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La variazione diatopica, Appunti di Linguistica Generale

spiegazione della variazione diatopica

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 30/04/2022

aannaat27
aannaat27 🇮🇹

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Scarica La variazione diatopica e più Appunti in PDF di Linguistica Generale solo su Docsity! La variazione diatopica I DIALETTI ITALIANI DAL MEDIOEVO ALL’UNITÀ I dialetti italiani, come gli altri dialetti romanzi di oggi o del passato, sono delle continuazioni locali del latino, e non delle varietà sviluppatisi a partire dall’italiano di base toscana. Caduto l’Impero romano d’Occidente, il latino evolve in forma divergente nei vari territori che lo avevano composto, tanto che si arriva già nell’alto medioevo a una miriade di varietà romanze. In Italia, in particolare, ogni località ha il suo volgare romanzo, che proseguiva con caratteristiche proprie il latino. Quasi tutti i dialetti italiani sono stati scritti nel Medioevo, per scopi amministrativi, religiosi e spesso anche per fini artistici, cedendo successivamente il passo al fiorentino letterario (che presto sarà detto «italiano»). L’influsso della scripta toscano-fiorentina (cioè delle variante scritta del toscano) si manifesta in molte aree d’Italia già nel sec. XIV (Veneto, Emilia, Napoli) e nel sec. XV (Lombardia, Piemonte, Roma). Una vera e propria egemonia del fiorentino si stabilisce nel corso del Cinquecento, quando il fiorentino trecentesco prende gran parte del posto che nella lingua scritta occupavano appunto, territorio per territorio, i vari volgari d’Italia, per sostituirsi nel corso dei secoli successivi anche al latino. È sempre nel Cinquecento che per designare un volgare diverso dal toscano letterario si diffonde in Italia il termine di origine greco-latina dialetto. Mentre però nel mondo greco antico i dialetti erano varietà, tutte provviste di prestigio, destinate a generi letterari diversi, nell’Italia del Rinascimento questo termine viene a designare le varietà linguistiche subordinate culturalmente alla varietà egemone dell’italiano su base fiorentina. Da questo momento in poi non si parla più di volgari ma di dialetti. Approfondimento: La letteratura dialettale riflessa. Anche dopo il prevalere della lingua letteraria di base toscana (sec. XVI), tuttavia, i dialetti hanno avuto un uso letterario. Si tratta però di un uso riflesso (cioè consapevole), che porta alla nascita di una vera e propria letteratura dialettale. ll dialetto fu coscientemente scelto dagli autori per ragioni espressive: a partire dalla codificazione di Bembo il fiorentino letterario venne eletto a lingua dei generi «alti» (la lirica, il poema epico-cavalleresco, la tragedia, la trattatistica, ecc.), e fu sentito come inadatto ai generi parodici e realistici. A questo genere di opere venne riservato il dialetto. Per questa ragione il dialetto ebbe fin dalle origini un ruolo centrale nella scrittura per il teatro comico: ricordiamo nel Cinquecento Angelo Beolco detto il Ruzante, che scrisse in pavano, cioè nel dialetto del contado padovano; nel Seicento, Carlo Maria Maggi, che scrisse in milanese; nel Settecento, Carlo Goldoni in veneziano; nel Novecento, Eduardo De Filippo in napoletano. Il dialetto venne adottato anche nella poesia: ricordiamo, nell'Ottocento, Carlo Porta, che scrisse in milanese, Giuseppe Gioachino Belli in romanesco, Salvatore Di Giacomo in napoletano; nel Novecento, Biagio Marin in gravisano (cioè il dialetto di Grado, in Friuli), Virgilio Giotti in triestino, Delio Tessa e Franco Loi in milanese, Albino Pierro nel dialetto di Tursi, in Lucania, e molti altri. Questa vicenda riguardò sostanzialmente l’uso scritto della lingua. L’uso orale dei volgari/dialetti continuò invece in Italia con grande vitalità, anche se scalfito nel suo prestigio dall’italiano-fiorentino. Ma l’uso scritto dei dialetti regredì: la lingua scritta per eccellenza dal Cinquecento fu l’italiano (a parte che nella letteratura dialettale, vd. sopra). La grandissima parte della popolazione parlava invece il dialetto, in tutte le classi sociali, e spesso solo il dialetto (è la cosiddetta dialettofonia esclusiva): questa situazione si perpetuò fino all’unità d’Italia (1861) e anche oltre. Fino alla seconda metà dell’Ottocento, nessun avvenimento politico permise la diffusione dell’italiano oltre cerchie ristrette. Solo a Roma l’uso della corte pontificia (dove si parlava prevalentemente il toscano) e poi il ripopolamento della città da parte di toscani nel sec. XV e XVI influenzarono profondamente la varietà locale, originariamente di tipo centro-meridionale. Per questo il cosiddetto romanesco è un tipo di toscano, mentre il dialetto della campagna romana è, com’era quello originario di Roma, una parlata centro- meridionale. A parte questo caso, l’Italia moderna ha mantenuto una pluralità dialettale che, all’inizio dell’Età Moderna, si trovava in parte anche nella Penisola Iberica e in Francia, ma che in quei paesi è stata radicalmente ridotta da quei processi di unificazione politica e di accentramento amministrativo che in Italia si sono avuti solo dopo il 1861. IL TERMINE DIALETTO IERI E OGGI Abbiamo anticipato che la parola dialetto è stata ripresa tra Umanesimo e Rinascimento dalle opere grammaticali della Grecia classica. Per i Greci i dialetti erano delle varietà linguistiche coesistenti di pari dignità, tutte usate nell’espressione scritta. Nell’Italia del Rinascimento, invece, i dialetti erano subordinati ad un varietà linguistica qualitativamente superiore, il fiorentino trecentesco. L’accezione rinascimentale del termine era il frutto di un contesto culturale dominato dalle discussioni intorno alla cosiddetta Questione della lingua: il toscano (come era chiamato nel Cinquecento la lingua di Petrarca e Boccaccio) era la lingua eccellente, la lingua per antonomasia, rispetto alla quale le altre lingue, i dialetti, si erano dimostrate artisticamente inferiori. Il toscano era anzi la sola lingua d’Italia, al punto da poter essere chiamata, col tempo, italiano; gli altri erano solo dialetti. L’ideologia e la terminologia forgiate nell’Italia del Rinascimento ebbero fortuna e si diffusero in tutta Europa, e poi anche fuori. Dal sec. XVI in avanti il termine dialetto prese un valore nettamente peggiorativo. Si trasferì così sui dialetti quello che un tempo si era pensato del volgare in generale: che cioè i dialetti, in quanto organismi informi e confusi, non possedessero quella precisa struttura grammaticale che predisponeva la lingua all’espressione scritta. L'opposizione tra lingua e dialetto si fa oggi più o meno in questo modo in tutta Europa e nel resto del mondo. Il termine dialetto è oggi noto a tutti, non solo alle persone colte. Anche i pastori o i contadini poveri lo conoscono, e con tale termine indicano spesso la propria lingua, di cui ammettono l’inferiorità. Oggi non riteniamo più, grazie al mutamento di prospettiva operatosi con la nascita della Linguistica scientifica nel sec. XIX, che ci siano lingue costituzionalmente superiori e lingue costituzionalmente inferiori. Si pensa anzi che tutte le lingue – nel senso più generale del termine, che comprende tanto le lingue quanto i dialetti – siano potenzialmente uguali, e si parla di equieffabilità delle lingue, intendendo con ciò che tutte le lingue sono capaci, almeno potenzialmente, di esprimere qualsiasi concetto. Questo è oggi un principio indiscusso, su cui tutti concordano. Ci si può chiedere allora se questa convinzione non debba spingere a obliterare del tutto la distinzione tra lingua e dialetto. Effettivamente, da un punto di vista strettamente linguistico questa distinzione si potrebbe eliminare. È ciò che si fa quotidianamente nella Linguistica storica, nella Dialettologia, nella Geografia linguistica. Ma il punto di vista intrinsecamente linguistico non è il solo possibile. C'è anche un punto di vista storico, sociale e sociolinguistico, e in questa prospettiva non è vero che tutte le lingue si equivalgono. Ogni parlante – ogni persona che vive (e parla) in un preciso contesto sociale – lo sa. Se in una società coesistono due lingue, o anche due varietà linguistiche affini, tutti sanno che queste non si possono usare indifferentemente. A seconda delle situazioni, degli interlocutori, talvolta dei fini che ci si propongono, si sa che si deve usare una lingua o l’altra. E non c’è nessuno che non si conformi a questa prassi. Normalmente capita che tra le due lingue si stabilisca una gerarchia di valore. Questo valore non dipende da qualche elemento intrinseco alla lingue (come le loro caratteristiche fonetiche, morfologiche, sintattiche o lessicali), ma è deciso dalla comunità dei parlanti, che stabilisce una gerarchia sociolinguistica tra le diverse varietà in uso contemporaneamente. I motivi che portano a tale distinzione possono essere di natura storico-sociale (l’affermarsi di una lingua di una regione o di un determinato gruppo sociale sulle altre) o di natura culturale (l’affermarsi di un modello linguistico conseguentemente all’affermarsi di un modello letterario). Questa seconda ragione è, come si è detto, all’origine della situazione linguistica italiana. I DIALETTI OGGI: DIGLOSSIA E DILALIA Dall’Unità d’Italia in poi, la pratica del dialetto è ovunque regredita, anche se in misura differente a seconda delle aree. A parte le regioni in cui si parlano varietà strutturalmente affini all’italiano (Toscana, Roma, parte delle Marche, dell’Umbria e del Lazio settentrionale), le regioni in cui il regresso dei dialetti è stato più forte sono quelle in cui, soprattutto dopo il 1960, c’è stato un forte sviluppo industriale, che ha portato all’immigrazione interna e all’urbanizzazione: Piemonte, Lombardia, Liguria. Al polo opposto si collocano aree economicamente più arretrate (Sicilia, Campania, Calabria, Basilicata, Puglia) o di recente industrializzazione (Veneto, Trentino). Ancora oggi, in queste aree della penisola (Italia meridionale, Nord- Est), i dialetti godono di un certo prestigio sociale, anche se non hanno riconoscimento ufficiale nella legislazione nazionale (in alcune zone, come in Piemonte, c’è stato un riconoscimento a livello regionale). Secondo recenti sondaggi, nel complesso le persone che in Italia parlano dialetto in famiglia (esclusivamente o assieme all’italiano) rappresentano circa la metà della popolazione di sei anni e più. L’uso del dialetto si concentra prevalentemente in due aree del Paese, il Sud e il Nord-Est (con alcune appendici nell’area centro-orientale). Oggi, in gran parte delle regioni italiane la situazione linguistica che si profila è di tipo diglossico, con l’italiano come varietà alta e il dialetto come varietà bassa. Benché, soprattutto negli ultimi trent’anni, la presenza dell’italiano nella sfera privata sia andata progressivamente aumentando, soprattutto presso le nuove generazioni, a tutt’oggi l’uso del dialetto nelle comunicazione informale rimane forte. Approfondimento: Il termine di diglossia appartiene alla terminologia Sociolinguistica, e designa la coesistenza nella società – e spesso negli stessi parlanti – di due varietà diverse tra loro (ma geneticamente imparentate), cui la comunità attribuisce un differente grado di prestigio sociale. Tali varietà, pur presentando significative affinità morfo-sintattiche, fonetiche, lessicali, sono ben distinte funzionalmente: solo la varietà alta è codificata e standardizzata, viene impiegata per tutti gli scopi scritti e orali formali; la varietà bassa viene usata nello scambio orale quotidiano, che tuttavia – ricordiamolo – costituisce la grandissima parte dell’attività linguistica di una comunità, tanto nelle classi popolari che nelle classi elevate. La diglossia è caratteristica, per esempio, del mondo arabo, dove la varietà alta è costituita dal cosiddetto arabo classico, e quella bassa dal dialetto che, in modo diverso da paese a paese, si parla nei diversi territori. Una situazione simile è quella della Svizzera tedesca, dove la varietà alta è il tedesco, quella bassa il dialetto svizzero tedesco, che è la sola forma usata nella comunicazione orale da parte di tutte le classi A nord, nel Canton Ticino e nel Canton dei Grigioni, si parlano varietà dialettali di tipo lombardo (ticinese, grigionese). A Est, in Slovenia e in Croazia, si parlano varietà veneto-giuliane in alcuni centri della costa istriana (Capodistria, Isola, Pirano, Pola, Fiume) e dalmata (Zara, Spalato), residui dell’espansione secolare del veneziano. Con il passaggio di queste terre alla Jugoslavia comunista (1954) e con la conseguente emigrazione di massa degli italiani (circa 200.000 persone), il numero dei venetofoni si è ridotto notevolmente, soprattutto in Dalmazia. Dopo il 1992, la popolazione italiana dell’Istria – già ridotta drasticamente dopo l’esodo del periodo 1945-1954 – si è trovata divisa tra Slovenia e Croazia. CARATTERI DEI DIALETTI ITALIANI SETTENTRIONALI E MERIDIONALI Come abbiamo anticipato, i dialetti italiani si dividono in tre gruppi fondamentali: dialetti settentrionali, toscani e centro-meridionali. 1) I dialetti italiani settentrionali comprendono le varietà parlate nel Piemonte, nella Liguria, nella Lombardia, nel Trentino, nel Veneto, e, infine, nell’Emilia e nella Romagna. All'interno di ogni regione, che presenta un tipo dialettale proprio, sussistono sottovarietà locali caratterizzate a volte da differenze notevoli. Sono venete le parlate di alcuni centri del Friuli-Venezia Giulia come Grado e Monfalcone, di Trieste (precedentemente friulana), dell'Istria e della Dalmazia, derivate dall'espansione secolare del veneziano. I dialetti settentrionali formano un insieme quanto mai vario e differenziato. Tuttavia ad un’attenta analisi linguistica presentano parecchi aspetti comuni che li accostano alle lingue gallo-romanze (francese, franco- provenzale, occitanico), distaccandole dagli altri due gruppi dialettali italiani, toscano e centromeridionale (vd. sopra). Per esempio nei dialetti settentrionali, sono state eliminate le consonanti lunghe (o più precisamente, si è persa l’opposizione di lunghezza consonantica) che invece gli altri due gruppi (centrale e meridionale) hanno mantenuto dal latino: al toscano pelle e al napoletano pèlla corrisponde il tipo settentrionale pele, a letto e liétto corrisponde leto (non solo nei dialetti, ma spesso anche nell’italiano regionale meno accurato), ecc. Le consonanti occlusive intervocaliche si indeboliscono (sonorizzandosi), e a volte (attraverso una fase fricativa) dileguano: lat. *PRATI > pradi > praði > prai (a volte prè, con chiusura del dittongo ai); lat. CAUDA > coda > coða (nelle grafie medievali codha) > coa, ecc; lat. DICO > digo, lat. FOCUM > fogo, lat. AMICA > amiga, ecc.; lat. CAPUT > cavo > cao (in molte varietà cò). Alcuni fenomeni innovativi sono pure abbastanza largamente comuni, come la doppia serie di pronomi soggetto (detta reduplicazione), che non riguarda però sempre tutte le persone: per ‘(tu) dici’ abbiamo in piem. ti it parli, in bologn. te t di, in ven. ti te dizi, e anche in friul. tù tu dizis; milan. ly l gwarda, ven. lu l varda ‘lui guarda’. In queste sequenze il primo pronome è libero, cioè tonico, il secondo è clitico, cioè è atono e adiacente al verbo e può essere separato da esso solo da altri elementi clitici (vd. avanti). Ma più spesso il veneto si distacca dal gruppo, lasciando così da una parte tutti gli altri dialetti, detti gallo- italici. Secondo l’ipotesi classica esposta nel 1882-1885 dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli (che sembra però oggi difficile da mantenere), i dialetti del Piemonte, della Lombardia, della Liguria e, in parte, dell’Emilia-Romagna risentono del sostrato celtico (cioè delle lingue parlate dagli antichi Celti, detti anche Galli, prima della conquista romana), che è assente invece nel veneto. Al sostrato celtico si attribuiscono – ma la cosa è tutt’altro che certa – la presenza della vocali anteriori arrotondate /y/ e /ø/ (a volte rappresentate con i simboli ü e ö), assenti nel Veneto e nel resto d’Italia (ma anche in quasi tutta l’Emilia): cfr. torin. myr ‘muro’, milan. føk ‘fuoco’. La gran parte dei fenomeni fonetici più originali dei dialetti gallo- italici sono in relazione alla caduta generale delle vocali finali diverse da -a: emil./lomb. kan ‘cane’, lomb. kaval ‘cavallo’, milan. øʧ ‘occhio’, torin. fys ‘fuso’, ecc. Questo fenomeno (che esclude però il ligure) è comune al francese e al provenzale (le varietà romanze parlate in Francia, l’antica Gallia) e nel catalano. Nel Veneto la caduta delle finali è meno sistematica: in genere cadono solo /e/ dopo /n/ e /r/ (kan ‘cane’, maɲar ‘mangiare’) e /o/ dopo /n/ (man ‘mano’). Se si considerano anche la frequente caduta di vocali protoniche (cfr. piem. dne ‘denaro’, emil. tlɛr ‘telaio’), e certi sviluppi consonantici originali, il risultato è che oggi alcuni dialetti si presentano come molto lontani dal latino e dall’italiano letterario per la struttura della parola, avvicinandosi alla tendenza monosillabica del francese: così in bologn. ʤan < dzàn < *dizàn ‘diciamo’, in alcune varietà piemontesi (orientali e meridionali) ‘uovo’ è waf e in lomb. øf come in francese (œf). 2) Delle caratteristiche del toscano e soprattutto del fiorentino si è già parlato nella lezione 0301, a cui si rimanda. 3) Su una linea che congiunge Massa a Senigallia (tradizionalmente si dice, meno precisamente, La Spezia a Rimini), i dialetti settentrionali si incontrano con il toscano a ovest e con i dialetti centro-meridionali a est. Spesso si fa riferimento anche alla linea Roma-Ancona come confine tra le parlate toscane e quelle centro- meridionali. Nell’area compresa tra tale linea e la Toscana (Lazio settentrionale, Umbria centro-occidentale, Marche centrali) si parlano delle varietà «di transizione», che per semplicità includiamo tra i dialetti centro- meridionali. Come di diceva (0501), il gruppo dialettale centro-meridionale non può essere suddiviso, come quello settentrionale, per regioni. Le varietà sono sostanzialmente tre: a) mediane; b) meridionali; c) meridionali estreme. Vediamo le caratteristiche comuni. Tutte le varietà mantengono dal latino l’opposizione tra consonanti lunghe e brevi, come in toscano e in sardo, opposizione che come si è detto è andata perduta nel resto d'Italia e in tutta la rimanente Romània. I fenomeni seguenti, che interessano gran parte del dominio centro-meridionale, sono invece innovativi: • le assimilazioni consonantiche progressive -ND- > nn e -MB- > mm del tipo monno per mondo, quanno per quando e jamma (jammǝ, amma, gamma) per gamba, ritenute spesso un effetto del sostrato osco- umbro; • la metafonesi, cioè il fenomeno per cui il timbro delle vocali toniche medie (/ɛ/, /ɔ/) o basse (/e/, /o/) subisce un’alterazione per influsso delle vocali finali -i e -u latine originarie (per i dettagli si veda avanti): nap. pilə ‘pelo/-i’, munnːə ‘mondo’, pjettːə ‘petto/-i’, djendə ‘denti’, ecc. • la sonorizzazione delle consonanti occlusive sorde (/k/, /p/, /t/) dopo /n/: baːngə ‘banco’, mondə ‘monte’, kambə ‘campo’, ecc. • l’uso di tenere per avere non ausiliare (il tipo tengo famiglia); • il possessivo enclitico, cioè posposto e privo d’accento, con i nomi di parentela: màtrema ‘mia madre’, sòrata ‘tua sorella’, ecc. Alcuni tratti ricorrono solo in alcune aree del dominio centro-meridionale. Per esempio, un fenomeno che interessa gran parte delle varietà meridionali, tra cui il napoletano, è quello dell’indebolimento delle vocali atone, specialmente a fine di parola, che si neutralizzano passando a un unico suono, la vocale media centrale /ǝ/, detta anche «e muta o indistinta» o schwa (pron. scevà). Altro fenomeno diffuso nelle parlate meridionali è l’oggetto (o accusativo) preposizionale, cioè l’uso della preposizione a prima di un complemento oggetto riferito a persona: nap. sient’a mme ‘ascoltami’ (lett. ‘senti a me’). Approfondimento: La metafonesi è un fenomeno molto diffuso nei dialetti italiani, nel Nord come nel Centro- Sud. La metafonesi più comune prevede l’innalzamento delle vocali toniche medio-alte /e/ e /o/, che diventano rispettivamente /i/ e /u/ per influsso della vocale finale latina originaria (nel Nord -i, nel Centro- Sud anche –u). Nel napoletano e in un’area molto larga dell’Italia meridionale la metafonesi riguarda sia le vocali medio-alte /e/ e /o/ sia quelle medio-basse /ɛ/ e /ɔ/. In napoletano /e/ e /o/ si innalzano in /i/ e /u, mentre /ɛ/ e /ɔ/ dittongano in /je/ e /wo/: ACĒTUM > aʧitə, MŬNDUM > munnə ‘mondo’; PĔCTUS > pjettə, ŎSSUM > wossə ‘osso’. Il processo è sempre innescato dalle vocali finali -i e -u latine originarie, che però non sono più visibili oggi, perché tutte le vocali finali, tanto -u e -i, quanto -a e -e, che non provocano la metafonesi, sono confluite nell’unico suono /ǝ/. Dal lat. PLENUM, abbiamo al femm. sing. e pl. le forme napoletane non metafonetiche chiena, chiene, oggi realizzate tutte e due con /ǝ/ finale (/ˈkjenǝ/); al masch. sing. e pl., chinu, chini metafonetici, pure con ǝ finale (/ˈkinǝ/). Si vede però che la metafonesi deve avere agito prima che un’altra legge fonetica neutralizzasse tutte le vocali finali atone in ǝ, altrimenti non si spiegherebbe il trattamento diverso delle forme maschili da un lato, metafonetiche, da quelle femminili dall’altro, non metafonetiche. Quando si è verificata la metafonesi, in poche parole, le vocali finali dovevano essere ancora distinte.
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