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La storia senza redenzione di Giuseppe Lupo, Dispense di Letteratura Italiana

Il riassunto è completo. Sono presenti tutti i capitoli divisi nei vai paragrafi come sul libro.

Tipologia: Dispense

2021/2022
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Scarica La storia senza redenzione di Giuseppe Lupo e più Dispense in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! La storia senza redenzione – Giuseppe Lupo 1. Traiettorie meridionali La narrativa di tradizione meridionale è entrata nel canone della modernità riconoscendo in Giovanni Verga il capostipite. Questa letteratura ha riconosciuto nella Sicilia una precisa connotazione geografica esaltandole il primato sulle altre regioni del Sud = letteratura nella letteratura. La leadership siciliana si manifesta in maniera corrosiva nel rapporto tra coscienza individuale e destino della nazione. Nascono i topoi letterari, quali il sentimento di lontananza dalle mappe delle Storia, il sentirsi inappropriati o esclusi dalle rotte del tempo (addirittura autoesclusi). Sciascia utilizza il termine sicilitudine (in La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, 1970); il termine delinea la condizione di isola coniugato al concetto di solitudine, di assenza e di silenzio. Verga, nelle opere concepite a Milano (I Malavoglia e Mastro-don Gesulado), delinea una visione del mondo che guardasse ai fatti contemporanei e non a una narrativa che indugiasse sul passato. Per Manzoni la Storia viene concepita come luogo del riscatto; per Verga, invece, non c’è redenzione e non c’è prova che la Storia produca migliorie e modifichi le sorti degli uomini. Con Verga la coscienza del nuovo ha assunto la fisionomia di un’operazione inutile e dannosa, un azzardo che poteva costare il fallimento del singolo, di una famiglia e di un’intera comunità = idea di una società immobile. 2. La questione immortale Negli ultimi decenni l’idea di mezzogiorno si è dilatata fino a comprendere il continente meridiano: confini labili, ma uno sguardo al mare come luogo di condivisione e di appartenenza, scenario di conflitti e lingue incomunicabili. Mediterraneo /= Mezzogiorno. Walter Pedullà, Il mondo visto da sotto. Narratori meridionali del ‘900 (2016). Descrivere il Mezzogiorno è una questione di responsabilità nei confronti della Storia. secondo Pedullà la questione del meridione non è stata risolta, ma nella verità non sa rispondere poiché è impossibile risolvere una questione locale in un mondo globalizzato. Esistono i problemi legati al Sud che sembrano immortali. Guido Dorso, La rivoluzione meridionale. Saggio storico-politico sulla lotta politica in Italia (1925). Se lo Stato si è dimostrato nemico del mezzogiorno la responsabilità cade sulla borghesia meridionale. L’errore da evitare è identificare la classe borghese con gli intellettuali a causa della loro latitanza. Si tratta di una diversa assenza: i primi mancano a causa di un errore di sguardo che crede la borghesia ridotta al minimo nel mondo moderno. La letteratura del Novecento, invece, ci ha abituati a dimenticanze (sogno di una repubblica illuminista). 3. Nascita e morte dell’artigiano Gesualdo Motta si fa strada nel mondo del lavoro con successo. Avrebbe potuto incarnare la parabola del nascente capitalismo e Verga avrebbe potuto sollevare il personaggio al rango delle letterature attive nell’Europa = tutto ciò non è avvenuto. Bisogna ricordare che Gesualdo Motta aveva più chances di Renzo Tramaglino (quest’ultimo aveva dovuto emigrare per inventarsi un futuro da piccolo industriale di provincia): a Motta era stato sufficiente diventare muratore. L’errore di Motta si trova nel volersi imparentare con i rami della nobiltà (rami secchi). Il destino di Motta si rivela quello di un vinto. Per uscire dallo stato di sicilitudine bisogna compiere un balzo al di fuori dell’isola, oltre la sicilianità. È toccato a Vittorini manifestare attraverso il politecnicismo urbano la modernità. Verga e Vittorini hanno in comune la geografia di Milano: Verga ne fa la negazione della storia, mentre Vittorini lo elegge come laboratorio del moderno. Vittorini: problema del dialetto. I dialetti meridionali sono tutti legati a una morale contadina e mercantile, portatori di inerzia, di rassegnazione, di scetticismo a differenza dei dialetti settentrionali che risentono di una civiltà industriale. 4. Non-storia siciliana e ribellione continentale Il Novecento avrebbe consegnato nelle mani degli scrittori meridionali la possibilità di infrangere il tabù dell’immobilismo. In Sicilia si continuò a raccontare della non-storia. Invece, nelle geografie extra-siciliane trova terreno fertile la matrice della rivolta popolare: potrebbe sembrare un passo in avanti verso la demolizione del principio di inerzia, ma solo in apparenza. Come tema la rivolta popolare si inserisce nel discorso della conquista per la terra che trova grande consenso nel periodo dei primi anni del fascismo, del Mezzogiorno preunitario a quello post-unitario e nel secondo dopoguerra. Mutano quindi le geografie, ma non la prospettiva dal basso. 1942: Signora Ava + l’Alfiere di Alianello → muove dal legittimismo borbonico per discutere i problemi dell’unificazione italiana. Alianello è il portavoce del tema del brigantaggio. Cristo si è fermato a Eboli (1945) di Carlo Levi: libro/archetipo sulla condizione contadina. 5. Il naufragio e il labirinto Il quarantotto di Sciascia racconta di Garibaldi, ricevuto con tutti gli onori in casa di un notabile di Castro, e di Ippolito Nievo, che lo accompagna con entusiasmo nella spedizione dei Mille, ma è diffidente nei confronti del padrone di casa, il barone Garziano. Nievo giudica l’intero popolo siciliano di cui Garziano è la rappresentazione vivente. Stanislao Nievo ne Il prato in fondo al mare (1975) narra la vicenda del suo antenato. La morte di Ippolito che annega mentre naviga sul piroscafo Ercole, diretto da Palermo a Napoli, rappresenta il naufragio del nuovo, l’impossibilità che il divenire storico giunga a compiersi nella sua totalità di azione redentrice. Il sorriso dell’ignoto marinaio di Consolo: sentimento di incertezza + rapporto di fede/fiducia nella relazione tra cause ed effetti. Nei mari siciliani non c’è speranza di approdo. Il naufragio di Ippolito Nievo è una sconfitta della ragione e fa da prologo al sorriso dell’ignoto marinaio. Labirinto Meridionale di Francesco Compagna stigmatizza i rapporti tra cultura e politica. Se Cristo ha desistito nel proseguire, una volta arrivato alla soglia di Eboli, se il processo storico si interrompe quando la linea ferroviaria obbliga il viaggiatore a inerpicarsi con altri veicoli il cuore della Lucania: fra tempo e spazio non c’è più coincidenza e la Storia non può transitare dai non luoghi o si perde nel nulla. 6. Molti scribi, poca utopia Raffaello Crovi pubblica sul Menabò Meridione e letteratura: si definiscono i caratteri che connaturano in negativo la narrativa meridionale e la narrativa meridionalistica. Il limite entro cui è rimasta prigioniera gran parte della narrativa siciliana e non (prima e dopo Levi) è l’incapacità di elevarsi a rappresentazione analitica dei processi di trasformazione socioculturale del Sud d’Italia. Gli scrittori dimenticano che il Mezzogiorno non è soltanto il mondo oscuro della corruzione e del male, della sporcizia e dell’abuso, ma un territorio dove il razionalismo della Storia fa tappa come ragione del moderno. Questo limite nasce dal fallimento dell’intellettualismo meridionale che provoca un rapporto controverso con la Storia a cui reagire in due modi: o negarla o fuggire nell’utopia. A una letteratura impostata su motivi celebrativi (canone risorgimentale) si oppone una liea scettica e disincantata (processo di unificazione nazionale). Canone e anticanone = profilo geografico → espressione di due Italie, diverse e contraddittorie. Il romanzo antistorico non solo discende dal ramo nobile della narrativa italiana (Manzoni), ma ha avuto il merito di ridare nuovo vigore. Il romanzo antistorico non va considerato solo come variante del romanzo storico, ma anche il suo continuatore. 2. Il mito infranto Vicinanza di pubblicazione di Sciascia e triade De Roberto, Pirandello, Tomasi → 1958 (anno degli zii di Sicilia e de il Gattopardo). Sciascia si pone erede di una tradizione che in chiave novecentesca tende a riassumere ironia, sospetti e dubbi. Sia l’Alfiere di Alianello, sia Gli zii di Sicilia di Sciascia sono usciti per Einaudi, IL Gattopardo di Tomasi e l’ereditiera della Priora hanno visto la luce per Feltrinelli. Alianello presenta una funzione duplice: da una parte conferma che esiste una visione non solo siciliana della questione unitaria, dall’altra sottolinea una diversificazione nel progetto di ridiscutere gli eventi dell’unificazione nazionale. Quando si parla di anti-risorgimentalismo bisogna distinguere una linea che appartiene alla Sicilia e un’altra legata ai fenomeni del ribellismo. Punto di focalizzazione: figura di Garibaldi. Occorre evidenziare il dramma che circonda Garibaldi: presagire il fallimento della propria impresa → prefigurazione del Risorgimento tradito. Anticanone e antirisorgimento non solo la stessa cosa. 3. Sull’orlo del revisionismo I fuochi del Basento (punto di discrimine) di Raffaele Nigro: questo libro ha il merito di riportare l’attenzione sul problema della questione meridionale come questione della pre-unificazione, spostando il giudizio sul brigantaggio da fenomeno reazionario e legittimista a manifestazione di lotta politica che precede il 1861. Il romanzo reca in testa una data: il 1784 e si chiude con il mese di marzo dell’anno in cui l’Italia diventò regno unito, il 1861. Dibattito sull’antirisorgimento ha fatto concentrare l’interesse degli scrittori sui temi relativi all’unificazione nazionale (medesime posizioni su cui si erano soffermati De Roberto, Pirandello, Tomasi, Sciascia). Viene eletto a manifesto La conquista del Sud di Alianello (1972) perché incentrato sulla determinazione ideologica di un Risorgimento condizionato da scelte liberticide. Il saggio di Alianello, in realtà, viene più citato che letto come rivendicazione borbonica. Il suo libro è stato vittima di un fraintendimento generato da risentimenti e conflitti. Un esempio lo abbiamo in Controstoria dell’unità d’Italia (2007) di Gigi di Fiore. Il suo lavoro è influenzato dal clima politico degli ultimi 25 anni: contrapposizione della tradizionale questione meridionale a una questione settentrionale. Nel saggio di Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud (2007), l’autore scava nella memoria dimenticata cercando di dare voce agli sconfitti. 