Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

La svolta del 1929 Prima e dopo Gli indifferenti di Alberto Moravia, Sintesi del corso di Letteratura Contemporanea

Il riassunto è completo. Chiedo scusa per eventuali errori di battitura.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 01/07/2024

Giulia_DiIanne6120
Giulia_DiIanne6120 🇮🇹

4.5

(32)

4 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica La svolta del 1929 Prima e dopo Gli indifferenti di Alberto Moravia e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Contemporanea solo su Docsity! La svolta del 1929 di Massimiliano Tortora Primo capitolo Il dibattito sul modernismo in Italia non ha avuto solo ragioni specificamente letterarie ma ha riguardato più da vicino la fisionomia del Novecento, o almeno quei decenni iniziali che, in forme che proveremo ad indicare, informano e influenzano l'intero secolo. Quello che accade a cavallo tra Otto e Novecento non è solo un mutamento di forme di stili ma una vera e propria rivoluzione antropologica. È facile ricordare come all'inizio del secolo Einstein abbia messo da parte la concezione unitaria oggettiva del tempo, e abbia inserito nell'immaginario collettivo una delle parole chiavi del primo Novecento ovvero relatività. La percezione del soggetto diviene il baricentro del secolo. A cambiare è sia la percezione del tempo sia anche la percezione dello spazio il quale, da distesa infinita e continua da conoscere e percorrere, diviene frazionato e segmentato. A rendere definitiva la rivoluzione antropologica è intervenuto Freud i cui testi vengono letti, studiati, appuntati e in alcuni casi anche tradotti (ancora ad esempio di Svevo): è con L'interpretazione dei sogni del 1899 che viene stabilito che il dispositivo dell'agire umano, e dunque l'identità dell'individuo, è l'inconscio, che non può essere governato, conosciuto, modificato. Il soggetto (la sua percezione del mondo) rimane centrale, ma perde il dominio su sé stesso e su quell'inconscio che è quanto di più prezioso ci sia nella struttura individuale. L'uomo d'inizio Novecento vive una dialettica in cui il soggetto ha un peso predominante rispetto all'oggetto ma all'interno di una dinamica in cui tutto ha una dimensione più ampia: sia il mondo, che assume infinite prospettive a seconda delle intersezioni spazio temporali sia l'io, il quale non può essere conosciuto e tantomeno descritto. A cambiare non sono solo questioni prettamente gnoseologiche ma anche quelle morali: in questo immaginario collettivo vige l'idea per cui il soddisfacimento del bisogno personale diventa il principio su cui imperniare la propria etica, la quale a sua volta stabilisce dettami morali, la cui validità oscilla nel tempo e nello spazio. Queste personali regole morali devono sia soddisfare le esigenze dell'io ma allo stesso tempo non devono ledere l'altro-da-me. Possiamo affermare che la parola mediazione diviene il termine chiave della condizione modernista. Questa mediazione è tra il principio di piacere e il rispetto dell'altro, tra il desiderio di conoscere l'ignoto e la consapevolezza dei limiti della ragione e delle possibilità conoscitive, tra vertigine di potere e tra la solitudine esistenziale per abitare un mondo abbandonato dagli dei, tra rassegnazione a un senso di vuoto e insopprimibile e l'esigenza di pienezza dell'essere. (Ne la Teoria del romanzo di Lukacs, egli afferma più volte che la nascita del romanzo, l’esigenza di scrivere un romanzo nasce nel momento in cui gli dei hanno abbandonato il mondo. Egli divide la storia della cultura in due grandi momenti: il momento dell’epica classica in cui “gli dei abitavano il mondo” e in cui l’individuo non è cercatore di senso perché tutto è sensato, tutto ha una logica. Gli dei guidano le azioni e quindi i personaggi, anche dopo essersi persi, si ritrovano sempre. Ad esempio Ulisse affronta le prove più estreme ma la sua visione è sempre tutelata. Ad un certo momento, senza data, gli dei hanno abbandonato il mondo e quel rapporto diretto con il senso (immanenza con il senso) viene perso, così l’individuo si fa cercatore). Il romanzo è il genere che ha saputo dare espressione all'inedita condizione modernista, inventando modi di raffigurazioni e dialogando per la prima volta con insoliti campi del sapere. È oggettivamente complesso riuscire a descrivere quelli che sono i tratti caratteristici del romanzo modernista. In primo luogo il tratto epistemologico che accomuna quella larga area che va da Proust a Musil, da Joyce a Pirandello, da Kafka a Tozzi, da Woolf a Svevo, è la convinzione che il nuovo mondo non consenta più di giungere alla verità, Dove per verità si intendono quelle certezze valide in ogni tempo e in ogni spazio. La messa in scacco della conoscenza viene estesa a tutti gli eventi della vita umana, che diventano opachi e dunque sempre da sottoporre a continue verifiche e incessanti interrogazioni. Il romanziere modernista però non dice l'impossibilità di conoscenza, ma la fa esprimere al suo lettore. lo strumento privilegiato per denunciare questo limite e per lasciare inappagata nel lettore e La legittima ansia di sapere, facendo Dunque vivere ciò che il romanzo vuole esprimere, è lo statuto inattendibile del narratore. naturalmente non ha senso un discorso netto e meccanico circa l'affidabilità della voce narrante, che invece conosce diversi gradi di inattendibilità: si va dalla menzogna di Zeno Cosini, Strategicamente collocata alla fine del romanzo, al passo indietro di Mattia Pascal circa la conoscenza del padre, alle pagine sospettosamente auto assolutorie di Serafino Gubbio. In ogni caso il lettore ha accesso al mondo narrato attraverso un filtro che ha sempre deformante: in alcuni casi in maniera esplicita e deliberata come nella coscienza di Zeno, in altri più mediata e nascosta come nei Quaderni di Serafino Gubbio. Inoltre Va sottolineato che molti narratori sono autodiegetici (come Zeno Mattia Pascal Serafino Gubbio ad esempio) e dunque inaffidabili per struttura, in quanto Istintivamente portati a un gioco di reticenze, omissioni, camuffamenti quando affronta gli eventi della propria vita privata. questa è una specificità novecentesca, che rovescia invece un canone dell'Ottocento: mentre in precedenza il narratore era testimone E traeva la propria affidabilità dall'essere sul posto o dal fare riferimento a chi aveva davvero assistito agli eventi, nel 900, complice Freud soprattutto, il vedere cesta di essere garanzia: ossia testimoni, e dunque non si ha accesso a tutti gli aspetti della vicenda, o si è implicati in prima persona e dunque si è imparziali. In ogni caso l'accesso alla verità è occluso. E anche quando il narratore è eterodiegetico, come nel caso di molti romanzi tozziani (Con gli occhi chiusi ad esempio), il punto di vista è in genere quello del personaggio, e la focalizzazione risulta spesso fissa, o tutt'al più per alcuni brevi tratti variabile; raramente si tratta di focalizzazione zero (che peraltro la narratologia impegnata sui testi novecenteschi tende a ritenere inapplicabile e forse inesistente). Se ne ricava che ci si trova di fronte a una prima persona camuffata grammaticalmente da terza. infine contribuisce all'occultamento della verità il ricorso all'artificio retorico della scrittura: Zeno, Pascal, Gubbio, Leopoldo Gradi dei Ricordi di un giovane impiegato mettono per iscritto le loro esperienze. Il medium della scrittura da un lato falsifica e dall'altro allontana temporalmente il momento della narrazione da quello dell'evento: il racconto diventa dunque un recupero memoriale e perciò inaffidabile. Ma al contempo la memoria attualizza e rende presente ciò che ormai consumato, ma a quel punto ad essere presente non è il fatto accaduto ma la sua rievocazione. il lettore dunque ha accesso alle parole e non ai fatti. È proprio l'impossibilità di vedere il mondo senza filtri, senza rumori di fondo, senza prismi deformanti che impone al narratore uno sforzo ancora maggiore. Lo sforzo di raggiungere la verità ha conseguenze soprattutto a livello della trama, che sostanzialmente si costruisce attraverso due strategie. 1) O si predilige il taglio analitico offerto in Italia dal modello sveviano, in cui la scrittura faticosamente insegue la chimera del vero e cerca di avvicinarsi centro del mondo. È chiaro che alle spalle del dibattito sul modernismo era in gioco non soltanto la descrizione di una stagione letteraria quanto la fisionomia dell'intero Novecento. Nel 1929 Gli indifferenti di Moravia presenta un nuovo modello di romanzo: la realtà recupera la sua materialità, la vita psichica dell'individuo appare nuovamente sintetizzabile e riassumibile da un narratore esterno, intrecci danno nuovamente vita a trame lineari, in cui alla perdita di equilibrio iniziale, segue una serie di peripezie che conducono al trionfo o alla sconfitta dell'eroe. Come ha sintetizzato Stefano Guerriero, che individua nel romanzo di Moravia un turning point della storia del romanzo italiano, naturalmente non si tratta di una restaurazione, piuttosto della metabolizzazione di quanto di nuovo il modernismo ha portato. Siamo ormai in una fase diversa perché anche il modernismo sta diventando tradizione. diventare tradizione significa dare per acquisita una determinata visione del mondo: quella formatasi all'inizio del XX secolo. Il patto di lettura che Moravia sigla con il suo lettore è ormai di tipo post-freudiano: la configurazione di un soggetto incompiuto e contraddittorio non ha più bisogno di essere spiegata, può essere direttamente inserita nel racconto. È giunta la fase in cui si può pertanto tornare a narrare, ma narrare le vicende di un personaggio che nelle strutture esistenziali profonde non è molto diverso da quello costruito da Svevo e Pirandello, forse solo meno eccentrico. La lunga arcata della narrativa neorealista, che si apre nel 1929 con Gli indifferenti ed è dominante fino alla Giornata di uno scrutatore di Calvino del 1963 (per indicare una data simbolica) sia pure nella discontinuità di forme che conosce testimonia sempre un forte ritardo dell'esperienza modernista e ne accoglie in pieno l'eredità. Ad esempio Michele e Carla degli indifferenti fanno parte di tutti quegli eroi che ormai hanno connaturata la condizione modernista, ma non la vivono più in maniera eccezionale, e per questo la comunicano in maniera più schietta e diretta. Questo vuol dire che il modernismo come fenomeno letterario - o meglio come stagione che per prima sperimentano la nuova situazione esistenziale e ne inventa i modi di rappresentazione- si chiude, Ma certamente non si chiude la condizione antropologica che l'ha fatto scaturire. Come suggerito da Donnarumma, seguendo il principio carsico, ci sono opere che si sono rituffate nel gorgo modernista, per interrogarlo nuovamente con altri strumenti. Come ad esempio Gadda, tutti i romanzi di Volponi e in gran parte di Fenoglio e il Petrolio di Pasolini. Non si deve pensare che il postmoderno non sia esistito e che non abbia segnato una frattura con l'immediato precedente passato. Tuttavia è in dubbio che il postmodernismo sia un'opzione del modernismo stesso. L'incapacità di arrivare alla verità e la reclusione dell'io all'interno di un labirinto da cui non è prevista l'uscita sono tratti del modernismo. Sono questi i filoni lungo i quali si distende la condizione postmoderna la quale, al pari di quella modernista, trova risposte diverse, che viaggiano dall’ irresponsabile euforia al più radicale confronto con il presente e addirittura con la storia. È certo che la condizione post moderna è impensabile senza la stagione modernista, Anzi senza la condizione modernista, da cui derivano non solo il modernismo, ma anche tutte le altre correnti di inizio secolo. Secondo capitolo Tortora decide di riprendere quanto già sostenuto da Donnarumma e di distinguere un modernismo storico, che va dal 1904 al 1929, da un periodo successivo spesso contraddistinto da una persistenza del modernismo (mentre in Tracciato del modernismo italiano Donnarumma parla di secondo modernismo). Tortora riconosce che Gli indifferenti è un romanzo che ha mutato le parole d’ordine, che ha mutato l'atmosfera letteraria e che ha dato inizio ad una nuova fase romanzesca. La periodizzazione del modernismo era troppo rigida e vincolante e comprendeva come confini Il fu Mattia Pascal del 1904, che può essere considerato il primo romanzo italiano che può definirsi novecentesco (o meglio modernista) e Gli indifferenti. Una periodizzazione Però più modulare, ricavata appunto da confini cronologici moderatamente più elastici, continua a confermare il corpus di autori già a suo tempo ascritti al campo della narrativa modernista italiana, ma permette anche alcune significative aggiunte e importanti recuperi. In primo luogo abbiamo Gadda e De Roberto (Margherita Ganeri lo colloca all’interno del modernismo italiano come partecipante). Abbiamo anche autori più tradizionali come Borgese e autori provenienti dalle avanguardie come Palazzeschi. È indubbio che oggi l’area modernista è entrata nel canone e soprattutto costituisce il centro di quel campo letterario che è il primo Novecento. Ed è altrettanto ovvio che da un punto di vista storico La grande guerra è l'evento centrale della prima parte del secolo: sia che di quel secolo la si intende come l'inizio, sia che la si collochi più avanti. Ciò che colpisce è che tra i due elementi cardine, ossia il modernismo e letteratura e La grande guerra in storiografia, non ci sia un così valido e proficuo e incontro. Al contrario ciò che emerge è proprio una sensazione di assenza o comunque di lontananza. In maniera ancora più diretta, la guerra non è affatto un tema privilegiato della narrativa modernista. Nessun romanzo è esclusivamente dedicato al conflitto del 1915-1918: né Pirandello, ne Svevo, e in fondo nemmeno il Gadda migliore sembrano disposti ad assumere gli eventi bellici come elemento strutturante di un’opus romanzesca. Fa eccezione Palazzeschi, sulla cui marginalità abbiamo però già detto, che con Due imperi…mancati si scaglia contro la guerra e le dichiara la più completa inutilità e follia. In altri casi dobbiamo rivolgerci a diari privati poi diventati opere letterarie (come ad esempio Il giornale di prigionia di Gadda), a parti di Romanzo (come ad esempio i capitoli centrali di Rubè o l'ultimo de La coscienza di Zeno), Berecche nel caso di Pirandello, Una burla riuscita e La novella del buon vecchio e della bella fanciulla per Svevo. Non è da tenere presente invece Tozzi in quanto le sue novelle di guerra sono puri scritti di occasione. La marginalità della grande guerra come tema letterario si fa più visibile se messa a paragone con le dinamiche che invece regolano il campo letterario degli anni 40 e 50: è impensabile infatti l'inizio del secondo Novecento al di fuori del racconto o del romanzo di guerra. Sicuramente questo più stretto rapporto con la storia contemporanea è determinato da alcuni fattori. innanzitutto quello generazionale: il romanzo italiano del periodo ‘45-’55 è costituito per lo più da giovani narratori, secondo un principio di rinnovamento che aveva preso le mosse negli anni Trenta. Questi giovani scrittori hanno tutti partecipato al conflitto -diversamente da Pirandello, De Roberto, Svevo eccetera che invece la guerra l'hanno vissuta a casa- e dunque hanno trovato immediato materiale narrativo in una delle esperienze più traumatiche e forti della loro giovane esistenza. In secondo luogo, la seconda guerra mondiale in Italia vuol dire essenzialmente resistenza e dunque Guerra di Liberazione dall'occupante nazifascista. Il racconto resistenziale diventa un modo di partecipare alla creazione del mito fondativo della Nuova Repubblica Democratica e di quell’ ideale che dovrebbe accomunare la comunità tutta. Infine ha pesato anche l'utilizzo politico che il fascismo ha compiuto nella prima guerra mondiale. La Prima Guerra Mondiale si scopre vincolata al Fascismo, e pertanto viene marginalizzata in campo letterario. A partire dagli anni Cinquanta divenne potente il richiamo della Pace e del pacifismo e anche la considerazione della guerra come inutile strage. Il canone primo novecentesco è dunque offerto dai narratori modernisti che più di altri hanno manifestato sospetto o addirittura avversione nei confronti degli entusiasmi bellici. Il mancato incontro tra Grande guerra e romanzieri modernisti non è un fenomeno specificamente italiano, lo troviamo anche nel Regno Unito con Joyce e Virginia Woolf. La grande guerra è stata più o meno latitante nel grande romanzo di primo Novecento le ragioni di questo fenomeno sono varie e vanno appunto diciamo ricercate all'interno di quella che possiamo definire la poetica del modernismo europeo. La guerra e la modernità Colpisce che due libri più importanti usciti sul racconto della grande guerra, quello ovviamente di Isnenghi che apre il filone di studio e quello di Mondini che ne costituisce l'ultimo momentaneo atto, prendano le mosse da La patria lontana di Corradini. Nell'opera di Corradini si assiste ad una contrapposizione tra giovani e vecchi, tra proletari e Borghesi, tra estremisti e Liberali. Schematizzando il già meccanico romanzo, si può dire che i primi i primi premono per una guerra che abbia valenza palingenetica e che faccia saltare il vecchio sistema, i secondi invece cercano di frenare una deriva che appunto porterebbe alla distruzione del vecchio mondo; mondo nel quale si si erano formati e in cui erano cresciuti. Ciò che accomuna entrambi gli schieramenti è la visione apocalittica dei tempi moderni: I mutamenti in atto sono tanti e tali che sia rivoluzionari, sia coloro i quali prediligono posizioni reazionarie, hanno una sensazione di vivere una transazione epocale, che inevitabilmente porterà al tramonto di un mondo e alla nascita di una nuova era. Ci troviamo di fronte ad una dialettica che è già proposta nel termine apocalisse: può essere infatti declinata in senso positivo e preannunciare dunque una palingenesi all'insegna di un catastrofismo ottimista o può essere coniugata in senso negativo ed indicare dunque disfacimento, perdita e devastazione. I modernisti provengono per la seconda possibilità: vecchi, Borghesi e liberali, Svevo, Pirandello e gli altri vedono nel futuro la distruzione di quel decoro, di quell'ordine e di quella cultura che aveva letto regolato il mondo fino alla fine dell'Ottocento. Tale visione cupa del futuro è determinata dal rapporto che questi scrittori hanno con la modernità, dove per modernità si intende il progresso scientifico e tecnologico, sviluppo industriale, macchine in generale. I modernisti non possono fare altro che assecondare l'evoluzione dei nuovi utenti ma la velocità con cui il mondo si riconfigura e cambia non è più sostenibile, si fa dunque strada l'idea che il progresso e la tecnologia possono svincolarsi dal controllo umano e, in quanto autonomi e privi di direzione, diventare rischiosi e pericolosi e condurre alla distruzione totale. Considerazioni di questo tipo le possiamo trovare ad esempio in Berecche e la guerra oppure anche ne Il fu Mattia Pascal ma anche nei Quaderni di Serafino Gubbio Dove vengono denunciati tutti i rischi del mondo moderno: basti pensare al violinista, che dopo aver prestato servizio a una monotype perfezionata, ovvero a un “pachiderma piatto, nero basso, una bestiaccia mostruosa, che mangia piombo e caga libri” si vede costretto ad accompagnare un pianoforte automatico. Pirandello nel Il fu Mattia Pascal e nei Quaderni di Serafino Gubbio e forse anche nel finale di Uno, nessuno e centomila suggerisce l’arrivo del mondo all'estinzione della razza umana Senza specificare i tempi che porteranno al completamento di tale processo. Questo è quanto Svevo proclama in maniera diretta nell'ultima celebre pagina de La coscienza di Zeno nella quale viene preannunciata un'esplosione enorme che nessuno sentirà e il ritorno della terra alla forma di nebulosa errante nei cieli priva di parassiti e di malattie. Svevo scrisse dopo la guerra e così anche Tozzi, mentre Pirandello scrisse prima durante e dopo. Forse è anche per questo che nessuno dei tre vede nella Guerra un vero e proprio momento di svolta, ossia il punto finale di un percorso storico. Semmai la guerra è soltanto Terzo capitolo È opinione abbastanza condivisa quella secondo cui il modernismo italiano, o almeno la sua fase storica, avrebbe conosciuto un suo epilogo alla fine degli anni Venti: Gli indifferenti di Moravia aprirono una nuova stagione narrativa che, pur non chiudendo i ponti con la stagione primo novecentesca, si ispirerebbe a parole d'ordine, a idee, ad estetiche differenti. In sostanza ciò a cui si assiste da Moravia in poi (negli stessi anni esordiscono Bernari, Alvaro, Pavese, Vittorini, Soldati) è un ritorno al realismo diretto o magico e a nuovi tentativi di rappresentare la realtà sociale e il mondo circostante, e specificamente quello contemporaneo. Il cambio di rotta che si registra nella storia del romanzo italiano trova delle corrispondenze anche con altri contesti europei: con la Francia, con la Germania e anche con l'Inghilterra. Vi sono delle differenze fra il romanzo italiano e il romanzo europeo, ad esempio in Italia vi era una discontinuità tra modernismo e nuovo realismo più marcata rispetto al resto del contesto europeo. Negli anni trenta in Italia vi fu un cambio generazionale, con i giovani che senza rivendicare un antagonismo nei confronti dei Padri scalzano la generazione precedente. Indubbiamente la crisi economica, l'avanzata dei regimi totalitari e il crescente timore per la guerra imposero agli scrittori un coinvolgimento più diretto nel mondo in qualche modo richiesero e affrettarono un'uscita dal modernismo in direzione di moduli realistici. Ma la particolarità italiana sta nel fatto che il regime fascista, soprattutto nella sua prima fase fino alla metà degli anni Trenta, trova nei giovani (idealizzati) e nella giovinezza i suoi miti di riferimento. L'Italia divenne “una nazione che ha tutta vent'anni” e dunque anche la letteratura non poteva più essere rappresentata da ultracinquantenni, inclini a narrazioni poco edificanti, e in ogni caso lontane dalla rappresentazione di un uomo nuovo e forte. È inevitabile quindi che il regime, con pressioni e decreti legislativi, intervenga perché si compia una qualche forma di rivoluzione: e il polso di questo intervento è dato dall'analisi delle riviste, che per scelte volute e consapevoli o per inconscia adesione alle idee correnti, contribuirono a smantellare il modernismo e a sostituirlo con i contenutisti, che di fatto domineranno il campo fino alla metà degli anni Sessanta. Per quanto riguarda il romanzo modernista facciamo riferimento alla narrativa di impianto psicologico e destrutturante (Svevo, Tozzi e Pirandello in Italia, Joyce Woolf e Proust