Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

La variazione diacronica, Appunti di Linguistica Generale

spiegazione della variazione diacronica

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 30/04/2022

aannaat27
aannaat27 🇮🇹

23 documenti

1 / 3

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica La variazione diacronica e più Appunti in PDF di Linguistica Generale solo su Docsity! La variazione diacronica L’ITALIANO DELLE ORIGINI: IL FIORENTINO La base dell’italiano moderno è nel fiorentino del Trecento, che già anticamente si era diffuso – per via letteraria e soprattutto nell’uso scritto – grazie alle opere letterarie di Dante Alighieri (1265-1321), Francesco Petrarca (1304-1374) e Giovanni Boccaccio (1313-1375). Il fiorentino si presentava nel Trecento come un dialetto particolarmente conservativo nel quadro italiano, tale da rispecchiare in modo eccezionale certi caratteri del latino volgare o del proto-romanzo: per esempio nel sistema vocalico a sette fonemi (/i, e, ɛ, a, ɔ, o, i/), che in altri dialetti e varietà romanzi è stato notevolmente alterato da successivi mutamenti e semplificazioni. Questo fatto dipende probabilmente dalla situazione isolata di Firenze e della Toscana rispetto alle principali vie di comunicazione nella tarda Antichità e nell’Alto Medioevo. La nuova importanza culturale di Firenze nel Basso Medioevo, diffuse in tutta Italia un tipo di lingua particolarmente vicina al latino, e per questo molto gradita ai letterati e inoltre, almeno in certi casi, equidistante tra varietà diverse. Mentre la lingua di Firenze è evoluta, l’italiano letterario e l’italiano parlato oggi, che ne dipende, hanno come modello sostanzialmente il fiorentino del Trecento, integrato dalla tradizione letteraria successiva. Così oggi l’italiano non segue l’uso fiorentino di ridurre il dittongo /wɔ/ a /ɔ/ (bɔno, non più buono). Incerta è l’antichità dei fenomeni della g o r g i a (vd. Approfondimento), cioè dell’aspirazione di consonanti occlusive intervocaliche, nominata per la prima volta nel 1525 dall’erudito senese Claudio Tolomei, ma forse precedente di un secolo o poco più. Anche in questi casi logicamente l’uso italiano non è quello fiorentino moderno. Approfondimento: Il fenomeno della gorgia prevede che le consonanti occlusive sorde /p, t, k/ si pirantizzano, passando rispettivamente a [ɸ, θ, h] in contesto intervocalico: capo /kapo/ → [kaɸo], vita / vita/ → [viθa], amico /amiko/ → [amiho]. Il problema del rapporto tra l’italiano e il fiorentino è stato dibattuto in un quadro normativo e ai fini dell’espressione letteraria, nel corso della celebre Questione della lingua (vd. avanti). In una prospettiva moderna, invece, e quindi con uno scopo oggettivo e descrittivo, il linguista Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907) ha stabilito che l’italiano è la continuazione diretta del fiorentino antico. Ci sono infatti alcune prove di fonetica storica che differenziano il fiorentino-italiano prima dai dialetti settentrionali e meridionali assieme, poi anche dagli altri dialetti toscani: I) l’esito -aio del lat. -ARIUM è del solo toscano (salvo la Lunigiana) contro i dialetti italiani sia settentrionali che centromeridionali che hanno -aro (o -ero): lat. PECORARIUM > tosc. pecoraio contro it. sett. pegoraro, it. centromerid. pecoraro; II) un altro tratto che isola le varietà toscane è l’innalzamento di /e/ atona protonica a /i/: NEPOTEM > nipote, FENESTRAM > fnestra, DESCENDO > discendo. Vediamo ora dei fenomeni che all’origine erano solo fiorentini (o quasi) e non genericamente toscani (oggi tutti i dialetti toscani sono influenzati dal fiorentino): 1) la desinenza innovativa -iamo per tutte le coniugazioni (cantiamo, vediamo, partiamo), invece delle legittime continuazioni dal latino (per es. -amo, -emo, -imo, ora dei dialetti rustici); 2) i tipi pure innovativi, famiglia e pugno con i e u invece che con e e o (da Ĭ e Ŭ lat.), coi quali il toscano è tornato (casualmente) al latino (cosiddetta anafonesi*). Da notare che l’evoluzione fonetica è condizionata dalla presenza di suoni palatali e da altri nessi dopo la vocale in questione (altrimenti FĬDEM dà regolarmente fede, e CRŬCEM dà croce). Approfondimento: In italiano antico opera una legge fonetica, condizionata dal contesto, detta anafonesi, secondo la quale davanti ai gruppi consonantici nj, lj, skj, nk e ng, Ĭ e Ē toniche latine danno /i/, Ŭ e Ō danno /u/: ess. famiglia < FAMĬLIA; tigna < TĬNEA (attraverso il lat. volg. *tinja derivato a sua volta da TINĔA); ischio < lat. volg. ĒSCLUM < AESCŬLUM (attraverso un *eskju(m) < esclum); lingua < LĬNGUA, vinco < VĬNCO; PŬGNUM > pugno; ŬNGŬLA > unghia; QUIŬNQUAM > chiunque. Altrimenti le vocali toniche latine Ĭ e Ē evolvono in /e/: SĬTEM > it. sete; SĒTAM > seta; SŌLEM > sole; CRŬCEM > croce, ecc. AFFERMAZIONE DEL FIORENTINO TRECENTESCO In origine il fiorentino era solo uno tra i tanti volgari italiani, le varietà italiane discese dal latino che, a partire dal secolo XVI, saranno chiamati dialetti. Grazie al prestigio delle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio, tuttavia, cominciò presto a esercitare un certo influsso sulle scriptae (cioè sui sistemi scrittori impiegati nelle scritture volgari) in uso in molte aree d’Italia tra XIV e XV secolo. Sarà però solo nel Cinquecento, che il toscano si imporrà definitivamente sui dialetti come lingua scritta. Le ragioni che determinarono questa affermazione vanno ricercate all’interno della cosiddetta Questione della lingua. Appannatosi, all’inizio del Cinquecento, l’entusiasmo per il latino, si sviluppò in Italia un acceso dibattito intorno ai modelli della lingua letteraria volgare. Prevalse la tesi arcaizzante del veneziano Pietro Bembo (Prose della volgar lingua, 1525), che prevedeva l’adozione della lingua degli autori dell’«aureo» Trecento, cioè il fiorentino di Petrarca e di Boccaccio e, in subordine, di Dante. La prospettiva bembiana non era tuttavia solo linguistica, ma anche – e soprattutto – estetica, dal momento che le opere di Petrarca e Boccaccio venivano additate pure come modelli stilistici e retorici. Bembo trasferiva così il concetto umanistico di «imitazione dei classici» dal dominio della letteratura greco-latina a quello della letteratura volgare, romanza. Altri intellettuali coevi (Niccolò Machiavelli) proponevano come modello linguistico il fiorentino moderno (cioè del sec. XVI). Altri (Baldesar Castiglione, Gian Giorgio Trissino) ancora suggerivano di attenersi alla lingua in uso presso importanti centri culturali italiani (in particolare la corte papale): è la cosiddetta tesi cortigiana. Rispetto a queste, la soluzione del Bembo aveva il vantaggio di indicare dei modelli di grande prestigio (Petrarca, Boccaccio), e per questo si inseriva meglio di ogni altra nel classicismo del tempo. La tesi bembiana venne di lì a poco adottata da Lionardo Salviati, che fu il principale ispiratore del Vocabolario degli Accademici della Crusca, il primo grande vocabolario italiano che, pubblicato per la prima volta nel 1612 e varie volte nei secoli successivi, divenne un importantissimo punto di riferimento per i letterati italiani. Il Salviati ampliò però il canone di Bembo, inserendo accanto ai tre grandi del Trecento, una serie di autori minori. Il suo modello non era il fiorentino dei «classici», ma in genere il fiorentino del Trecento. Possiamo dire, con C. Marazzini, che «tra le due posizioni [rispettivamente di Bembo e di Salviati] passa la differenza che distingue il classicismo dal purismo, che è invece fondato sulla nostalgia del passato linguistico, al quale viene attribuita la perfezione» (Questione della lingua, in Enciclopedia dell’italiano, 2011). L‘UNITÀ D'ITALIA E IL PROBLEMA DELL’UNIFICAZIONE LINGUISTICA A partire dal sec. XVI il fiorentino del Trecento si diffuse in tutti gli ambiti: letterario, religioso, amministrativo, giudiziario, scientifico. Questa espansione interessò tuttavia soltanto le classi colte. A causa della frammentazione politica che ha da sempre contraddistinto la storia della Penisola, si può pensare che solo élites ristrette e il gruppo geograficamente limitato dei Toscani, a cui si possono aggiungere gli abitanti di Roma e di zone dell’Italia mediana in cui si parlano varietà prossime al toscano (provincia di Ancona, zone di Perugia, Orvieto, Lazio settentrionale), abbia nei secoli XVI-XIXI parlato l’italiano. Il numero di italofoni subito dopo l’Unità d’Italia (1861) era estremamente ridotto: 2.200.000, pari al 9,5% della popolazione, per Arrigo Castellani (1982) – addirittura 630.000, pari al 2,5%, per Tullio De Mauro (1963), le cui stime sono però troppo restrittive. Al di fuori delle zone citate, l’italiano rimase a lungo una lingua prevalentemente scritta, usata nella cultura e nella scienza, nelle cancellerie, nell’amministrazione e nella giustizia. LA VARIAZIONE DIACRONICA Il purismo (vd. sopra) rimase un elemento costitutivo della cultura italiana dei secoli XVI-XIX, ma fu osteggiato da molti intellettuali. Tra questi è da ricordare Alessandro Manzoni, che nel suo celebre romanzo I promessi sposi (1827; 1840) adottò come lingua la parlata coeva della classe colta della città di Firenze. Quando, dopo l’Unità d’Italia (1861) si pose il problema dell’unificazione linguistica del nuovo Stato, Manzoni propose l’adozione del fiorentino vivo come lingua da divulgare attraverso l’insegnamento scolastico (Relazione sull’unità della lingua e sui mezzi di diffonderla, 1868). Contro la soluzione manzoniana intervenne nel 1873 Graziadio Isaia Ascoli, il fondatore della linguistica scientifica in Italia, che, dopo aver fatto notare che il fiorentino moderno presentava varie innovazioni rispetto alla lingua letteraria basata sul fiorentino trecentesco, e che dunque le due varietà apparivano irrimediabilmente differenziate, affermò che l’unificazione linguistica italiana non si sarebbe raggiunta attraverso l’adozione di una lingua- modello, ma sarebbe stata un effetto dello sviluppo sociale e culturale della nazione (Proemio al primo fascicolo dell’«Archivio Glottologico Italiano»). «Al modello centralistico di Manzoni (che si era ispirato alla funzione di Parigi e di Roma antica) veniva contrapposto un modello policentrico, e la lingua non era considerata una premessa, bensì una conseguenza dello sviluppo politico-sociale» (C. Marazzini, Enciclopedia dell’italiano, 2011). DALL’UNITÀ A OGGI: L’ITALIANO STANDARD CONTEMPORANEO Come aveva previsto l’Ascoli, dopo l’Unità d’Italia l’uso orale (oltre che scritto) dell’italiano si è gradualmente diffuso in tutta la Penisola. Una prima, limitata, espansione della lingua nazionale fu favorita, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, dalla creazione della scuola primaria gratuita (1859) e obbligatoria (1877), dallo sviluppo industriale (nel Nord-Ovest) e dal connesso urbanesimo, dall’invio di impiegati dello Stato di diversa origine su tutto il territorio, dall’introduzione del servizio militare obbligatorio, dalla stampa periodica, dall’emigrazione all’interno e verso l’estero. La Grande guerra (1915-1918) mise per la prima volta a contatto grandi masse di cittadini maschi dialettofoni; anche le evacuazioni dalle zone di confine colpite dal conflitto portarono a contatto intere famiglie con abitanti di zone e dialetti diversi. Il regime fascista (1922-1943) attuò una forte politica di repressione e assimilazione delle minoranze alloglotte, tedesche e slave, mentre adottò – nonostante i ripetuti proclami – misure abbastanza blande contro i dialetti .
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved