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La Turchia Contemporanea, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Il libro, scritto da Hamit Bozarslan, affronta la nascita e lo sviluppo della Turchia contemporanea, dal movimento dei Giovani Turchi a Erdogan

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica La Turchia Contemporanea e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! “ LA TURCHIA CONTEMPORANEA” Capitolo 1 Abdülhamid II riuscì a dare stabilità all’impero ottomano, ma non riuscì a riconciliarsi con i Giovani Turchi, ossia un movimento composto in gran parte da musulmani ottomani, ma anche da cristiani, ebrei e musulmani russi, che si sviluppò, a partire dal 1895, in Europa e in Egitto. Inizialmente però questo movimento, oltre ad avere un margine di manovra ridotto in Turchia, aveva anche numerose correnti ideologiche contrastanti al suo interno. Tra queste divergenti correnti, ne emergono due: l’Unione Ottomana, ribattezzata poi Comitato Unione e Progresso, guidato da Ahmed Riza, e l’Organizzazione dell’iniziativa privata e della decentralizzazione, guidata invece dal nipote del sultano, il principe Sabahaddin. La prima si caratterizzava per un nazionalismo turco e per un panturanismo, ossia la valorizzazione della vicinanza con i popoli appartenenti alla famiglia linguistica uralo-altaica, mentre la seconda puntava sulla privatizzazione e sul decentramento dell’impero. Il Comitato unione e progresso al potere Il 24 luglio del 1908, avvenne quella che è considerata come la seconda rivoluzione francese. Infatti alcuni generali turchi, appartenenti al movimento dei Giovani Turchi, si ribellarono alla smilitarizzazione dei balcani avvenuta a seguito dell’incontro tra Edoardo VII d’Inghilterra e lo zar Nicola II, uccidendo anche alcuni ufficiali del governo. Il sultano allora, intimorito, il 23 luglio ristablì, dopo oltre 30 ann,i la costituzione, e convocò libere elezioni, che vennero vinte dagli stessi Giovani Turchi e viste come la fine dell’assolutismo, per dare il via ad una stagione di libertà. Questi sentimenti però ben presto mutarono. sia a causa della politica estera e della disgregazione dell’impero, con la perdita prima della Bulgaria, della Bosnia-Erzegovina, dell’Albania e di Tripoli, e poi di quasi la totalità dei balcani, sia a causa della politica interna, dove i Giovani Turchi ristabiliscono un regime repressivo, che causerà lo scoppio di una ribellione, avvenuta il 31 marzo 1909, che verrà repressa nel sangue. al termine della rivolta gli unionisti deposero Abdulhamit II e lo sostituirono con Mehmed V, ma la situazione era tutt’altro che stabilizzata. Presero infatti vita una serie di uccisioni e rovesciamenti, che portarono il potere nelle mani della trojka, ossia dei tre pascià Enver, Cemal e Talat, e dunque all’istituzione di un regime a partito unico, ossia del Comitato Unione e Progresso, che incarnava il sentimento nazionalista turco. Il nazionalismo di Unione e progresso Il 29 ottobre 1914, la trojka decide di bombardare le coste russe, annunciando così il proprio ingresso nella prima guerra mondiale, al fianco delle potenze centrali. La guerra fu però per i turchi caratterizzata da numerose sconfitte, a partire da quella subita nel 1915 sul fronte russo. Inoltre, nel 1916, prese forma la rivolta araba, sostenuta dalla Gran Bretagna, che portò alla fine dell’impero, e nel 1917, nonostante la rivoluzione russa, i turchi non riuscirono ad ottenere le vittorie sperate, se non la presa di Baku. Il 30 ottobre del 1918 venne allora firmato l’armistizio di Mudros, che sancì la definitiva dissoluzione dell’impero ottomano e la fuga della trojka, con i tre pascià, ossia Enver, Talat e Cemal, che vennero uccisi rispettivamente in Asia Minore, dai bolscevichi, a Berlino e a Tbilisi, da militanti armeni, lasciando così un paese allo stremo. La prima guerra mondiale fu dunque per la Turchia un completo disastro, ma la scelta di intervenire era dettata da numerosi fattori, quali il consolidamento del regime, la forte fiducia nei confronti dell’esercito tedesco, la possibilità di interrompere la dipendenza economica dalla Gran Bretagna e dalla Francia, la possibilità di ottenere