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La vita è bella- risssunto completo, Schemi e mappe concettuali di Lingua Italiana

Documenti completi per esame…..

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2021/2022

Caricato il 25/11/2023

marica-orfino
marica-orfino 🇮🇹

1 documento

Anteprima parziale del testo

Scarica La vita è bella- risssunto completo e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Lingua Italiana solo su Docsity! Marta Gladio Una Famiglia Mancata edizioni e/o Una madre e una figlia... Che sconcertante, terribile combinazione di sentimento, di confusione, di rovina. Tutto è possibile quando viene fatto in nome della tenerezza e dell'amore. Le ferite della madre le soffre la figlia, le delusioni della madre ricadono tutte sulla figlia, l'infelicità della madre si trasmette alla figlia. È come se il cordone ombelicale non si fosse mai spezzato. SINFONIA D’AUTUNNO INGRMAR BERGMAN chiudevo gli occhi e ascoltavo il rumore della corsa che mi rimbombava nel petto. Da quella giornata, presi atto di due verità indissolubili. Che mio nonno stava morendo e che a nessuno importa dei cavalli che corrono finche non vengono richiusi. Ho 24 anni, e da domani avrò un lavoro - in editoria, a dire il vero. Sì, ed avrà inizio alle 7:40 di ogni mio prossimo domani. Resta poco da dormire, eppure, rimango sveglia. Sprofondo sulla poltrona che ho appena comprato, nonché, il mio unico mobilio, senza sonno negli occhi. Osservo le valigie, lì, sotto la finestra, niente in mezzo che le sottragga dalla vista. Sono piene, ricolme: libri e vestiti. Ecco la mia identità: libri e vestiti. C’è forse altro? Non mi pare. È la prima volta che accendo un fuoco e, che attrazione inspiegabile! La osservo, davanti a me, invaghita. Dividersi e riunirsi, danzare e combattersi, timida ma accesa, senza cura di consumarsi. La ascolto masticare il legno e slacciare la corteccia a piccoli scoppi. Il colore mi tinge la pelle ma non sento alcun calore. Mi alzo e prendo una delle valigie -quella rigida, col manico. La posiziono di fronte al camino, davanti a me; la poggio sul lato, e mi risiedo, i piedi poggiati sopra. Non mi alzerò più, questo è certo. (frase di sua madre in corsivo) Ieri… (frase della nonna in corsivo) e ancora ieri. Basta! Oggi i miei occhi guardano dalla parte opposta. Non faccio che rivedere ieri, ancora, e ancora. Mia madre che litiga con mia nonna. Ormai non è che un ricordo consunto di ripensamenti e rielaborazioni. Tutto ha perso di oggettività, tutto tranne le mie opinioni. Comincio a sentirlo, il calore che sale, si inerpica sulle piante dei miei piedi, tra la stoffa dei calzini. Tanto varrà scrivere qualcosa. Magari del buono, da questa insonnia, ne uscirà. Quando qualcuno, in un museo, si ferma ed osserva un pezzo di pietra che si mantiene in piedi, senza un braccio, né dita, né spalle, né volto, c’è qualcosa, qualcosa che avviene nella sua mente, che lo spinge a chiamarlo statua. La parola gli appare, delineandone la forma originaria, colmando ogni sua singola mancanza. La parola riesce a sovrastare ciò ch’è fisico e ciò che, invece, non lo è. Sfoggia il suo prestigio celando la realtà delle cose. Ciononostante, quando qualcuno, in via. Ospedale 98, mette piede nell’ appartamento dalle finestre sbarrate della vecchia preside delle scuole primarie, Giovanna Adelchi -e ciò accade ben di rado-, scrutando i corpi che vi abitano all’interno, la parola famiglia scompare dal lessico di prossimità(contiguo??): istintivamente preclusa, negata, respinta, incapace di inquadrarne le apparenze. Ma allora, se quella parola ci viene negata, cos’è che siamo noi in questo mondo? Una famiglia non è una famiglia se manca il padre. Questo è tutto ciò che appare nella mente degli altri quando si fermano e ci osservano. Eppure, io e mia madre, in piedi, ci manteniamo lo stesso. Erano le 7 di sera. Un sentore di carne bollita aleggiava per le scale, schizzi d’acqua trapassavano le reti delle zanzariere con un tintinnio discontinuo. Ero fradicia. Sfilate le scarpe dai piedi e poggiate nel ripostiglio, imbottite da calze grondanti, mi accorgo di mia madre, sull’ uscio della porta, in fondo al corridoio, che mi richiama a sé con un risoluto movimento di mano; ciò mi sollecita involontariamente a muovermi di soppiatto, attenta, ignara di un pericolo in agguato. ‘Ce li hai?’ ‘Stavano per chiudere. C’erano solo questi due.’ Le risposi, passandole due porri avvolti da una busta di plastica. ‘Vanno bene.’ Tastava i loro fusti con entrambe le mani, ne sondava la robustezza. Pareva un soldato, in procinto di varcare le linee nemiche, munito di solo un pezzo di ferraglia raccolto da terra. ‘Vado.’ disse decisa. Mi mossi con lei, intenta ad accompagnarla ma, la sua mano, mi spinse indietro. Dice Leandra alla nonna e si volta verso la madre e le fa un sorriso di assenso come a dire “we are in this togheter” È quello che le dice la madre a Leandra alla fine, dopo cena: “Almeno tu, da qui, devi scappare.” (serve scrivere di loro che si apprestano a mangiare l’ultima cenna insieme) Quella casa, la casa di mia nonna, non mi è mai appartenuta, eppure ci ho speso la maggior parte della mia vita. Questa casa in realtà non ci appartiene, di fatto questa La nonna scosse la testa, posò la forchetta e iniziò a criticare in bergamasco: «Se foste partite di venerdì -come già ti avevo detto io- avresti fatto meno fatica e saresti potuta rimanere più tempo con tua figlia. Metti che hai un problema? » chiese allarmata, avendo già prefigurato nella sua testa, nei minimi particolari, ogni imprevisto a cui mia madre potesse andare incontro, « Metti che cancellano il treno? Come pensi di fare col lavoro lunedì? Eh?!» «Ho dimenticato il telefono in camera, vado un attimo a prenderlo.» Lo annunciò con tale fermezza, con tale scostanza, che mi indusse a leggerlo come uno errore premeditato. Mia madre aveva presagito un conflitto, un conflitto che, sapevamo entrambe, non avrebbe trovato alcun vincitore ma che ciononostante sarebbe stata lei, la sola, a subirne una devastante sconfitta. Questa sua decisione, però, mi sorprese. Voleva forse posporre quel litigio a dopo la mia partenza? E perché mai? Ne avevo ormai sorbiti così tanti. La seguii con lo sguardo dacché si alzò dalla sedia, fino a quando lasciò salotto. Posai lo sguardo verso l'orologio sulla parete, posto proprio sopra la porta che aveva appena attraversato e, senza volerlo, misurai il tempo dell’ abbandono. Attesi un suo fatidico ritorno, una chiamata che mi avrebbe concesso di protrarre la stessa angoscia che la tormentava, la stessa che in qualche modo ci accomunava. Quegli interminabili minuti -sei, fino a quel momento - furono contraddistinti dal silenzio mio e di mia nonna. Un silenzio deliberato da entrambe le parti, in unanimità, ma nato da motivazioni diverse: da lei -forse-, un silenzio scaturito dall’ inadeguatezza del suo unico spettatore rimasto; da me -per certo-, un silenzio scaturito dalla paura che l’esibizione potesse a breve coinvolgere anche me. Per la maggior parte del tempo, stetti ad osservare ciò che avevo davanti a me, nel mio piatto. Nonna aveva preparato del pollo arrosto con patate per la mia partenza; e mentre lei mangiava beatamente la sua cena, io mi avvalevo di tutte le mie forze per mandare giù, per un'ultima volta, bocconi di quella barbarica pietanza. Al riguardo, prima di cena, mamma mi pregò di non fare storie. Tanto adesso te ne vai, mi disse lei, e non dovrai più mangiare carne, e probabilmente questa è l’ultima volta che ti preparerà da mangiare. Fammi questo favore, mi disse decisa, lascia a tua nonna un ultimo buon ricordo della sua unica nipote; e io risposi contrariata: «Sarebbe sicuramente l’unico.» «A maggior ragione amore…» Mentre il pensiero di eutanizzare del tutto quella fetta di popolazione che eccede i nuovo appartamento, che non ci sarebbe stato tempo per passeggiare per le strade di Torino, per vedere la Mole o per far visita a sua cugina Sara- il vero motivo per cui sospettavo volesse venire con noi; accennai anche al fatto che mamma, in questi giorni, si era prodigata con tanta cura nel prenotare i biglietti, nel Il suo sguardo attonito si agganciò su di me lungo tutto quell’intervento. Non disse nulla. Rivolse lo sguardo verso mia madre, che con i suoi occhi e spalle dava ad intendere: “È così, che ci vuoi fare?”. Riprese a mangiare, non replicò o ribattè alcun nulla, nemmeno un fiato. La mia risposta era bastata?Adesso era il mio di sguardo ad essere bloccato su di lei, scioccata dalla stessa audacia con cui le avevo risposto, come se attendessi un contrattacco da un momento all altro . Seguitai a guardarla per un paio di minuti, con frequenza irregolare, ad intermittenza: guardavo lei, poi la tovaglia, tornavo su di lei, e di nuovo sulla tovaglia, guardavo lei e svelta, per non farmi vedere, sulla tovaglia, ricoperta di macchie marroni sbiadite, superstiti di numerosi di lavaggi. Sentì mia madre tirare un sonoro sospiro di sollievo dalla sponda opposta del tavolo. Ci incontrammo con gli occhi nello stesso istante, e in quello stesso momento cercammo di schermare i nostri sorrisi con le mani, come fossimo due bambine che avessero appena evitato un'intera giornata di punizione. Il treno per Torino partiva alle 5:30. Noi, ci siamo salite sopra alle 5:29. Lo ricordo perfettamente, dirigendoci alla stazione, mamma chiedeva costantemente: Che ore sono? Puoi controllare un attimo l’ora? Allora!? Mentre premeva pericolosamente l'acceleratore. Nel momento esatto in cui prendemmo posto, il treno partì. Eravamo entrambe stanche nonostante ci fossimo svegliate da poco. Mamma aprì la borsa per prendere una rivista, ma sembrava essere difficoltà. Notai che una pagina della rivista era incastrata nell'apertura della cerniera, ma non dissi nulla, per quanto non lo considerassi un problema. Mi alzai. Ero curiosa di vedere chi ci circondava: Bambini? Anziani? Forse altri che, come me, si stavano trasferendo a Torino? Tornata a sedere, mi venne da ridere. «Siamo le uniche sul treno» dissi all’altra passeggera. «Non è vero» disse lei, già sapendo cosa insinuassi. «Guarda» le dissi alzandomi, facendogli notare che fossimo le uniche passeggere. Fece lo stesso, voltò la testa avanti e indietro. «Ecco...» disse facendo cenno con la testa verso la porta del vagone. «C’è il controllore lì in fondo.» Tornò a sedersi e io con lei. «Lo sai bene cosa intendo», precisai. «Ci sarà sicuramente qualcun altro negli altri vagoni» disse lei, ancora in difficoltà: la rivista era rimasta bloccata nella borsa, e lei stava iniziando a perdere la pazienza, respiri brevi e risonanti. Ad un certo punto, prese l’estremità delle pagine incastrate e strappò lungo i bordi, decisa. Aprì finalmente la rivista ed iniziò a quietarsi, ma il suo accanimento rimase impresso nei suoi occhi, percettibile dal modo in cui osservava le parole, come fosse un controllore che scruta i suoi prigionieri dall’alto. Ci fu silenzio. Appoggiai la fronte sul finestrino: era freddo ma non mi scostai. Osservai, per un'ultima volta, le basse e fradice pianure lombarde che riflettevano le prime luci del sole. Rivolsi lo sguardo su di lei, senza scostarmi dal finestrino. I suoi capelli biondi e scompigliati, ordinati dal suo solito cerchietto, stavano riprendendo il proprio colore naturale alle radici. Le continue interruzioni della nonna di stamattina le avevano impedito di truccarsi: le sue piccole lentiggini, sparse su tutta la sua carnagione chiara, spiccavano splendidamente come ruggine su una "” Decisi di riempire quel silenzio esternando ciò che pensavo. «Con questo posso intuire quanto le persone vogliano veramente vivere a Torino» dissi io, giovane studentessa che in tutta la sua vita non ha mai viaggiato al difuori dell’Italia. Je vous présente mademoiselle Canali, c’est sa première fois à Paris et en dehors de la Italie. Alla prima occasione di un poco di tempo libero, Librarie Jousseaum Per come la vedo io, per quanto una persona possa sentirti persa, afflitta o indegna, entrare in una libreria non risulterà mai una scelta sbagliata. Quando stringo un libro fra le mani, cerco sempre di appropriarmene, assaporandolo con ogni senso a me concesso. Sfogliando una pagina, trascino entrambe le punte delle dita fino al bordo, per testarne la consistenza liscia o grumosa. Ciò che preferisco è l’odore, quell’ odore che sin da bambina mi assoggettava, facendomi apparire isolata e timida: poiché per ogni libro che aprivo, mi nascondevo tra le sue pagine, per annusare via ogni singola molecola, come per rubare un pezzo di storia di cui solo io potessi custodirne la memoria. Ma in quella libreria venivo sommersa da quel profumo. Il secondo giorno ci dirigemmo verso sede principale del Salone. Il primo evento si rivelò un acceso dibattito tra un certo Ramla Magoro e Asghar Gamal, due grandi esponenti della letteratura nordafricana contemporanea. Fu mentre si stava discutendo dell’influenza stilistica che Chinua Achebe ebbe su Toni Morrison, che il professore si alzò e si diresse dall’ altra parte del padiglione. Non disse nulla, nessun segno, nessun cenno. In un primo momento lo trovai piuttosto sgarbato, ma presto me ne dimenticai, fui troppo assorbita dalla “carneficina” che aveva luogo davanti ai miei occhi per prenderla troppo sul personale. Ricordo con particolar allegria di una signora coi capelli corti, con uno scialle color lilla, che si voltava cercando sostegno da altri spettatori come per dire: “Ma si può mica parlare in questo così?”. Avvertivo l'ottima padronanza del francese da parte di entrambi i presentatori, ma trovai alquanto difficile seguire completamente il filo del discorso: ogniqualvolta che alzavano il tono della voce – vale a dire per gran parte della discussione-, il loro accento nativo veniva drasticamente enfatizzato; talvolta li trovai buffi, ma condividevo l’animazione verso il soggetto della discussione. Mentre appuntavo nomi di scrittori emergenti menzionati qua e là, spuntò di nuovo il professore. Era dall’ estremità opposta della mia fila, e agitava le mani per richiamare la mia attenzione. Indicò la porta e fece intendere di volere che lo seguissi. In quel momento sarei voluta restare ad ascoltare la discussione fino alla fine ma, dato che ero a Parigi solo grazie alla sua delibera, riposi penna e taccuino nella borsa, mi alzai e lo seguii. Percorrendo il corridoio diretti verso la porta, scorsi un uomo che vi era appoggiato con lo sguardo puntato su di noi. Era alto, ma non riuscivo a scorgerne i connotati: il suo viso appariva completamente corrugato per via della luce diretta proveniente dalle lunghe finestre del soffitto che gli abbagliavano la vista. Basandomi soltanto dal suo modo di vestire e dalla barba a chiazze, avrebbe potuto avere una sessantina d’ anni. Arrivati alla porta, l’uomo si scostò dalla parete e ci segui mentre uscivamo. Il professore ci presentò entrambi. Il suo nome era Armano Impedovo, anche lui professore, insegnante di lingua e letteratura italiana alla Sorbona. Ci invitò entrambi a prendere un caffè con lui. Altimare accettò con piacere ed io, non potendo fare altrimenti, annuì assecondando ogni sua decisione. Ci informò che il cafè era molto lontano dal salone, perciò, chiamò un taxi e partimmo. Mentre i due professori discutevano del manoscritto che avevamo consegnato quella mattina, io ammiravo Parigi trasformarsi davanti a me. Era immensa (se anche avessi avuto un anno intero di tempo non sarei comunque riuscita a visitare la metà dei luoghi che io e mamma programmammo di visitare). Sin da quando ero bambina, quando la pioggia era implacabile, io e mia madre immaginavamo di visitare luoghi e paesi lontani sul suo computer. Era un portatile vecchio e lento, ma nelle lunghe pause di caricamento, immaginavamo entrambe di essere imbarcate sull’ aereo diretto verso la nostra destinazione. Ne discutemmo, ognuno avvalorò le proprie opinioni, ma alla fine, dopo accenni esempi e , l intensita da parte del professore cominciò a scemare, percepii, da parte sua, una resa “fiorita” da un’affermazione: «Beh, la potrà pensare in questo modo su Flaubert ma non può negare il fatto che sia Giovanni Raboni ad aver trasposto al meglio Proust» «La mia risposta –professore-, è la stessa di prima» , delle nostre case editrici predilette per poi giungere ai miei lavori di traduzione. La sua voce rauca e profonda veniva mascherata dall’ attenta educazione e dalla gentilezza con cui poneva le sue domande. «E se mi posso permettere di chiedere-» si rivolse a me sorridendo «mi lascerebbe leggere qualche suo lavoro?» Accettai imbarazzata, per quanto non considerassi ancora le mie incombenze scolastiche come il “mio lavoro”. Quella stessa sera, inviai per e-mail una delle traduzioni che avevo salvato sul mio portatile. Nessuno le aveva ancora lette , nessuno al di fuori dei miei professori,sia chiaro, ma lui si dimostrò sinceramente interessato a leggere ciò che avevo scritto. Discutere con lui, risultava facile. Siamo rimasti tutti e tre a parlare fino all’una, alla chiusura. Tornata in Italia la quotidianità riavvolse la mia vita. Casa, studio, casa, tornarono a rispecchiare l'andamento dei miei giorni. Qualche mese fa però, una chiamata ruppe il perpetuo girare della mia vita che si protraeva inviolato da 20 anni. Erano le 7:30 del mattino: mi dirigevo all’ università in bici finché non sentii lo squillo del telefono: non conoscevo il numero, risposi. Riconobbi quella sua voce all’istante, ma questa volta, quella disinvoltura con cui conversai a Parigi, sembrò non riuscire a trasparire per telefono: incespicavo e talvolta balbettavo. Ciò che prevaleva fu la sua voce, così rauca e profonda, che sentii il bisogno di scendere dalla mia bicicletta. Mi aveva chiamato per elogiare la mia traduzione del romanzo “La figlia del lago” di Alma Ulliel. «Mhhm, Mhhhhm, la-la ringrazio, mi dispiace che si sia preso questo disturbo» dissi balbettando. «Niente affatto. Anzi, Giacomo, l'amministratore di cui parlammo l’altra volta, qualche settimana fa mi disse di avere intenzione di investire più fondi per pubblicazioni contemporanee francesi e dopo aver finito di leggere la sua traduzione della Ulliel, l'ho subito chiama...» cambiai la mano con cui mantenevo il telefono, era tutta sudata. «-e gli ho detto che conoscevo una giovane traduttrice che facesse al caso suo» «A-accidenti. La-la ringrazio veramen..» mi interruppi. Ero per strada e mentre parlavo con il professore, notai una donna che mi osservata stranita, accigliata. Mi accorsi dei movimenti involontari del mio corpo, sprigionava totale contrarietà all' proposta: scuotevo la testa, stingevo i pungi e saltellavo qua e là in cerchio. «Ehm, sono molto contenta che la traduzione le sia piaciuta. È tutto merito della Ulliel. Ha una prosa unica nel suo genere.» Facevo la modesta, mi sminuivo. Quella traduzione impossibile mi era valsa un trenta e lode, con elogi della Stasi, mia professoressa di letteratura francese e la responsabile del calo del 65% di presenze studentesche solo al primo semestre. «Non faccia la modesta. Senta, mi sono permesso di inviarlo anche a lui, e dopo un paio di giorni mi ha ricontattato e mi ha chiesto se potessi dargli il suo numero. Allora? Cosa mi dice?» In quel momento, immaginavo, tra me e me, che l'impicciona che mi osservava da tempo, prendesse la mia bici e mi investisse, passandomi sopra: dai piedi lungo la spina dorsale. Mi sentivo inerme, persa. Com’era possibile che un’accesa conversazione sulla scrittura di Anna Karenina potesse condurre a questo? Ma forse non dovrei dire di no. È trasferirmi, da questo lavoro non ne uscirò più. Vivrò in Italia per il resto della mia vita. Al che, mentre varcavo le Mura Venete della città alta, mi fermai e mi misi ad osservare Bergamo in tutta la sua ampiezza, colorata da una calda luce dell’alba, che mi indusse a riprendere ciò che mia madre mi disse qualche mese fa: devi iniziare a vedere la vita da più lontano, solo così potrai scorgere ogni sua guarda il problema da un punto di vista più ampio. Feci un bel respiro. Mi avvidi della necessità di un'intervista per ottenere il lavoro, che non avrebbero potuto dare un lavoro da traduttrice in una casa editrice di quel calibro basandosi solamente su una piccola traduzione. Ho ancora tempo per tirarmi indietro. Non devo trasferirmi a Torino. Iniziai ad acquietarmi. Malgrado quei pensieri, allora confortanti, adesso in questo istante, in questo preciso istante, mi ritrovo ad osservare i treni partire dalla stazione di Torino, dalla finestra del mio appartamento. Ogni treno si allontana dalla città, senza di me. «Lela... Lela... Sù svegliati.» Aprii gli occhi. Vidi mia madre con giubbotto e sciarpa già addosso, con una mano che manteneva una valigia e con l'altra che scuoteva la mia spalla con veemenza. «Siamo arrivate! Dai che sennò il treno riparte!» Per quanto inverosimile l'imminenza di quella partenza mi sembrasse, fui cionondimeno travolta da un panico inaspettato, alimentato dall’ urgenza di mia madre. Mi alzai, misi il giubbotto in tutta fretta; presi la borsa, la valigia, gli occhiali e, affannata nei movimenti, la seguii. «E la sciarpa!?» chiese con stupore, indicando il mio collo scoperto. Tornai velocemente al mio sedile, presi la sciarpa e me la arrotolai intorno al collo. Scese dal treno, mi resi conto di non riuscire ad aprire la bocca adeguatamente. Mi leccai le labbra per inumidirle, per sciogliere “la pelle fangosa” “il fango della pelle”. Mia madre si avvide di questa difficolta, aprii la borsa, prese il telefono e me lo mostrò: era una foto di me, con la testa accasciata sul finestrino e con la saliva che traboccava dalle mie labbra, colando dal mento lungo il vetro. «Invece di farmi una foto non potevi rimettermi a posto?» le dissi indispettita. «Dormivi così bene. E poi ti ho spostato la testa un paio di volte sul sedile, ma tu continuavi a tornare sul finestrino...» si giustificò così, «Hai visto che fortuna che non ci fosse nessuno sul treno?» aggiunse ridendo. Mi voltai dall’altra parte, tentando di nascondere un sorriso incontenibile, mostrandomi ferma nel mio rancore. Perché devi fare la bambina? Pensai tra me. Adesso ti va di scherzare, si? Beh, a me non va proprio. NOnostan, ed inizio a picchiettarmi il braccio con il suo gomito, come a dire: “E dai!! Fattela una risata”. E così cedetti, ridemmo entrambe; uscimmo dalla stazione, i sorrisi ancora impressi sui nostri visi, i muscoli ancora tesi, incamminandoci verso l’appartamento. Fu proprio il mio datore di lavoro a menzionarmi di quell’ appartamento. Uno dei primi “.....” tentativi nel sottrarmi dalla proposta di lavoro fu la mia totale estraneità da Torino; Una sua conoscente, una proprietaria d’immobili in Piemonte e in Liguria, si era dimostrata, «incline ad abbassare la caparra a ragazze competenti che Un pomeriggio di pochi mesi fa, ricevetti la proposta direttamente dalla supposta proprietaria, non l’avevo mai vista, mai neanche conosciuta. Il signor Gattulli -il mio datore di lavoro- agii da tramite. Ero seduta al tavolo della cucina, con le gambe incrociate «Come sono contenta che c’è l’ha fatta signorina, avevo capito che sarebbe arrivata più tardi» disse in francese. Fui sorpresa, non né capii il motivo, mia madre, invece, il significato (il francese lei, nonostante numerosi tentativi, non l’aveva mai appreso). La assecondai lo stesso. Siamo appena arrivate, questa è mia madre: Monica, dissi accennandola con la testa, mi aiuterà a sistemare l’appartamento. La signora si affrettò ad offrirci di entrare nella sua casupola, per un caffè o magari un thè. Declinai con cortesia; stanca e appesantita delle valigie, le chiesi le chiavi. La portinaia socchiuse appena la porta e iniziò a scatenare un acuto scontrarsi di metalli, come se affondasse le mani in uno scrigno zeppo di dobloni d’oro; dopo un paio di minuti, me le porse. «Ecco -disse- interno 10, penultimo piano. I mobili sono arrivati venerdì, bisogna solo toglierli la plastica da sopra. Non ho toccato nulla. Serve aiuto per portarle di sopra?» chiese additando le valige. Declinai nuovamente. Seppur vigorosa, la signora appariva decisamente troppo anziana per trasportare anche solo una delle tre valigie che avevo portato da casa- una delle tre, ricolma solamente di libri. Ci salutammo, mia madre biascicò un Aurevoir. C”è troppa gola, mi dissi. Salendo le scale, le feci il verso, grugnendo. «E dai, finiscila.» Su per le scale, inizio a svelarsi, dentro di me, un timore. I mobili sono arrivati venerdì. Arrivati? Dovevano forse arrivare i mobili? I mobili dovevano già far parte dell’appartamento. Non è così? È il mio appartamento di cui sta parlando o quello di qualcun’altro? E se questo non è il mio, vorrà dire che il mio sarà vuoto? Ad ogni gradino il peso delle valigie si sommava al crescente peso di quella paura. No, mi dissi, la signora si è sbagliata, è incespicata nella lingua, inciampata nel suo francese turistico. Spinsi via il timore, lo ricoprì di nuovo, lo rimandai a dopo. Aperta la porta, non vidi molto. La luce fioca che traspariva dalle tendine di tessuto formava mobili ed oggetti dandone una fisionomia, dandone un’ombra, ma dimenticando di trasportarne i colori. Posai le borse a terra, tastai i muri in cerca di un interruttore: niente. Mi destreggiai tra le ombre opache degli oggetti ma finii comunque a sbattere il fianco contro qualcosa, con una forza tale da spingerlo indietro. Tutto bene? Disse mia madre ancora giù di qualche piano, probabilmente allarmata dallo stridente rumore di qualcosa sfregato contro il parquet. «Tutto bene» dissi solo a me stessa, rassicurandomi. Toccai quell’ oggetto con la mano: uno spigolo ricoperto da una copertura di plastica. Un tavolo? Continuai in avanti verso una delle tende, mi aggrappai alla cordicella sfibrata che pendeva dall’ alto e tirai su, quasi con violenza, così da riconsegnare colori e tonalità a quel piccolo salotto e la cucina sulla sinistra della stanza, e anche a mia madre, che aveva appena varcato l’entrata: le finestre, tanto erano alte, la investirono di luce diretta del sole: spremette occhi e fronte. I mobili erano tutti lì: alla mia destra, un divanetto con braccioli di legno -che tanto assomigliava a quello della vecchia baita di mio nonno dove passavamo ogni Pasqua, prima che morisse, proprio là su, in montagna- era posto davanti a due scaffali identici, posti ai lati di un mobiletto, su cui poggiava un vecchio televisore. Gli scaffali erano ricolmi di libri, mi misi ad esaminare titoli in cerca di qualche improbabile assonanza coi miei gusti. Mi interrogai sugli interessi di chiunque mi avesse preceduto, come fosse un fantasma e la sua sola apparizione “fosse evocata “ da quei libri. Ne fui stupita. Ogni autore, era francese; ogni titolo, era francese; ogni singola parola su carta, era in francese. Che scemenza, mi dissi. Chi mai lascerebbe libri questi “Perche mai qualcuno lasciare i suoi libri costosi qui”Quest'Ultimo pensiero riemerse il mio timore. Ogni ibro Attendere che l'inevitabile mi travolga, con ogni sua “ripercussione”, godendomi i risultati avvincenti
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