4. Meridionalismo di maniera I libri di Milani, Bufalino e Guarnieri ripercorrono il territorio del fallimento e della sconfitta, ma scelgono di manifestare una serie di ambiguità (interrogazione storica, giallo metafisico, vendette personali) I traditori di Giancarlo de Cataldo (2010) è un libro dotato di maggiore respiro geografico: muove dalla Calabria del 1844 fino ad arrivare alla morte di Mazzini, avvenuta a Pisa nel 1872. Focus sul personaggio di Lorenzo Valledura, ex rivoluzionario della Giovine Italia che accetta di spiare Mazzini. Ciò che caratterizza i romanzi degli ultimi anni è il ripetersi di situazioni e discorsi che fanno pensare a motivi e temi già sperimentati in passato. 5. Garibaldi fu ferito In nome dell’imperatore (2008) di Fausta Garavini tratteggia i martiri dello Spielberg come sprovveduti e velleitari rivoluzionari. Antonio Scurati in Una storia romantica (2007) restituisce un ritratto di amori e tradimenti delle gloriose Cinque Giornate milanesi. Giuseppe Garibaldi figura chiave di un sentimento di delusione. La battaglia soda (1964) di Luciano Banciardi (la delusione dei garibaldini messi a riposo), Noi credevano (1967) di Anna Banti (patriota deluso), Il prato in fondo al mare (1975) di Stanislao Nievo (ricostruzione dell’affondamento del piroscafo Ercole, sui cui viaggiava Ippolito Nievo da Palermo a Napoli insieme con le carte della spedizione garibaldiana), Amore mio, uccidi Garibaldi (1980) di Isabella Bossi Fedrigotti (vicenda sentimentale ambientata nel Trentino del 1866, dove Garibaldi sta attaccando gli austriaci alla testa dei suoi Cacciatori delle Alpi. Nei libri di Banciardi e della Banti vengono narrate atmosfere di un esercito a cui non rimangono che i rimpianti, in quello di Stanislao Nievo si affrontano dubbi sulla fine dell’antenato scrittore: morto per fatalità o volutamente cancellato dalla storia. L’isola e il sogno (2011) di Paolo Ruffilli: un romanzo che ha come protagonista il garibaldino Ippolito Nievo, un giovane diviso tra doveri e piaceri. Il giovane Nievo muore in un naufragio che non contiene nulla di oscuro: è una sciagura. 6. Questione di scarpe Sciascia smaschera il gioco menzognero con cui Verga nei Malavoglia ha manipolato il racconto di Bronte. Scrive in un capitolo della Corda pazza, intitolato Verga e la libertà. Focus l’attenzione sul rapporto con la storia: Sciascia scongiura il rischio di una visione a-storica. 1961: festeggiamenti del centenario, 2011: 150 anni → gli scrittori hanno deciso di mettere da parte le armi del tragico per imboccare la strada del ludico. Quando si parla di eroi bisogna sempre avere dei sospetti. Alessandro Mari in Troppa umana speranza (2011) scrive di decidere bene quali calzature scegliere, quando si passeggia sulla storia → alternanza tra scarpe alate e scarponi. 4. IL VOLTO DEI VINTI 1. Anatomia di una sconfitta Davanti al processo dell’unificazione italiana la letteratura si concentra sul rapporto tra vincitori e vinti. Archetipo di questo discorso è Verga: analizza la società nelle sue stratificazioni economiche. Con Verga i vinti vengono descritti come figure immobili, vinti dal destino di popoli traditi dalla Storia. Il termine Libertà, nodo cruciale de Il proclama di Rimini (Manzoni), viene capovolto nella forma di una vendetta → Verga la denomina nella novella Di là del mare (1883). A vent’anni da distanza dalla spedizione garibaldina, Verga delinea una tipologia: colui che non può essere toccato dal progresso della civiltà perché la vita stessa è una meccanica ripetitività di ruoli. Nel 1958 Tomasi di Lampedusa identifica con chi non riconosce il nuovo corso della politica invoca il crollo della società. Nel 1976 Consolo identifica la Storia nell’icona della chiocciola per dimostrare che dentro linee aggrovigliate si perdono il destino dei vinti ma anche la volontà del riscatto. Destino e volontà si contrappongono nella lettura che Verga, Lampedusa e Consolo forniscono dell’urto risorgimentale: da un lato i cittadini di Bronte, dall’altro la fierezza del principe di Salina, che celebra il proprio funerale come estremo addio a un mondo di cui si sente ultimo superstite, è di fatto il vincitore (assume la fisionomia del Catone dantesco che sceglie la morte per non cadere vittima dei tempi nuovi). Consolo costruisce un romanzo – Il sorriso dell’ignoto marinaio – che smarrisce il contatto tra vincitori e vinti. Lampedusa assolutizza un concetto di libertà che sfiora il paradosso: di fronte alla sconfitta di un mondo la morte diventa il viatico verso la libertà e verso una parvenza di vittoria. Nell’asse Verga-Lampedusa-Consolo comincia e finisce il segmento della Storia negata. La nozione di vinto che si riscontra lungo la direttrice De Roberto-Sciascia è diversa: il dramma si stringe nell’ironia e perde la sua maschera tragica. Tanto gli Uzeda quanto i Garziano interpretano il ruolo di chi trionfa perdendo (chi riconosce il valore della storia, ma rimane ceto dominante attraverso il trasformismo). In realtà il turbinio dei fatti garibaldini assume i connotati di una farsa. La storia è, come indicava De Roberto, una monotona ripetizione. In apparenza però gli esiti cui giungono Verga- Lampedusa-Consolo assomigliano all’epilogo grottesco di De Roberto e Sciascia. Entrambe le traiettorie arrivano ai medesimi risultati (la storia ferma), ma per opposte strategie. 2. I regni offesi Sarà modificata la fisionomia del vinto in coincidenza con la Grande Guerra. L’antagonismo tra Italia del Nord e Italia del Sud troverà alla fine del Ventennio il punto di svolta grazie alla stagione della Resistenza che riscriverà il concetto di nazione. Se l’Italia fascista ha dato fiato all’immagine di nazione, la letteratura ha rielaborato lo spartiacque del 1860 sia in forma di rivoluzione interrotta, sia nella rilettura che fa Carlo Alianello. Questa posizione reintroduce la figura del vinto. Quando parliamo di patria (Alianello) ci si può confondere: è patriottico combattere per l’Italia Unita, ma lo è altrettanto difendere i regni offesi. Alianello propone la nozione di un’altra patria → quella preesistente. il 1942 è l’anno in cui viene pubblicato l’Alfiere presso Einaudi: Alianello si sta interrogando sulla nascita della nazione per corrodere al suo interno lo Stato fascista. Territorio della controstoria: da guerra di liberazione a guerra di conquista. I libri di Alianello sembrano comunicare un’Italia che ha dimenticato troppo presto la difficile coesistenza tra popoli vincitori e popoli vinti. Il 1942 è un anno che ripensa all’epopea garibaldina in chiave novecentesca. Accanto a l’Alfiere vede la luce La signora Ava di Francesco Jovine: un libro sul Molise del 1860, che va oltre il disorientamento di un ufficiale borbonico impotente di fronte alla sconfitta di re Franceschiello, il suo re, la sua bandiera, e che apre al fenomeno della protesta brigantesca. Alianello con L’eredità della Priora (1963) darà al termine brigante un altro significato. Si assiste nel secondo dopoguerra alla metamorfosi del vinto. Ne La faccia del brigante è sia fuorilegge sia difensore del legittimismo borbonico. Raffaele Nigro, ne I fuochi del Basento (1897): racconta il desiderio di emancipazione contadina come miraggio utopico. Enzo Striano, Il resto di niente (1986) è anche questo il racconto di un fallimento vissuto di cui è stato vittima proprio il ceto intellettuale. Il significato di vinto accresce maggiormente. Sciascia, ne Il quarantotto, delinea la negazione del progresso. Luciano Bianciardi, ne La battaglia soda (1964), si fa interprete del sentimento di delusione che serpeggia tra i Mille ormai messi a riposo dai lumaconi di Torino, dai burocrati che hanno ridotto l’azione militare a pura inerzia. Nell’immagine dei lumaconi Bianciardi ripropone la figura delle chiocciole e delle spirali (immagine della storia). la condanna all’immobilità, nella quale Nino Bixio ha relegato i cittadini di Bronte, diventa ormai nemesi del progresso. Anche i garibaldini sono accomunati alla condizione di vinti, perseguitati dal senso di tradimento, che nullifica la gloriosa impresa del 1860. Si avverte il sospetto che sia stata l’idea mazziniana a alcuni titoli pubblicati nel dopoguerra: Le parole sono pietre (1955) (racconta tre giornate in Sicilia: il futuro ha un cuore antico. Viaggio nell’Unione Sovietica (1956); la doppia notte dei tigli (1959). Tre luoghi diversi compongono questa trilogia degli anni Cinquanta: quella della voyageur alla ricerca della sua Itaca. Levi si inserisce nella scrittura di quadri (formula oraziana ut pictura poesis). Scorrendo l’elenco dei titoli inseriti nella sezione I tempi della modernità, si constata la presenza di tre brevi saggi a prefazione a Viaggio in Italia di Charles de Brosses (1957), a La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo di Laurence Sterne (1958) e a Roma, Napoli e Firenze di Stendhal (1957). De Brosses, Stendhal e Sterne rappresentano un elemento indicativo di quanto Levi amasse la letteratura di viaggio e ne trasse ispirazione proprio negli anni in cui dava alle stampe la trilogia scaturita dai reportages in Sicilia, in Russia e in Germania. Il futuro ha un cuore antico: ci sono delle spie linguistiche che riconducono la forma del viaggio leviano al paradigma dantesco della discesa agli inferi. Ci si riferisce al processo di assimilazione che permette di identificare l’accompagnatore di Levi nel poeta mantovano che guida uno spaesato Dante nelle terre d’Oltre. Mediante il paragone Stépan/Virgilio Levi stabilisce un grado di parentela con il poema trecentesco fornendo uno spunto interpretativo così da identificare il suo accompagnatore nel “Mio buon Virgiglio” = connotazione simbolica. Il giovane Stépan acquista l’appellativo di “mio fedele Virgilio”: citazione “fida compagna” di Purg. III, 4. Al momento del saluto d’addio Levi ripercorre pari pari il testo dantesco inserendo il particolare del pianto e lo sgomento della sparizione dove sembra citare a memoria l’immagine di un malinconico Dante che quando incontra Beatrice, scopre di essere stato abbandonato dal maestro e si lascia andare alle lacrime. 2. Fascinazione dantesca Il problema non si pone nello stabilire se la visita in Unione Sovietica sia associabile alla Divina Commedia di Dante, quanto riflettere sul significato allegorico che assumono le peregrinazioni nelle città di Mosca, Leningrado, Erevan o Kiev. Levi interpreta l’inserimento nell’ethos contadino come un proiettarsi in un mondo di dolore e di espiazione, proprio come avviene per Dante esploratore degli Inferni. Levi rafforza la dimensione del viaggio oltremondano, circoscrivendo la città di Mosca nella dimensione di selva misteriosa. Alla base della scrittura di Levi agisce la suggestione dello sconfinamento nei regimi ultraterreni. Ne è una prova La doppia notte dei tigli: il romanzo chiude la trilogia del secondo dopoguerra. È vero che anche la città di Monaco conserva il carattere di un mondo di sotto che andavo percorrendo e che la visita al Museo di Pergamo, nella Berlino orientale, avviene al lume fioco delle lampadine (Inf. III, 75) → tuttavia si tratta di riferimenti isolati, frutto di una memoria dantesca destinata ad affievolirsi con il passare del tempo. Per riscontrare la parentela tra Levi e la Commedia bisogna andare al confino in Basilicata avvenuto tra le due guerre. Occorre indagare nel Cristo, dove Levi racconta il suo anno di vita sotterranea (La Lucania è come l’Inferno). La Lucania è percepita come l’oltre-Giudecca, il luogo più profondo dell’imbuto dantesco. Il percorso di Levi da Torino ad Aliano si intende come una sorta di caduta. L’immagine della caduta sembra inserirsi nel contesto teologico della cacciata dagli angeli ribelli. A differenza della città di Mosca che apparirà un labirinto ordinato, la Lucania si fissa nella memoria di Levi quale icona del groviglio ed emblema di un mondo ancora incontaminato. Sia per il viaggio in Russia, sia in Lucania, la presenza di Dante si afferma e non soltanto nelle tracce verbali. A proposito del confino ad Aliano Levi non smentisce la sua fascinatio dantesca: Levi ha letto il groviglio lucano apparentandolo a un luogo in cui perdere l’identità e ritrovarne un’altra. La chiave di lettura va cercata nella definizione di umile Italia che egli ritrova per la Lucania. La prospettiva, da cui levi guarda la Lucania, è quella di una terra umile. L’incontro delle due Italie, coniugando mitologia e storia è uno dei luoghi più interessanti e controversi del Cristo. Levi ricorre a Virgilio e a Dante anche quando deve impostare il problema della storiografia. Levi si sente Ulisse che, appena approdato ad Aliano, si ripromette di fare un primo viaggio di circumnavigazione della sua isola e di esplorare le terre, attorno, che dovevano restare uno sfondo non raggiungibile oltre le colonne d’Ercole podestarili. Le ragioni burocratiche confermano la natura del viaggio in Lucania. Levi è un nuovo Dante e, prima ancora, è un Enea che abbatte le porte dell’Averno in compagnia della Sibilla Cumana. Ne è conferma la descrizione catacombale che la sorella di Levi, giunta in Basilicata per una breve improvvisata, fa della città di Matera il luogo profondo dove vivono i giganti Nembrot, Fialte e Anteo. 3. Lucania infernale La Lucania presenta somiglianze con il cono infernale perché è delineata come un mondo sotterraneo e il labirinto della caduta. Nel perimetro dei riferimenti alla Commedia, emblematico è il tema della trasformazione degli esseri umani in rettili, che Dante sviluppa in Inf. XXV, 79-151, dove descrive la bolgia dei ladri afflitti dalle due nature, e che Levi da suo a proposito del personaggio di Giulia la Santarcangelese, la donna dal grande corpo, che si muoveva con gesti lenti, equilibrati, pieni di una forza armonica, e portava, una nera testa di serpente. L’icona della donna-serpente si inserisce nell’orizzonte delle Metamorfosi di Ovidio (mostruosa mutazione/deformazione di Cadmo in serpente). Nel medesimo cerchio si inseriscono le donne-uccello → uno dei topoi più diffusi delle Metamorfosi: le donne mutate in cornacchie, in gazze, in gru, in cicogne. La Lucania ha le fattezze di un oltretomba popolato da demoni e angeli. L’esperienza di Cesare Pavese → anche la Calabria narrata ne Il carcere (1949) appare una realtà dove il tormento del confino si mescola alla percezione di un archetipo misterioso, ai limiti dell’umano. Tuttavia, è diversa la percezione del sud: a Pavese, che rimane fortemente invischiato in una condizione di reclusione, si contrappone Levi, che invece ritrova le ragioni di una civiltà sommersa di cui egli, insieme a Scotellaro, si fa profeta. La Lucania è un mondo sotterraneo e quindi è un regno dominato dall’oscurità. È vero che all’immagine del groviglio architettonico Levi antepone la visione di Grassano: è considerata l’icona della piccola Gerusalemme come luogo santo e come città sospesa. Grassano si svela come nuova Gerusalemme celeste, mentre Aliano appare una città infernale. I suoi abitanti dalla natura doppia la apparentano a Sodoma e a Gomorra, luoghi biblici della corruzione. La percezione di un travolgimento in atto a danno o a vantaggio della civiltà contadina va intesa in termini politici, in una speranza di un radicale cambiamento. Intorno al tema della prigione si concentra una delle più convincenti testimonianze che conferma e riconduce a ragioni profonde la presenza di influssi danteschi nella narrativa leviana. Si tratta dell’epistolario alla madre, redatto durante i mesi di carcere a Regina Coeli (lettura di Dante→compagno di cella, viatico per l’imminente viaggio verso quell’ignoto paese in Lucania). 4. Sfumature di paesaggio Il bianco di Grassano contrapposto al nero di Aliano. Il viaggio in Sicilia si deve considerare una discesa allegorica nell’inferno contadino, es.: Caronte il vecchio, bianco per antico pelo → durante l’anno in Lucania compare nelle due figure del vecchio dai capelli bianchi e del vecchio dalla lunga barba bianca; compare nelle tre giornate in Sicilia, riaffora sul volto del vecchio dai capelli bianchi, testimone durante il processo alla banda di Salvatore Giuliano; l’altra è la figura del re Manfredi (biondo e bello e di gentile aspetto) a capo della milizia di Grassano o dell’avvocato siciliano, alto, biondo. L’avventura in Sicilia (come quella in Lucania e in Unione Sovietica) presenta gli stessi caratteri di viaggio ultraterreno. Si tratta di un itinerario in altri regni sotterranei in posizione parallela a quelli già visitati tra le due guerre durante il confino in Lucania. Mentre Aliano e il territorio circostante della valle del Sauro sono restituiti al lettore con i colori infernali di Malebolge, l’entroterra siciliano viene filtrato attraverso due esperienze: la visita nelle zolfare di Lercari e la discesa nel cimitero dei Cappuccini di Palermo. Si tratta di proiezioni catacombali. I lavoratori delle zolfare, che Levi intuisce ma non vede, perché il viaggio gli è impedito dalla mafia. I sarcofagi e le mummie della necropoli palermitana sembrano conservare la rigida e burocratica suddivisione che regge le sorti dei dannati nella prima cantica dantesca. Il poema trecentesco accompagnava il viaggio al Sud di Levi e lo inscrive nella tipologia della catarsi o dell’avventura battesimale. Forte è il contatto con il regno dei morti che ha donato a Levi una nuova identità. Sentimento di un mondo già conosciuto → anche il mondo armeno ricorda il paesaggio immobile della Lucania. 5. Un’America di stelle Il confino ad Aliano è stato per Levi una seconda nascita: un viaggio di espiazione negli abissi infernali e un passaggio ai regni purgatoriali. Il distacco dal Sud viene narrato come un evento situato nella regione mattutina del giorno. La percezione di una dimensione radiosa introduce la visione di un paradiso che si offre ai contadini come regno di speranza e di luce. Levi interpreta liberamente il paradigma della Candida Rosa come una traccia di beatitudine laica. I Campi Elisi si incarnano nell’America, terra mitica della fortuna e delle ricchezze. Madonna di Viggiano nell’immaginario popolare viene vista come divinità sotterranea: il riscatto e la salvezza risiedono altrove: certo non in Unione Sovietica, meglio sarebbe a New York: la vera capitale dei contadini di Lucania. La Statua di Libertà viene vista come la bianca Madonna che porta luce. 6. L’IDENTITA DISPERSA 1. Un popolo invisibile Leonardo Sinisgalli definisce in Un disegno di Scipione e altri racconti (1975) il carattere dei lucani emigranti. L’elemento da osservare è l’invisibilità e la discrezione. Sinisgalli rafforza l’identificazione dell’ethos dei lucani, associandolo a quello dei misteriosi abitatori di mondi nascosti. Sinisgalli contemplava l’insoddisfazione professionale dei lucani: l’icona dell’artigianato inappagato e scontento si delinea e si ripromette di continuare il lavoro nell’aldilà, fino ad alimentare il sospetto che nella continua ricerca della perfezione. Questo desiderio della perfezione però diventa il preambolo alla follia. 2. Etica della marginalità Il comportamento del migrante si identifica con il carattere dell’immutabilità a cui è condannato il popolo lucano. Tale marginalità riguarda l’aspetto geografico, la sensazione di estraneità a un ambiente a causa dell’attaccamento alla civiltà contadina e alla logica della terra. Il conflittuale rapporto con i gabinetti americani sembra tormentare l’immaginario degli emigrati lucani. Anche in Scotellaro, come già in Levi, il lucano si proietta nel comfort della civiltà moderna, ma Alvaro), i caratteri di un’utopia pastorale come testimonianza di un’età felice (in Vittorini). Con una vistosa differenza: Alvaro indica la via della fuga, Vittorini caldeggia la permanenza. All’epilogo di questa civiltà pastorale fa da contraltare la fiducia nella memoria che si erge a baluardo e a custode di vicende sommerse. Gente in Aspromonte il destino dei contadini incrocia con quello privilegiato dei signori e ne rimane sconfitto. L’Aspromonte appare un tacito spettatore, talvolta assume l’aspetto di una divinità pagana. 2. Civiltà che scompaiono Vittorini ha recensito il libro sulla rivista Solaria nel maggio del 1931 e ha individuato nelle terre di Alvaro un mondo di ritmi e miti, dominato da n dolore panico. Di elegia si potrebbe parlare considerando il paradigma di un tempo reso nella sua fissità, uguale in proiezione alle montagne come archetipo della memoria. Il tema lega il destino di Alvaro scrittore a quello di Vittorini. Il medesimo paragone si trova in Conversazione in Sicilia (1941) quando, al culmine del viaggio di Silvestro si comprende la coincidenza della nozione di madre con quella della montagna. Il ritorno alla terra madre si esprime nel ritorno alle origini montanare. Le cime della Sicilia costituiscono una sorta di viaggio à rebours. Metafisico e simbolico il dialogo con la madre e offre il viatico di salvezza. Non è un caso la presenza del nonno materno. Coincidenza: tanto in Conversazione quanto nel Sempione la madre del narratore paragona il padre al marito (l’uno vincente, l’altro perdente). La verosimiglianza tra le due figure di uomini non consiste solo nella veste epica cucita addosso alle parole delle figlie. Maggiori sono gli elogi, più imponente si fa il contributo che essi hanno apportato alla storia degli uomini. Vittorini delinea il ritratto del personaggio cardine del Sempione: ci si riferisce alla maschera dell’uomo/elefante, metafora della solitudine e della memoria. Se il corpo del nonno, la voce e le spalle, hanno la fisionomia di parenti rocciose. Il libro avrebbe dovuto intitolarsi Discorso sulla morte o sull’importanza di vivere. 3. Sicilitudine/sciclitudine Può sembrare un paradosso il fatto che Vittorini pur vivendo nella geografia del moderno metta mano alLe città del mondo (1969) concepito sul mito nostalgico di un’età dell’oro. Il romanzo si apre con la descrizione dell’agglomerato di Scicli: luogo che rappresenta un bivio dell’immaginario vittoriniano, crocevia di destini rinviati o disattesi, in grado di originare il termine sciclitudine → una sorta di proiezione utopica vs sicilitudine → solitudine che si respira in Sicilia. Incipit de Le città del mondo → contrasto tra l’approssimazione delle informazioni cronologiche e la precisa indicazione topografica. La scena si svolge in una primavera tra il 1914 e il 1920. Si sottrae dal definire il tempo in cui tutto ciò si colloca. Indeterminatezza cronologica: tentativo di alludere, evocare fatti della terra di origine. Senso di vago e di allegorico. È difficile credere che ciò sia vero e che il nome Sicilia suoni solo meglio. Quando si parla di Sicilia, bisogna abolire spazio e tempo, uscendo fuori dagli assi cartesiani → problema del mito. Vittorini impara dalla lezione del Cristo di Levi ma con una variante interpretativa: anziché vivere in una dimensione di dolore senza trovare alcuna via d’uscita, i personaggi di Vittorini non solo esaltano la vita arcadica, riconoscendone i benefici, ma si mettono in viaggio per i luoghi felici. Se i contadini di Lucania subiscono lo status di immobilismo, i pastori di Sicilia assecondano una dimensione di movimento. 4. In cerca di un altrove I personaggi di Vittorini sono considerati dei cercatori di utopie. Si tratta di un mito non solo legato al rimpianto del passato, alla nostalgia dell’antica età dell’oro, ma anche al futuro nascente. Questo valore duplice combacia con la rappresentazione della città di Scicli: rivela una doppia immagine nell’oscillazione tra verticalità e orizzontalità. L’urbanistica è irregolare: pare sia una città bassa ma anche una città alta. C’è un antro valore del doppio e cioè l’approccio del visitatore: si può arrivare sia dall’entroterra sia dal litorale. Fascino di questo luogo: simile alla città invisibile Despina. La doppia natura diventa sinonimo di un destino duplice e ambiguo. Scicli viene accostata a Gerusalemme, alla città santa → tradizione biblica. 5. Addio all’arcadia La stesura de Le città del mondo si interrompe nel 1955. Crovi ne Il lungo viaggio di Vittorini. Una biografia critica (1994) attribuisce la sospensione sia a vicende private (la morte del figlio Giusto, l’arresto del fratello Sebastiano) sia a questioni legate al trauma politico. Vittorini avrebbe avuto a disposizione una decina d’anni per concludere il suo libro, ma non lo fece probabilmente a causa dell’irrompere delle trasformazioni storiche, politiche e sociali causate dal boom economico: risultava sempre più distante dai suoi presupposti ideologici. Con l’ingresso degli oggetti della modernità industriale nel tessuto del racconto il paese d’arcadia entra in crisi sia nella sua validità ideologica, sia come modello di società a cui tessere l’elogio. Nei primi quaranta capitoli si riscontrano i caratteri di una Sicilia pastorale e arcadica; in quelli che sono intitolati Capitoli non numerati il lettore è posto di fronte a una sorta di antropologia del cambiamento. Probabilmente questa direzione era quella preferita da Vittorini (sono inseriti motociclette Guzzi, vespe, luce elettrica, autocisterne, pompe di benzina, ecc). Vittorini sta descrivendo la metamorfosi sociale ed economica dell’Italia con il tramonto del mondo contadino e l’avvento industriale. Ci si può domandare, dato che questo romanzo non è concluso, come si conclude la storia? possiamo intravedere una soluzione dal copione cinematografico pubblicato da Einaudi nel 1975: i figli abbandonano i padri e con i padri anche le campagne dirigendosi verso le città, luogo della vita urbana e della conquista. 8 VECCHIE E NUOVE MARGINALITA 1. Una malinconia posterità In I vecchi e i giovani Pirandello esplicita il sentimento della fine: per spiegare ciò Pirandello ricorre a un’immagine del melodramma: un anziano reduce, che per errore si era unito ai soldati mandati a sedare una rivolta, si consegna alla morte esibendo le medaglie sul petto. Quest’uomo porta il nome di Mauro Mortara: ha combattuto a favore del processo di unificazione nazionale. Quando troveranno il suo cadavere i soldati si domanderanno da dove sia sbucato fuori. Le prime tracce del libro risalgono al 1894. I vecchi e i giovani è un libro dalla vocazione incerta, addirittura contraddittorio negli esiti postrisorgimentali, eleggendo a protagonista non solo il garibaldino Mortara, ma due rami dell’aristocrazia isolana, incarnata da due fratelli: uno clericale conservatore (in abiti borbonici) e uno filosofo filounitario. 2. Permanenza e fuga Tra Sciascia e Vittorini nasce un filo diretto: a un maturo Vittorini Sciascia offre il pretesto di riaprire una questione siciliana sia dentro di sé, sia nella dimensione pubblica. Le Cronache scolastiche (nucleo iniziale di) Le parrocchie di Regalpetra (1956) destinato alla collana de Gettoni e poi finito (disappunto di Vittorini) nei Libri del tempo di Laterza. Riscrivere la Sicilia voleva anche dire cercare il reperto storiografico, rincorrere date, indizi, testimonianze, traghettare l’isola da una condizione di non-storia verso la grammatica dell’antistoria. Il Quarantotto di Sciascia, incluso ne Gli zii di Sicilia (1958) esce parallelo a il Gattopardo. Paradosso: a Vittorini non piace il romanzo storico, eppure la sua vicenda letteraria appare rivolta a coprire inciampi del passato, a correggerne gli errori, ben consapevole che spesso la Storia non è affatto redenzione, ma una forma di inganno da cui, a differenza di Sciascia, ci si salva solo guardando oltre. 4. Oltre le periferie Lo scambio epistolare tra Mario La Cava e Leonardo Sciascia è uno spaccato culturale del Mezzogiorno al bivio tra ricostruzione e anni di piombo (dal 1951 al 1988). Nonostante la differenza d’età, entrambi sono accumunati da una dimensione geografica (lontani dalle capitali dell’editoria e lontani dalla politica). La provincia in questo frangente viene vista come una risorsa. La Cava collezionerà più di un rifiuto mentre Sciascia diventa un punto fermo per Einaudi: questo probabilmente è stato causato da una diversa interpretazione di letteratura. Per entrambi la terra di appartenenza è il centro del mondo. La Cava rimane uno scrittore legato a una dimensione frantumata del narrare, Sciascia si fa interprete di un ‘epoca in cui i sospetti della Storia si mescolano con l’antropologia e l’indagine poliziesca mette a nudo i limiti della ragione. Proprio mentre sta esplodendo la grande ondata di partenze dal Sud al Nord d’Italia agli scrittori meridionali viene offerta l’opportunità di ridiscutere il concetto di periferia e di margine. Nel 1957 la Dc promuove un numero speciale della rivista Prospettive Meridionali in cui affida ad alcuni autori il compito di narrare ciò che si va modificando nelle regioni centro-meridionali. l’obiettivo è raccontare la realtà. Il Sud è considerato provincia e questo sentirsi alle estremità di un centro → sentimento di marginalità. 5. Alla scuola dei Gran Lombardi Forse è stato Vittorini a intuire l’esistenza di un’isola abitata da “gran lombardi”: anche Sciascia aveva creduto nel mito di una Sicilia illuminista, una Sicilia lombarda, in contrasto con i fatti della Storia. lombardo è un aggettivo a cui Vittorini e Sciascia destinano significati confinanti, ma per entrambi è sinonimo di legalità, di giustizia. Nel quotidiano palermitano “L’ora” → Vittorio Nisticò tra i 1955 e il 1975 diventa uno strumento di indagine politica, autonomo nelle idee rispetto al PCI (riscatto di un’umanità, un inno alla ragione). Ultima pubblicazione 8 maggio 1992: un paio di settimane prima della strage di Capaci. Probabile che la presenza di una Palermo che credeva nella legalità fosse dentro un processo di osmosi tra giornalisti e macchina investigativa. L’ora vanta un suo primato: intimidazioni, attentati, tre cronisti uccisi tra il 1960 e il 1972. Erano gli anni eroici in cui la mafia rappresentava un argomento destinato a nutrire cinema e letteratura, ancora no nerano stati resi noti i rapporti tra malavita e organizzazioni politiche. Un giornale a volte può diventare una palestra di vita, a volte può svolgere il compito che spetta a un’università (Antonio Calabrò, Cuore di cactus). 6. Esercizi di cronaca Vincenzo Consolo ha pubblicato sull’Ora nell’estate del 1975 Esercizi di cronaca: il dato di partenza è che non riguarda principalmente la giustizia, l’emigrazione, la condizione di spaesamento, ma il sottile gioco di rimandi che gli articoli confluiti in questo volume stabiliscono con l’opera più rappresentativa di Consoli, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Il pensiero corre proprio alle conclusioni del Sorriso: si descrive la prigione a forma di chiocciola, si enuncia il teorema che la Storia assume l’immagine del labirinto. Ogni situazione conduce il lettore a pensare il viaggio è una spirale senza fine. insomma, potrebbe avere favorito l’acquisizione di un Meridione dai confini dilatati rispetto alla matrice che i lasciti dell’Ottocento avevano consegnato. Il pensiero Meridiano di Cassano ridiscute in chiave mediterranea le molteplici identità presenti nella nozione di questione meridionale. Libro manifesto Civiltà Appennino. L’Italia in verticale tra identità e rappresentazioni (2020) di Nigro e Lupo troverebbe difficoltà ad attuarsi se non intervenissero due varianti: la memoria (il mondo com’era) e l’utopia (il mondo come potrebbe essere). Memoria e utopia aprono e chiudono lo spazio narrativo degli scrittori appenninici: gli scrittori della fuga più che del ritorno, il cui modello di viaggio non è quello di Ulisse, ma di Enea. Un viaggio nella linearità di un tempo, ma senza ripensamenti, da un punto geografico che significa dissoluzione di una memoria mediterranea verso il mito fondativo di una riscrittura della Storia. 10. CIVILTA DELLA TERRA, CIVILTA DELLE MACCHINE 1. L’eresia meridionale Era inevitabile che le antiche questioni legate al Meridione si ripresentassero nell’Italia democratica e parlamentare. Era finito il tempo delle grandi inchieste agrarie e si erano spenti gli echi del viaggio in Lucania di Giuseppe Zanardelli. Dopo la svolta repubblicana, il Mezzogiorno abbisognava di proposte concrete. La via del Sud di Riccardo Musatti (1955) fu un tentativo di reagire allo stallo, fornendo una risposta all’urgenza dei problemi. Alberto Saibene sottolinea il libro che vide la luce nello stesso anno in cui a Pozzuoli si inauguravano lo stabilimento Olivetti. La coincidenza non è causale. Riccardo Musatti è un intellettuale olivettiano, il suo operato rientra nel progetto di riscattare il Sud. Adriano Olivetti aveva tra le sue priorità Pozzuoli, città/fabbrica, e Matera, capitale delle città contadine. Sono realtà molto in antitesi: l’una simbolo della civiltà delle macchine, l’altra civiltà della terra → entrambe rientrano nell’idea di riscattare gli ultimi. La via del Sud è un’opera che potrebbe collocarsi a cerniera ideale di questa duplice ramificazione. L’indagine di Musatti comincia dal dibattito postunitario e giunge a lambire il problema dell’assenza di una borghesia meridionale. Musati ne fa un tema cruciale perché solo attraverso la presenza di una borghesia illuminata sarebbe stato possibile evitare uno dei mali più dannosi: l’alleanza con l’aristocrazia agraria e la conseguente sfiducia nei contadini. Bisognerebbe invece allargare lo sguardo e riformulare un’idea di Stato. Idea di una nazione somigliante a un mosaico di comunità, singolarmente analizzate e aiutate sulla base di reali esigenze. 2. La vocazione del moderno Il 13 aprile del 1955, a Pozzuoli, una folla di operari che ascolta Adriano Olivetti durante l’inaugurazione dello stabilimento dove avrebbero trovato occupazione: si possono immaginare le loro facce disorientate. Chissà se qualcuno dei presenti abbia avuto la percezione di quanto diversa fosse la traiettoria che quelle parole indicavano al capitalismo italiano. L’industria può darsi altri obiettivi che vanno oltre il profitto. Deve in altre parole scoprire la sua vocazione all’utopia. In Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri si ha la scena del protagonista che deve selezionare le maestranze da accogliere in fabbrica. Ottieri descrive nel dettaglio il discorso di Olivetti, la ricaduta di queste parole sui presenti e riporta fedelmente il testo di Adriano sottolineando l’importanza storica e il carattere visionario: una fabbrica a misura d’uomo. La lezione olivettiana per cui la civiltà industriale deve dialogare con la civiltà della terra determina quel rapporto di continuità. L’obiettivo di Olivetti era quello di rileggere il capitalismo in forma capovolta nel tentativo di edificare una contro modernità. Due sono i punti del discorso di Olivetti: il primo è quello di evitare di dilaniarsi delle famiglie bisognose di lavoro e perciò costrette a emigrare verso le strutture imprenditoriali del Nord Italia e del Nord Europa. Il secondo è quello di correggere i modi e le forme in cui fino a quel momento si era affermata in Italia l’idea di industria. L’intento di Olivetti era quello di azzerare le distanze tra le due Italie, cioè di cancellare la linea gotica. Donnarumma all’assalto è il teorema di quanto questo fosse difficile: accedere nella fabbrica di Pozzuoli. Il romanzo è costruito sull’impossibilità e l’inacessibilità e la frustrazione derivate dal non ingresso nei ranghi di questa azienda. L’ingresso assume l’dea di salvezza metafisica, il colloquio con il selezionatore si trasforma in una scommessa (uscire dal limbo ed entrare in una vita beata). Nessun altro imprenditore aveva mai osato tanto → confronto con la psicotecnica. La fabbrica anche se bella p impenetrabile e resta un sogno vagheggiato. 3. Contadinismo e antimodernità Donnarumma all’assalto presenta una buona dose di antimodernità. Non si può sottolineare quanto fosse problematico il rapporto tra il Meridione e industrializzazione. Anche l’atteggiamento assunto da Rocco Scotellaro negli anni prima della morte: egli aveva animo di trasferirsi a Ivrea. Scotellaro riferisce della contrarietà di Levi. Scotellaro è una bandiera dell’attivismo intellettuale nell’immediato secondo dopoguerra, il suo desiderio di trasferirsi a Ivrea appare quasi un tradimento e di sicuro lo sarebbe stato agli occhi di Levi. È anche un modo indiretto per riconoscere la vittoria del nuovo mondo sul vecchio. In questo braccio di ferro tra civiltà della terra e la civiltà delle macchine l’industria avrebbe vinto a patto di rinunciare al tentativo di un Mezzogiorno industrializzato. 4. Sotto-economia capitalista e nuovo luddismo Risultare anomalo, molta della letteratura ispirata dal capitalismo ha trovato humus nelle regioni meridionali: soprattutto in Puglia e in Campania. Mente in anni recenti l’attenzione degli scrittori sembra concentrarsi sugli impianti siderurgici di Taranto, un tempo si guardava a Napoli e all’area vesuviana. L’Ilva di Bagnoli faceva da scenario a Tre operai di Carlo Bernari (1934), un romanzo che narra l’addio alla civiltà contadina. Nel passaggio da Bagnoli e Taranto c’è la denuncia di un fallimento. Il sovrabbondare di narrazioni che guardano a Taranto e al suo dissesto ecologico obbliga a pensare che la fabbrica perda la fisionomia del luogo in cui ottenere il potenziale riscatto per diventare un motivo adatto a demonizzare la civiltà industriale. In Donnarumma all’assalto siamo di fronte a delle speranze tradite, in Era l’anno del sole quieto di Bernari (1964) siamo di fronte a un romanzo che fa da risposta ideale al libro di Ottieri. Un argomento in comune attraversa la scrittura di Ottieri e Bernari ed è l’idea che non ci sia altro modo per combattere la disoccupazione se non quello di guardare con speranza agli imprenditori del Nord: ad Adriano Olivetti, utopico e controcorrente, a Orlando Rughi, docente universitario di origine emiliane, intenzionato a costruire un’azienda chimica da collocare in un’immaginaria cittadina chiamata Afragopoli. Nel romanzo di Ottieri la fabbrica esiste: il suo protagonista continuerà inutilmente a perseverare nel sogno di varcare i cancelli e darsi un futuro da tuta blu. In Bernari i tentativi di edificare una fabbrica si smarriscono nel labirinto della burocrazia. Per il plebi meridionali non resta che la fuga verso le città del Nord Italia e del Nord Europa. Sia negli assalti alla fabbrica tentati da un aspirante operaio secondo le modalità di una moderna crociata, sia nel complicato e compromettente giro di consultazioni cui si deve piegare il professor Rughi per ottenere permessi e licenze emerge una linea di continuità che tende a mortificare il progetto di un Meridione industrializzato. Le indicazioni che arrivano dalla letteratura ci indicano un clima di contrarietà nei confronti della fabbrica e un eccesso di diffidenza nei suoi meccanismi, nella sua capacità di assicurare un destino agli individui in attesa di riscatto. E questo è l’elemento che segna la distanza tra la cultura del lavoro germinata sopra il Po e i presupposti narrativi scaturiti da un Meridione. Se in epoca premoderna non si guardava alla storia quale luogo di redenzione morale, adesso, nemmeno la fabbrica viene ritenuta capace di operare alcuna forma di riscatto, nemmeno di tipo economico. È un dato che manifesta un generale atteggiamento di sfiducia ed emerge a più livelli. Ci sono due esempi: Vogliamo tutto (1971) di Nanni Balestrini e Le ferie di un operaio (1974) di Vincenzo Guerrazzi: due opere in cui il lavoro alla catena di montaggio diventata motivo di insofferenza fisica. Per parlare di neoluddismo bisogna aspettare Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operario del Sud (1978) di Tommaso Di Caiula: un romanzo/monologo sulla rabbia di un metalmeccanico pugliese durante una crisi petrolifera nei primi anni 70, un testo che risente di un clima teso nei confronti della fabbrica (odio verso la fabbrica e implicito rifiuto → i ragazzi sentono l’esigenza di spaccare tutto). In area meridionale, infatti, si delinea il personaggio dell’operaio ribelle: un personaggio irregolare di estrazione popolare, furbo e disincantato. Il protagonista di Tuta blu rappresenta una sorta di archetipo: il suo è un conflitto personale, senza mediazione sindacale, la sua lotta conserva i caratteri di un’impresa tragica. 5. Una dimensione irrisolta La rivista della Finmeccanica si svolge sul dibattito delle due culture ed è uno strumento attraverso cui colmare il divario tra una tradizione umanistica arretrata e le frontiere della tecnologia. Il clima delle visite in fabbrica nel 2008 sono state raccolte in un libro intitolato L’anima meccanica. Le visite in fabbrica in Civiltà delle macchine: i letterati continueranno a non conoscere le macchine, però ne decantano le virtù con un lessico che è per niente problematico e conflittuale. Sinisgalli credeva nella centralità della macchia nel processo di modernizzazione del Mezzogiorno. In un’Italia ideologizzata non c’era posto se non per una sommaria inedita linea gotica. La via del Sud non passa né attraverso le rivolte contadine, né l’industrializzazione. E in questa indecisione il Mezzogiorno si sarebbe trascinato fino alla soglia della stagione postindustriale, quando Antonio Pennacchi con Mammut (1994) ed Ermanno Rea con La dismissione (2002) hanno raccontato l’eclissi della classe operaia e la fine dell’Ilva di Bagnoli con due romanzi di forte impianto morale. Rea si pone a metà strada tra un Sud contadino e un altro industrializzato. una nuova cultura si sarebbe potuta spalancare con la presenza di poli industriali, è certo però che Rea ha sviluppato un discorso tutto suo. Al bivio si è arrestata la narrativa di Rea: non più il rimpianto per il tempo di ieri, ma il fallimento del tempo di domani, di cui riconosciamo la paternità nei gesti e nella voce di un operaio che parla con la lingua intellettuale. Invece Vincezo Buonocore si limita ad assistere allo smontaggio della fabbrica proprio come Tino Faussone era abile nel montare gru. Le azioni del montare e dello smontare sono eloquenti. Qualcosa rimane però della vecchia fabbrica Ferropoli: così era chiamata la fabbrica di Bagnoli. Resta l’inno internazionale, una musica che sa di solitudine e di malinconia (non più utile a nessuno). 11. IL DESTINO DELLE AREE INTERNE 1. Le due Italie Nel mensile Nord e Sud, Compagna distingueva due Italie: il nord e il sud, ma anche i legami che ciascuna di esse aveva con l’Occidente continentale e il Mediterraneo. Inserire il Mezzogiorno in uno scenario dove fossero comprese le zone di un efficientismo calvinista e quelle di una mediterraneità che coltivava la lentezza, un gesto di sprovincializzante per sottrarre al Sud il peso della sua incompiutezza. La figura di Compagna diventa cruciale se collocata dentro scenari della nuova questione meridionale. Per esempio, ne I terroni in città (1959) e La politica della città (1967) hanno l’obiettivo di creare un fronte ideologico adatto ad arginare l’interpretazione leviana del Mezzogiorno: la visione di un Difficile ipotizzare come mai la linea urbana di Vittorini (in alternativa al ruralismo leviano) non abbia fatto successo. La letteratura dovrebbe ergersi a strumento di indagine e non solo di denuncia. 3. Uomini e non uomini Distinzione vittoriana degli uomini e dei non uomini. Il venire meno della presenza di Dio da un lato recupera la matrice infernale-dantesca, dall’altro rinvia alle discussioni sull’Unità italiana. Ne La conquista del Sud (1972) di Alianello riporta il giudizio che Lord Gladstone aveva inviato per lettera al capo dell’esecutivo britannico, lord Aberdeen, il 17 luglio 1851, dove si accusava i sovrani borbonici di aver elevato l’illegalità a forma di governo, rendendo il regno delle due Sicilie il più spregevole degli stati europei. Tuttavia, non possiamo non ricordare una certa coincidenza di risultati, tanto ne La conquista del Sud quanto nel Cristo: se Dio nel Sud latina, ciò dipende dalla condizione di lontananza dalla Storia, che in Alianello si manifesta negli errori commessi dai re e in Levi invece assume i connotati di un’entità astratta di cui i contadini avvertono gli echi solo quando occorre pagare il tributo di sangue a quei fenomeni che sono identificati con la Storia. il libro di Levi non solo certifica l’assenza della storia, ma tiene ben salda la questione meridionale alle sorti di chi lavora la terra, escludendo altre importanti stratificazioni sociali: il ceto degli artigiani e dei commercianti. 4. Le due Lucanie Nel 2011, in occasione delle celebrazioni per il 150 dell’Unità d’Italia, la regione Basilicata decise di costruire il proprio percorso identitario intorno alla figura di Leonardo Sinisgalli. La scelta non raccolse il consenso di tutti. Da parte di alcuni si sottolineava che l’opera non raccolse il consenso di tutti. Per alcuni l’opera in versi e in prosa e del poeta politecnico poco si addicesse alla cultura delle aree interne. Due intellettuali lucani (Sinisgalli e Scotellaro). Sinisgalli si era allontanato ancora ragazzo dal sud, mentre Scotellaro era diventato l’emblema dell’impegno politico. La Basilicata (e l’Italia) vive di queste antitesi: l’ingegnere fuggitivo e il sindaco martire. Ad attrarre Scotellaro era il problema dei contadini e l’antico pregiudizio. Invece, Sinisgalli, opponeva al folclore magico e antropologico l’etica dei falegnami, dei calzolai, dei fabbri: cultura leonardesca che costituisce l’anello mancante dell’intera narrativa meridionale, da Verga a Saviano. L’ingresso di Sinisgalli in questo discorso introduce i caratteri della discontinuità. Il nome di Scotellaro avrebbe continuato ad assimilare il concetto di Meridione ai miti della terra e nei modi di una grammatica stantia. Non è detto che Sinisgalli rappresenti la chiave di accesso verso un Sud che avvia voltato le spalle a Eboli in via definitiva, però certo la sua figura si erge provocatoriamente a difesa di un principio di modernità rimasto per troppo tempo sepolto nelle viscere di una fascinazione leviana. Al fallimento delle passioni politiche gli scrittori del Mezzogiorno hanno quasi sempre conservato l’abitudine al grido di denuncia, alla rappresentazione del male come esperienza di una geografia convulsa e aggrovigliata, al tam tam della violenza quale liturgia di un’area che non ammette redenzioni. 5. Oltre il latifondo Un giovane maestro elementare arriva nella Lucania degli anni 50 con l’incarico di educatore. Deve preparare ai mutamenti della riforma agraria la popolazione che vive in campagna. dovrà anche mettere in conto la difficoltà sociopsicologiche a cui andare incontro, compreso il rischio di addentrarsi in un mondo che vive di regole antiche e consolidate, in cui domina il familismo amorale. Il giovane maestro si chiama Giuseppe Bufalari e la sua esperienza è narrata in La masseria, uscito per Lerici nel 1960. L’immagine della terra non toccata dalla profondità del tempo e dai flussi della storia era diventata una dimensione così totalizzante da soffocare qualsiasi altra chiave di lettura. Il racconto delle dinamiche legate alla riforma marca la linea di superamento della visione leviana del Mezzogiorno. Bufalari non aveva consapevolezza che la sua opera segnasse la risposta all’elegia leviana e alle inchieste di Scotellaro, ma di fatto egli s’incammina oltre Levi e Scotellaro. Nonostante la riforma agraria non si sono modificate le sorti contadine e il corso dei fatti ha portato a un fallimento delle aspettative e all’emigrazione in altre città. Nel 1960 l’emigrazione è già diventata un fenomeno di massa: la riforma modificherà solo momentaneamente le condizioni di vita e i contadini saranno costretta rinviare il sogno di abitare in una civiltà progredita vestendo le condizioni di emigranti. 6. Levismo e antilevismo La fortuna del Cristo ha prodotto in termini di suggestioni culturali finendo per generare una letteratura che in alcuni casi si è radicalizzata. Non è detto che ciò che è stato scritto in Italia in tema di meridionalismo vada ricondotto per forza ai riverberi del Cristo, però è chiaro che, quando osserviamo il panorama letterario degli ultimi 70 anni, non si può non ragionare in termini di levismo e antilevismo. Accostando i nomi di Levi e di Tommaso Fiore la casa editrice Laterza intendeva candidarsi a erede della tradizione libera legobettiana, rappresentata, oltre che da Levi stesso, anche dal libro di Fiore, che uscì nel 1951 e conteneva 4 lettere a Piero Gobetti risalenti al 1925 e due a Giuseppe Gangale del 1926. Intorno al nome di Fiore si apre un capitolo per comprende il filone del nuovo meridionalismo e i legami contratti con la cultura antifascista. Fiore e le sue opere si avvicinano a Levi (Un popolo di formiche, Il cafone dell’inferno). Il discorso diverge nel momento in cui gli interessi di Fiore si allargano oltre la condizione dei contadini, giungendo a interrogarsi sulla presenza o assenza di una borghesia in grado di modificare i rapporti tra individuo e storia. le parole di Fiore disegnano un quadro dove gli intellettuali sono chiamati alle proprie responsabilità. Il cafone dell’inferno porta la sigla Einaudi, ma è chiaro che prosegue il proprio programma con i Libri nel tempo sotto la presenza di Levi. Dopo Scotellaro seguirà un’altra pubblicazione di sicura matrice leviana: Baroni e contadini (1955) di Giovanni Russo, che è una ricognizione di un Mezzogiorno ancora rurale e povero. Libri nel tempo manifestano legami con il magistero di Levi. Si potrebbe parlare di un metodo di indagine leviano o di un prototipo Scotellaro quali fattori che guidano gli orientamenti in casa Laterza. Dagli scambi epistolari trapela la sensazione che nell’officina barese ci fosse un unico modello da applicare senza troppa flessibilità: duo Levi- Scotellaro. 7. Documento e mimesi L’analisi di Crovi abbraccia un fenomeno assai più vasto del secondo dopoguerra. La collezione einaudiana è stata e rimane il tentativo di oltrepassare la stagione del realismo (contaminazione del genere romanzo con altri codici, il recupero del mito in funzione antielegiaca). La linea di Vittorini in alternativa al levismo si propone come una chiave di lettura inedita. Non mancano autori che si collocano su una posizione di antilevismo. In Nigro si riconosce un modo obsoleto di raccontare il Sud. Non si può negare che il nome di Levi suscita manifestazioni di insofferenza o di disprezzo. Mentre permangono qua e là alcune sacche di levismo sopra questa galassia di nuovi autori si abbatte il modello Gomorra: una forma di racconto/documento che sperimenta un inedito rapporto tra realtà e rappresentazione → l’obiettivo è denunciare i problemi, a riconoscere nel Sud i segni maledetti della città di Dite. Anche Gomorra rischia di sclerotizzare il dibattito e di ridurlo a una superficiale lettura del presente, a cui però manca lo sguardo progettuale. 13. VIAGGIO NEI PAESI D’UTOPIA 1. Fuga o ricostruzione? Esiste una maniera alternativa per varcare la frontiera di Eboli e si trova nella narrativa meridionale che antepone la ricerca dei luoghi o delle condizioni di vita ideali alla rappresentazione della realtà. Fa della letteratura il territorio in cui tracciare la via dell’azzardo, in cui trasformare la pagina scritta in specchio ustorio delle utopie. Di fronte alla scelta di utilizzare la letteratura come ritratto della realtà che stenta a farsi Storia verrebbe da guardare in un’unica direzione: far coincidere la nozione di utopia con l’irreale e l’impossibile. Vista in questi termini, gli scrittori meridionale o hanno azzerato l’idea della Storia come spazio di futuro o hanno scavalcato la storia. laddove essi non negano la storia trovano soluzione nell’utopia. Una volta che si dà per scontato il discusso rapporto con la storia, la tentazione più immediata è quella della fuga, che coincide con la smaterializzazione di ogni progettualità. Fuga o ricostruzione disegnano destini diametralmente opposti e presuppongono approcci diversi con il senso del tempo, che è limite e risorsa. 2. Un villaggio-comunità L’esperienza letteraria di Ignazio Silone oscilla tra gli estremi dello sradicamento e dell’utopia. Non a caso Fontamara (1933) è scritto e pubblicato per la prima volta in una terra d’esilio, la Svizzera, che Silone considera rifugio estremo. La sensazione è che Fontamara rappresenti una sorta di non-terra. L’operazione di rifondare (o di rifabbricare) una topografia mette in circolazione una serie di considerazioni. Quest’opera è una denuncia meridionalista ma tendente verso l’allegoria. Rifondare un villaggio significa trasferire all’interno di un orizzonte artificiale il proprio mondo interiore. Inoltre, è la conferma di quella dimensione utopica in cui Silone circoscrive la terra d’Abruzzo. Allegorie: immagine della terra promessa; il racconto del pane bianco e del pane granturco (elemento antropologico che da spia di disuguaglianze sociali giunge a contestualizzare i caratteri della redenzione e della dannazione). Ad Aliano resteranno perennemente al di fuori dell’orizzonte cristiano, chi invece vive a Fontamara continua a sperare nello stesso miracolo toccato a Giuseppe da Copertino, cioè a un cafone/frate, che poi è diventato santo cafone ed è riuscito a far commuovere Dio chiedendo il pane bianco quale ricompensa del paradiso. Berardo Viola →Silone concentra i motivi destinati a trasferire la vicenda narrata dal romanzo su posizione allegoriche. La pagina finale restituisce la lettura di questo vangelo dei poveri: è l’ulteriore riprova che alla condizione di subalternità esiste un’alternativa (emigrazione all’estero) quale antidoto non soltanto al fascismo, ma all’immobilismo di marca feudale. 3. Le due economie Vittorini e Rigoni non realizzarono mai il loro viaggio in Canada, ma Le donne di Messina (1949) risente di questa appassionante suggestione. Il romanzo narra di un padre, chiamato zio Agrippa, che viaggia in treno su e giù per l’Italia in cerca della figlia che aveva seguito le truppe alleate mentre dalla Sicilia risalivano la penisola. Viene a sapere di un gruppo di sfollati, tra cui donne provenienti da Messina, che al termine della Seconda guerra Mondiale si radunano sull’Appennino tosco- emiliano e fondano un villaggio dove non esiste proprietà privata e tutto è in comune. La costruzione del villaggio appenninico è uno dei tre nuclei narrativi. Dal febbraio al settembre del 1947 su La rassegna d’Italia compare un romanzo a puntate con il titolo la zia Agrippa passa in treno. Successivamente cambierà nome. Non contento Vittorini continuerà a lavorare modificando impostazione della trama e impianto ideologico. Nell’edizione del 1949 Vittorini sembrava propendere per un tipo di civiltà che manifestava caratteri utopici nel suo essere appartato rispetto al Zagaria che allude all’inquinamento dell’ex Italsider di Taranto: il vero veleno non sono i materiali radioattiva, ma la corsa ossessiva all’arricchimento. Il mezzogiorno assume l’aspetto di una landa senza regole. Commedia (ballata noir) → romanzi dove ci sono occasioni mancate, qualcosa che sconfina nel comico che però sa di amaro. →personaggi di Anna Maria Ortense, Fantasmi Vesuviani (2009) di Felice Piemontese → collegamento con Il mare non bagna Napoli e il suo capitolo Il sonno della ragione (1953): il paesaggio della Ortense non è paragonabile a quello di Piemontese: troppo diversi i caratteri analizzati, le epoche e i personaggi. Aspetti paradigmatici: dimensione di incompiutezza (problema di sincronia, trovarsi o troppo avanti o troppo indietro), le insoddisfazioni, i desideri di fuga, le delusioni (sono gli elementi comuni). Per la Ortense i personaggi vivono in uno stato di sonnolenza → parallelo tra Il sonno della ragione e La provincia addormentata (1949) di Michele Prisco. Il modo migliore per raccontare il destino di Napoli è trovare una linea tutt’altro che napoletana, una condizione fuori dagli stereotipi. Esco presto la mattina (2009) di Massimo Cacciapuoti → gli intrecci tra politica e camorra, rappresentare una condizione umana al confine tra storia di individui e storia di una città, nel punto di sutura fra dimensione privata e responsabilità pubbliche, consegnando ai lettori una metafora su cosa significhi oggi abitare una Napoli senza etica e senza speranza. 5. Fabbricarsi una meta Andrea Di Consoli è autore che continua a credere nelle suggestioni di una condizione ancestrale e forse anche edenica. Il suo libro più lirico è Il padre degli animali (2007), un dialogo tra generazioni poste di fronte allo spaesamento del moderno; egli ci ricorda che il Meridione è una terra senza pace e ci invita a deporre le visioni di una geografia colorata per fare spazio alla monotonia del dolore. In questo Mezzogiorno la cronaca ha scalzato l’epica e la vicenda di due giovani trovati cadaveri nella vasca da bagno di un appartamento può diventare una spia in cui matura la coscienza di una dimensione primitiva come lo era al tempo del premoderno. Il problema è di comprendere le ragioni della violenza gratuita e di dare una spiegazione al sangue. Non si può affrontare il racconto del Mezzogiorno se non in maniera articolata, come racconto di una pluralità. Raffaele Nigro e Carmine Abate sono gli autori più propensi a disegnare un arco cronologico in cui il fenomeno transita da racconto delle partenze e della fuga a racconto dei ritorni e dell’inclusività, cioè dei flussi immigratori provenienti dall’Africa o dal Medio Oriente, che hanno caratterizzato la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio, contribuendo a posizionare le regioni del Sud al centro di quella dimensione meridiana più dilatata nello sguardo rispetto all’antica percezione dell’orizzonte meridionale. Il tema dell’emigrazione unifica i vecchi ai nuovi meridioni. I protagonisti dei libri di Abate e Nigro sono persone in fuga dal passato, condannati alla condizione di sradicamento e di emarginazione. Perdere la memoria, per questi autori, significa smarrirsi al termine di un viaggio che potrebbe comprendere conoscenza. I personaggi dei libri sono eroi al bivio tra coraggio di affrontare l’altrove e desiderio di ritorno: sono il volto di un Sud che ci è stato consegnato dal cambio di millennio. 6. I margini di un’Italia minore Il virus ha modificato per sempre le regole del dibattito socio-antropologico, obbligando architetti, sociologi, letterati, economisti a ripensare a quale modello di vita affidarci per evitare di ricadere nell’errore: per esempio, le ipotesi urbanistiche relativi a una fuga dalle aree metropolitane e valorizzazione di neo-ruralità: sarà mai possibile che il mito urbano sia stato messo in discussione da un’epidemia. La sfiducia nei confronti di certi modelli non nasce negli ultimi mesi del 2020, complice anche l’insorgere di un generale processo di delusione nei confronti della globalizzazione. Ci siamo stancati di subire il fascino dei non luoghi, della decrescita felice, della virtualità, della liquidità: cerchiamo luoghi, peso, sostanza. La questione è urgente, nel periodo post-epidemia, quando l’azione di ricostruire viene invocata da tutti. In questo senso ruolo cruciale il Manifesto per riabitare l’Italia (editore Donzelli, 2020): il libro segue a distanza di appena due anni un volume precedente, Riabilitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste: le due pubblicazioni sono legate da una linea progettuale ben precisa: il tentativo di dare voce a quell’Italia minore, fatta di aree interne (appenniniche e non) rimaste ai margini del contesto politico-culturale degli ultimi decenni. Riabilitare l’Italia non è un’operazione arcadica e non contiene il valore di una retorica che contrapporrebbe alla crisi dell’era globale il populismo di una sterile e nostalgica rivendicazione del “com’eravamo…”, il romanticismo piagnisteo della paesologia o la pretesa di affermare certezze in termini di antimodernità. Il Manifesto è una sorta di codice di accesso. Se è ormai un dato certo che le grandi aree metropolitane stanno vivendo quella che gli estensori del Manifesto definiscono «crisi di egemonia», l’invito a «invertire lo sguardo» riassume un ruolo decisivo per ridare credibilità a quell’Italia dei margini. Pensiamo all’Appennino e alle sue potenzialità mortificata, ma pensiamo anche a come potrebbe godere di nuova vitalità, appena i suoi borghi fossero ridisegnati dai supporti dell’informatica. Il Manifesto ha un valore etico e civile, che assume i connotati di un’azione politica. 7. Contro la nuova arcadia In occasione dell’epidemia di coronavirus, nel 2020, c’è stata una diversità di fenomeni tra le aree del Paese. Mi riferisco al tipo di impatto che l’epidemia ha avuto sui comportamenti umani, a proposito dei quali non è stato difficile osservare una macroscopica inversione di rotta. Il Mezzogiorno ha vissuto un rapporto di subalternità nei confronti delle zone economicamente più sviluppate e più densamente popolate. Con l’esplosione del coronavirus sembra che siano entrati in crisi gli antichi equilibri tra Settentrione e Mezzogiorno, contribuendo alla convinzione che la città fosse il luogo a cui tendere come modello ideale di civiltà. Giunto il momento di ripopolare i borghi coinvolti, nei decenni precedenti, in un emorragico processo d’abbandono. Il problema riguarda non solo il Mezzogiorno, ma dall’Appennino emiliano in giù. L’esperienza del Covid-19 non può sconvolgere alla radice gli equilibri tra il Settentrione e il Mezzogiorno tanto da provocarne il ribaltamento. Le aree interne mancano ancora di quei servizi in grado di assicurare un livello accettabile nella qualità della vita. Assai più complicata la realtà dell’Italia minore, quella appunto meridionale. L’anomalia si manifesta l’abitudine a narrare i borghi obbedendo a quella che Vito Teti, in Quel che resta (2017), definisce la “sindrome del cuculo”. La questione adesso si ripropone: perché ritornare, se quei luoghi continuano a non garantire lavoro, qualità nei servizi, assistenza sanitaria, opportunità economiche? Occorre, in altre parole, difendere il Mezzogiorno sia dalla nuova arcadia che desidera incorniciare il paese a icona di una finta bellezza, sia dalla proposta di una fuga dalle città, che non contiene il progetto di una redenzione, non sembra cioè preoccupata a risolvere il problema della subalternità ma solo a soddisfare il bisogno di evasione dalla pestilenza dei grandi spazi urbanizzati, vivendo le aree interne come un’avventura esotica, buona a soddisfare la curiosità di chi è stanco dall’eccessiva civiltà e cerca un momentaneo rifugio nella preistoria. 8. Labirinto irpino 19:34 del 23 novembre 1980 terremoto dell’Irpinia. Non è facile comprendere quel che accade la sera del sisma. Nel periodo dopo il sisma il paesaggio si è completamente modificato. Le aree interne hanno continuato a vivere nella prospettiva della marginalità e non sono riuscite a eliminare la sensazione di subalternità che si portavano dietro come valore ereditario di una tradizione storica. I luoghi che appartengono alla mitologia del dolore, usciti deformi da avventati interventi urbanistici, hanno perduto lo status originario di comunità. Quando parliamo di terremoto, ci riferiamo a qualcosa che assume un valore strategico nel destino del Meridione fino al punto di trasformare in tragedia un argomento-cuore come la questione meridionale, che poi a sua volta da tragedia si è convertita in scandalo e da scandalo è diventata simbolo negativo. Leonardo Sciascia scrisse: «Non ricostruire, ma costruire: non cercare di mettere nuovamente su quello che c’era, ma tentare con buon senso e con ordine di creare quello che non c’era». Sciascia indicava una strategia che andava verso la dottrina del rinnovamento. Tutto ciò non è accaduto. Chi ha vissuto quel trauma non è ancora riuscito a elaborare un processo di rimozione. Bisognerebbe rimettere ordine, tornare a interrogare il passato per liberarcene una volta per sempre, «recuperare una memoria». Esistono infinite testimonianze parziali, eppure manca una narrazione compatta, obiettiva. Le cifre individuate dagli esperti e colgono solo parzialmente la vastità del dramma, che fu antropologico e sociale, prima ancora che geologico. Il sisma del 23 novembre scosse una civiltà che fino a quel giorno era stata lacerata dalla grandezza emigrazione del secondo dopoguerra, ma che era rimasta in una condizione di soglia, non lontana dal bivio in cui si era fermato Cristo nel suo viaggio oltre Eboli. I ritardi, le colpe, la cattiva gestione dei soccorsi, il malaffare seguito alla pioggia di finanziamenti stanziati per la ricostruzione. In un’Italia che si preparava a percorrere il decennio della rinascita economica, il sisma era qualcosa da rimuovere in fretta o da marchiare. Da meridionale, la questione presto si è trasformata in morale. A chi non si lascia ingannare da una certa vulgata non sfugge che il terremoto fu un pretesto per sistemare alcuni conti lasciati in sospeso, per inchiodare una stagione politica che aveva eletto nell’Irpinia, il proprio fulcro. Potrà apparire un azzardo affermare che il terremoto fu il bivio da cui transitarono le insegne di un domani che avrebbe avuto altre manifestazioni: la questione settentrionale, la mentalità leghista, le rivalse di un Nord che approfittò della situazione per imprimere al Paese un’altra traiettoria. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Quel che è certo è che la sera del 23 novembre «segnò la fine di un’epoca di politiche, progettualità e risorse per il Meridione ben testimoniata dalla lenta agonia della Cassa per il Mezzogiorno, che fu messa in liquidazione nel 1984 e cessò di esistere, formalmente, nel 1986». Cristo non restò fermo all’incrocio di Eboli. Sul finire degli anni Ottanta arrivarono piccoli insediamenti industriali e trovarono occupazione i giovani che non volevano emigrare. Poi le fabbriche chiusero. I riflettori si spensero, le aree industriali furono abbandonate e il Meridione si accorse di essere passato dal premoderno al postmoderno, dall’innocenza degli scatti in bianco e nero di Cartier-Bresson alle discariche e ai capannoni dismessi. 15. IL SOGNO DELLA STORIA 1. Narrare angioino e narrare aragonese
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