una storica rivincita sulla Russia e infine l’ipotetica conquista dell’Asia Centrale, considerata la culla della nazione turca. La prima guerra mondiale e lo sterminio degli armeni La prima guerra mondiale sancì inoltre l’islamizzazione dell’Anatolia, avvenuta tramite lo sterminio di circa un milione di armeni, visto, anche tutt’ora, solo come una guerra di autodifesa da parte dei turchi. Durante lo scontro con i russi infatti, alcuni comitati rivoluzionari armeni vennero accusati di collaborare con i russi stessi, e per questo motivo, il governo ottomano decise di deportare e sequestrare tutti i beni di 700’000 armeni, su una totalità di 1’300’000, verso dei cosiddetti luoghi sicuri, deportando dunque anche coloro che abitavano a migliaia di chilometri dal fronte russo e che non avevano mai dato vita a moti rivoluzionari. La guerra d’indipendenza L’armistizio di Mudros del 1918 decretò la disgregazione e l’occupazione dell’impero ottomano: la Gran Bretagna si impadronì della provincia di Mosul, l’Italia e la Francia si impossessarono di una parte della regione mediterranea dell’attuale Turchia e si divisero, insieme alla Gran Bretagna, Costantinopoli, e la Grecia occupò Smirne. La compagine greca però non si accontentò e comprese che il momento era quello giusto per dar vita al progetto della Grande Grecia, tramite la conquista militare di numerosi territori dell’Anatolia. Inoltre il trattato di Sèvres del 10 agosto del 1920, ufficializzò lo smembramento dell’impero e anche dell’Anatolia stessa: gran parte della Tracia occidentale venne assegnata alla Grecia, diverse province meridionali divennero di dominio francese, gli stretti vennero posti sotto il controllo internazionale, venne costituito uno stato armeno e infine venne costituita una zona autonoma curda. L’opposizione turca si materializzò solo con Mustafa Kemal, che si oppose all’occupazione delle forze alleate e respinse la possibilità di creare un mandato americano sul quello che rimaneva dell’impero. Kemal lanciò dunque il 19 maggio del 1919 un appello alla disobbedienza che fu accolto dalla quasi totalità della popolazione turca, con i congressi di Erzurum e di Sivas che divennero i centri della rivolta guidata da Kemal. L’opposizione si rafforzò a seguito della stipulazione di un patto nazionale che ambiva al mantenimento dei confini precedenti al trattato di Sèvres. A questo punto le forze d’occupazione decisero di intervenire, deportando alcuni nazionalisti a Malta, condannando a morte Mustafa Kemal e inviando le truppe contro i suoi uomini. Ciò portò però alla radicalizzazione e allo scoppio di una vera e propria guerra d’indipendenza, che si svolse prima contro la repubblica armena, ma che poi, a seguito della sovietizzazione dell’armenia nel dicembre del 1920 e del trattato di amicizia e di fratellanza con Mosca, firmato nel marzo del 1921, si spostò sul fronte occidentale, dove le truppe turche guidate da Kemal riuscirono a sferrare una controffensiva all’esercito greco, che si vide costretto ad arretrare e a perdere, il 9 settembre 1922, Smirne, con la guerra che si concluse però solo il 19 ottobre del 1922, con la riconquista dello stretto dei Dardanelli e di Istanbul. La presidenza di Ismet İnönü Alla morte di Ataturk, avvenuta il 10 novembre del 1938, la Turchia era un paese stabile ma logorato. Infatti, nonostante la politica di investimenti pubblici di Kemal e un notevole aumento del pil, la crescita rimaneva molto debole, e la crisi del 1929 rendeva ancor più difficile trovare nuove risorse finanziarie. Il successore di Kemal fu İnönü, il quale, assunto il titolo di capo nazionale, rafforzò ulteriormente l’autorità del regime e il culto del leader. La sua presidenza fu però importante soprattutto in politica estera: il 9 ottobre del 1939 firmò un trattato di difesa comune con inglesi e francesi qualora il conflitto di fosse allargato anche al Mediterraneo e il 24 marzo del 1941 firma un trattato di non aggressione con la Russia. İnönü cambia però improvvisamente strategia, infatti, pur dichiarandosi sempre neutrale: il 18 giugno del 1941 firma un patto di amicizia e di non aggressione con la Germania di Hitler; nel novembre del 1941 invia una delegazione in Germania per negoziare la conquista dei territori dell’Asia Centrale; e poi, il 27 agosto del 1942, consiglia alla Germania di risolvere il problema russo facendo entrare nell’alleanza le regioni delle minoranze, che richiedevano l’indipendenza e che erano fortemente nemiche degli slavi. Tuttavia, a seguito della sconfitta nazista di Stalingrado nel 1943, la Turchia, pur continuando ad autorizzare i tedeschi all'utilizzo degli stretti, fa progressivamente marcia indietro, e il 2 agosto del 1944 interrompe definitivamente i rapporti diplomatici con Berlino, per poi dichiarargli anche guerra il 23 febbraio del 1945. Le politiche discriminatorie nei confronti delle minoranze e l’antisemitismo Negli anni precedenti al conflitto e nei primi anni del conflitto stesso, la Turchia attuò una politica razzista e antisemita, che portò alla promulgazione, i 28 giugno del 1938, di alcune leggi, che vietavano l’ingresso in Turchia di tutti coloro che non fossero di sangue turco. Inoltre, sotto la pressione tedesca, i turchi si rifiutarono di accogliere 780 ebrei provenienti dalla Romania su di una nave, che dopo un periodo di negoziazione fu abbattuta, nel febbraio del 1942, da dei sottomarini non identificati. Infine, nel novembre del 1942, venne introdotta l’imposta sulla fortuna, la quale andava fortemente a colpire gli armeni, i greci e gli ebrei, i quali, qualora non fossero riusciti a pagare l’imposta stessa, che era forzatamente elevatissima, sarebbero stati condannati ai campi di lavoro nella Turchia orientale, dove vennero dunque deportati tra i 1’400 e gli 8’000 uomini, che furono liberati solo nel 1944. Il passaggio al pluralismo L’8 maggio 1945 sancì la fine della Seconda guerra mondiale, ma anche del regime e del partito unico, con İnönü che dunque, da questo momento, si schiera dalla parte della democrazia e delle forze occidentali, anche perché la Russia, non dimenticando il fondamentale aiuto turco ai tedeschi, chiedeva la cessione di tre province orientali dell’Anatolia per decretare la pace con gli stessi turchi. Inoltre, in Turchia, forti erano ormai le voci di dissenso nei confronti del presidente, che per questo autorizza la formazione di nuovi partiti, consapevole del fatto che, qualora avesse potuto, li avrebbe nuovamente sciolti. Le cose andarono però diversamente dal previsto, e, a seguito della formazione, il 7 gennaio del 1946, del Partito Democratico, İnönü perse il titolo di “capo nazionale” e le strutture del partito vennero abolite. Si giunse allora, sempre nel 1946, a nuove elezioni che fecero vacillare il regime, il quale effettivamente crollò il 14 maggio del 1950, quando il Partito Democratico ottenne il 53.6% dei voti. CAPITOLO 3 Tra il 1945 e il 1950 İnönü diede via ad un processo di avvicinamento all’Occidente, aderendo, nel 1949, al Consiglio d’Europa, ed entrando a far parte del Piano Marshall. Questa politica venne perseguita anche dai democratici, i quali aspiravano a far divenire la Turchia una piccola America. Per questo motivo, la Turchia, che nel frattempo era diventata uno dei principali fronti della guerra fredda, aderisce, il 17 ottobre del 1951, alla NATO, e invia anche delle truppe in Corea. I rapporti con gli statunitensi si erano quindi rafforzati notevolmente, e dunque non si interruppero nemmeno dopo il colpo di stato militare iracheno del 1958, che pose fine al Patto di Baghdad; dopo la rivoluzione iraniana del 1979, che pose fine al Cento, ossia alla NATO mediorientale; dopo l’avvicinamento all’Unione Sovietica di Siria, Iraq ed Egitto avvenuto nel 1977; e nemmeno quando l’alleanza conobbe un momento di crisi dettato dall’invasione turca della parte settentrionale dell’isola di Cipro del 1974, che portò gli USA ad imporre per breve tempo un embargo militare. La Turchia si avvicinò all’Occidente anche sul piano economico, divenendo membro di numerose istituzioni internazionali, che permisero alla Turchia stessa di diventare, insieme ad Israele, l’unico paese veramente industrializzato del Medio Oriente. Dipendenze e crisi economiche Nonostante questa industrializzazione, la Turchia rimaneva comunque un paese molto instabile a livello economico, tant’è che si passava nell’arco di dieci anni da una crescita verticistica del pil ad una vera e propria recessione. Vi era dunque sempre la necessità di riorganizzare gli assetti dell’economia, ma anche della società. Il mondo turco mutò infatti profondamente, sia sul piano demografico, dove si registrò una notevole crescita, passando da una popolazione composta da quasi 21’000’000 di unità nel 1950 a quasi 45’000’000 nel 1980, sia sul piano urbano, con le strutture urbane che si ampliarono sempre più, mutando radicalmente il loro aspetto. Il cambiamento più importante fu però dettato dall’arrivo di nuove popolazioni e dall’emigrazione verso altri stati, tra cui soprattutto la Germania, dei turchi stessi, con la Turchia che divenne dunque sempre più un paese occidentalizzato e aperto. Il decennio democratico e il regime dei colonnelli Il Partito Democratico guidato da Menderes ripeté il successo elettorale anche nel 1954 e nel 1957, ma, non riuscendo a soddisfare le richieste dei suoi elettori, divenne ben presto un partito nazionalista e populista, che causò inoltre, seppur indirettamente, lo scoppio di sommosse contro le minoranze, avvenute tra il 5 e il 6 settembre del 1955, ad Istanbul. Inoltre, in occasione della Conferenza di Londra, che avrebbe dovuto decidere le sorti di Cipro, la notizia di un possibile attentato alla casa natale di Atatürk a Salonicco, spinse gli ambienti radicali di destra e l’associazione “Cipro è turca” a nuove sommosse che causarono numerosi morti e l’avvio di nuove partenze di massa. Al tempo stesso il Partito Democratico assumeva sempre più i caratteri di un potere autoritario, invitando, nel 1957, i cittadini turchi a riunirsi in un fronte patriottico che si scagliava contro i sostenitori di İnönü e del suo partito, causando la radicalizzazione di questi ultimi, che vennero però brutalmente repressi tra l’aprile e il maggio del 1960. Inoltre, l’instabilità interna emerse nuovamente nel 1950, quando una sostanziale porzione di turchi, ancora fedeli al modello kemalista e agli insegnamenti di Kemal, iniziarono a vedere in Menderes e nel Partito Democratico, che aveva reso la Turchia, sempre secondo questi neo kemalisti, debole e subordinata all’America, un’istituzione che si opponeva alla rivoluzione di Atatürk, e che per questo andava abbattuta. Per questo motivo, durante tutti gli anni Cinquanta si svilupparono numerosi tentativi rivoluzionari, che si conclusero il 27 maggio del 1960, quando il Comitato di Unione Nazionale, ossia un movimento formato da questi rivoluzionari guidati da Gürsel, riuscì a rovesciare il governo. Dopo una prima fase in cui si prospettò il ritorno ad un regime e alla fine della democrazia, il Comitato di Unione Nazionale decide di proporre una nuova costituzione, approvata dal 60% dei turchi, e autorizza nuove elezioni, riservando però la presidenza a Gürsel, considerato il garante della cosiddetta “rivoluzione del 27 maggio”. I radicalismi degli anni Sessanta Le elezioni, svoltesi il 15 ottobre del 1961, testimoniarono come la rivoluzione del 27 maggio fosse stata solo una parentesi nella storia turca, il governo fu infatti affidato a İnönü, considerato l’erede di Kemal, ma egli raggiunse solo il 36,7%, mentre il Partito della Giustizia, erede del Partito Democratico, ottenne il 34,7%. Inoltre, nelle successive elezioni del 1965, il Partito della Giustizia, affidato al giovane Demirel, ottenne un’importante vittoria, raggiungendo addirittura il 52,9% dei voti, che nelle elezioni del 1969 calarono, arrivando al 46,6%, non avvantaggiando comunque però İnönü, il quale ottenne solo il 27,4%, anche perchè nel frattempo, più precisamente nel 1966, morì Gürsel, pilastro della rivoluzione del 27 maggio, che venne sostituito da Sunay. Presto però si vennero a creare partiti radicali di destra e sinistra, un movimento islamico e una nuova contestazione curda: 1. La principale formazione della destra radicale che si venne costituendo fu il Partito d’Azione Nazionalista, il quale, fondato nel 1969 e guidato dal Başbuğ Türkeş, si poneva come obiettivo la costituzione di un nuovo Impero Ottomano, che si estendesse dall’Adriatico alla Cina e che fosse basato sulle cosiddette nove luci (nazionalismo, idealismo, socialismo, moralismo, liberalismo, scientismo, ruralismo, teoria dello sviluppo e populismo, industrialismo e tecnicismo), e inoltre il partito, fortemente sostenuto dai giovani sunniti, oltre che da esercito e polizia, si munì presto di un corpo armato: i Lupi Grigi. 2. Nella parte opposta dello scacchiere politico si venne invece affermando una gioventù di sinistra fortemente sostenuta dal movimento studentesco, operaio e contadino e legittimata dagli avvenimenti del maggio del ‘68 in Francia. Tra il 1965 e il 1969 quindi, questa gioventù di sinistra prese le distanze dal kemalismo e, dal 1970, intraprese anche la via della lotta armata contro i Lupi Grigi di Türkeş. 3. Il terzo polo era costituito invece dai militari islamici, che a loro volta si dividevano in: - un gruppo proveniente prevalentemente dall’Anatolia sunnita, che rivendicava l’attuazione della sharia - un gruppo guidato da Erbakan, che invece accettava il sistema parlamentare, decidendo così di dar vita al Partito d’Ordine Nazionale, che spinse però i giovani aleviti a sposare la causa socialdemocratica, che stava divenendo sempre più radicale 4. L’ultima componente è rappresentata dai nazionalisti curdi, i quali, intimoriti dalle dichiarazioni dei nazionalisti radicali turchi, ma al tempo stesso speranzosi per la rivolta scoppiata nel 1961 nel Kurdistan iracheno, tornano ad utilizzare orgogliosamente la loro lingua e a dichiararsi popolo oppresso. uccisione di civili. A seguito di questa dimostrazione di forza, Demirel decise allora di sostenere le azioni dell’esercito, decretando terminate le speranze per un governo non autoritario, che vennero ancor meno a seguito della nomina a Presidente della Repubblica, avvenuta nel 1993, dello stesso Demirel, che venne meno a tutte le sue promesse di democratizzazione del paese, in favore della ragion di stato. Giunto alla presidenza della Turchia, Demirel lasciò la direzione del partito e del governo alla fidata Çiller, ossia una professoressa universitaria proveniente dagli Stati Uniti, utile per testimoniare come la Turchia fosse aperta e ormai occidentalizzata. La Çiller si dimostrò però essere una convinta nazionalista senza grande esperienza, sostenuta dai generali e dall’esercito grazie alla sua visione politica, che si scontrava anche contro l’islam politico. Quando poi però, in occasione delle elezioni del 1995, il suo partito crollò, passando dal 27% del 1991 al 19,2%, e la sua coalizione con l’Anap venne meno, la stessa Çiller si avvicinò a Erbakan, il cui partito islamico aveva vinto le elezioni con il 21,3%, accettando di diventare il suo vice ministro in cambio dell’immunità, necessaria a causa dei numerosi casi di corruzione. Questa alleanza riscontrò però una grande opposizione da parte dell’esercito, il quale, per protestare contro le politiche religiose del nuovo governo, aprirono il fuoco contro dei dimostranti islamisti in una città vicino ad Ankara, e successivamente inviarono un ultimatum al governo stesso, che dunque, nel giugno del 1997, fu costretto a dimettersi, aprendo così un periodo di caos istituzionale, che si risolse solo a seguito delle elezioni del 1999, da cui uscì vincitore Demirel. La questione curda A seguito del colpo di stato del 12 settembre del 1980, numerosi componenti del PKK, ossia del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, vennero eliminati, e molti altri imprigionati. Öcalan, leader del PKK fuggito prima in Siria e poi in Libano, decise allora di riorganizzare questa organizzazione paramilitare, e, nel 1984, stabilì che era giunto il momento di riprendere la guerriglia contro la Turchia, riscontrando l’entusiasmo dei giovani curdi. Nel 1987 allora, i turchi emanano lo stato d’emergenza, che porta alla formazione di un governatorato sul Kurdistan, dotato di ampi poteri civili e militari, e alla formazione di una forza paramilitare, ma negli anni Novanta, vedendo non cessare il conflitto, il governo turco adottò ufficialmente la strategia della guerra di bassa intensità, con la questione curda che non veniva dunque più considerata di matrice culturale o politica, ma come una fonte di terrorismo separatista da sconfiggere ad ogni costo. Dopo una feroce repressione, nel 1993 il presidente Ozal decise di cercare un accordo con il PKK, che prevedeva il decentramento della Turchia e la nascita di alcuni stati federali, dove il potere sarebbe stato affidato proprio ai curdi, a condizione però che lo stesso PKK dichiarasse definitivamente concluso il periodo di violenze. Questo progetto riscontrò però l’opposizione dell’esercito, che niente voleva concedere ai turchi e che non voleva aumentare il potere di Ozal, ma anche da parte di alcuni componenti del PKK, e quindi, la morte di Ozal e l’uccisione di 30 turchi da parte di un comandante del PKK, decretarono la fine di ogni negoziato e la ripresa ad oltranza del conflitto. L’islam politico L’affermazione dell’islam politico e la popolarità del Refah di Erbakan, rappresentavano una seconda fonte di tensioni e divisioni sociali, e questo suo successo era dovuto a: 1. la popolarità dell’islam politico in Medio Oriente 2. la mancanza di credibilità da parte dei partiti considerati tradizionali 3. la capacità di concludere alleanze pragmatiche Nonostante la dura campagna di indebolimento attuata nei suoi confronti, il Refah vinse le elezioni amministrative del 1994 a Istanbul e Ankara, e negli anni successivi, grazie al passaggio dall’islam inteso come programma politico a solo riferimento culturale e religioso, riuscì ad aumentare notevolmente la propria area di influenza, che arrivò a comprendere anche gran parte dell’elettorato curdo. Per evitare però di essere associato a questo elettorato, il partito di Erbakan si presentò quindi alle successive elezioni come un partito nazionale turco, giurando così fedeltà all’esercito, che non verrà mai meno durante tutto l’anno passato al potere, in cui Erbakan essenzialmente ratificava solo le decisioni prese dal Consiglio Nazionale di Sicurezza, vedendosi anche obbligato a firmare alcuni accordi presi con Israele. Nonostante ciò, improvvisamente, il partito di Erbakan venne considerato una minaccia per il regime, e per questo motivo era necessario dar vita ad una seconda guerra d’indipendenza, che si scontrasse non solo contro l’invasore greco, ma anche contro il nemico interno, individuato proprio nel Refah, che quindi perde le elezioni nel 1997 e viene definitivamente bandito nel 1998, con Erbakan che, nel 2000, venne condannato a 10 mesi di carcere e privato di ogni diritto civile. Le bande in uniforme e l’evoluzione della destra radicale Nel corso degli anni Novanta, la destra radicale si impose come una protagonista della scena politica turca, anche grazie alla presenza nei servizi segreti di suoi numerosi membri, tra cui Çatlı, figura di spicco della mafia turca, sostenuto fortemente dal governo di Ankara, la cui “banda in uniforme” era stata utilizzata in diverse operazioni riguardanti il traffico di droga, che garantiva un indotto di 45 miliardi di dollari, e nel riciclaggio di denaro attraverso Cipro Nord e il Turkmenistan. Questo ramo dei servizi segreti si andò però violentemente a scontrare contro gli altri otto presenti, testimoniando così come la Turchia degli anni Novanta si fosse trasformata in un campo di battaglia tra gruppi appartenenti alla criminalità organizzata, che detenevano il controllo assoluto nelle province turche. La destra radicale non si basava però solo su queste bande, ma seppe anche modernizzarsi. Infatti, accantonato il progetto panturanico, anche a seguito di un fallito colpo di stato in Azerbaijan, avvenuto nel 1995 ad opera della banda di Çatlı, ci si concentra ora sulla difesa della nazione turca, considerata in pericolo; e per questo motivo si sviluppa una politica sempre più anti-europea e anti-americana, in quanto questi due soggetti politici erano sospettati di voler dar vita ad uno stato del Kurdistan. Questo mutamento della politica di Türkeş gli permise di ottenere, in occasione delle elezioni del 1995, il 10%, ossia il suo più grande risultato elettorale. L’introvabile società civile Gli anni Ottanta testimoniarono una grande apertura della società turca sul mondo, tant’è che Istanbul divenne una delle capitali culturali europee grazie alle numerose iniziative culturali e civili. Nella società turca si venne però a creare un duplice scontro culturale e politico, che vide contrapporsi la borghesia di Istanbul e l’intellighenzia aperta all’Europa contro quelle popolazioni urbanizzate di recente, che tendevano a mantenere la propria coesione tradizionale. Questi cosiddetti euro-turchi si scontrarono dunque contro quei contadini senza educazione che non avevano i mezzi, o i diritti, per accedere ai beni culturali, facendo quindi spesso ricorso all’esercito per difendere l’occidentalità della Turchia, la quale però, così facendo, faceva venir meno due concetti fondamentali della cultura europea e occidentale come la democrazia e l’autonomia individuale. Il ruolo dell’esercito Durante tutti gli anni Novanta, la figura dell’esercito si è notevolmente rafforzata, divenendo, tramite le guerre contro il terrorismo secessionista curdo e contro la minaccia di talebanizzazione rappresentata dal Refah, come l’ultimo baluardo e difensore di una patria in pericolo. Ciò comunque non basta per dimostrare quanto fosse effettivamente divenuto potente nel quadro della società turca. L’esercito era infatti un’istituzione autarchica, le cui scelte erano esenti dalla giustizia, in cui i fondi destinatigli, composti dal 16% del bilancio statale e dal cosiddetto Fondo di sostegno all’industria della difesa, rimaneva fuori dal controllo del potere civile, con i militari che disponevano dunque di un reddito pari a 11,6 miliardi di dollari, a cui si accumulavano i 5 miliardi di dollari derivanti dall’industria della difesa. Il coinvolgimento militare nell’economia non era però legato solo all’industria della difesa, ma costituiva, tramite l’Oyak, ossia la Fondazione di assistenza dell’esercito, a seconda degli anni, la terza o la quarta potenza economica del paese. Infine, il Consiglio nazionale di sicurezza, guidato dai militari, aveva la funzione di convocare periodicamente le massime istituzioni turche per dare dei consigli, che dovevano necessariamente essere ascoltati con particolare attenzione dalle istituzioni stesse. L’esercito e il Consiglio nazionale di sicurezza fondarono dunque, tra gli anni Ottanta e Novanta, un “partito-stato”, che diede vita a numerosi colpi di stato, condotti però non più attraverso un intervento militare diretto, ma tramite le istituzioni, che lo posero al centro del potere in Turchia. Un ultimo atto chiamato Ecevit Alla fine degli anni Novanta la Turchia era dunque uno stato sottomesso alla volontà dell’esercito, che deteneva il potere in nome di una sicurezza nazionale che era messa in pericolo dal terrorismo separatista e dall’islamismo reazionario, che vennero però presto meno. Gli Stati Uniti d’America di Bill Clinton informarono infatti il governo turco che Öcalan, capo del PKK, si trovava presso l’ambasciata greca in Kenya, e dopo numerose pressioni nei confronti di Atene e Nairobi, gli Stati Uniti permisero ai turchi di rapirlo e arrestarlo, provocando così un duro colpo all’organizzazione. Inoltre, in occasione delle elezioni del 1999, i nazionalisti Ecevit e Bahçeli, leader rispettivamente del Partito della sinistra democratica e del Partito d’azione nazionalista, riuscirono ad emarginare il Partito islamico, ponendo così fine anche al secondo nemico. Il nuovo governo di Ecevit però, ben accolto nonostante la presenza di individui che si erano macchiati di reati politici in passato, perse rapidamente credibilità. Infatti, malgrado una politica estera che aveva portato la Turchia ad ottenere lo status di candidato all’adesione all’Unione Europea, l’incapacità dello stato dinanzi al terremoto di Istanbul dell’agosto del 1999, che provocò 20’000 morti, e l’alto tasso di corruzione, portarono ad un diffuso malcontento, che aumentò esponenzialmente a seguito di una crisi economica causata proprio da un errore politico. Un acceso scontro tra Ecevit e il nuovo Presidente della Repubblica Sezer, causò infatti la fuga di valuta estera dalla Turchia pari a 10 miliardi di dollari, che andavano quindi ad indebolire ulteriormente un’economia già in difficoltà. La cosiddetta “terapia d’urto” di Derviş, ministro importato dalla banca mondiale, portò i suoi frutti, ma ad un prezzo molto alto, che vide l’inflazione raggiungere l’80% e l’economia
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