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la violenza sulle donne, Sintesi del corso di Diritto Penale

appunti argomento violenza sulle donne

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 30/09/2021

mariac79
mariac79 🇮🇹

3.9

(8)

21 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica la violenza sulle donne e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! “La violenza contro le donne è forse la violazione dei diritti umani più vergognosa. E forseè la più pervasiva. Non conosce limiti geografici, limiti culturali o di ricchezza. Fintanto che continua non possiamo dichiarare di fare. reali progressi verso . l'uguaglianza, lo sviluppo e la pace’ Kofi Annan Nazioni Unite, 8 marzo 1999 Nel 2018, le donne uccise erano state 142, una in più dell'anno precedente: in termini relativi l'anno scorso le vittime femminili hanno raggiunto il valore più alto mai censito in Italia, attestandosi sul 40,3%, a fronte del 35,6% dell'anno precedente. Dal 2000 a oggi le donne uccise in Italia sono 3.230, di cui 2.355 in ambito familiare e 1.564 per mano del proprio coniuge/partner o ex partner. Sono alcuni dei dati del Rapporto Eures 2019 su "Femminicidio e violenza di genere", secondo cui a crescere nel 2018 sono soprattutto i femminicidi commessi in ambito familiare/affettivo (+6,3%, da 112 a 119) - dove si consuma l'85,1% degli eventi con vittime femminili Sono allarmanti i dati riguardanti questi primi giorni del 2017, che si apre con un quadro sconcertante circa la violenza sulle donne che si sta propagando in Italia. Donne uccise, stuprate, massacrate e “stalkerizzate”, solamente in quanto “donne”. Un bagno di sangue insomma, non meno preoccupante di quello che si è registrato nel 2016, potendosi contare 120 donne morte strangolate, accoltellate o bruciate. Ebbene, al centro di polemiche si pone l'attualissimo dibattito sulla possibilità di introdurre una fattispecie penale ad hoc orientata alla prevenzione e repressione del fenomeno. In molti ipotizzano infatti l'istituzione di una circostanza aggravante che tuteli la vittima-donna dai soprusi causati dagli uomini: il “femminicidio”. Questo termine è usato nel linguaggio corrente e dai media per esprimere forme di oppressione e di violenza esercitate dall'uomo sulla donna con un “movente di genere”, non occasionali, ma sistemiche, motivate dalla volontà di dominare, di possedere o di controllare la vita della vittima, fino ad annientarne la personalità, nella sfera privata ed in quella pubblica. Esso è espressione di un fenomeno sociale provocato dal ruolo che l’uomo o la società vorrebbe imporre alle donne. Come è tutelato il femminicidio nell'ambito giuridico? Ebbene, mentre i casi di violenza sulle donne in Italia sono ricondotti al sistema della c.d. violenza di genere insieme alla violenza contro i minori, il riconoscimento giuridico del femminicidio come tipo di reato non è mai avvenuto nella legislazione penale italiana, tanto che, solitamente, si rinvia alla fattispecie “neutra” di omicidio. Il fenomeno era stato però garantito a livello sovranazionale, quando fu espressamente riconosciuto dalla Dichiarazione di Vienna del 1993 all'articolo 1 come violazione dei diritti umani. In seguito, fu ratificata la Convenzione di Istanbul del 2011 sulla prevenzione della violenza contro le donne e la lotta contro la violenza domestica, come primo mezzo giuridico di contrasto in ambito europeo, nel quale fino allora non erano presenti strumenti normativi in materia. In Italia, il d.l. 14 agosto 2013, n. 93intitolato “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere” ha introdotto una successione di misure, preventive e repressive, per promuovere l'emancipazione femminile e difendere l'intero genere dal punto di vista giuridico. Le innovazioni si possono così sintetizzare: «= Si prevede l'aggravio delle pene in caso di maltrattamento in presenza dei minori, la c.d. violenza assistita, oppure in caso di violenza sessuale su donne in gravidanza e nei confronti del coniuge, anche se divorziato o separato; » La possibilità di assumere le testimonianze in modalità protetta, quando la vittima sia una persona minorenne o maggiorenne in stato di particolare vulnerabilità; = L'arresto obbligatorio in flagranza, esteso ai reati di maltrattamento contro familiari e conviventi; = Una costante informazione da garantire alle parti offese sullo svolgimento dei procedimenti penali; » La possibilità di irrogare la misura pre-cautelare dell'allontanamento d'urgenza dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, con controllo attraverso il braccialetto elettronico. Nel caso di atti persecutori, inoltre, sarà possibile ricorrere alle intercettazioni telefoniche; » L’irrevocabilità della querela. Una volta presentata non potrà più essere ritirata, così da sottrarre la vittima al rischio di nuove intimidazioni; « il gratuito patrocinio, previsto anche per le vittime di stalking e di mutilazioni genitali femminili; «= Un “piano antiviolenza” finanziato con 10 milioni di euro per promuovere strumenti di prevenzione. Una strada da percorrere sarebbe quella di superare l'eco lasciato dalla prospettiva sessista del codice penale Rocco nel mondo moderno, un'eredità di concezioni etico- culturali ormai antiquate, fondata sulla disuguaglianza fra i coniugi e sulla soggezione femminile. Basti pensare ad alcune norme penali del codice Rocco in vigore fino a qualche decennio addietro, oggi improponibili nella legislazione occidentale, come la punizione del solo adulterio da parte della moglie (art.559 c.p.), il “matrimonio riparatore” che estingueva gravissimi reati posti in essere nei confronti di una donna, ed in fine l'omicidio “a causa d'onore” (art. 587 c.p.), che sanzionava con pene attenuate l'uccisione della donna infedele, abrogato soltanto nel 1981! Tappa cronologica fondamentale prodromica dell'iter legislativo sul tema della violenza alle donne è rappresentata dal 1979: in quell’anno il Movimento delle donne e l'Unione donne Italiane si fecero infatti ideatrici e portavoce di una proposta di legge di iniziativa popolare contro la violenza sessuale: l’obiettivo che i collettivi si erano proposti era quello di far riconoscere a livello legislativo il reato di stupro nella sua natura di reato contro la persona, e non, come avveniva, di crimine contro la morale. penale deve svolgere un ruolo necessariamente sussidiario, quanto alla regolamentazione giuridica del vivere sociale [2]. Oggi in Italia è difficile sostenere e comprendere tale affermazione in presenza di una legislazione che ci ha abituati ad un diritto penale di “lotta”, contro nemici interni od esterni, più o meno reali o percepiti dalla collettività come tali: il terrorismo, le droghe, lo straniero; l'atteggiamento negli interventi legislativi che si sono susseguiti anche in tema di violenza contro le donne è proprio quello che richiama l'utilizzazione dello strumento penale per lottare contro “l’uomo-nemico”. Evidente è l'equivoco: il nemico da combattere non è l’uomo, il nemico è la discriminazione sessuale [3] nei confronti della donna. Per fronteggiare i fenomeni criminali contro le donne e, soprattutto per prevenirli, occorre porre le basi per interventi che mirino ad eliminare tale discriminazione sessuali, con azioni strutturali nelle politiche sociali, educative, di rappresentanza, piuttosto che mostrando i muscoli di severissime sanzioni penali per i reati di violenza e per il femminicidio [4] e facendo tintinnare le manette. Peraltro, se tale discriminazione sessuale della donna esiste, non può essere sottaciuto che anche il diritto penale dei secoli scorsi, e naturalmente non solo il diritto penale italiano, ha le sue pesanti colpe. La legislazione penale del passato non ha fatto altro che confermare le diseguaglianze tra i sessi già presenti nella società. Per questo oggi anche la politica criminale deve fare la sua parte e la scienza penalistica non può defilarsi in nome della sussidiarietà. In particolare, in Italia, la responsabilità della scienza penalistica emerge con evidenza, a titolo di esempio, dall'esame della evoluzione normativa del delitto di omicidio per causa d’onore (abrogato con la legge 5 agosto 1981, n. 442), la cui eliminazione dal codice penale è stata conseguenza, e non causa, di un'evoluzione sociale che impose nei fatti la scomparsa della tutela penale dell'onore sessuale, che non tutelava la vita, “ma i valori feudali di una sessualità maschilista, sacrificando a tali interessi il bene della vita umana (e soprattutto di quella della donna)” [5]. Nella storia della legislazione penale italiana relativa ai reati riconducibili ad atti di violenza e prevaricazione nei confronti delle donne va osservato, significativamente, che le modifiche sono sempre intervenute dopo i mutamenti sociali, in particolare quelli conseguenti al movimento femminista degli anni 1970 e seguenti. Si pensi ad esempio alla legge 15 febbraio 1996, n. 66, che ha ridisegnato il reato di violenza sessuale, prima incluso tra i delitti contro la morale pubblica ed il buon costume, all’interno dei delitti contro la libertà personale, intervenuto ben dopo significative conquiste del movimento femminista quali la legge sul divorzio (legge n. 898 del 1970, passata indenne al referendum nel 1974), la riforma del diritto di famiglia che sancì la parità tra i coniugi (1975) e la regolamentazione dell’interruzione volontaria della gravidanza (consentita con la legge n. 194 del 1978, anch'essa confermata a seguito di referendum nel 1981). Da ultimo, le ultime rilevanti modifiche sono intervenute per effetto degli adattamenti della normativa nazionale agli obblighi derivanti dalle Convenzioni internazionali o ai contenuti degli strumenti giuridici dell’Unione europea [6]. Peraltro il legislatore nazionale di questi ultimi due anni tende ad utilizzare la minaccia della sanzione penale con valore simbolico, quale via per assicurare la prevenzione generale, ossia per prevenire la commissione dei reati. O peggio, usa il valore simbolico della legge penale per rassicurare la collettività a fronte di non meglio precisati “allarmi sociali” che conseguirebbero dalla presa di consapevolezza della quotidianità e diffusività a tutti i livelli sociali, della violenza contro le donne [7]. Ma come dimenticare che nei fatti di violenza contro le donne e, soprattutto nel femminicidio, la realtà ha dimostrato come la minaccia di una severa sanzione è del tutto irrilevante? Spesso ad un femminicidio segue il suicidio dell’esecutore materiale del delitto o la sua spontanea consegna alle forze dell'ordine e addirittura la confessione di quanto commesso. La prospettiva della sanzione penale è infatti l’ultimo dei problemi per l’autore delle condotte di aggressione contro le donne, anche perché la sanzione penale minacciata spesso non è effettiva, e soprattutto il processo penale che deve comminarla non viene celebrato in tempi ragionevoli. Il quotidiano stillicidio di omicidi di donne ha portato da qualche anno alla luce il fenomeno in tutta la sua gravità, dando sociale consapevolezza dell’inadeguatezza della risposta dello Stato nei confronti di una situazione che non può certamente essere affrontata unicamente mediante l'intervento penale. Alcune ricerche sui casi di femminicidio in Italia nel 2004, dimostrano che nel 70% dei casi si erano verificati in precedenza altri comportamenti aggressivi, seppure non denunciati. Purtroppo la raccolta della casistica dei reati commessi in danno delle donne nelle statistiche ufficiali (ISTAT) soffre di un gender blind nell'analisi dei dati. Ad esempio, in Italia, nel 1992 gli omicidi di donne rappresentavano il 15,3% degli omicidi totali, e nel 2006 erano saliti al 26,6% [8] . Nel 2002, di 223 vittime di "omicidio domestico" (cioè in famiglia o tra vicini di casa, o tra colleghi di lavoro), che sono circa un terzo del totale di omicidio volontario, il 30,9% è stato collegato con il coniuge o ex- coniuge o ex-partner (6,7%) [9]. Nel 2006-2009, le vittime di femminicidio in Italia risultano 439, nel solo 2006 sono state 181 (29,4%) [10]. Occorre allora riflettere ed anche iniziare a considerare quale debba essere la considerazione giusta da assegnare alla donna che subisce le aggressioni, fino a pagarne il prezzo conla vita: non più vittima, collocata in posizione defilata nel backstage del processo penale, ma persona offesa da riportare nel proscenio non solo del processo penale, ma degli interventi di prevenzione di ulteriori atti di sopraffazione e violenza, interventi che sono tanto più efficaci quanto più destinati in via diretta e prioritaria a tutelare la donna. È ancora il diritto, in specie quello processuale, il responsabile della sottovalutazione nel processo penale del ruolo di quella che, in gergo tecnico, è indicata come la persona offesa dal reato, come del resto chiaramente indicato nella stessa Relazione illustrativa al Codice di procedura penale entrato in vigore il 24 ottobre 1989 [11]. E ciò vale, invero, per la persona offesa di un qualunque reato. Allora è necessario, e improcrastinabile, cambiare prospettiva e considerare lo strumento repressivo penale non come il principale strumento di contrasto al fenomeno della violenza contro le donne, ma come la indispensabile modalità repressiva delle condotte delittuose che si siano verificate nonostante le buone politiche sociali attivate, alle quali va invece affidato il ruolo di protagonista nel contrasto alla violenza di genere. Per costruire efficaci politiche sociali al fine di eliminare la violenza di genere è giunto il tempo di abbandonare l’analisi “sulla vittima”, per iniziare invece lo studio del fenomeno della violenza contro le donne “con la vittima”, ossia insieme alle associazioni non governative che se ne occupano da tempo e che conoscono dall'interno le dinamiche connesse al fenomeno. La più grave colpa della sottovalutazione della vittima, e quindi del perpetuarsi della discriminazione sessuale della donna nei confronti dell’uomo aggressore, deve essere attribuita proprio alla perdurante carenza di strumenti ed interventi di tipo diverso dalla mera repressione penale, mezzi invece indispensabili, che sono stati correttamente individuati tra i contenuti della Convenzione di Istanbul, strumenti della cui implementazione è responsabile lo Stato, come la stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha indicato con la sua giurisprudenza [12]. 2.Il femminicidio non è un omicidio passionale I femminicidi vengono sovente catalogati, in maniera semplicistica, soprattutto dagli organi di stampa, quali omicidi passionali. Di contro essi rappresentano spesso solo una sorta di inevitabile traguardo, purtroppo preannunciato, conseguente alla escalation di precedenti reati commessi in danno della donna, consistenti in atti di maltrattamento, violenza o stalking, posti in essere dal marito, dal partner o da un uomo, comunque legato in passato da una relazione interpersonale, più o meno duratura, con la vittima. L'evento di femminicidio rappresenta pertanto il fallimento concreto di quell’obiettivo condiviso dagli Stati parte della Convenzione di Istanbul, volto a sradicare la violenza contro le donne, tutelandone la dignità e la vita. Ma è in verità giunto il momento di bandire ogni riferimento al movente passionale in tutti i reati di violenza nei confronti delle donne. Innanzitutto va ricordato che per il diritto penale lo stato emotivo e passionale non ha alcuna rilevanza sotto il profilo di un giudizio di minore od attenuata responsabilità, né ai fini dell’imputabilità (come espressamente previsto dall’art. 90 del codice penale), né sotto altri profili, come la giurisprudenza di legittimità ha ormai da tempo chiarito [13]. Infatti se è invero normale collegare la passione ad una felice relazione amorosa, è, di contro, del tutto improprio accomunare tale significato positivo del termine “passione” al concetto di movente solo perché l'omicidio è scaturito nell’ambito di una relazione sentimentale (connotata o meno dal requisito dell’attualità) tra vittima ed autore del reato, quasi che la sussistenza di un rapporto amoroso presente o passato tra le persone debba condurre, inevitabilmente, a considerare che l'atto di violenza mortale sia stato mosso dalla passione e non già da forme anomale di comportamenti violenti, aggressivi e prevaricatori, che da tale sentimento hanno tratto solo lontana origine, anzi l'occasione, ed il cui motore va invece ricercato nella gelosia, nella rabbia, nell’odio, nella vendetta. In una relazione interpersonale quale quella sottesa alla fenomenologia criminale che culmina nel femminicidio, la donna si trova ad essere discriminata in quanto donna; non è un soggetto in posizione di parità con l’uomo, interlocutrice di pari grado con quello nel rapporto di coppia. La donna viene considerata dall'uomo, autore della violenza e dell'atto omicidiario quale presunto oggetto del proprio sentimento di amore. L'uomo con il femminicidio rivendica il ruolo di protagonista monopolistico della intrapresa relazione sentimentale, che pretende di imporre alla donna. In una relazione interpersonale, lontana da ogni corrispondenza di amorosi sensi, e “malata” per effetto della discriminazione sessuale, la donna è stata trasformata dall'uomo solo in un oggetto da amare, da volere tutto per sé, da possedere, in nome di un sentimento assoluto di possesso. L'uomo muove le labbra per dire «Ti amo da morire» ed estrinseca la propria volontà di sopraffazione nell'estremo gesto di soppressione fisica dell'oggetto “in tal modo amato”: «Tu non puoi vivere senza di me (che ti amo così tanto) e quindi non puoi andartene; o mia o di nessuno; tu non vivi senza di me e, quindi, muori». La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha analizzato in alcune decisioni le dinamiche della relazione interpersonale di tipo sentimentale in riferimento ai reati sessuali [14], per accertare i quali è essenziale verificare la mancanza di una libera determinazione della donna al rapporto sessuale con l’uomo. In tale contesto è stato sottolineato che di norma la relazione sessuale intercorre tra due persone poste allo stesso livello di dignità e capacità di autodeterminarsi, in particolare per ciò che concerne la esplicazione della propria libertà sessuale, mentre nel caso il rapporto sia asimmetrico, l’uomo finisce per abusare di una posizione di sovra-ordinazione, fino ad usare violenza e minaccia nei confronti della partner, la quale, per effetto di tale comportamento, da soggetto di una relazione sessuale, viene ridotta al rango di “oggetto” di un atto sessuale [15]. Tale patologia della relazione sentimentale può essere certamente frutto esclusivo delle caratteristiche di personalità dei due partners, ma si sviluppa anche in conseguenza dell’esistenza di un contesto sociale di discriminazione sessuale [16], contesto nel quale è normale percepire, e quindi - in assenza di necessarie politiche sociali - perpetuare la “non-parità” tra i generi. Allo stato, purtroppo, va constatata non solo la scarsità di politiche sociali relative alla parità di genere ed alla eliminazione di ogni discriminazione sessuale, ma ancor più la mancanza di [9] Dati raccolti da Fures, Economic and social Researches, www.eures.it/omicidi dom _2000.pdf [10] Dati raccolti dalla stampa e dai mass-media, in “Il costo di essere donna. Indagine sul femmicidio in Italia”. a cura di: Adolfi Laura, Breveglieri Agnese, Giusti Sara, Karadole Cristina, Ottaviani Elisa, Venneri Virginia, Verucci Cinzia, Anna Pramstrahler, in www.casadonne.it [11] Il nostro sistema processuale non ha considerato importante il ruolo della persona offesa dal reato nel processo penale, se non in quanto testimone e quindi “prova d'accusa”. Peraltro devono essere recepiti nell'ordinamento italiano alcuni strumenti giuridici dell’Unione europea che sono indispensabili per un'efficace azione di contrasto contro il fenomeno della violenza alle donne. Ci si riferisce innanzitutto all'attuazione della Direttiva dell’Unione europea n. 29 del 25 ottobre 2012, sulla posizione della vittima nel procedimento penale, che istituisce norme minime comuni in materia di diritti di informazione ed assistenza linguistica, diritti di protezione delle vittime dei reati e di partecipazione al procedimento penale e che contiene particolari disposizioni per le vittime della violenza nella c.d. close relationship. Tale intervento è necessario in quanto il sistema processuale penale italiano deve fare i conti con il problema, ormai sistemico, dei tempi di durata dei processi penali “non ragionevoli” non solo avuto riguardo agli imputati, ma anche in riferimento alle vittime. Deve anche tenersi conto della Direttiva n. 99 del 13 dicembre 2011, sull'ordine di protezione europeo adottato a favore di vittime o potenziali vittime di reati, della Direttiva n. 36 del 5 aprile 2011, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime (che sostituisce la decisione quadro 2002/629/GAI) e della Direttiva 2011/93/UE relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile (che sostituisce la decisione quadro 2004/68/GAI) in scadenza a dicembre 2013; del resto anche l'importante Direttiva n. 80 del 29 aprile 2004, sull’indennizzo delle vittime da reato intenzionale violento - introdotta con ritardo nel nostro ordinamento, solo a seguito della condanna dell’Italia da parte della Corte di giustizia - è stata recepita parzialmente dal decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 204. [12] Si veda la recente sentenza della Corte EDU del 26 marzo 2013 (Valiuliene c. Lituania), che ha ravvisato nella violenza domestica un caso di responsabilità per violazione dell'art. 3 CEDU (obbligo di proteggere le persone sottoposte alla giurisdizione dai maltrattamenti altrui). [13] Così sez. 1, n. 37020 del 26/10/2006, dep. 9/11/2006, Ecelestino, Rv. 235250 (“La gelosia quale stato passionale, in soggetti normali, si manifesta come idea generica portatrice di inquietudine, non diminuisce e tanto meno esclude la capacità di intendere e di volere del soggetto, salvo che essa derivi da un vero e proprio squilibrio psichico il quale deve presupporre uno stato delirante tale da incidere sui processi di determinazione e di auto- inibizione .”) Si veda anche SSUU, n. 9163 del 25/1/2005, dep. 8/3/2005, Raso, Rv. 230317 (“Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i "disturbi della personalità", che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di "infermità", purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell'imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di "infermità") [14] La giurisprudenza della Corte di cassazione ha fornito un essenziale contributo all'elaborazione del diritto applicato, ossia del diritto vivente, in relazione ai reati che vedono le donne vittime di violenza di genere; la giurisprudenza di legittimità è infatti ormai particolarmente sensibile alla tutela della vittima di tali reati e non ha mancato di evidenziare gli elementi di criticità della legislazione vigente e dell’applicazione di essa, dovendo sempre tenere conto del rispetto dei principi del giusto processo. Ci si riferisce all’ampia elaborazione in materia di giudizio di attendibilità della testimonianza della persona offesa vittima di reati sessuali, in riferimento alla quale la giurisprudenza della Corte ritiene ormai concordemente che non sia necessario applicare quelle regole probatorie che richiedono la presenza di riscontri esterni e che, di contro, il giudice possa trarre il proprio convincimento circa la colpevolezza dell'imputato anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che siano state sottoposte a vaglio positivo circa la loro attendibilità. L’attendibilità deve essere valutata in senso globale, tenendo conto di tutte le dichiarazioni e circostanze del caso concreto e di tutti gli elementi acquisiti al processo. [15] In tal senso si veda Cass. Sez. 3, n. 44978 del 22/10/2010, dep. 22/12/2010, C., in Dir.pen e processo 2011, p.736 e ss. con nota di F. Macrì, Le relazioni sessuali con minorati psichici tra liceità ed abuso. [16] La Corte di cassazione ha stigmatizzato ogni comportamento che possa manifestare un erroneo concetto di sovraordinazione maschile. In particolare è stata negata rilevanza ai fini dell'esclusione del dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia, alla eventuale convinzione di superiorità della figura maschile all’interno della famiglia che possa avere animato il marito ad agire con “atteggiamenti padronali" nei confronti della moglie, neppure quando tali atteggiamenti siano conseguenti allo specifico credo religioso professato dall’imputato (Vedi Cass. Sez. 6, n. 26153 del 26/4/2011, dep. 5/7/2011, C., Rv. 250430, in Cass pen. 2012, pag.2960, F. Piqué, La subcultura del marito non elide l'elemento soggettivo del reato di maltrattamenti né esclude l’imputabilità del reo e Cass. Sez. 6, n. 32824 del 26/3/2009, dep. 12/8/2009, D., Rv. 245185. Si veda anche Cass. Sez. 6, n. 46300 del 26/11/2008, dep. 16/12/2008, F.A., Rv. 242229, in Giur. It. 2012, p. 416, F. Pavesi, Sull’esimente culturale dei reati contro la persona). [17] Articolo il cui primo comma così recita: «Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.»
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