in Europa). È giusto tenere presente alcune date di riferimento che segnano una svolta nella politica culturale del regime. Il 20 gennaio 1926 entra in vigore la legge 2307 del 31 dicembre 1925, il cui articolo 1 impone che “il direttore o redattore responsabile deve ottenere riconoscimento del procuratore generale presso la corte di Appello, nella cui giurisdizione stampa del giornale o la pubblicazione periodica”; ciò non bastasse, il regolamento attuativo dell'11 marzo 1926 sostituisce il riconoscimento del procuratore con quello del prefetto, mettendo di fatto la stampa periodica sotto il totale controllo fascista. Nel corso di quell'anno furono soppresse decine di giornali e di riviste, e si può dire che il 1926 portò a pieno compimento il percorso che di fatto eliminava qualsiasi forma di stampa antifascista. Possiamo distinguere pubblicazioni che sono dirette emanazioni del Partito Nazionale fascista come «Critica Fascista» di Bottai e «Quadrivio» di Telesio Interlandi, «il Selvaggio» di Maccari, «900» di Bontempelli o «Occidente» di Ghelardini, Da altri ancora che invece sono estranei alla dittatura e in pratica ne costituiscono una sorta di letterario opposizione come «Solaria» e «il Convegno». La fase che si apre nel 1926 è pertanto ancora un periodo che tollera prospettive diverse. Verso la metà degli anni Trenta però al regime abbandona definitivamente la retorica sovversiva e rivoluzionaria per abbracciare un modello di Stato autoritario che troverà il suo pieno compimento nella costruzione dell'impero. Tra il 1932 e il 1935 con la prima mostra della rivoluzione fascista (nel ‘32), la trasformazione dell'ufficio stampa del capo del governo in Sottosegretario per la stampa e la propaganda (1934) e poi la sua successiva evoluzione in Ministero per la stampa e la propaganda (1935) resero di fatto tutta la pubblicistica fascista e fiancheggiatrice. Eppure anche in questo modo omogeneità, riviste come «il Meridiano di Roma» e «il Primato» segnano qualche differenza rispetto alle altre. Il discorso che Mussolini tenne all'Accademia delle Belle Arti di Perugia nell'ottobre del 1926 diede vita ad un vivace dibattito su Critica fascista che in qualche modo è Capace di esprimere la rivoluzione fascista e la tradizione italiana. All'inchiesta di Bottai parteciparono, tra gli altri, Soffici, Bontempelli, Cecchi, Pavolini, Bragaglia, e Malaparte. La parola d'ordine che serpeggia in tutti gli interventi è discontinuità rispetto al recente passato, ovvero, pensando specificatamente al romanzo, rottura con il naturalismo (ma non con il verismo né tantomeno con il romanzo classico dell'Ottocento) con il decadentismo con il romanzo analitico e con le avanguardie. Così sintetizzava Bottai nel 1927 dicendo che l'arte fascista non deve essere frammentaria, sincopata, psicoanalitica, intimista o crepuscolare perché tutte queste forme artistiche non sono se non malattie dell'arte, ribellioni alla grande tradizione artistica italiana che oggi riappare in tutta la sua grandezza. Questa polemica contro l’estetismo contro l'analisi psicologica contro le malattie dell'arte trova sintesi in quella che Pavolini, nel lungo intervento del 1926, chiama infezione romantica (altrove solitudine romantica). E se il romanticismo è termine negativo da contrastare e rimuovere, il suo contraltare positivo è offerto dal realismo. È paradossalmente Soffici, il più avanguardista dei partecipanti al dibattito, a chiarire la questione: l'arte e la letteratura che il Fascismo può e deve patrocinare deve essere una realistica, un'arte che non astrae dalla realtà visibile e sperimenta con i sensi (come fa quella di tutte le scuole decadenti) ma un'arte basata sull'osservazione e sullo studio della realtà viva. Per capire la collocazione che il modernismo ha avuto in Italia in epoca fascista è importante andare a analizzare quelle che sono le riviste più importanti. Un certo modernismo narcotizzato si può notare già in Bontempelli nella rivista 900, la quale nasce proprio all'insegna di un'apertura all'arte moderna e contemporanea, come è possibile vedere dalla prima pubblicazione italiana di un capitolo di Ulysses di Joyce. Tuttavia un’occhiata agli indici, in cui compare una traduzione di Virginia Woolf, non restituisce le promesse che il direttore aveva fatto. Joyce compare una sola volta come Carducci, e anche L'Ottocento Russo appare poco e non abbiamo per niente Kafka che non è mai stato preso in considerazione. Neanche Pirandello e Svevo potevano trovare spazio sulle pagine della rivista di Bontempelli, questo perché su questa rivista gravava molto l'aspettativa di Mussolini il quale stava cercando strumenti per dare un colpo d'arresto al Futurismo. Mettiamo ora a confronto altre due riviste: la fascistissima Quadrivio e Occidente di Ghelardini. La rivista di Interlandi si pone il solido intento di fondare un'estetica di regime. Il numero inaugurale di Quadrivio si apre con un intervento di Giovanni Gentile, quasi un manifesto della rivista, significativamente intitolato Torniamo a De Sanctis e il nucleo dello scritto gentiliano è ancora il richiamo ad una letteratura di contenuti e realistica. Così tutta la corrente modernista, intesa come ultimo segmento del pensiero decadente europeo, viene emarginata. Infatti non c'è traccia di Pirandello narratore e tantomeno di Svevo, e allo stesso modo mancano anche Kafka, Woolf e Proust. Anche in questa rivista quello che deve prevalere sono i fatti, i contenuti e la realtà basato sul rifiuto di romanticismo e formalismo. Questa rivista lascia spazio ai nuovi narratori, quelli che possiamo chiamare “narratori-narratori” come ad esempio Soldati, Brancati o Bernari. La politica culturale di questa rivista si chiude fermamente nei confronti delle più recenti sollecitazioni letterarie europee (romantiche e decadenti) e recupera un Ottocento classico (in poesia ad esempio Pascoli e Carducci) e lancia i giovani narratori, fascistizzati nell'interpretazione, ed etichettati come espressione di un ritorno al realismo. Più movimentata sembra essere invece la situazione in Occidente, che sin dall'Introduzione del primo numero si candida ad offrire un panorama ampio e diffuso preciso delle attività europee e mondiali nel campo delle lettere, una sintesi critica delle Correnti letterarie contemporanee. Effettivamente la lista degli autori pubblicati in traduzione o recensiti non delude le aspettative: Joyce, Woolf, Kafka, accenni a Proust, Pirandello, Tozzi e inediti di Svevo. Ghelardini era alla ricerca di opere aderenti al suo tempo e dense di significato. Mentre Barbaro nel confrontarsi con la realtà contemporanea assume la posizione di chi rifiuta la stagione immediatamente scorsa, sia quella decadente, che quella primo novecentesca, sbrigativamente sintetizzata in avanguardista. Ma soprattutto Barbaro, indicando i nomi di Alvaro, Moravia e il proprio, vede nei nuovi temi il bisogno di superare la tecnica e il ritorno all'opera costruita e pensata, nella sua forma tipica, il romanzo. La riflessione sul nuovo romanzo, in contrapposizione al romanzo moderno o possiamo dire modernista, si fa più esplicita in Coefficienti nuovi del romanzo di Talarico in cui si accusano le nuove reclute della romantica europea (come Proust e Joyce) di un influsso addirittura devastatore. Così come Barbaro anche Talarico non intende chiudersi nei confronti della psicanalisi e della modernità Anzi vede in questi degli strumenti di indagine del reale. Le posizioni di Barbaro e Talarico trovano altre conferme nella rivista e dimostrano come il gruppo di Occidente si trovi stritolato in un’ambiguità creata dalla loro stessa politica redazionale, Da un lato Infatti si rivendica l'esigenza di porre fine a qualsiasi forma di formalismo e dall'altro si accolgono nel canone contemporaneo proprio quei romanzieri modernisti che secondo gli stessi parametri di Occidente a quel formalismo sono stati inclini e che certo non corrispondono a un'idea di Romanzo tradizionale e lineare; Quel romanzo più o meno realistico che Barbaro, Ghelardini e Talarico non nascondevano di ricercare. Dalla seconda metà degli anni Trenta fino al 1943 si apre un periodo segnato da un irrigidimento del controllo della stampa: le riviste finiscono per avere uno spazio di manovra sempre più ristretto, che ovviamente si esaurisce tutto all'interno del verbo fascista. Sono poche quelle che nello stallo generale che caratterizza questi anni tentano percorsi originali, e propongono, anche a livello editoriale oltre che culturale, modelli innovativi: “Omnibus” di Longanesi, “Corrente” e “Convegno” (l'unico periodico, insieme a Solaria, a confrontarsi veramente con il modernismo europeo sin dai primi anni Venti). In questo clima sostanzialmente chiuso e cupo, due testate sembrano voler perseguire, sia pure con esibita logica di regime, una politica culturale: «il Meridiano di Roma», fondato da Pier Maria Bardi e diretto poi da Cornelio di Marzio e «il Primato», Ultimo disperato sforzo di Bottai di radunare gli intellettuali. Da un punto di vista teorico il Meridiano di Roma sembra rivelare un'apertura per certi aspetti inconsueta. Nella sua fase iniziale vanta di collaboratori di primo ordine (come ad esempio Alicata, Morante, Debenedetti, Pound) e soprattutto non fa più registrare quello oscillazioni che avevamo rinvenuto in Occidente tra propensione alle forze centrifughe di primo secolo e adesione alle idee correnti dell'estetica del regime fascista, I padri modernisti, ormai sempre più emarginati dal campo letterario italiano, non trovano spazio nella rivista. E nel momento in cui autori, testi ed esperienze moderniste passano il filtro autarchico e tradizionalista del comitato di redazione, vengono immediatamente istituzionalizzati. Pertanto usufruire di un dispositivo che permette di indagare i procedimenti dei personaggi, diventa condizione assolutamente indispensabile: da qui il ricorso al narratore omodiegetico e alla focalizzazione interna fissa. Il caso di Moravia è diverso perché il narratore degli indifferenti può abitare la mente di Carla, di Leo, di Michele, divisa e di Maria Grazia senza incontrare alcuno ostacolo. Ma di questi personaggi non segue tutta la tortuosa evoluzione del pensiero perché dei loro pensieri piuttosto viene data solo la sintesi finale. Ciò comunque non nega la limpidezza del pensiero di questi personaggi, ad esempio possiamo vedere nell'ultima pagina del romanzo, quando Carla esprime le sue preoccupazioni a Michele. La psiche del personaggio risulta essere a tutto tondo senza troppe zone di chiaroscuro e senza e soprattutto senza contraddizioni. Una vita interiore così lineare perde naturalmente di interesse in quanto non può più offrire dati che la vita esterna e materiale già non mostri. Dunque la vita psichica del personaggio non è più una zona da esplorare ma diviene uno degli strumenti per accedere alla verità. E il concetto di verità conduce al solo decisivo punto del racconto moraviano. Il suo narratore si presenta subito come attendibile Senza alcun sospetto circa l’obiettività del suo punto di vista e la sincerità della sua voce. Vengono pertanto accadere le varie delegittimazioni che avevano invece contraddistinto gli incipit della Coscienza di Zeno, dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore e anche del Fu Mattia Pascal. Con la formula “entrò Carla”, una formula lapidaria viene concretizzato il recupero di un’autorità compromessa. 2. Le descrizioni Il nuovo realismo di Moravia Trova un plastico riscontro nelle descrizioni. le descrizioni moraviane non sono mai enciclopediche. Anzi rifuggono la precisione e il gusto del dettaglio di marca balzachiana: Balzac infatti presupponeva un lettore che non conosceva gli ambienti in cui si consumava la scena e dunque si abbandonava a lunghe fotografie narrate, che inchiodavano il lettore e lo costringevano ad un godimento estetico, legato al piacere della pagina ben scritta. L'eccesso di informazioni indebolisce la descrizione, rendendola, da un punto di vista meramente comunicativo, un affastellamento di dati che poco illustra. Su questo piano Moravia prende le distanze anche da D'Annunzio e specificamente dal suo virtuosismo nel Piacere e dai particolari grotteschi corporali e espressionistici da lui utilizzati. Moravia non concede mai descrizioni non strettamente necessarie e limita la rappresentazione spaziale unicamente a quegli elementi e a quei particolari che illustrano l'ambiente, e forniscono alcune indicazioni circa i personaggi. Paradigmatica è la pagina iniziale, con la descrizione del salotto in cui si consumerà buona parte della tragedia borghese degli Indifferenti. È una delle descrizioni più lunghe del romanzo, e soprattutto è quella riferita al luogo più strategico (il salotto) nonché posta all'inizio dell'opera quando il lettore ancora non sa nulla dei personaggi e del loro mondo. Ebbene le dieci righe indicano subitamente l'ambiente alto borghese: l'unico oggetto rappresentato Infatti è una porcellana cinese, che si presuppone preziosa, vista la sua rarità. Inoltre il salotto è facile immaginarlo abbastanza ampio, se da un lato è capace di contenere diversi gingilli e altri oggetti sparsi e dall'altro permette a Carla di entrarvi. Leggi pagina 90 91 Narratore e lettore arrivano subito a un'intesa e si comprendono facilmente perché nella costituzione romanzesca di Moravia hanno un’origine comune e condividono lo stesso vocabolario e si ispirano al medesimo sistema di valori. Si aggiunga a questa complicità anche una fiducia salda nei confronti della voce narrante, e non solo perché quest'ultima non dichiara mai la propria debolezza e non cade in palese contraddizione, ma anche perché dimostra di avere pieno possesso dell'universo diegetico. I precisissimi particolari inerenti il Buddha Campagnolo vogliono essere delle marche di autenticità, ossia delle connotazioni di veridicità che rinsaldano il patto di fiducia con il lettore; e permettono dunque a chi narra di omettere tutto ciò che si ritiene superfluo, sfruttando perciò l'autorità acquisita. Lo studioso Philippe Hamon sostiene che la descrizione è sempre subordinata al punto di vista di un personaggio, e dunque illustra più la visione soggettiva, che non l'oggetto nella sua entità reale. La tesi regge certamente per il romanzo modernista, e il caso Tozzi, ad esempio, si impone più di altri per la sua icasticità. La scelta dei colori e degli oggetti rappresentati assieme alla sintassi inceppata e singhiozzante sono funzionali a illustrare la visione allucinata del personaggio la descrizione diventa pertanto una via per traversare la psiche del personaggio, perché riferisce particolari che quest'ultimo mette in evidenza, in base ad una selezione che risponde alle leggi inferiori dell'io. L'oggetto rappresentato perde autonomia, diventando subordinato a chi lo percepisce, secondo un procedimento individualizzante che non si fatica a scorgere nemmeno in Svevo: Nel romanzo modernista il punto di osservazione soggettivo comporta una diversa presentazione del mondo reale. A questa logica soggettivista si sottrae Moravia. Negli Indifferenti i cinque personaggi, benché diversi tra loro, si muovono all'interno delle stesse coordinate sociali ed ideologiche: Insomma vedono tutto il mondo allo stesso modo e convergono sempre sullo stesso giudizio. La realtà è esattamente quella che viene rappresentata e impone a tutti gli astanti un uguale riconoscimento. 3. La realtà sociale Il marciume Borghese che accomuna tutti i personaggi rende il romanzo centrato non propriamente sul singolo eroe. Infatti i protagonisti, Michele e Carla, si distinguono dagli altri personaggi solo per una maggiore messa in rilievo e per una più ampia visibilità e non per un'anima che ha tratti originali e irripetibili. Carla diventerà come la madre e tramite il futuro marito troverà un qualche impiego a Michele, il quale nelle battute conclusive del romanzo molto probabilmente si accinge a trascorrere la notte con Lisa: proprio come Leo aveva suggerito. I tratti distintivi dei personaggi di Moravia si limitano all’ esteriorità e non intaccano invece le strutture più profonde dell'io: il senso della vita, a loro, si prospetta e si nega allo stesso modo. Moravia non costituisce un'eccezione nel panorama italiano del Novecento ma solo un iniziatore. Dagli anni Trenta agli anni Sessanta (un periodo all'apice del quale si trova il Neorealismo, con gli uomini della Resistenza a tutti ugualmente eroici) sembra che l'interesse per il singolo e per l'individuo sia fortemente ridimensionato e che il focus narrativo si sforzi ad abbracciare una parte di mondo più ampia: più specificamente la realtà sociale. Gli Indifferenti costituiscono una riproduzione fedele della borghesia romana, la quale, depurata dalle sue specificità, ben rappresenta quella italiana e forse, almeno in parte, quella europea. Ed è altrettanto facile estendere questo discorso a molte delle opere di Brancati, di Soldati, di Bassani, di Cassola, di Alvaro eccetera. Ebbene questa nuova attenzione alla società contemporanea -che non disdegna però la descrizione psicologica dei personaggi- è conseguenza di una rinnovata fiducia nella parola narrativa, che non è più filtro deformante, ma strumento di comunicazione. 4. La lingua media La lingua di Moravia ha sicuramente perso quell'espressionismo che caratterizzava la narrativa tardo ottocentesca e buona parte del modernismo (soprattutto Tozzi). L'istituzione di una lingua media coincide con un codice condiviso, utilizzato con medesime inflessioni da tutti i personaggi: una medietà che è speculare ad una omologazione ideologica, a sua volta corrispettiva di una perdita identitaria da parte dei singoli. Il personaggio moraviano anche attraverso le proprie parole conferma un'adesione all'immagine di un uomo medio, e testimonia il suo essere pervaso da una mediocrità che è costitutiva della società tutta nella quale è inserito. Questo significa che nel sistema degli Indifferenti, anche la lingua contribuisce a rendere e somiglianti tra loro i personaggi, e dunque a mettere in pratica quella che nel paragrafo precedente abbiamo già definito un’epica degradata. Il realismo si rende possibile grazie ad una nuova trasparenza degli oggetti del mondo e del mondo stesso: in primis la corrispondenza tra interiorità ed esteriorità, poi la capacità del linguaggio di essere referenziale, la comune struttura di fondo dei diversi personaggi, la fiducia nel poter rappresentare il mondo reale così come è, fino a ricreare un'idea generale coincidente di fatto con la realtà sociale configurata nel romanzo. L'anno successivo agli indifferenti viene Infatti pubblicato Gente in Aspromonte di Alvaro, e sempre nel 30 Brancati esordisce con L'amico del vincitore; e danno avvio alla loro produzione romanzesca Silone, nel 1933, con Fontamara e Soldati, nel 1935, con America primo amore. Tutti i romanzi che si muovono lungo il solco tracciato dagli Indifferenti. E non solo il realismo e la letteratura esistenziale, ma anche la successiva narrativa italiana continua a seguire un piano decisamente realistico. Nemmeno la narrativa di Calvino smentisce questa ricostruzione, poiché negli anni Cinquanta sembra per la prima volta a ripetere il "miracolo" del romanzo vero e proprio compiuto con Il sentiero dei nidi di ragno. Sono presenti alcune eccezioni come ad esempio Carlo Emilio Gadda che, dopo la guerra, scrive pagine che nulla spartiscono con il moravismo e si riconnettono piuttosto al modernismo. Queste eccezioni non costituiscono un ostacolo al nostro discorso perché è ovvio che più correnti possono convivere nello stesso periodo. È perciò all'interno di un conflitto di poetiche che individuiamo uno specifico modello, e istituito dagli indifferenti di Moravia, che ha saputo imporsi negli anni che separano il modernismo dal postmoderno: gli anni possiamo dire del nuovo realismo. C'è una certa convergenza nell’interpretare l'opera di Moravia come l'atto simbolico in cui si chiude la stagione modernista (o almeno la fase eroica del modernismo) e si apre il trentennio all'insegna della narrativa realistica fino al 1963, sempre per individuare date simboliche. Certamente, se confrontato con La coscienza di Zeno, un romanzo come Gli indifferenti colpisce per la linearità della trama, l'attendibilità del narratore, la concretezza del mondo rappresentato, la sintesi e non l'analisi della vita interiore, la lezione di un italiano standard. sono elementi che contraddistinguono anche la produzione di Alvaro, Soldati, Bernari, Brancati e Silone. Il cambio di passo è influenzato anche da altri fattori, oltre quelli più puramente estetici. Ha giocato un ruolo essenziale il cambio generazionale: nel 1928 muore Svevo, tre anni dopo che Pirandello ha scritto il suo ultimo romanzo, mentre Tozzi è scomparso già nel 1920. e soprattutto a cavallo fra gli anni Venti e gli anni trenta esordiscono questi nuovi scrittori: oltre a quelli già citati, che certamente sono più vicini al modello moraviano, vi sono Vittorini, Morante, Pavese, Cialente, de Cespedes e Buzzati. La schiera dei modernisti e decadentisti, Nata tra il 1860 e il 1880, viene sostituita da una nuova generazione di giovanissimi nati per salita. Chiaramente un'informazione di questo tipo implica che la ragazza deve difendersi da occhi indiscreti, altrimenti non avrebbe ragione di preoccuparsi di una gonna alzata sopra il ginocchio. In altre parole quella frase sembra voler anche dire che Carla non si avvide che Leo la osservava e aveva scorto il lembo di gambe scoperto. Un solo segmento di frase ha schiacciato la prima immagine di Carla sulla gamba furtivamente scorta: ha Insomma inserito sin dalla prima riga un coefficiente erotico, che, posto come mossa di apertura, vincola il lettore per tutta l'opera. Attraverso un rapido passaggio, inserito nella posizione strategica e privilegiata di apertura, si costruisce un orizzonte di attesa di tipo sessuale, e di una sessualità non pacificata, ma rapita, rubata, saccheggiata. Il narratore non ha bisogno di dire nulla, e si limita a evidenziare un particolare ponendolo in primo piano e riproducendo la medesima cupidigia di Leo. Non sappiamo se al momento della creazione Moravia immagini un pubblico maschile, ne disponiamo in questo momento i dati sui lettori reali. Ma certamente il lettore, tanto più se di sesso maschile, si trova ad abitare in quella frase apertamente oggettiva, e che invece produce il punto di vista di Leo, il fremito del desiderio dell'uomo che sbircia e che vive una sessualità che non gli spetta. Ed è proprio questo sguardo che Carla Non nota. Inoltre questo meccanismo iniziale, fa sì che il lettore arrivi preparato a fine pagina, quando Leo, con la terribile espressione di “bella bambina”, si avvicina con libidine alla figlia dell'amante e poi poco più tardi l'attira tirandole ancora una volta la gonna. La gonna, così come per le altre parti del corpo erotizzate (come le gambe il seno e il collo), viene continuamente menzionata tanto da istituire una dorsale nel romanzo, ovvero un eros costante e continuo permeante anche le scene estranee a dinamiche di seduzione di accoppiamento. Con questo passaggio Moravia riesce a fornire uno schizzo del salotto, che da subito ha una fisionomia Borghese piccola essendo fornito di lampade, di divani e di una metratura che non può essere illuminata da un'unica fonte di luce, ed abitato da una donna che ha calze e un abito curato. La scena alterna elementi idealistici a rappresentazioni del tutto soggettive, che riproducono unicamente il punto di vista dei personaggi. Ma non è un sabotaggio al realismo e all'oggettività. Il fatto è che Moravia sa di poter contare su un lettore senza più alcuna fiducia nell'oggettività e consapevole che ogni rappresentazione è sempre parziale e soggettiva. Il lettore modernista di questo romanzo ha da tempo mandato in pensione la fiducia nella visione pura, oggettiva e imparziale del mondo punto e non è disposto a ritornarvi nemmeno con un narratore apparentemente ottocentesco. È abbastanza evidente che il narratore utilizzi lo stesso linguaggio dei suoi personaggi: l'italiano standard, con alcuni forestierismi volti a impreziosire socialmente l'eloquio. La sintassi, sia per i personaggi che per il narratore, è tendenzialmente semplice costruendosi raramente con subordinate di secondo grado. Anche il lessico non è molto ricercato ma al tempo stesso mai sciatto. Colpisce però che anche il narratore, che costituisce il polo più razionale, si abbandoni a formule retoriche abusate e goffamente nobilitanti. Il fatto che il narratore utilizzi lo stesso linguaggio dei suoi personaggi, rende il mondo moraviano claustrofobico perché non ci sono alternative alle prospettive dei personaggi. In questo modo Moravia declassa il suo narratore perché lo accosta ai personaggi. Può essere considerato ugualmente debole, inaffidabile e immorale. In fondo il narratore appartiene, come dimostra il linguaggio, al mondo che sta scrivendo e dunque non può che manifestarne i valori. Un ruolo decisivo è rivestito dalla vocalità del romanzo. Quest’opera era stata pensata inizialmente come una tragedia ed una delle tracce più evidenti di questa impostazione teatrale si trova nel dilagante discorso diretto, di cui il romanzo visibilmente abbonda. Proprio le battute del dialogo impongono al lettore le voci dei personaggi. Chi legge dunque ascolta i botta e risposta tra Michele, Carla, Leo, Maria Grazia e Lisa e con le loro parole, pronunciate, si deve confrontare. Anche l'introspezione psicologica è declinata secondo un discorsivo monologo interiore, articolato logicamente e narrativamente: si pensi ad esempio al capitolo quindici o alle fantasie di Lisa mentre aspettano Michele e crede di conquistarlo facilmente nel quinto capitolo. Il lettore è costretto a confrontarsi costantemente con un mondo di parole. È esattamente quello che accadeva ne La coscienza di Zeno in cui, per quanto cerchiamo di arrivare alla verità, siamo fermati dalla scrittura di Zeno, oltre la quale non si può andare. Ma mentre Svevo mette in moto una tenace lotta per muoversi all'interno delle parole, Moravia invece non concede altro spazio che ai discorsi. Così che il lettore è gettato in un mondo di voci, e più precisamente in un mondo di parole e di oggetti. È questa l'unica realtà conoscibile e pertanto anche l'unica realtà. ma Moravia e i suoi lettori sanno anche che c'è un oltre e che questo oltre non può essere conosciuto. E non essendo conoscibile, almeno nei romanzi, può non essere indagato: si ritorna così al mondo di parole e di oggetti. Moravia mette fine alla fiera psicologica dando inizio all'era del romanzo neorealistico. Capitolo sesto: Il ritorno a Verga tra gli anni Venti e gli anni Trenta Il ritorno al realismo che si registra a partire dagli anni trenta si intreccia con il richiamo a un nome tutelare: Giovanni Verga. Il recupero di Verga viene operato secondo diverse traiettorie che qui andremo ad indicare già nel pieno degli anni Venti il nome di Verga diventa per molti sinonimo di ricostruzione, necessaria e indispensabile in campo narrativo dopo un dopo il caos delle avanguardie e la fortuna del frammentismo-vociano: al nel nome di Verga si può tornare a raccontare storie e a scrivere romanzi. Il ritorno al realismo non è solo un'evoluzione letteraria ma è anche una mozione politica. È noto infatti che, a partire dal dibattito su Critica fascista sviluppatosi negli anni ‘26-’27 a seguito del discorso di Mussolini a Perugia, realismo diventa la parola d'ordine del regime. E negli anni Trenta la si ritrova chiaramente sulle riviste più allineate. Verga è nume tutelare soprattutto per i romanzieri modernisti: il discorso di Pirandello per gli ottant'anni di Verga segue di due anni il famoso articolo tozziano Giovanni Verga e noi. In entrambi i casi, così come poi sarà per Borgese nel 1923 che non a caso dedica Tempo di edificare a Verga e Tozzi, vecchio e nuovo edificatore, Verga è visto come lo scrittore della compattezza, della stabilità e delle architetture solide. Possiamo vedere come tra gli anni 20 e 30 ci sia stata una vera e propria propensione verghiana nella critica e anche negli scrittori della generazione precedente. Diverso è il caso, invece, degli esordienti, ossia di coloro che hanno pubblicato la loro prima opera intorno agli anni Trenta come Moravia, Masino, Alvaro, Silone, Bernari e Brancati. Non tutti questi romanzieri agitano la bandiera verghiana: è più forte l'esigenza di chiudere, senza rinnegare, la precedente esperienza modernista, che aveva spinto il romanzo ai suoi limiti estremi ma che ormai si era esaurita e rischiava di cadere in un virtuosistico manierismo. I nuovi narratori escono dalla deriva modernista per tornare alla centralità del personaggio, degli eventi e di un narratore che racconta una storia. non tutti si affidano esplicitamente al nome di Verga ma tutti mettono in pratica quella che possiamo chiamare una funzione Verga. All'inizio degli anni Trenta il campo narrativo italiano assiste ad un ricambio generazionale, che a sua volta comporta mutamento di scrittura (un ritorno a una trama ben costruita e lineare), di modi narrativi (dallo sperimentalismo modernista al Neorealismo novecentesco) e anche tematico: in particolare si registra in questi anni un ritorno al romanzo di ambientazione contadina. Concentriamoci sul mondo verghiano nel quale viene accantonato ogni lirismo e vi è una concentrazione sui meccanismi sociali, la descrizione di una comunità rigidamente divisa in due classi contrapposte: la borghesia dominante e il proletariato abbandonato da dio e dagli uomini; chi vive nel raggio e chi dissenti; chi gode e chi soffre. Tra due mondi non c'è dialogo, nemmeno a livello di scontro, e ogni possibilità di passaggio dall'uno all'altro universo è precluso, come del resto spiega Padron ‘Ntoni a suo nipote in uno dei confronti più duri del romanzo: La Rapida battuta del vecchio capofamiglia È lapidaria espressione di una legge immutabile, che impedisce Ognuno di aspirare a uno stato diverso da quello predestinato → “Cosa vorresti fare l’avvocato?”. Il mondo descritto nella Vita de’ campi, nei Malavoglia e in Mastro Don Gesualdo è statico e immobile. Il romanzo campagnolo degli anni Trenta, una delle espressioni più evidenti del realismo di quel periodo, riparte proprio da questa bipartizione. Come leggiamo nell'incipit di Gente in Aspromonte, possiamo vedere l’ostinato utilizzo del presente indicativo che restituisce al lettore la sensazione di un mondo sempre uguale a sé stesso, che non può segnare alcuno scarto rispetto al passato: è la stessa immobilità che contraddistingue il mondo dei Malavoglia e che impedisce ogni passaggio sociale. Per questo motivo i poveri di Verga e di Alvaro resteranno sempre tali, sottoposti alle angherie dei ricchi. Anche in Gente in Aspromonte tutto è dei Mezzatesta, e non certo dei contadini e dei pastori che lavorano. Anzi, gli stessi lavoranti della terra sono proprietà del signore. E non è un caso che il racconto di Argirò, il protagonista che, almeno nella prima parte di Gente in Aspromonte, prenda le mosse con una scena che è simile, perché tipica del mondo feudale otto-novecentesco, a quella descritta da Verga in Jeli e il pastore: La caduta rovinosa immortale di alcuni bestie nel burrone, bestie che ovviamente erano destinate al mercato e che ora devono essere in qualche modo rimborsate. Questa è la manifestazione di un mondo bipartito, i cui due emisferi non si toccano mai, se non nel momento dello sfruttamento. Del resto una uguale impostazione sia anche nel proletariato urbano di Bernari, altro esordiente degli anni Trenta letto con la lente verghiana. La configurazione tematica di queste opere rende la ribellione impossibile, secondo una visione rigidamente reazionaria della realtà sociale. E, ad eccezione di Fontamara in cui nell'ultima parte ambientata a Roma la lotta assume casualmente un connotato apertamente antifascista, nelle altre forme di romanzo campagnolo la rivolta può trovare spazio sulla pagina o nella forma parodico-degradata o in quella mitica. Nel romanzo Fontamara viene replicata la rivolta delle donne già narrata da Verga: contro “la tassa sul sale” nei Malavoglia, contro la deviazione del torrente in Fontamara. Soprattutto in quest'ultimo, la scena è tra il picaresco, il ridicolo e anche il tragico per l'ingenuità delle rivoltose. Certo è che in entrambi i casi l'opposizione al potere, tanto più perché innalzato dalle donne anziché dagli uomini, appare velleitaria. Quando invece la rivolta sfocia in una ribellione più compiuta, come avviene con Antonello in Gente in Aspromonte, deve dar vita a figure quasi leggendarie, che poco hanno a che fare con la realtà. Così che tanto Rosso Malpelo diviene un personaggio da leggenda, che coi capelli rossi e gli occhiacci grigi si aggira minacciosamente nei cunicoli della cava ed è pronto ad aggredire chiunque si presenti davanti a lui, così Antonello diventa l'immagine assoluta della bontà. Rosso Malpelo (Satana) e Antonello (il santo) diventano leggende: la loro minaccia agisce a livello di immaginario collettivo ma non può intaccare davvero i rapporti sociali anzi ne costituisce una sorta di tragica conferma. Anche quando la ribellione assume connotati più adesione o per rifiuto) di tutto il romanzo italiano del Novecento. Capitolo sette: Il romanzo italiano sotto il fascismo Il rapporto tra intellettuali e potere e più specificamente trascrittori e fascismo viene costantemente interrogato e di volta sottoposto a nuove verifiche. Da una parte si esprime la condanna verso coloro che si sono rivolti al Duce per chiedere i favori, finanziamenti o salvezza e dall'altra si concede l'assoluzione verso coloro che, in maniera camuffata, hanno mantenuto una linea antifascista. Al di là di questa tendenza generale, storici e critici letterari, in diverse occasioni, si sono trovati concordi nell'individuare posizioni più sfumate. Esiste questa zona intermedia, soprattutto negli anni Trenta e tanto più per i giovani, a cui è difficile applicare l'opzione netta fascismo/antifascismo (consenso/dissenso). La questione non è solamente relativa alla coercizione esplicita che un regime sanguinario quale il fascismo può imporre, ma tocca più da vicino la coscienza civile e politica e la consapevolezza storica degli stessi protagonisti; e di conseguenza il significato politico da attribuire ai loro scritti e alle loro azioni. Gli elementi da tenere in conto sono due: 1. La generazione nata poco dopo l'inizio del secolo e il 1915 si è formata a livello scolastico -e dunque civile- interamente sotto il fascismo. Ha frequentato liceo e università già di regime. Per questa generazione è impossibile immaginarsi un mondo al di fuori del fascismo perché il regime è quasi un elemento di natura, che può essere arginato, indirizzato, fomentato, ma non certamente rimosso. Uno stato alternativo a quello mussoliniano non esiste; in queste condizioni, per i più l'antifascismo -ossia L'opposizione frontale- non è un'opzione che può rientrare nel proprio orizzonte mentale e ideologico. 2. Hanno sicuramente agito la censura e i conseguenti sequestri di libri, chiusure di riviste e arresti. Anche se è importante specificare che il controllo era molto più capillare per i quotidiani che non per gli editori, sottoposti almeno fino al 1938 a forme di censura più grande e confuse, ad eccezione ovviamente di evidenti casi di opposizione. Ma ciò che veramente ha creato il silenzioso Consenso è la strategia di finanziamento, apparentemente assistenziale e Nei fatti totalitario, che Mussolini mise in moto a favore degli scrittori. Anno dopo anno la parola scritta non viene solo sottoposto a Censura, Ma di fatto sostenute economicamente; ed è un sostegno senza il quale diventa difficile scrivere. per questo motivo più che di controllo si deve parlare di organizzazione capillare e articolata che crea le condizioni del Lavoro culturale e garantisce o sottrae gli elementi indispensabili all'attività letteraria. Questo sistema di sovvenzionamento non passa attraverso bandi pubblici e procedure istituzionali ma attraverso forme di trattative private. Questi pagamenti non venivano registrati nel bilancio pubblico, ma gestiti direttamente dal Ministero, che a sua volta li riceveva dalla polizia; e naturalmente autorizzati dal Duce, che approvava o respingeva con un laconico appunto sulla pratica: “Si.M” o “No.M”. Questa procedura ha un grande valore simbolico, poiché impone un atto di sottomissione e la sottoscrizione di un documento che di fatto testimonia un’ entusiastica adesione a regime. In questo modo il richiedente si trova vincolato al potere fascista, per certi aspetti compromesso, senza dubbio con un debito di riconoscenza, non privo di senso di umiliazione; una sorta Insomma di sottomessa adesione e di coatto consenso. Inoltre, le richieste che il regime faceva ai giornalisti e soprattutto agli scrittori era un tendenzialmente parche. Si può dire che la maggior parte degli scrittori il regime fascista richiede sostanzialmente una pubblica e “ostentata adesione alla dottrina e alla pratica fascista”, sotto cui, però, si può godere di una delimitata e confinata a libertà: del resto la paura e l'autocensura avrebbero agito prima. Il regime agisce più per divieti perché che per commissioni precise e direttive rigorose. Questa circoscritta Libertà viene concessa perché Mussolini era particolarmente sensibile alle accuse di incultura e di volgarità mosse al fascismo negli anni Venti, ed era disposta ad accogliere voci anche diverse pur di aumentare il tasso intellettuale all'interno del suo movimento. Per questo motivo molto spesso l'esplicita dichiarazione di sostegno, senza che poi questo divenisse reale, poteva essere sufficiente a garantire Le condizioni per scrivere. Tale modus operandi del regime crea le condizioni, per la generazione formatasi sotto il fascismo, di un'illusione di libertà, e agevola la formazione di una “zona grigia”, in parte sottomessa, in parte più insofferente. Ma questa insofferenza non ha che un'unica strada per esprimersi: quella della dissimulazione. Tornando a parlare del lungo dibattito su Critica fascista, successivo al discorso tenuto da Mussolini il 7 ottobre del 1926 all’Accademia della Belle Arti di Perugia, si può dire che tale dibattito si riduca a un'opposizione che poi attraversa il ventennio fascista nella sua interezza: l'esigenza di realismo, ossia dalla rappresentazione del mondo concreto e oggettuale, comporta il rifiuto di ogni forma di romanticismo, inteso come espressione dell'io e più in generale della psiche. Ma tale contrapposizione ancor prima che estetica è morale: l'uomo forte, sano e di sani principi da una parte, contro quello debole, malato e lascivo dall'altra. Ne consegue il taglio netto con il romanzo modernista e con tutte le sue derive psicologiche a vantaggio di una nuova generazione chiamata a raccontare realmente la florida situazione del mondo mussoliniano. L'impulso del regime si risolve unicamente nell'imporre il rifiuto delle narrazioni dell'io, della mente e della psiche punto al di fuori di questa zona interdetta un giovane scrittore può godere di una certa autonomia, fatto salvo il principio di non parlare mai male del Fascismo. Ciò non toglie, però, che il clima repressivo mette in moto un meccanismo di autocensura che agisce prima della scrittura. All'interno di questo sistema di controllo, di organizzazione e di politica culturale, prendono corpo le ambiguità di giovani narratori degli anni Trenta come Moravia, Bernari, Brancati, Morante, Vittorini e Alvaro. Sono romanzieri che da un lato rispetto rispettano i limiti delineati dal regime e dall'altro, senza esprimere una parola che possa essere indicata come antifascista, portano avanti una corrosione e talvolta un'aggressione vera e propria a quella che possiamo chiamare un’antropologia fascista: scardinano gli ideali di uomo elaborato dal regime. Per “uomo fascista” ci riferiamo in particolare a quella specie umana (uomo nuovo) disegnata da Brancati ne L’amico del vincitore. Opere come queste sono ispirate a un certo vitalismo, a un culto dell'energia (anche fisica) e della forza, a una sana gioventù aliena da pensieri secondari e torbidi. Eppure, a partire dagli anni Trenta, la schiera degli esordienti si distacca da questo schema. E proprio nella raffigurazione del personaggio, che di fatto rovescia quegli ideali vitalistici che abbiamo appena indicato, trova espressione il malessere confusamente percepito da questi giovani scrittori. In modo particolare sono tre gli elementi su cui concentrare l'attenzione: la riconfigurazione della giovinezza, una generica malattia dell'anima e la sfera sessuale. Tutti e tre gli elementi trovano un loro archetipo negli indifferenti di Moravia, romanzo che da un lato corrisponde ai canoni realistici cari al regime e dall’altro entra in frizione con la visione culturale, attirando gli strali della critica più ortodossa. Moravia è stato troppo smaccato e per questo viene crocifisso da una parte della critica. Chi, dopo di lui, si muoverà nel solco segnato dagli Indifferenti sarà più accorto e tenterà le vie di una contro narrazione più dissimulata, ambigua, a volte addirittura inafferrabile; ma si tratta pur sempre di una contro narrazione in grado di creare controcultura. 1.La perenne giovinezza La giovinezza e l'elemento cardine dell'Italia fascista. La celebre frase di Margherita Sarfatti secondo cui “l'Italia è una nazione che ha tutta vent'anni”, riletta oggi suona molto meno trionfalistica e più realisticamente sinistra: una nazione di non adulti, che non potrà mai crescere, e per questo è destinata a essere guidata dal proprio Duce. È questo quello che viene rappresentato nella narrativa dei giovani scrittori fra le due guerre. L'esempio più evidente ed eclatante è quello de Gli anni perduti di Brancati, i cui protagonisti sono immersi in una infruttuosa attesa del futuro radioso, simboleggiata dalla fallica torre che non riuscirà mai ad essere completata. Questo però è un romanzo del 1941 quando ormai la crisi politica ideologica di Brancati si è già consumata e la guerra è iniziata e ha risvegliato le coscienze. per trovare forme più mascherate di opposizioni, ma comunque decifrabili, si deve retrocedere al 1933 quando la crisi brancatiana è in corso. In Vita tranquilla, il cui titolo vuole mettere in scacco ogni prospettiva avventurosa dei giovani protagonisti, ritroviamo il sonno eterno della giovinezza: “sembra davvero un sogno avere vent'anni, un sogno dal quale non ci sveglieremo mai; la giovinezza ha qui un'aria eterna”. Lo sperpero della giovinezza, consumata in un inutile attesa senza fine, si ha anche nei Ricordi del 1933, dove la protagonista Luisa ripensa per tutta la vita a un giovane incontrato per pochi minuti, durante una passeggiata serale con la sorella; solo alla fine il giovane aveva avuto il coraggio di palesarsi, e senza nemmeno dire il suo nome, aveva promesso alla ragazza di tornare, non più soldato, ma ormai avvocato punto ovviamente, il giovane, anonime e fugace, non è mai tornato. La protagonista, che ha ormai 37 anni, sente che la sua vita è ormai rovinata perché nessuno l'ha mai più voluta come sua compagna. Allo stesso modo si è rovinata la vita la protagonista di Altri amori (1940) di Alvaro, che ha aspettato 19 anni per potersi fidanzare pubblicamente con il signor Toma. E solo in quel momento comprende come tutta la sua esistenza sia stata sprecata nell'attesa di una sciocca prospettiva giovanile. E lo stesso avviene nella storia di Teodoro in Tre operai di Bernari e in quella di Michele e Carla degli Indifferenti: sono tutti i personaggi incastonati in una castrante dimensione adolescenziale di attesa e di sogno. In questi racconti spesso il personaggio principale sogna un evento, magari anche tragico, che possa scardinare l'ordine soffocante. Se ne ricava un senso claustrofobico, reso ancora più evidente da ricorso quasi ossessivo al narratore omodiegetico, che impedisce uno sguardo altro e più aperto; e anche nei casi in cui gli autori si affidano a voci esterne esterne l'ideologia e linguaggio del narratore sono i medesimi dei personaggi. L'aria rimane irrespirabile e la giovinezza continua a essere un carcere sonnolento da cui non c'è via di fuga. Nella narrativa degli anni Trenta è il mondo circostante a sbarrare la strada che porta a diventare adulti: ed è questo il tratto distintivo che la novellistica e il romanzo di questo periodo inseriscono all'interno di un topos -quello della non crescita e dello sperpero del tempo- abbastanza ricorrente in letteratura. Le opere di questo periodo non fanno altro che riconfigurare a livello narrativo la politica interna del Fascismo, che esalta i giovani, solo nella misura in cui rimangono tali. Di fronte a una giovinezza narcotizzata rimane la possibilità del percorso opposto: quello suggerito in particolare, ma non solo, da Alvaro, ossia una regressiva fuga in un'infanzia mitica. Anche l'infanzia è un motivo ricorrente nella narrativa occidentale, che però, alla luce del contesto fascista, acquista un certo peso politico, sia negli esordienti come Morante, Pavese e Vittorini, sia quando si discute di Corrado Alvaro, il più consapevole tra i fascista, non per sabotare il regime, ma solo per esprimere insofferenza, malessere e disagio. Siamo ancora lontani da una piena consapevolezza politica ma possiamo dire che questi racconti e questi romanzi si ponevano l'obiettivo di “raccontare altrimenti” la realtà circostante e di elaborare una contronarrazione che rimane ancora oggi una delle testimonianze più evidenti di come il pervasivo e violento regime fascista avesse comunque i suoi lati di debolezza. La narrativa degli anni Trenta ci insegna che in fondo è sempre possibile una contro narrazione. Ottavo capitolo Nel dibattito circa il rapporto tra intellettuali e fascismo è importante tenere a mente questi tre preconcetti che andranno a regolare la nostra analisi. 1.Antifascismo e Resistenza È importante fare la distinzione, suggerita da diversi storici che separa antifascismo e resistenza. senz'altro dai due momenti c'è un collegamento e il primo ha trovato poi sbocco nel secondo, ma è innegabile il valore periodizzante dell'8 settembre: la trasformazione di Mussolini da oppressore al nemico determina un risveglio di coscienza e di azione. In poche parole, l'antifascismo deve essere valutato secondo principi propri e non con la lente della successiva Resistenza perché così si rischia di svilire un'esperienza politica che invece è rilevante. Per certi versi si potrebbe quasi sostenere che l'antifascismo è un fenomeno sociale che quasi prescinde dal fascismo stesso e trova sbocco contro le istituzioni anche autonomamente: l'antifascismo dei romanzieri non può essere valutato quantitativamente, ossia misurando il livello di opposizione al regime, ma va interpretato alla luce di una situazione che non prevede ancora la ribellione e che mescola in sofferenza per il fascismo con altre forme di sfiducia nei confronti dello stato, paradossalmente conciliabili con i dettami del regime (è il caso emblematico del Fascismo di sinistra). Anche per questo motivo è più giusto parlare di antifascismi anziché di antifascismo, la cui desinenza singolare tradisce un pensiero unitario e consapevole che nei fatti non c'è stato. 2.Violenza e permeabilità del regime Anche il fascismo deve essere considerato nella sua specificità. Effettivamente il regime fascista tradisce una contraddizione. Da un lato si caratterizza per una violenza di stato che mostra il suo volto già nel 1924 con l'omicidio Matteotti e che poi diventa legge scritta nel 1926 con il Testo unico di Pubblica sicurezza, che amplia la discrezionalità della polizia istituisce il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Dunque, la repressione era reale e creava un clima di pericolo e di terrore che induceva anche inconsciamente a introiettare il divieto di dissenso. Dall'altro lato se il dissenso non si esprime, l'insoddisfazione è diffusa e costituisce la base di ciò che definiamo antifascismo. Ora -ed è qui la natura in parte contraddittoria del Fascismo- tanto il regime reprimeva, quanto era capace di assorbire proprio i personaggi più distanti dal verbo mussoliniano. Prendiamo come esempio l'esperienza dell'Enciclopedia italiana, che proprio negli anni Trenta di fatto diventa monumento del regime, e che pure conta tra i collaboratori circa 90 firmatari del Manifesto antifascista di Croce. Non si tratta solo di un “totalitarismo imperfetto” ma di una contraddizione che è insita sia nel regime (violento e al tempo stesso bisognoso dell'appoggio della cultura), sia nell’antifascismo, e soprattutto quello giovanile, che prova disagio ma non riesce a pensare a qualcosa di diverso dallo Stato mussoliniano, né può fare a meno delle sue strutture organizzative. Paura e disagio convivono, e spingono al tempo stesso all'immobilità e alla reazione, sebbene camuffata e spesso nemmeno troppo consapevole. 3.Scrittori e non intellettuali È altrettanto necessario separare il comportamento degli intellettuali da quello degli scrittori, anche quando le due funzioni vengono svolte dalla medesima persona (il caso di Vittorini è quello più emblematico: un conto sono gli articoli pubblicati sul Bargello un altro discorso merita il Garofano rosso). La scrittura letteraria ha naturalmente un suo codice specifico, che punta alla riemersione del represso e a suscitare un sentimento perturbante nel lettore. Il suo obiettivo polemico e costruttivo non è specificamente un regime politico, ma colpisce la società tutta: le sue false credenze, i suoi tabù e le sue forme di repressione. La letteratura, e in particolare il romanzo, può essere il luogo privilegiato per analizzare quel disagio che una parte del mondo culturale ha provato nei confronti del regime, trovando un punto di compromesso tra sfide al potere e rispetto delle regole. E proprio questa mediazione è in fondo uno degli ingredienti specifici di un particolare tipo di antifascismo: quello dei romanzieri nati a inizio secolo ed esordienti negli anni Trenta. Nelle loro opere infatti è possibile rintracciare una linea di pensiero che si propone antitetica al sentire comune proposto dalla volgarità mussoliniana, sia pure in forme dissimulate, e pertanto non immediatamente censurabili. Solo accettando la specificità della scrittura romanzesca ossia la sua cifra inevitabilmente metaforica si riesce a dare sostanza all'antifascismo letterario degli anni Trenta. E non creano contraddizioni le varie forme di adesione pubblica da parte di determinati scrittori che poi nelle loro opere proponevano rappresentazioni in conciliabili con i modelli umani e sociali proposti dalla dittatura: la richiesta di finanziamenti necessari per pubblicare passava attraverso lettere inviate direttamente al Duce, che dovevano essere accompagnate inevitabilmente da parole di encomio. Per questo motivo è difficile portare avanti una caccia alle streghe. E lo stesso discorso vale anche per chi, come Vittorini e Brancati, ha creduto al fascismo, salvo poi scrivere opere come Singolare avventura di viaggio e ancora Il garofano rosso che però viaggiavano in direzione contraria. Come ribadito più volte, in questi casi si tratta della prima generazione cresciuta quasi interamente sotto il fascismo e forgiata ed educata per essere la futura classe dirigente del regime. Chiaramente è difficile per questi giovani immaginare un mondo alternativo a quello imposto da Mussolini. Per questa ragione adesione e insoddisfazione si mescolano e finiscono per informare una delle diverse forme di antifascismo degli anni Trenta: quello dei romanzi. Gli Anni Venti e Trenta sono caratterizzati da un curioso paradosso. Proprio nel momento in cui la letteratura italiana sforna i suoi capolavori narrativi (si pensi a Svevo e Pirandello) scoppia una Diatriba sul romanzo, ossia un lunghissimo dibattito che occupa quasi un ventennio. Quindi, mentre escono La coscienza di Zeno, le novelle di Svevo e quelle di Pirandello, Uno nessuno e centomila e la riedizione di Si gira!, i critici e gli scrittori vedono una crisi del genere. Tutto il dibattito ha come obiettivo polemico il disordine creato dalle avanguardie e le derive del romanzo analitico, ossia quello modernista. Insomma tutte le voci più rilevanti non fanno altro che richiedere un ritorno all'ordine. Questo il dibattito invita ad un romanzo unitario, lineare e soprattutto comprensibile: un romanzo per tutti e non solo per l’élite. A questo punto è importante inserire un fondamentale dato editoriale. Nel 1925 il romanzo comincia ad aumentare le sue vendite e a imporsi come genere dominante. Da un lato ormai, grazie alla complessità dei modellisti, il romanzo si è attestato come forma di scrittura complessa, e dall'altro risponde agli appetiti culturali di una nuova fascia di lettori che per la prima volta si affaccia al mercato librario. Ne consegue che questa esigenza di ordine ha Sì ragioni specificamente poetiche ma anche sociali: tradisce le vigenti e l'esigenza di un romanzo comprensibile, leggibile da tutti (Negli stessi anni Venti in cui viene denunciata la mancanza di una classe media, la cosiddetta borghesia colta, nasce una nuova classe di lettori borghesi che porterà l'egemonia romanzesca nel mercato librario); Un romanzo con più fatti e meno pensieri e con una maggiore attenzione al mondo contemporaneo: un romanzo neorealista. In questa situazione si inserisce il regime che trae quindi giovamento dagli smottamenti in atto. La dittatura appoggia gli scrittori esordienti, capaci di veicolare il mito della della giovinezza; questi nuovi romanzieri possono essere rappresentativi di un'energia nuova, che soppianta la debolezza della vecchia narrativa di inizio secolo. Al tempo stesso il richiamo all'ordine reclamato dai critici è in perfetta sintonia con l'ordine imposto dal fascismo-regime, pronto a rompere con tutte le poetiche d'avanguardia e a puntare sul realismo. La scelta dell'ordine in narrativa diventa anche una questione etica. Tutti gli interventi fascisti nel dibattito sul romanzo, infatti, vedono nelle nuove soluzioni romanzesche un recupero di moralità, che invece il modernismo aveva perso. Il dibattito critico invitava al recupero del personaggio che non si perde nei suoi pensieri ma agisce nella realtà sociale, e la dittatura propugnava l'immagine del giovane fascista che ha forza, energia e desiderio di azione. Il romanzo neorealista effettivamente assume come protagonista un giovane che si affaccia al mondo sociale, per cercare di inserirsi e conquistare un suo posto, ma tutti questi inserimenti si rivelano fallimentari, anche se con modalità diverse. Nel caso de Gli indifferenti, tutto il romanzo si gioca su una contrapposizione fra gli adulti e i giovani, che nel corso della storia lasciano intendere di sognare, immaginare e volere anche una realtà diversa. Carla non sopporta la madre e il suo stile di vita che finisce per soffocarla e stritolarla. Mentre Michele, che è la personificazione dell'indifferente, quando scopre la relazione della sorella con Leo, invoca una vita più povera e più semplice e più essenziale (anche se c’è sicuramente della falsa coscienza nelle sue parole). La parabola dei due fratelli è ben nota. Carla finirà per occupare il posto della madre, diventando lei stessa una nuova Maria Grazia sia perché ne sposa l'amante sia perché si immagina un futuro di balli, di ville e diamanti che non è affatto diverso da quello della madre. al tempo stesso Michele accetterà l'invito sessuale di divisa e probabilmente si farà trovare un lavoro da Leo. Il meccanismo edipico, che dovrebbe portare all'uccisione dei padri, risulta castrato, e sono proprio vecchi a colonizzare i giovani piegandoli alle loro esigenze. Infatti, sia pure con qualche compromesso, Leo e Lisa ottengono quello che vogliono e rimangono assoluti padroni del campo pronti a utilizzare i due giovani come pedine e come oggetti per soddisfare il proprio piacere. Se la sorte di Carla e Michele era già segnata anche il percorso di Teodoro in Tre operai è mosso. Il protagonista di Bernari tenta più lavori, tutti connessi al mondo della fabbrica. Nonostante ciò, è un operaio che perde sempre il suo posto di lavoro, non riuscendo in questo modo a trovare una sua collocazione nel mondo. Proprio all'inizio del romanzo, Teodoro si licenzia dalla fabbrica perché si lavora troppo: anziché cercare un'alternativa finisce buttato sul letto, mantenuto da Anna che lo ospita a casa sua. Quando va a Taranto, femminile: 1.La prima è quella che Elisabetta Mondello definisce diciannovista e che cerca di dialogare con le grandi conquiste ottenute nel 1919: la capacità giuridica femminile, che liberava la donna dall'obbligo dell'autorizzazione maritale o giudiziaria in materia civile e commerciale punto e, e il diritto di voto amministrativo e politico è passato alla camera ma poi non ha provato per lo scioglimento del parlamento sarà concesso il diritto amministrativo solo nel 1925. 2. Dopo questa prima fase in cui Mussolini cerca di cavalcare il femminismo, si ha la svolta del 1925-1926, che riduce drammaticamente i diritti delle donne. Così mentre in Sudafrica (1930) e in Costa Rica (1936) conquistano il suffragio universale, in Italia le donne nel 1927 subiscono una decurtazione del salario del 50%., nel 1929 vedono aumentare le tasse scolastiche del 30-50%, nel 1933 hanno un tetto massimo di assunzione nella pubblica amministrazione e nel 1938 questo detto è fissato al 10%. 3. Il momento di svolta di queste politiche sociali viene individuato il 26 maggio 1927 quando Mussolini pronuncia il cosiddetto Discorso dell'Ascensione: “quella data viene indicata con il momento iniziale di quel processo di involuzione relativa alla condizione della donna che la ricondurrà al tradizionale ruolo di sposa madre e sorella”. 4.Dopo il fallimento della campagna demografica (è noto che il 1936 conosce il più basso tasso di natalità), Mussolini si arrende al corso della storia e progetta di concedere più spazio di manovra alle donne, e soprattutto ai fasci femminili. Ma questa inversione di rotta -tardiva peraltro-viene bloccata dalla guerra con la quale inizia la quarta e ultima fase della storia delle donne sotto il fascismo. È evidente che i giovani romanzieri degli anni trenta esordiscono e pubblicano nel periodo in cui la legislazione abbassa la donna a riproduttrice di specie e servitrice dell'uomo: un'idea di donna e di famiglia su cui il regime punta particolarmente. Si apre dunque uno squarcio che consente alle donne di epoca fascista di vivere una doppia morale. Da un lato si aderisce pubblicamente a ruolo matrimoniale in materno ma dall'altro si inseguono i modelli femminili proposti da giornali, periodici e cinema hollywoodiano, che non disdegnano la cura di sé e la ricerca della bellezza. Si crea così un esplosivo cortocircuito, che in fondo è interno allo stesso regime: la tutela dei valori tradizionali si deve conciliare con le istanze di modernizzazione che lo stesso Mussolini auspicava, e che però implicavano anche forme di emancipazione che la dittatura non poteva maneggiare. Così “soprattutto rispetto alle nuove generazioni il fascismo avrebbe alimentato attese contraddittorie, per un verso esortandole a rispettare i modelli tradizionali incarnati nella vita domestica, peraltro verso spronandole a rendersi più autonome e partecipi degli ideali nazionali”; rimanendo però sospeso -e dunque irrisolto- tra ansia di modernità e desiderio di restaurazione. Nel Neorealismo si registrano un'evoluzione sociale rispetto al modernismo. Siamo portati a considerare il modernismo molto più disinibito di altre correnti, ma in realtà il corpo della donna non è mai mostrato, e soprattutto la donna continua a essere oggetto di conquista, costretta a dissimulare ogni forma di ricerca del piacere e dunque mai motore di un meccanismo palesemente seduttivo. Nulla di tutto questo accade nel romanzo neorealista. Colpiscono casi evidenti come Singolare avventura di viaggio, in cui Anna è sempre consapevole di quanto sta accadendo nel sesso; e come Il garofano rosso, con Zobeida che è un affettuoso e affezionata donna che si prostituisce, e Giovanna che è un adolescente che ha il coraggio del primo bacio, che sceglie i suoi fidanzati e perde anche la verginità. Ma in fondo questi personaggi sono sin troppo marcati per insidiare la morale fascista, anche se diventano poi oggetto di viva polemica l'uno (Brancati) o addirittura di censura l'altro (Vittorini). In realtà sono soprattutto i personaggi femminili adulti e dai tratti più istituzionali ad assumere una contrapposizione a quella proposta dal pensiero clerico-fascista e a candidarsi come degli antimodello. L'esempio più evidente offerto da Tre operai. Maria è una donna hollywoodiana a tutti gli effetti: si cura, si trucca, abiti eleganti, fuma ed esce la sera, e soprattutto gioca la carta della bellezza e della seduzione per imporsi in società. È una donna molto attraente che ama il sesso e lo usa. Questo personaggio così estraneo ai dettami fascisti trionfa nella storia: alla fine del romanzo ha un marito ricco e vive una vita agiata. La sorella Anna invece è caratterizzata da grande serietà e da un senso etico spiccato, ma nemmeno lei corrisponde alla donna fascista perché lavora, si trasferisce da una città all'altra, si accoppia, fa figli e cambia fidanzati. Insomma è una Donna Moderna, sebbene più riservata e più tradizionale della sorella Maria. Viene punita con la sfortuna della morte del figlio, con la malattia e poi con la morte. La sua tragica fine suscita la partecipazione emotiva di chi legge, in questo modo si impone l'eroina come il personaggio più positivo del romanzo: se ne ricava che Anna esce moralmente vincitrice della vicenda. L' autore Bernari mette l'accento sull’emancipazione perché Anna è punita dalla vita ma viene assolta dai lettori e così entrambe le sorelle finiscono per trionfare, pur veicolando un'immagine femminile assolutamente inconciliabile con i canoni vigenti. Ancora più emblematico nel percorso dell'eroina romanzesca Carla Ardengo. È indubbio che sia vittima di un carnefice spietato che approfitta del suo potere economico e del suo ruolo familiare, e che ricorre i mezzi più squallidi (fare ubriacare la ragazza) pur di godere del corpo della sua figliastra. Ma Carla oltre a subire accetta Leo Perché è l'unica possibilità che ha per vivere la propria sessualità: farsi avvicinare da altri coetanei, certamente più appetibili, significa consegnarsi ai pettegolezzi e dunque perdere la propria reputazione, indispensabile per un futuro matrimonio e un posto in società. per questo rimane solo Leo, che Paradossalmente garantisce esperienza e descrizioni. Ed è proprio con Leo che Carla si scopre donna, desiderosa anche dei piaceri del corpo. Nei romanzi chiamati in causa la donna appare improvvisamente sessualizzata: dotata di una carica che fa saltare ogni parametro e manda in frantumi la cupola di vetro dentro cui il fascismo vuole rinchiuderla. È una forma per staccarsi dal fascismo, che però ha in continuità con il fascismo un elemento: il punto di vista maschile. Anche in questi processi di modernizzazione di emancipazione femminile la donna finisce per essere un oggetto privo di autonomia e destinato all'osservazione da parte dell'uomo. Saranno invece le narratrici a garantire uno sguardo più oggettivo e anche più articolato, capace di denunciare davvero l'oppressione culturale, sociale e fisica che vessa il mondo femminile: la loro rappresentazione della donna sarà una denuncia più aperta e consapevole, che può anche raggiungere livelli di aperto antifascismo, sia pure mescolato ad ancora più urgenti rivendicazioni sociali. Nono capitolo L'opposizione città campagna ha costituito uno degli assi portanti della narrativa italiana moderna. La campagna è il luogo dei diminutivi e dei vezzeggiativi mentre la città è per sua struttura violenta e minacciosa, alienante e claustrofobica. Ma la città è anche luogo di abbondanza e di ricchezza e della vita agiata. È soprattutto nella seconda parte dell'Ottocento che la città nel romanzo si presenta subito nel suo essere più grande, e dunque più capace di accogliere ed esprimere le contraddizioni della modernità: l'agio e il benessere da un lato, la miseria e l'emarginazione dall’altro. La città diviene quindi espressione della modernità. E come tale non può che porsi In alternativa alla campagna, che, sebbene non è più solo bucolica, trova nella sua ruralità una più confacente dimensione umana. Quello tra città e campagna si presenta come un binomio totalmente oppositivo fino agli anni novanta dell'Ottocento. La contrapposizione città campagna si rende manifesta e aumenta nei momenti in cui le fasi di industrializzazione e di progresso tecnologico compiono dei Balzi in avanti punto in questi passaggi il divario tra mondo urbano e quello rurale si va ad ampliare. E sebbene la città sia espressione di contraddizioni e dunque sinonimo anche di sofferenza e disagio, rispetta la campagna si colloca sempre a un livello avanzato punto un certo ottimismo e una certa fiducia nei confronti del Progresso spingono a vedere nella città, nonostante le sue mancanze, la proiezione del futuro e la deviazione da seguire. questo dualismo città-campagna è però in contraddizione con la realtà sociale italiana, che si costituisce di grande agglomerati urbani (come Roma Napoli e Milano), ma soprattutto si articola in centri decisamente più piccoli e circoscritti: la provincia. E sarà proprio quest'ultima ad essere recuperata nel primo Novecento, soprattutto dai romanzieri modernisti. Se osserviamo geograficamente il romanzo italiano primo novecentesco possiamo rimanere colpiti dal fatto che non è la grande metropoli a fornire l'ambientazione: sono piuttosto Siena, Trieste, i borghi siciliani di Pirandello i centri urbani dei romanzi dei primi venti trent'anni del XX secolo. E anche quando la storia si svolge a Roma, come nel caso di Tozzi ne Gli egoisti e di Pirandello nel Fu Mattia Pascal e nei quaderni di Serafino Gubbio, la città invece di essere un mondo moderno e dispersivo è ridotta a piccolo quartiere, ancora dominabile dal soggetto. Effettivamente l'unica vera metropoli europea dell'Italia a cavallo tra 800 e 900 era Milano e quando i personaggi vi si recano, in qualche modo provano solo malessere ed esprimono incomprensione. Il bersaglio polemico di Pirandello, Svevo e Borgese non è tanto Milano in sé, e nemmeno la caoticità della metropoli: si tratta piuttosto della modernità. Milano è l'emblema del progresso tecnologico e dei rischi di una civiltà meccanizzata, per questo motivo guardata con sospetto e diffidenza. Quelli nei confronti di Milano sono gli stessi sospetti e le medesime diffidenze che i modernisti nutrono nei confronti di un mondo che sta velocemente trasformandosi in un'entità diversa da quella in cui si era nati formati e cresciuti. Questo spiega non solo perché Pirandello, Svevo e tozzi ripiegano sulla provincia, ma anche, e soprattutto, perché la provincia non viene vissuta in maniera subalterna alla metropoli: nessun eroe modernista, Infatti, sogna realmente la fuga; e del resto quando la compie, comprime prima la città a livello di borgo (quartiere) e poi torna sconfitto ai luoghi natii. Si può parlare pertanto di township modernism: un modernismo di piccoli centri, di province punto è proprio all'inizio del Novecento che l'idea di centro viene messa in crisi. e la geografia romanzesca in qualche modo lo manifesta ridisegnando una cartografia che è policentrica e reticolare e che mostra la molteplicità di punti di vista che si possono avere sul mondo. In ogni caso, è nel trentennio modernista che il divario città-campagna sembra essere accantonato perché sottoposto a profonde e diversificanti rivisitazioni. Il ritorno al realismo implica un nuovo interesse per gli ambienti. Non deve stupire che proprio nei testi di questi anni (a partire dal 1929 in poi) le città recuperano una loro centralità, e addirittura il binomio città-campagna diventa perno di un dibattito. Il riferimento è alla polemica Strapaese- Stracittà. Il primo movimento fa capo a “Il selvaggio” di Maccari, fondato nel 1924, a sua volta affiancato da “L’'italiano” di Malaparte, che iniziò le sue pubblicazioni nel 1926. L'intento era
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved