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la vita di vittorio alfieri, Appunti di Letteratura Italiana

la vita di vittorio alfieri. riassunto della sua vita, dalla gioventù fino alla morte

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 20/12/2019

rosa555
rosa555 🇮🇹

4.5

(13)

9 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica la vita di vittorio alfieri e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! La Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso è l’autobiografia di Vittorio Alfieri, pubblicata postuma nel 1806 (con la falsa data del 1804). Scritta a Parigi tra il 3 aprile del 1790, Sabato Santo, e il 27 maggio, fino al capitolo XIX dell’Epoca Quarta, venne risistemata a partire dal 4 marzo 1798. Ricopiata nel 1803 fino al 2 maggio, il 4 maggio il poeta ne riprese la narrazione, portandola fino al 14 maggio 1803. Il poeta morì pochi mesi dopo, l’8 ottobre dello stesso anno. L’opera rimase incompiuta e venne pubblicata postuma nel 1806, con una datazione falsa (“Londra, 1804”). ALFIERI - VITA SCRITTA DA ESSO RIASSUNTO PARTE PRIMA INTRODUZIONE Alfieri spiega le ragioni per la scrittura dell'opera. Dichiara di non voler addurre scuse di falsa modestia, e che ogni biografia è scritta per amor proprio, qualità della quale sono forniti tutti gli uomini ed in particolare poeti ed artisti in generale. Vi sono però alcuni elementi di captatio benevolantiae, come, per esempio, quando vengono nominati i "pochi estimatori della sua opera". Alfieri dice di scrivere per loro in quanto sa che le sue opere verranno comunque prima o poi precedute da una biografia, di cui preferisce essere direttamente l'autore. Inoltre ammette che potrebbe omettere degli eventi, ma assicura che non scriverà falsità, cosa che invece potrebbe accadere se l'autore della sua biografia fosse uno scrittore al soldo degli editori. La biografia sarà organizzata in cinque parti, corrispondenti alle cinque fasi della vita: infanzia, adolescenza, giovinezza, età adulta, vecchiaia (quest'ultima non verrà mai realizzata). Al momento della stesura dell'introduzione, Alfieri dichiara di essere occupato nella scrittura della quarta sezione, e di aver notato di scrivere meno di getto di quanto accadesse nelle opere precedenti. Si scusa quindi con i lettori nel caso in cui trovino che si sta dilungando troppo e chiede loro di punire questo suo errore non leggendo, eventualmente, l'ultima parte, che trattando la vecchiaia dovrebbe essere quella a carattere più riflessivo. Altra particolarità della biografia è che parlerà esclusivamente del suo protagonista, nominando le persone intorno a lui solo in eventualità positive: scopo della biografia è, infatti, lo studio di un uomo, e l'autobiografia è perciò il caso più lodevole di biografia perché l' autore non può conoscere nessuno meglio di se stesso. L'introduzione è chiusa da una dichiarazione stilistica: la scrittura sarà semplice in quanto l'argomento è personale ed istintivo, al contrario di altre opere. EPOCA PRIMA-PUERIZIA CAPITOLO PRIMO Alfieri racconta brevemente della sua famiglia: suo padre, nobile astigiano, Antonio Alfieri, e la madre, nobile di origine francese (barbara), Monica Maillard di Tournon. La madre aveva avuto figli da un primo marito ed era rimasta vedova, il padre non aveva mai lavorato (essendo appunto nobile) ed è già in età avanzata quando si sposa: anche per questo Vittorio resta orfano mentre è ancora dalla balia a Ronciglione. La madre si sposa 1 la terza volta, con Giacinto Alfieri, un cadetto, matrimonio del quale Alfieri è felice, anche se vorrebbe restare più vicino alla madre ora anziana. Alfieri riflette sulla fortuna di essere nato da genitori nobili (perché così può conoscere davvero, e dunque criticare, la nobiltà), agiati (perché così può servire solo la verità e non avere padroni) e onesti (perché così non deve vergognarsi di essere nobile). Alfieri dichiara inoltre di avere quarantuno anni mentre scrive la biografia. CAPITOLO SECONDO Alfieri inizia con un ricordo alla Proust, scritto, dice lui stesso, proprio per far vedere come funzionano i ricordi: uno zio che gli dà dei confetti e di cui lui si ricorda solo le scarpe squadrate. Proprio la vista di scarpe simili a quella dello zio fa tornare in mente a Vittorio il sapore dei confetti. Il secondo ricordo della prima infanzia è legato a una forte malattia che lo ha fatto quasi morire. Vi è poi la riflessione sulla sorella Giulia, la sorella prediletta, con la quale Alfieri vive in casa del patrigno. Uno dei ricordi più brutti dell'infanzia e quindi la separazione da Giulia, che viene mandata a studiare in un convento astigiano. C'è anche una digressione sul fatto che la separazione da tutte le persone amate, siano esse amici, parenti, o amanti, dà sempre lo stesso tipo di sofferenza in quanto l'amore parte sempre alla stessa maniera. Al contrario Alfieri riceve la sua istruzione in casa, da un sacerdote, Don Ivaldi, che lui stesso giudicherà poi piuttosto ignorante. L'autore riconosce addirittura che i suoi stessi genitori non sono persone colte, in quanto secondo loro "un nobile non deve diventare dottore". Alfieri riconosce però di aver sempre avuto una tendenza verso lo studio e l'introspezione. CAPITOLO TERZO Alfieri descrive alcuni piccoli avvenimenti che però sono decisivi per la formazione del suo carattere. Il primo è il fatto che a poco a poco si dimentica della sorella Giulia, in quanto la vede sempre meno spesso. Al contrario visita spesso la vicina chiesa del Carmine e in lui nasce un affetto per i novizi, giovani frati che sono in fondo gli unici coetanei che vede. Si tratta di infatuazione platonica e puerile: Alfieri apre il suo vocabolario e sostituisce alla voce frati la voce padri, in quanto ha sempre sentito parlare bene dei padri e spesso male dei frati. Un altro avvenimento è una sorta di tentativo di suicidio. Alfieri va in giardino e comincia a mangiare erba sperando di trovarvi della cicuta, ma ammette lui stesso di non avere neanche idea di cosa voglia dire la morte. Poco dopo vomita per l'erba ingerita, la madre a pranzo si accorge delle sue labbra verdi e lui viene messo in castigo. Secondo Alfieri fatto di essere lasciato solo per punizione ha favorito lo svilupparsi del carattere malinconico. 2 CAPITOLO QUARTO In questo capitolo vengono indicati altri piccoli episodi decisivi per la formazione del carattere di Alfieri. Lo scrittore spiega infatti di essere stato da piccolo molto taciturno, talvolta al contrario eccessivamente estroverso, ma soprattutto terrorizzato dalle punizioni. Vi è in particolare un castigo che lui ricorda con terrore, ovvero l' essere costretto a recarsi in chiesa con la reticella da notte in capo. La prima volta il tutore lo porta nella vicina chiesa dei carmelitani, dove però lui si vergogna di essere visto dai novizi. La seconda volta Alfieri viene trascinato fino alla chiesa di San Martino, molto più affollata di gente, e infatti l'autore racconta di essere stato inginocchiato ad occhi chiusi per tutta la durata della funzione. In entrambi i casi Alfieri non ricorda quale fosse il motivo del castigo, ma solo la profonda sofferenza che la punizione gli aveva causato. Vi sono poi altri due episodi molto significativi. Il primo è un incontro con la nonna materna, venuta da Torino, la quale insiste che volte per farsi dire dal nipote quale regalo di desideri. Alfieri ripete più volte di non volere niente, ma si scopre poi che aveva rubato alla nonna un ventaglio per regalarlo alla sorella. Alfieri non viene punito perché, come dice la madre e come conviene lui, chi ha poi delle proprietà come lui (in quanto nobile) si corregge automaticamente al rispetto della proprietà altrui e non ruba più. C'è poi il racconto della prima confessione, fatta con il confessore della madre, tale padre Angelo. Alfieri dice che in pratica è il sacerdote a guidarlo nella confessione, e a dirgli poi che per essere assolto come penitenza deve pentirsi pubblicamente davanti alla madre, cosa che lui, nonostante le insistenze di lei a pranzo, non riesce a fare. Alfieri spiega poi che solo più avanti negli anni ha capito che il prete aveva tradito il segreto confessionale avendo concertato con la madre la sua penitenza. Da questo momento, secondo Alfieri, era nata la ritrosia verso il sacramento della confessione. CAPITOLO QUINTO Vi si racconta l'ultimo avvenimento legato all'infanzia. Si tratta di un fatto avvenuto mentre in casa sua si trova anche il fratello maggiore, figlio di primo letto di sua madre. Alfieri racconta inizialmente di avere sentimenti discordanti verso il fratellastro, poiché da una parte si tratta di invidia verso le capacità del fratello, dall'altra di un sentimento di competizione con lui te lo spinge a migliorare. C'è quindi una prima riflessione sul fatto che spesso due sentimenti umani, l'uno negativo e l'altro positivo, possono partire dalla stessa situazione iniziale. Un pomeriggio i due fratelli stanno giocando a fare soldati prussiani, 3 Alfieri cade girandosi e si ferisce contro un ferro del caminetto, procurandosi una ferita molto vicino all'occhio. Costretto per alcuni giorni a portare una fasciatura, Alfieri ricorda di aver sempre precisato di essere procurata facendo degli esercizi militari: questo è la descrizione delle sue lezioni di musica e ballo. Nella musica ha un certo talento, ma non riesce bene come vorrebbe; al contrario, è scarso tanto nella scherma quanto nel ballo. La sua non propensione per la danza è procurata anche dal fatto di avere il maestro francese, nazionalità che gli è sempre stata avversa, tanto aver scritto in età più avanzata il Misogallo. Spiega lui stesso alcune delle motivazioni che lo hanno portato a detestare cosi francesi: il primo è un incontro con la duchessa di Parma mentre era ancora ad Asti, e poi proprio l'incontro con questo suo maestro di danza. Lo stesso autore riconosce come spesso sia la prima impressione verso una persona o una popolazione a impedirci poi di ragionare razionalmente anche quando si incontrano persone diverse provenienti presenza dello stesso paese. CAPITOLO SETTIMO Muore anche lo zio di Alfieri, quello che era diventato viceré a Cagliari e che era suo tutore economico. Avendo l'autore ormai quattordici anni diventa padrone delle sue ricchezze, e ha solo un curatore patrimoniale. Essendo così giovane e disponendo di così grande fortuna Alfieri si dedica all'ozio. Innanzitutto dichiara di non voler più studiare da avvocato e viene trasferito nel Primo Appartamento, ovvero la parte dell'Accademia dove vi sono soprattutto ragazzi francesi inglesi che si dedicano solo minimamente allo studio. Chiede inoltre di poter essere indirizzato alla Cavallerizza ed imparareanche andare a cavallo; trascorre così molte delle giornate con alcuni compagni tra cavalcate e altre attività poco formative, Racconta di spendere moltissimo denaro in abbigliamento e altre spese, ma di averne nel contempo tratto giovamento a livello di sviluppo fisico, in quanto finalmente riesce a crescere in statura e a riconquistare i capelli. Nel frattempo ha perso anche l'infido servitore Andrea; tuttavia, l'autore ne conserva un buon ricordo, soprattutto perché l'uomo era molto pronto a obbedire i suoi ordini, anche per questo lui stesso lo era andato a trovarlo a lungo, anche dopo che Andrea aveva trovato un altro padrone. CAPITOLO OTTAVO 7 Vicino ai quindici anni Alfieri comincia a trovare pesante il fatto di essere sempre seguito da un servitore, e chiede più volte al direttore dell'Istituto di poter uscire da solo come fanno i suoi compagni. Vedendosi negare la sua autorizzazione, prova più volte a uscire da sola senza permesso, e ogni volta viene messo in castigo. Il castigo più lungo dura tre mesi, durante i quali lui si rifiuta sia di chiedere scusa, sia di chiedere il permesso di uscire, e addirittura di mangiare con gli altri, riducendosi a non lavarsi a vivere vicino caminetto cucinandosi qualcosa che gli viene portato dagli amici, ai quali però non dice parola. CAPITOLO NONO La sorella Giulia si sposa con il conte Giacinto di Cumiana. Dopo le nozze Alfieri riacquistata libertà rispetto ai compagni di accademia, un maggiore controllo delle sue finanze che anche il suo primo cavallo. In poco tempo arriva possedere otto cavalli, nonché una carrozza e svariati capi di abbigliamento lussuosi. Racconta però di essere sempre stato restio al vantarsi con gli amici del pomeriggio, quelli con cui va a cavalcare, che sono meno benestanti di lui. Detesta soverchiare chi già dall'inizio è minore di lui, mentre al contrario è forte il senso di competitività verso chi ritiene suo pari o superiore. CAPITOLO DECIMO Alfieri vive suo primo innamoramento, verso la cognata di alcuni suoi amici. La subordinazione militare (cui è destinato in quanto figlio primogenito di una famiglia aristocratica), però, non fa per lui: decide quindi di intraprendere un primo viaggio a Roma e Napoli. Ha solo diciassette anni, e fino allora il viaggio più lungo che ha fatto è stato fino a Genova pochi mesi prima. Per questo, per poter partire deve riuscire a ingannare suo cognato, il marito della sorella, presso la quale vive. Intraprende perciò il viaggio con tre amici dell'Accademia, un inglese, un belga, in olandese. Con la partenza verso questo viaggio si conclude la sezione dedicata all'adolescenza, che Alfieri riconosce come totalmente inutile in quanto dedicato in maggioranza all' ozio e all'ignoranza. EPOCA TERZA-GIOVINEZZA CAPITOLO PRIMO Alfieri parla del suo primo viaggio in Italia con due amici. Con loro ci sono anche tre servitori, un aio (precettore) e anche Francesco Elia, un anziano ed esperto servitore del suo defunto zio. La prima tappa del viaggio è Milano, che ad Alfieri non piace in quanto molto più disordinata di Torino. Alla biblioteca ambrosiana gli viene dato anche un manoscritto di Petrarca, che però Alfieri riconosce di non aver punto apprezzato. Le 8 carrozze e i cavalli proseguono poi tra Parma e Mantova, due città che vengono visitate solo di sfuggita. La prima lunga tappa è Firenze; Alfieri si vergogna perché, nonostante sia nella patria del toscano, preferisce imparare l'inglese, e a inoltre continua a voler utilizzare la ridicola u alla francese di Torino. Il viaggio prosegue poi con brevi tappe a Lucca, Pisa, e Livorno: quest'ultima è la città che più piace all'autore, sia per la somiglianza con Torino, sia per il mare che per lui sempre un elemento affascinante. Vi è poi un lungo soggiorno a Roma, città di cui Alfieri apprezza molto poco, ad eccezione di alcuni elementi architettonici, forse per l'influenza dello zio architetto. L'autore rammenta come lo stupore dei suoi amici stranieri verso le meraviglie dell'Italia sia molto maggiori del suo. Solo dopo i lunghi soggiorni all'estero ha saputo poi valorizzare l'Italia e gli italiani, e anche capito l'entusiasmo degli stranieri per ciò che vedevano sulla penisola. CAPITOLO SECONDO Il viaggio prosegue verso Napoli. Nel tragitto Francesco Elia si rompe un braccio, e acquista ancora più ammirazione da parte di Alfieri in quanto riesce a risolvere da solo e prontamente anche questa situazione. A Napoli Alfieri si trova a disagio come in tutti gli altri luoghi in cui si è trovato in precedenza: egli riconosce infatti di ammirare di più il percorso fatto verso una meta e il fatto di essere lontano da casa rispetto a quanto visita. In questo momento Alfieri ha diciotto anni, e ancora non sa davvero cosa fare della sua vita; durante la visita alla corte napoletana gli viene consigliato di diventare un diplomatico; l'idea lo lusinga, ma non si mette mai veramente a tentare quella carriera. Allo stesso modo, non cerca nessun legame né amichevole, né amoroso, in quanto capisce che il suo solo interesse in quel momento è esplorare e rimanere il più possibile lontano da casa. C'è poi la riflessione sul carattere personale: l'autore riconosce di essere una persona che non fa il male di proposito, ed anche molto volenterosa, ma di avere sempre un disagio legato al fatto di non avere né un amore né uno scopo nella vita. Il capitolo si conclude con la partenza del solo Alfieri verso Venezia con Francesco Elia, mentre il suo precettore e gli amici restano a Napoli per tutto carnevale. CAPITOLO TERZO Deve proseguire da solo il suo viaggio verso Venezia. Racconta di aver ottenuto dalla re sabaudo il permesso di proseguire i suoi viaggi ancora per un anno, esplorando così l'intera Europa. Va infatti ricordato che in quel periodo i nobili del regno di Sardegna dovevano chiedere al re il permesso per ogni loro spostamento che li allontanasse dai doveri di corte o dell'esercito. Sulla strada da Napoli a Venezia Alfieri si ferma nuovamente a Roma, ma ammette ancora una volta di non saper sfruttare interamente labellezza della 9 città, limitandosi a visitare il minimo indispensabile. Inoltre, grazie a un nobile (il conte di Rivara) riesce a incontrare il Papa Leone XIII. Questo incontro è il pretesto per ricordare ancora una volta la Storia Ecclesiastica, opera francese la cui lettura è stata secondo l'autore la casa della sua avversione verso il clero. La decisione di intraprendere il viaggio in Europa viene però macchiata dalla notizia avuta dal curatore del fatto che per il viaggio avrà solo 1500 denari. Alfieri si trova quindi in ristrettezze, e per risparmiare decide di fare il viaggio fino a Venezia con dei mezzi molto più lenti dei cavalli da posta. Una volta arrivato a Bologna, l'impazienza giovanile ha il sopravvento e il viaggio prosegue con cavalli più rapidi. L'autore non apprezza né Bologna, né tantomeno Ferrara, per quanto quest'ultima città sia stata la patria e ospiti la tomba di Ariosto, il primo autore da lui conosciuto in gioventù. Giunto a Venezia Alfieri ne apprezza subito sia il dialetto, che gli ricorda le commedie goldoniane, sia i tanti avvenimenti organizzati per il carnevale. L'entusiasmo per la novità dura poco: ben presto Alfieri ritrova il suo malessere. C'è quindi spazio per una riflessione sul fatto che il suo disagio si ripete in quasi tutte le stagioni primaverili ed autunnali, mentre al contrario in estate e in inverno Alfieri sa di stare meglio e di poter anche scrivere meglio le sue opere. CAPITOLO QUARTO L'autore racconta del suo uso soggiorno a Venezia, in cui non ho visto nulla ma è rimasto come al solito da solo. Vi è però una riflessione sul governo di Venezia, tanto diverso da quello degli altri stati italiani ma comunque al potere da molti anni. Il viaggio si sposta poi verso alcune città più piccole, tra cui Vicenza, Mantova, e anche Padova, in cui dovrebbe esserci la tomba di Petrarca che però Alfieri ovviamente non visita, così come non visita l'università e molti celebri professori a cui si sarebbe interessato più avanti negli anni. Si sposta poi fino a Genova, città che era stata visitata per prima; il suo interesse, però, non è per la Liguria, bensì per la costa francese, che inizia a visitare con delle piccole gite in barca. Il suo viaggio in Europa parte dunque da Marsiglia, città in cui si trattiene per alcuni giorni. Tanto a Marsiglia quanto a Genova, Alfieri limita al minimo le sue interazioni con il resto del mondo; porta con se' delle lettere di presentazione per i nobili delle varie città, ma le sfrutta solo il minimo indispensabile. Prosegue poi il viaggio attraverso Avignone, Aix en Provence e Valchiusa, tutte città importanti sia per la storia d'Italia che per quella letteraria (il legame con Petrarca). Anche queste città, però, vengono ignorate dall'autore, che si reca il più velocemente possibile alla sua meta finale, Parigi. In questo capitolo di sono alcune prime riflessioni sulla futura attività letteraria di Alfieri. Egli racconta infatti che i paesaggi marini avrebbero ispirato in qualunque altra mente la scrittura di poesie, attività 10 in cui però lui si sente allora ancora incapace. Parla poi di suo interesse verso la commedia francese: da grande autore di tragedie, lo stupisce come in gioventù sia stato più attratto dalle commedie che non dalle tragedie francesi, ma è chiaro che ciò sia legato alla maniera di comporre tragedie dei francesi, che spesso usano le tre unità aristoteliche in maniera pedissequa e compongono quindi opere difficili da vedere anche chi per chi come l'autore è più incline agli umori malinconici. CAPITOLO QUINTO Arrivo dell'autore a Parigi. Come prevedibile, anche questa città lo delude profondamente: sia per il sudiciume, sia per il cattivo gusto, sia probabilmente per le eccessive aspettative che Alfieri aveva formato sulla capitale francese. L'unica conoscenza di Alfieri nella città è l'ambasciatore del regno di Sardegna, che però in quel momento non si trova a Parigi; egli trascorre quindi lunghe giornate tra passeggiate, teatro, e donne. Solo una volta tornato l'ambasciatore di reintrodotto nell'alta società parigina, ed in particolare fa la conoscenza di altri ambasciatori e del faraone, gioco d'azzardo in voga all'epoca. L'ultimo avvenimento degno di nota è il suo incontro con il re Luigi XV nel giorno di Capodanno. Alfieri nota come il re sia totalmente indifferente a tutti coloro che vede, siano essi piccoli nobili come l'autore o personaggi davvero importanti. Alfieri riflette sul fatto di aver poi visto un altro re nome Luigi essere salutato molto diversamente dal popolo durante la rivoluzione. CAPITOLO SESTO L'autore viaggia verso Londra. Con lui questa volta c'è compagno di viaggio, il figlio del suddetto ambasciatore a Parigi, un ragazzo molto più estroverso di lui ma con il quale Alfieri, che ama ascoltare gli altri più che parlare, si trova bene. Londra e l'Inghilterra acquistano molto di più l'ammirazione dell'autore rispetto alla Francia; Alfieri infatti ammira l'operosità degli inglesi, le loro leggi che fanno vivere bene la gente nonostante il clima ostico. Stessa cosa vale per le donne, forse meno belle di quelle francesi ma più buone e spontanee. In Inghilterra, Alfieri è costretto dal suo amico a fare vita sociale, ma si trova ben presto a preferire l'attività di cocchiere per lui e fraternizza con altri cocchieri passando lungo tempo a cavallo nelle campagne vicino a Londra. Il viaggio prosegue poi dopo novembre in Olanda dove Alfieri si innamora la prima volta. La sua amante è una giovane donna sposata da circa un anno con un nobile spesso in viaggio, e con la quale l'autore viaggio per Parigi (che ancora una volta non gli piace) e poi fino in Spagna. Nella penisola iberica Alfieri adotta un metodo singolare di viaggio, ovvero acquista due cavalli e prosegue al galoppo fino a Madrid e poi a Barcellona per altre città, sempre accompagnato dal fido Elia. Ancora una volta evita il più possibile gli incontri con altri essere umani, siano essi nobili persone del popolo. In Madrid in particolare evita l'incontro sia con il re che con l'ambasciatore del regno di Sardegna, essendo egli una persona che aveva già incontrato in Inghilterra durante sul primo viaggio e con il quale non c'era stata la minima simpatia. Durante il viaggio Spagna avviene un episodio singolare: Alfieri ha fatto amicizia con un giovane orologiaio spagnolo, e una sera lo invita a cena. Dopo il pasto si fa pettinare dal servo Elia, 14 ma un errore di quest'ultimo fa scattare l'ira di Alfieri che ferisce il servitore. L'incidente, per quanto grave, si risolve in quanto Elia non cerca vendetta. Alfieri racconta però che il servo conservò per anni i fazzoletti insanguinati in modo da ricordare il smacco subito. Alfieri fa dunque una riflessione sul fatto di non aver mai pensato di poterlo trattare come suo inferiore, ma di aver sempre apprezzato coloro che, per quanto suoi sottoposti, si fossero difesi a loro volta se picchiati, in quanto l'autore ha sempre preferito lo scontro da uomo a uomo. Proseguendo il suo viaggio Alfieri visita Lisbona, città per lui tanto bella da distante quanto squallida e orribile una volta visitata. Viaggiando a ritroso dalla Spagna in direzione dell'Italia, a Cadice Alfieri si ammala nuovamente. Si fa visitare in Francia, a Montpellier, ma contrariamente al consiglio dei medici decide poi di proseguire fino a Torino, dove passa tutta l'estate a curarsi. In tutto il capitolo vi sono anche riferimenti alla futura attività di scrittore dell'autore. Innanzitutto a Parigi Alfieri avrebbe l'occasione di incontrare Jean-Jacques Rousseau, persona che egli odia e ammira contemporaneamente, ma più per il suo comportamento che per le sue opere. L' incontro non avviene per volere dell' autore, che però acquista sempre a Parigi una serie di volumi contenenti le opere dei più importanti poeti italiani. La lettura di queste opere, che lui mai prima aveva affrontato, è il pretesto per fornire ai lettori l'elenco di coloro che, secondo lui, sono i maggiori poeti italiani di tutti i tempi: Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso e Machiavelli (come si può ben vedere nessuno è coevo o vicino cronologicamente ad Alfieri). Inoltre, durante il viaggio a cavallo per la Spagna egli ammette che, se avesse avuto più capacità di scrittura, avrebbe cominciato sicuramente lì il suo poetare. Vi è poi un attivissimo paragone tra le speculazioni di chi soffre di malattie psichiche e i poeti: secondo Alfieri l'unica differenza è che i secondi mettere per iscritto le loro farneticazioni, rendendole poesia. A Lisbona, infine, c'è l'incontro con l'abate di Caluso, letterato e definito "un Montaigne vivente" con il quale Alfieri stringe una sincera amicizia. È grazie a lui che l'autore sente per la prima volta quel desiderio di scrivere che soddisferà però solo molti anni più avanti. CAPITOLO TREDICESIMO Alfieri racconta dei sei mesi trascorsi a Torino, abitando in una casa in piazza San Carlo. Crea una sorta di società tra amici intimi, in cui vi sono giovani dell'alta società di diversa intelligenza. Nessuno, comunque, che permetta ad Alfieri di eccellere in qualcuna delle attività della compagnia; la più diffusa è la scrittura di storielle divertenti, che vengono depositate anonime in una cassetta e poi lette per diletto. Alfieri racconta quindi di aver notato quanto talento possiede nella scrittura delle storie di satira: scrive infatti, per 15 esempio, un racconto legato a un ipotetico giorno del giudizio, in cui riesce a fare il verso a tutte le principali personalità della città. Il genere della satira, però, non è di suo gradimento, In quanto riconosce che per la sua riuscita è molto più importante lo spirito incattivito del lettore (e il suo desiderio di fasi beffe di ricchi e potenti) rispetto alle capacità dello scrittore. Il capitolo si conclude con la descrizione di un'altra breve liaison amorosa dell'autore, che è stato per alcuni mesi legato sentimentalmente a una donna di quasi dieci anni più grande di lui. Egli non la ama, ma subisce la forte attrazione che la donna prova per lui. CAPITOLO QUATTORDICESIMO Alfieri racconta degli eccessi a cui lo ha portato l'insano amore/odio per quella donna (il cui nome è Gabriella Falletti di Villafalletto). Innanzitutto ha patito una pesante malattia, con sintomi come convulsioni e un vomito continuo. Sfiora la morte e deve perfino fare testamento. Una voltaripresosi, ritorna a fare il cavalier servente della stessa dama, sebbene la cosa continui a stressarlo. Anche la donna si ammala, e nel periodo trascorso al suo capezzale l'autore si mette, per noia, a scrivere un breve dialogo tra un Photino, una donna di nome Lachesi (come una delle Parche), e Cleopatra. Si tratta di una bozza piuttosto scarsa in qualità e in ortografia, che Alfieri non esita però a mettere come appendice alla sua biografia come testimonianza dell'inizio della sua attività letteraria. Preso dallo sconforto per lo stress procuratogli dalla donna, Vittorio decide un certo punto di fuggire prima per Milano e poi in direzione di Roma, ma giunto solo a Novara si pente e scrive alla sua dama per chiedere scusa. L'inghippo si risolve con Alfieri che resta fuori alcune settimane e poi torna con il pretesto di una nuova malattia, senza essere ancora riuscito a liberarsi da questa amante che lo rende infelice. CAPITOLO QUINDICESIMO Alfieri racconta della follia compiuta per liberarsi finalmente dell'amore per questa donna più vecchia di lui. Si taglia i capelli rossi, manda la coda a un caro amico, e dato che come nobile non può presentarsi in pubblico con i capelli così tagliati resta in casa per alcuni mesi. A questo periodo di clausura forzata che corrisponde l'inizio della sua attività come drammaturgo. Alfieri prime scrivi un sonetto, che invia (insieme alla Cleopatra scritta in casa Falletto) per giudizio a un amico, Padre Paciaudi, il quale critica non tanto l'opera, quanto l'italiano usato dall'autore, ancora poco avvezzo a usare questa lingua. Affida inoltre invia i suoi scritti anche un caro amico, il conte Agostino Tana, che come Paciuadi gli invia delle simpatiche annotazioni e correzioni. Siamo nel 1775:Alfieri scrive una nuova tragedia del titolo Cleopatra (in oltre 1600 versi, la più lunga tra le sue tragedie) che viene 16 rappresentata al teatro Carignano di Torino in due repliche e diventa così la prima opera dell'autore. Egli fa seguire a questa tragedia un'altra scenetta in cui vi sono degli autori e poeti che si beffano della sua stessa opera. Per lui si tratta del segno di come la sua attività di scrittore iniziata come drammaturgo e commediografo contemporaneamente. Alla fine di questa terza sezione della biografia sono riportati alcuni stralci di queste opere giovanili, e anche alcune delle lettere dei suoi primi maestri e correttori; essi però sono state modificate dall'Alfieri per essere inserite nell'opera. Si legge chiaramente come i versi siano acerbi, le rime ancora abbozzate, gli accenti mal distribuiti: è lo stesso autore a criticarsi in alcune note aggiunte poi a margine, non senza falsa modestia probabilmente. Questa sezione si chiude qui in quanto secondo Alfieri l'inizio della sua attività di poeta corrisponde all'ingresso nell'età adulta. EPOCA QUARTA-VIRILITÀ CAPITOLO PRIMO Alfieri decide quindi a 27 anni di diventare autore di tragedia. Prende la decisione, però, di scrivere tragedie lingue italiana, lingua che non ha parlato in famiglia e non ha poco esercitato negli ultimi anni di continui viaggi all'estero. Questo si riflette sullo scarso risultato linguistico della sua prima opera in italiano, la tragedia Cleopatra. Alfieri confessa di aver provato precedentemente con la scrittura in francese, elaborando due opere dei titoli di Filippo e Polinice. Provando poi a tradurre le stesse due opere in italiano si rende conto che scrivere in italiano e cosa ben diversa, e capisce di non avere le capacità linguistiche necessarie per il lavoro del genere. Alfieri fa dunque un paragone tra il lavoro del drammaturgo e un lungo percorso, che abbia come punto di arrivo proprio il successo nei teatri. Spiega che lui si trova a metà strada, in quanto sa di essere bravo per quanto riguarda l'invenzione delle storie e la descrizione dei sentimenti umani, ma di dover rifare svolta della strada dietro di se' per riappropriarsi delle competenze dell' Italiano. Ancora una volta Alfieri usa la falsa modestia, per spiegare come il suo carattere a quel tempo fosse alquanto presuntuoso e come sia stato per lui un atto di grande umiltà lo scegliere di ricominciare degli studi quasi scolastici di grammatica. Per meglio apprendere la lingua italiana alfieri si ritira in montagna sul confine francese. Idea come riconosce lui stesso poco produttiva, in quanto il suo compagno di studi è l'abate Aillaud, ex precettore di alcuni suoi compagni di accademia. Il religioso gli consiglia di iniziare dei grandi classici della letteratura italiana, e Alfieri con grande sforzo riesce a leggere l'intera opera di Tasso, Dante, Ariosto, Petrarca: quest'ultimo è, tra gli autori della tradizione italiana, quello che gli 17 va meno a genio. Non sono tanto le difficoltà nel comprendere riferimenti degli autori a preoccuparlo, quanto il fatto che spesso non capisce la lingua vera e propria. La preparazione linguistica prosegue leggendo alcuni testi tradotti in italiano da altre lingue: tra questi, particolare è la scelta di leggere l'Ossian, il poema del falso bardo inglese, ma nessuna opera francese, proprio perché Alfieri vuole disintossicarsi da quella lingua. L'ultima sezione del capitolo è dedicato un libro che Alfieri fatica a leggere quando è vicino ai trent'anni, ma che racconta avrebbe poi detto molte volte più avanti con l'età, ovvero il Galateo di Giovanni Della Casa. CAPITOLO SECONDO Prosegue la preparazione di Alfieri per diventare un drammaturgo. L'autore decide di non occuparsi solo della letteratura italiana, ma anche di quella latina, che aveva accanto trascurato durante gli anni all'Accademia. Si affida quindi a un maestro, con il quale legge le opere di Seneca e di Orazio: queste, avendo temi più vicini alla vita reale e a volte scurrili, risultano più facili all'autore, che aveva quasi totalmente dimenticato il latino e il greco. Anche la lettura di Fedro infatti gli risulta ormai quasi impossibile. Il secondo importante passo in questo avvicinamento alla perfetta lingua italiana è un viaggio in Toscana. Alfieri si reca prima Pisa e poi a Firenze. Lungo il viaggio verso Pisa fa un importante incontro, quello con il tipografo Bodoni, famoso in tutta Europa per la sua opera di stampatore. APisa prosegue la lettura dei grandi classici: per Alfieri è il pretesto per discutere su quelle che poi saranno le fondamenta del suo stile, che nasce proprio durante questi studi. Per esempio fa una lunga disquisizione sul fatto che l'endecasillabo sia il verso ideale per la poesia in lingua italiana, sia essa tragica o comica. Per spiegare questa sua idea confronta universi giambici latini con due versi di Torquato Tasso. Vi è poi una critica ai maestri che trova sia a Pisa sia a Firenze, in quanto spesso essi sono totalmente in disaccordo su ciò che per lui è buono per quanto riguarda il contenuto dell'opera. Alfieri infatti, non senza presunzione, non vuole imparare ad argomentare in maniera tragica, in quanto crede di esserne già perfettamente in grado, bensì vuole imparare le regole linguistiche legate al buon italiano. Il soggiorno di Firenze serve anche per elaborare e sistemare alcune delle sue opere già scritte, tra cui il Filippo, che viene tradotto in italiano. Alfieri stende inoltre l'idea per un'altra opera completamente nuova, Antigone. Scrivendo capisce però definitivamente che non solo non può tradurre opere scritte inizialmente in francese, ma anche leggere opere di altri autori sullo stesso tema può rivelarsi una mossa poco felice, in quanto porterà anche involontariamente a copiare l'autore originario. Per 18 questo, Alfieri racconta di aver rinunciato a leggere, tra gli altri, le opere di Shakespeare che è un autore che lui apprezza molto. In Toscana inoltre Alfieri non ha nessuno di cui si fidi come correttore per le sue opere (come erano invece, per esempio, il Tana e il Paciaudi a Torino). L'ultima parte di questo capitolo racconta di come è venuto a conoscenza della storia che è poi diventata una delle due tragedie medicee, il Don Garzia. CAPITOLO TERZO Capitolo molto breve. Alfieri torna a Torino, attirato sia dalle compagnie, sia dai suoi amati cavalli. Mentre è lì riesce finalmente a scrivere un sonetto che l'amico Tana giudica ben scritto: si tratta di un racconto in versi del rapimento di Ganimede. Entusiasta per questo buon risultato, Alfieri continua a scrivere ha raggiunto il suo scopo. CAPITOLO DECIMO Alfieri racconta di come riesce finalmente a mettere in scena una delle sue opere. Si tratta di una recita fatta da un gruppo di nobili di appassionati di teatro, con i quali l'autore mette sul palco l' Antigone, interpretandone lui stesso una parte. L'opera per quanto piccola ha grande successo e Alfieri decide quindi di mandarne in stampa quattro in totale, tra cui l' Antigone e il Filippo. Nello stesso periodo Alfieri incontra il Papa: l' avversione dell'autore per il clero è già nota, ma in quel momento Alfieri si riduce addirittura promettere al Papa di dedicargli la prossima delle sue tragedie. Egli infatti potrebbe ingraziarsi il sommo pontefice e farne un suo difensore nella questione legata al divorzio della moglie, ma il Papa non può accettare opere di nessun autore e Luisa è comunque costretta a restare ancora presso il cognato. La situazione si sta facendo molto difficile in quanto la presenza di Alfieri vicino alla donna è ormai risaputa da tutti e mette in cattiva luce la famiglia d'Albany. Alfieri ancora una volta prende una decisione prima che siano gli altri a farlo per lui, e pur di non essere bandito da Roma lascia di sua sponte la città. Per ingannare il tempo compie dunque un viaggio nel nord della penisola. Visita ancora una volta il Gori a Siena e l'abate di Caluso a Vercelli, limitandosi a una brevissima incursione a Torino presso la sorella. Il suo viaggio prosegue poi portandolo a vedere dalle altre le tombe del Petrarca e di Dante, nonché a visitare due letterati suoi contemporanei, ovvero il Parini a Milano e a Padova il Cesarotti, famoso per aver tradotto in italiano l' Ossian. Questo viaggio di Alfieri si conclude a Venezia. CAPITOLO UNDICESIMO 22 Alfieri decide di tornare in Toscana, passando questa volta da Modena e Pistoia. Lungo il tragitto scrive alcuni epigrammi, riconoscendo però che si tratta di un genere poco adatto alla lingua italiana. Si ferma poi a Firenze, per far giudicare le opere da lui pubblicate agli accademici, ma si accorge che essi non sanno dargli un giudizio concreto pur criticando i suoi scritti. Fa poi visita al Gori, e decide di pubblicare altre tragedie, per un totale di sei. Questa volta è Alfieri in persona ad occuparsi della revisione e della discussione con i censori, impicci di cui per la prima edizione si era occupato l'amico. Lo stress causato dal lavoro e dalla discussione con i revisori gli causa anche un ennesimo periodo di malattia. Nel frattempo l'autore riceve la critica positiva del Casalbigi (che invita i drammaturghi a farsi pittori), che cita anche nella Vita dicendo che aveva avuto anche la tentazione di farne la prefazione delle sue opere. Alfieri decide poi di trascorrere l'inverno in Francia e Inghilterra, perché tanto non può rivedere Luisa. CAPITOLO DODICESIMO Alfieri in Inghilterra acquista svariati cavalli, dedicandosi invece all'ozio per quanto riguarda la scrittura. Alla fine ne porta quattordici in Toscana, passando le Alpi e soggiornando alcune settimane a Torino. In questo capitolo ribadisce ancora una volta la sua avversione per i francesi e per la letteratura francese. CAPITOLO TREDICESIMO A Torino Alfieri rivede alcuni dei suoi amici di gioventù; non tutti però lo accolgono amichevolmente, più che altro per invidia. Inoltre deve fare visita al re (che lui anche da apolide rispetta) e al ministro, che gli offre di ritornare in Piemonte e fare carriera politicodiplomatica. Alfieri rifiuta, convinto ancora di continuare a scrivere. La stessa convinzione gli resta dopo aver assistito al Carignano ad una brutta versione della sua Virginia. È il pretesto per una dura critica all'Italia e all'assenza di un vero movimento teatrale nazionale: mancano bravi attori, autori competenti e un pubblico attento. Per questo, Alfieri sa che non potrà mai ottenere la vera gloria, ma continuerà a scrivere. L'autore riparte, fa visita alla madre ad Asti e poi torna a Siena dall'amico Gori. Nel frattempo ha finalmente notizie dell'amata, che libera da Roma si sta recando alle terme di Baden. CAPITOLO QUATTORDICESIMO Alfieri riceve in Toscana i cavalli acquistati in Inghilterra. Prosegue con la scrittura del poemetto Etruria Vendicata e riparte poi alla volta della Germania per rivedere Luisa. L'incontro con l'amata è il pretesto per scrivere tre nuove tragedie, nonostante Alfieri avesse deciso di non occuparsi più di tali opere. Vi è anche qui un flash forward in quanto Alfieri anticipa che è l'ultima volta che ha salutato l'amico Gori. Ritrovata l'amata a Baden, 23 i due vengono raggiunti dalla notizia della morte del Gori, che Alfieri può affrontare più serenamente proprio perché c'è Luisa al suo fianco. Tornato in Toscana dopo l'ennesima dura separazione dalla sua donna decide di non restare più a Siena (dove era proprio Gori ad ospitarlo) bensì di trasferirsi a Pisa per l'inverno 1784-1785. CAPITOLO QUINDICESIMO Solo a Pisa, Alfieri decide di scrivere per distrarsi dall'assenza dell'amata; Luisa infatti si trova a pochi chilometri da lui, a Bologna (stando a Bologna infatti la donna non contravviene all'obbligo di rimanere nello Stato Pontificio, ma almeno rimane lontana dal cognato a Roma). Inizialmente l'autore prova a operare una correzione dei versi di Sallustio, ma si tratta di un lavoro troppo certosino per sfogare il suo stress, perciò decide di andare avanti con la scrittura de Del Principe e Delle Lettere. Nello stesso periodo vengono date in stampa altre tragedie, e si arriva così al terzo volume; AIfieri chiede a questo proposito una critica al Cesarotti, che critica in parte lo stile dell'autore astigiano. L'ultimo paragrafo è dedicato alla tradizionale festa pisana del Ponte, alla quale Alfieri partecipa ottenendo grande ammirazione per i sui cavalli: è il pretesto per far notare ancora una volta come in Italia sia più facile avere gloria per le proprie ricchezze che per ciò che si è scritto. CAPITOLO SEDICESIMO Alfieri può finalmente riunirsi all'amata nella villa alsaziana di lei. I due si separano nuovamente quando lei si reca a Parigi, ma Alfieri approfitta della solitudine per finire di scrivere Mirra e Sofinisba. Termina inoltre il terzo libro di Del Principe e delle Lettere e inizia un nuovo testo, il Della Virtù sconosciuta, e inizia l'Abele. Finisce poi l' Etruria vendicata. Riceve da Luisa la notizia che la donna ha assistito a Parigi al Bruto di Voltaire, e decide di fare meglio. Stende quindi di getto il Bruto Primo e Secondo, che dovrebbero essere le sue due ultime tragedie. In totale sono diciannove: Alfieri al momento di scrivere la sua autobiografia no ha più scritto nulla per il teatro, rispettando la promessa fatta. Alfieri prosegue nella correzione delle opere mentre attende Luisa, e si ammala per l'ennesima volta mentre l'attende. Una volta tornata la donna in Alsazia due trascorrono insieme l'estate e poi partono in coppia alla volta di Parigi, dove Alfieri decide che si dedicherà a un nuovo genere letterario, ovvero la satira. CAPITOLO DICIASSETTESIMO Mentre si trovava a Parigi Alfieri non scrive opere nuove, ma decide di dare alla stampa le sue tragedie presso un editore francese. Per provare i caratteri e gli effetti della stampa dà per prima cosa in stampa il Panegirico a Traiano, breve opera che aveva composto anni 24 prima. A Parigi ha anche un breve scatto d'ira Pagina 13 di 15  Precedenti  12  13  14  15  Successivi mentre legge la Sofonisba a un amico; prova a bruciare l'opera, ma poi la recupera, anche se per lui resterà sempre tra le meno riuscite. Ritorna quindi a Colmar con Luisa e riceve la visita dell'abate di Caluso. L'amico gli porta un messaggio della madre, che gli propone una nobildonna in sposa, ma Alfieri ovviamente rifiuta. Durante il soggiorno dell'abate Alfieri viene colpito da una durissima dissenteria, che lo risparmia ma lo fa uscire dalla malattia molti giorni dopo gravemente debilitato. Nel frattempo anche l'amico abate è infortunato, essendosi slogato il polso a cavallo. In questo capitolo Alfieri ribadisce inoltre che per lui l'italiano è, per la sua musicalità, l'unica lingua degna di fare poesia, sebbene sa che sia con l'inglese che con il francese otterrebbe la gloria più rapidamente. CAPITOLO DICIOTTESIMO Alfieri, la donna e Caluso si recano a Strasburgo, dove visitano anche la tipografia Beaumarchais. La tipografia è molto bella e Alfieri decide di farvi stampare tutte le sue opere che non siano tragedie. Le prime ad andare in stampa sono le cinque doti l'America libera. Torna quindi a Parigi con Luisa, che riceve la notizia della morte di suo marito. Nonostante la separazione avvenuta molti anni prima, Luisa è sinceramente dispiaciuta per la morte del marito. Alfieri nel frattempo prosegue con la stampa delle sue opere, e a fine 1789 ha anche scritto un' ode sulla recente rivoluzione francese, intitolata Parigi Sbastigliata. CAPITOLO DICIANNOVESIMO Alfieri vive un periodo difficile e di tensione, in quanto con la Rivoluzione francese vede in pericolo sia i privilegi dei nobili, sia la sua pensione depositata presso il regno di Francia. Nel frattempo le tragedie vengono distribuite in Italia, dove hanno un certo successo; Alfieri spiega però ancora una volta di aver scritto poco e lentamente preferendo scrivere sempre il vero, che scrivere di più solo per avere maggior gloria e maggiori guadagni. Alfieri ribadisce inoltre che spesso dava alla stampa il manoscritto delle sue opere (come succede per esempio per l' America Libera) perché per lui le opere non esistono finché non stampate. Siamo nel 1790 e Alfieri ha 41 anni. È arrivato con la sua autobiografia al presente, e spiega che la rileggerà solo dopo circa quindici anni, o per raccontare dei nuovi generi letterari che in quel momento pensa di sperimentare, o per iniziare una quinta epoca, quella del "rimbambimento". Lascia poi istruzioni nel caso in cui muoia senza poter continuare e rivedere l' opera. Chiede che l'opera venga eventualmente tagliata e rifinita stilisticamente, ma che non vengano né aggiunti, né tolti eventi. Quest'opera infatti è l'unica in cui Alfieri dice di aver scritto non per il suo ingegno, come nelle altre, ma facendo 25 operare prevalentemente il suo cuore, e quindi l'opera è più personale, spontanea e quindi anche meno raffinata stilisticamente. PARTE SECONDA CONTINUAZIONE DELLA QUARTA EPOCA PROEMIETTO Alfieri spiega che sono passati tredici anni da quando aveva terminato di scrivere le sue memorie. Ora ha cinquantacinque anni, sa di non avere più molto tempo perciò dopo aver corretto ciò che aveva già scritto decide di raccontare quanto successo negli anni successivi al 1790. CAPITOLO VENTESIMO Finito di scrivere, Alfieri si dedica alla traduzione di Virgilio e di Terenzio per rimanere allenato a verseggiare. Il suo obiettivo sarebbe iniziare poi a scrivere delle commedie, nonché delle tramelogedie. Gli unici risultati sono però l' Abele (finito) e la stesura di un Conte Ugolino che però non vedrà mai luce. Visto il continuare delle tensioni in Francia Alfieri e la contessa d'Albany vanno prima in Bretagna e poi decidono di fare un viaggio in Inghilterra. CAPITOLO VENTUNESIMO Alfieri e Luisa viaggiano per l' Inghilterra, ma sono poi costretti a fare rientro in Francia poiché solo con dei particolari documenti possono rimanere ancora in possesso dei loro averi. Durante il viaggio Alfieri rivede casualmente Penelope, la donna della quale era diventato amante durante il suo secondo soggiorno a Londra. Rivedendola ha un moto di affetto e scambia con la donna due lettere. Non nasconde però niente a Luisa, alla quale racconta tutta la storia. Durante il viaggio i due fanno ancora breve deviazione in Belgio, dove si trova la famiglia della donna. CAPITOLO VENTIDUESIMO Altieri fa ritorno a Parigi con la compagna. I due però capiscono presto che è meglio fuggire al più presto dalla città, ormai governata dai rivoluzionari. Con somma fatica Alfieri riesce a procurarsi dei documenti di uscita dalla città; Il passaggio della dogana è però molto complicato, in quanto alcuni popolani cercano di entrare in possesso delle loro carrozze. Alla fine la fuga riesce, e Alfieri si trasferisce così nuovamente a Firenze. Oltre a questi avvenimenti Alfieri racconta anche di essere riuscito a rimanere del tutto immune dalla propaganda dei rivoluzionari. Nel frattempo, inoltre, la madre muore all'età di 26 settant'anni: nelle sue ultime lettere aveva raccomandato al figlio di fuggire al più presto dalla Francia. CAPITOLO VENTITREESIMO A Firenze Alfieri riprende con l'attività di traduzione, ma non ha più stimolo
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