metalinguaggi, in tal senso, il linguaggio grammaticale e il linguaggio lessicografico, con cui rispettivam. il grammatico descrive i fatti grammaticali e l’autore di un dizionario definisce le parole. Per estens., linguaggio tecnico, specialistico, convenzionale.) basato sull’assenza (di rimandi alla realtà) e la differenza (il significato si determina in opposizione a quello che non c’è). Naturalmente non c’erano solo studi sovversivi. Irving Lavin, americano, morto nel 2019, sosteneva che questi nuovi studi stessero facendo perdere l’identità alla storiografia artistica perché procedevano eliminando l’oggetto artistico, ipercontestualizzando e devisualizzando i manufatti artistici. Pertanto proponeva di ritornare a considerare l’opera nel suo complesso insieme di elementi che ne permettono la comprensione. Oppure John Shearman, britanni, che parlava di storie dell’arte biodegradabili e a cui contrapponeva un ritorno alla ricerca sulle fonti e i documenti con metodi innovativi. Nel suo libro sul Manierismo sosteneva che le opere andassero valutate con strumenti critici del loro tempo non con i criteri moderni (un po’ come i modelli percettivi di Baxandall). Tant’è che affrontò anche il punto di vista dello spettatore, sempre tenuto in molta considerazione dagli artisti nella realizzazione delle opere. In questo senso c’era un rapporto transitivo in cui lo spettatore completava il senso dell’opera. Parlava di continuing history, una storia dell’arte in movimento che doveva sempre mettersi in discussione ma che sapeva fare tesoro anche del sapere acquisito nel tempo dai vari studiosi. Anche per argomenti già studiati, si potevano aggiungere documenti nuovi che potessero fornire risposte nuove, sapientemente letti e organizzati in ordine cronologico. Francis Haskell, inglese, Eton e Cambridge (con Pevsner), insegnò storia dell’arte a Oxford. Non era interessato alle attribuzioni né all’iconografia, era attratto dalla storia socioculturale dell’arte e il lungo soggiorno in Italia lo aveva avvicinato agli studi sulla committenza. Fu influenzato da Mâle, Burckhart e Wittkower. Il suo primo interesse fu lo stile gesuita di cui nel 1963 negò l’esistenza. Tuttavia le sue ricerche romane confluirono in Patrons and Painters che lanciò gli studi sulla committenza. Qui parlò della storia romana fino agli anni 80 del 600 per poi passare a Venezia nel 700, fece emergere artisti fino ad allora poco noti. Si deve a lui, infatti, l’aver portato in primo piano internazionale Algarotti: era stato uno critico militante fondamentale per i suoi anni, anche se Haskell trovava un valore limitato delle sue idee. Credeva fermamente nella ricerca sul campo, nel confronto e verifica delle fonti. Suggeriva cautela nell’avanzare nuove interpretazioni e individuò nuovi campi d’indagine per i futuri storici. Nel 1981 scrive con Nicholas Penny Taste and the Antique in cui si dedica alle sculture antiche elette a canone in epoca moderna. Le novità che proponeva erano: • Nella documentazione legata al luogo e epoca del ritrovamento • I restauri • Attribuzioni del soggetto • Traduzioni a stampa • Riproduzioni in calchi e in copie diffuse in Europa tra 500 e 900 70 Allo stesso tempo Laclotte stava trasformando il Louvre per farlo diventare un museo pensato per il pubblico. Per questo pensava a percorsi espositivi chiari (cronologia per scuole, autori coevi di diverse nazionalità = comprensione più immediata), nuove proposte culturali e una struttura d’accoglienza efficiente. L’aspetto architettonico fu curato ne rispetto del recupero della spazialità e della stratificazione originale in modo da renderlo esso stesso un‘opera architettonica testimone del periodo 12°- 20° secolo. La piramide all’esterno doveva rappresentare il progetto complessivo. A fianco di questa vena museale, si inseriva la riflessione sulla storia delle istituzioni e del loro patrimonio. L’esponente più importante è Dominique Poulot che ricostruì gli obiettivi dei musei dalla Rivoluzione fino al 900, sia in Francia che nel mondo occidentale. 3.Anche in Italia il 68 portò a nuove sedi universitarie, l’aumento degli studenti e di conseguenza anche i docenti di storia dell’arte. Si rompe con il formalismo estetizzante grazie alla nozione di bene artistico dell’antropologia culturale. L’interesse è rivolto alla storia sociale dell’arte, al Warburg e agli Annales. Esce pubblicata da Einaudi (1972-76) la Storia d’Italia in 6 volumi e con collaborazioni illustri che permise di affinare la ricostruzione della cultura dei territori. L’editoria giocò un ruolo importante per gli storici dell’arte perché promosse molte iniziative culturali. Emilia, Umbria e Piemonte furono le regioni con le ricerche più interessanti. A Bologna il sovrintendente Andrea Emiliani iniziò una ricerca per la tutela del patrimonio. Ideò il museo diffuso, un ampio progetto che partiva dalla visione complessiva dei caratteri italiani più evidenti, con i suoi manufatti di vario genere da quelli contadini a quelli reali. Come aveva già detto Quatremère de Quincy nel 1794, la tutela doveva essere estensiva non selettiva. Evidenti i raccordi con l’antropologia. Emiliani si occupò insieme a un fotografo di una Campagna di rilevamento dei beni culturali, battendo in modo minuzioso l’Emilia Romagna. Iniziò ne 68 e nel 73 diventò l’Istituto per i beni culturali (IBC). Segnò un modello metodologico per altri studi. Nel 74 pubblicò Una politica dei beni culturali che divenne un testo di riferimento per quegli anni. Bruno Toscano (vivo) operò in Umbria. Insieme a Massimo Montella (direttore Ufficio Beni Ambientali) e Giovanni Urbani (direttore Istituto Centrale per il restauro di Roma) appoggiò il museo diffuso seguendo la metodologia della geografia artistica che si concretizzò nel primo volume di Ricerche in Umbria del 76. Si rilevarono innumerevoli opere e artisti provenienti dai luoghi più disparati. Toscano si focalizzò anche sulle assenze, cioè le opere documentate ma andate perdute in catastrofi ambientali o scelte socioculturali. Massimo Montella, che affiancava Toscano, creò il Sistema Museale Regionale dell’Umbria recuperando dei piccolissimi musei sparsi in regione che vivevano con costi bassissimi ma riattivavano l’economia locale per il loro interesse. Questi musei non erano semplici esposizioni, bensì centri di azione sociale e culturale, attività didattica, promozione, ricerca e programmazione. Giovanni Urbani aprì nel 1975 la prima sede decentrata dell’Istituto Centrale per il Restauro a Spoleto per formare sul territorio gli addetti alla manutenzione e al restauro. Nel suo Piano Pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria del 76 dichiarava l’esigenza di censire il degrado ambientale e predisporre gli interventi per prevenirlo. Purtroppo i suoi sforzi furono vani per il disinteresse politico e, quindi, la mancanza di leggi. Giovanni Romano era Soprintendente a Torino e poi professore universitario. Amico dei sopracitati, si interessò anch’egli della cultura dei territori. Nel 1970 pubblicò Casalesi del Cinquecento in cui analizzò la produzione artistica di Casale nella fase di transizione dal potere aristocratico-borghese a un nuovo ceto di funzionari e i Gonzaga (rifeudalizzazione anche culturale). Il metodo era quello già usato da Emiliani, Montella e Toscano. 71 Tra gli anni 70 e 80 le ricerche di geografia artistica fruttarono la riscoperta di piccoli capolavori che altrimenti sarebbero continuati a rimanere sconosciuti perché non appartenenti ai generi artistici maggiori. Le mostre servivano per aumentare il pubblico museale ma anche per gli studi. Quella che organizzò Sandra Pinto nel 72 intitolata Cultura neoclassica e romantica nella Toscana granducale svoltasi a Firenze portò a una radicale revisione degli artisti d’Accademia in età di Restaurazione che erano sempre stati censurati. Il collezionismo fu rivitalizzato dalla mostra del 77 di Evelina Borea dedicata alla Quadreria di Don Lorenzo De’ Medici sulla produzione toscana del 600. Ferdinando Bologna si occupò della produzione artistica nell’Italia meridionale sin dagli anni 50, in particolare di arte partenopea e siciliana. Iniziò una collana di geografia artistica pubblicata da UTET che andò via via ad arricchirsi grazie ai contributi dei suoi allievi. Il terremoto in Friuli nel 76 offrì l’opportunità di ricerche filologiche sui monumenti distrutti. Marisa Dalai Emiliani (studiosa di prospettiva, docente e museologa) insieme a Maria Pia Rossignani (archeologa), Remo Cacitti (storico del cristianesimo) e Francesco Doglioni (architetto) furono i protagonisti in quest’area. Ne scaturì Le pietre dello scandalo della Dalai nel 1980. Giovanni Previtali curò l’Enciclopedia Feltrinelli Fischer Arte (1971): coinvolgendo i suoi colleghi, voleva offrire a un pubblico colto ma non esperto una sintesi dei temi centrali della storiografia artistica con linguaggio semplice ma ricco di contenuti. Nel 75 fondò la rivista Prospettiva per un confronto tra archeologia e storia dell’arte. Ricerche di storia dell’arte (1976) grazie a Antonio Pinelli proponeva dei numeri monografici su argomenti poco frequentati per stimolare la ricerca. Voleva essere anche un campo di incontro tra addetti ai lavori di scuole diverse e contrarie. L’editoria in questo periodo fu molto prolifica. Einaudi pubblica Storia dell’arte italiana negli anni 70, con temi poco frequenti in Italia come le istituzioni legate alla produzione e alla ricezione dell’arte, le accademie, il mercato, storia sociale degli artisti, storia della tutela, del restauro e dei musei. Inoltre propose saggi sulle tecniche, le copie, i falsi, l’antico, eccetera. Previtali curò i primi 4 volumi cioè quelli più propositivi sul piano metodologico. Il primo è del 79 Questioni e metodi, poi L’artista e il pubblico, L’esperienza dell’antico e Ricerche spaziali e tecnologiche. Previtali aveva sempre cercato di elaborare strategie che potessero adattare il materialismo storico all’analisi stilistica. Infatti voleva scoprire l’organizzazione delle botteghe artistiche fra il 300 e il 400 usando solo indizi stilistici in mancanza di altre fonti. Nell’82 le sue ricerche lo portarono a fare un collegamento tra geografia figurativa e linguaggi locali. Inoltre aveva rilevato che opere dello stesso autore, quindi omogenee, potevano far parte di contesti anche molto diversi. Il suo primo libro fu la sua tesi di laurea: La fortuna dei primitivi del 64. Era evidentemente in contrasto con Il gusto dei primitivi di Venturi e già dal titolo faceva intendere di non apprezzare la teoria inconsistente del gusto venturiana contrapponendo il termine fortuna. La riscoperta dell’arte medievale non fu, secondo lui, frutto della cultura romantica europea (Venturi) ma fu grazie ai collezionisti, studiosi e artisti del 700 italiano. Pertanto la moderna storiografia artistica ha origine nel 18° secolo. Federico Zeri coordinò gli altri 8 numeri di Storia dell’arte italiana. Il suo approccio era stato già preannunciato nel suo Storia d’Italia e cercava un bilanciamento tra storiografia artistica in chiave cronologica e riflessioni sui grandi temi. Infatti era attratto dalle contaminazioni e dalle stratificazioni. In Pittura e Controriforma: all’origine dell’arte senza tempo (1957) individua dei protagonisti del Concilio di Trento responsabili di aver imposto dei regolamenti rigidi ai pittori condizionandone le scelte iconografiche e stilistiche. Fu anche un grande conoscitore e per questo molto ricercato nei musei internazionali. 72 All’opera einaudiana parteciparono molti collaboratori. Di rilievo è Enrico Castelnuovo che scrisse Centro e Periferia con Carlo Ginzburg. Il centro è lo studio sui territori, in contrasto con il luogo comune che voleva le città maggiori come depositarie dell’innovazione e le periferie come ritardi culturali. I suoi studi, influenzati da Longhi, gli Annales e il Warburg, si erano incentrati sull’area alpina vista come cerniera tra nord e sud dell’Europa più che come barriera. Anche le presenze superstiti di produzione architettonica e figurativa dimostrano questi scambi culturali. Il tutto confluì in una mostra a Trento nel 2000: Gotico nelle Alpi: 1350-1450. Il suo metodo di ricerca era stato influenzato dal sociologo Bourdieu che aveva parlato di campo intellettuale, uno spazio dominato da forze e conflitti tra i vari agenti che permettono di individuare una storia dell’arte riletta in modo più dinamico e complesso, talvolta contradditorio. Allo stesso modo Castelnuovo si concentrava sui fermenti culturali che animavano un campo, un periodo. Salvatore Settis ideò i 3 volumi di Memoria dell’antico nell’arte italiana (84-86). Gli anni 80 avevano mitizzato Warburg (Settis fu tra i primi a divulgare il suo metodo iconologico) e l’antico era un tema molto frequente. Settis voleva superare il concetto di rinascita affermando una presenza costante dell’antico nella memoria storica, non solo in campo artistico e letterario. La collaborazione con diversi studiosi specializzati in vari settori artistici permetteva un confronto incrociato sempre molto centrato sul tema. Paola Barocchi segue un percorso tutto suo. Afferma la storia della critica dell’arte nelle università italiana, massima esperta di Vasari, ha curato l’edizione critica di molte fonti dal 500 al 900, ha approfondito il rapporto tra storiografia artistica e museo, soprattutto degli uffizi. Il suo apporto più significativo è sicuramente l’aver capito l’importanza dell’informatica per la catalogazione e la ricerca. Fondo il centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali (CRIBeCU). Alla Normale si è consolidato una struttura che ha portato alla memorizzazione elettronica di fonti e documenti, agli archivi integrati di dati e immagini, alle estrapolazioni dei lessici storici. Processo ancora in corso. Gian Carlo Sciolla ha invece sopperito alla mancanza di una letteratura artistica: La Critica d’arte del Novecento (2012) e il periodico Annali di critica d’Arte. Giuliano Briganti affrontò molti temi di diversa natura, rappresentando una figura atipica nella critica. Era un fine conoscitore, docente e partecipò all’iniziativa della casa editrice Electa Storia della pittura in Italia suddivisa per secoli e articolata regione per regione (volume sul 500 nell’87 e quello sul 700 nel 90). Nei sui scritti lasciva trapelare un leggero fastidio per la geografia artistica, soprattutto nei confronti dei manufatti non intenzionalmente artistici. Amava la qualità ma non la teorizzazione anche se dovette affrontare il tema della periodizzazione nella storia dell’arte, soprattutto per il Manierismo e il Barocco. Co i pittori dell’immaginario attuò una ricerca sull’arte visionaria dal 700 a de Chirico. Fu affascinato dalla trasformazione del canone classico da parte dell’immaginazione abbandonata al flusso dell’animo degli autori (rivoluzione psicologica). Opera poco italiana, con riferimenti alla psicanalisi junghiana. Del resto gli anni 80 subiscono l’influenza degli studi psicanalitici che godono di pari dignità rispetto a quelli marxisti. Inoltre anche gli studi sull’iconologia hanno subito un’impennata (soprattutto a Roma). Ci sono state novità anche negli studi di arte bizantina, medievale e contemporanea (dalla metà degli anni 70 entra nelle università).
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