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Laboratorio in politiche migratorie, Appunti di Sociologia delle Migrazioni

Riassunto di Immigrati in Europa e altri libri del syllabus di Laboratorio in politiche migratorie aa 2020/2021

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 05/03/2023

giorgia_veronese
giorgia_veronese 🇮🇹

3.3

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Scarica Laboratorio in politiche migratorie e più Appunti in PDF di Sociologia delle Migrazioni solo su Docsity! Laboratorio in politiche migratorie Prof. F. Della Puppa Gli immigrati in Europa Diseguaglianze, razzismo, lotte A cura di Pietro Basso e Fabio Perocco Introduzione Prendendo spunto dal trattato di Schengen, l’immigrazione risulta rappresentata dai governi e dai parlamenti europei come un problema. La massa dei nuovi immigrati è stata ed è giorno dopo giorno criminalizzata come il primo dei pericoli da cui l’Europa dovrebbe tutelarsi. “Immigrazione zero”: è questa la consegna dell’Europa, che se si crede al “discorso pubblico” dilagante, non cerca e non vuole più immigrati. I fatti, però, dicono tutt’altro. L’Europa continua a richiamare immigrati, vuole immigrati, ha un inesauribile bisogno di lavoratori immigrati. Perché? L’accumulazione del capitale è ansimante e non potrà risollevarsi senza una massiccia iniezione supplementare di valore che può venire solo da una complessiva svalorizzazione della forza-lavoro alla scala mondiale. Al pari di US e Giappone, anche l’Europa ha, in tutti i settori della sua economia, un inesauribile bisogno di manodopera a basso costo e iper-flessibile (priva di diritti elementari, costretta ad accettare ritmi, orari, mansioni di lavoro pesanti e disagiate). E nessuna forza-lavoro quanto quella immigrata risponde a tali caratteristiche. Per le imprese e per gli stati occidentali, quegli immigrati che si afferma di non volere, sono in realtà una preziosa risorsa da richiamare e avere a disposizione. Perché, allora, l’offensiva anti-immigrati? A cosa servono tali politiche? La criminalizzazione dei migranti fino al punto da stigmatizzare lo stesso fatto del migrare (in sé), la condizione di minorità sociale, giuridica, culturale, psicologica, la moltiplicazione dei divieti e delle restrizioni agli ingressi e alle permanenze con l’oggettiva moltiplicazione del rischio di “clandestinità”, la dipendenza materiale (indebitamento) che i processi di ingresso ostacolato comportano… tutti questi effetti delle politiche punitive degli stati nei confronti dell’immigrazione giovano alle imprese, perché consegnano nelle loro mani una forza- lavoro che (quanto meno nel periodo iniziale) deve vendersi a condizioni che non può negoziare. E poiché il mercato del lavoro non è fatto di compartimenti-stagni tra loro separati, se si abbassa il livello dei salari, si accende la concorrenza e l’ostilità tra salariati bianchi e quelli di colore. I primi non possono che (spontaneamente) percepire i secondi come temibili concorrenti “sleali”. Criminalizzare i nuovi immigrati costretti alla “clandestinità” per inferiorizzarli e ghettizzarli. Inferiorizzarli e ghettizzarli per sfruttarli in modo più libero. Super sfruttarli, per dividere un lavoro salariato sempre più mondializzato. Dividere il lavoro, non solo quello autoctono da quello immigrato ma anche questo al proprio interno, per controllarlo e torchiarlo più agevolmente nel suo insieme. Il razzismo istituzionale non si limita infatti a inferiorizzare le popolazioni di colore: cerca di convertire tale conflitto tra capitale e lavoro in un conflitto tra lavoratori, tra popoli, tra culture, tra religioni, facendo leva su reali disuguaglianze sociali e reali differenze di tradizioni, di usi, di costumi, di modi di vivere e di pensare, per acuirle fino allo scontro. Il razzismo in generale, l’odierno razzismo istituzionale europeo in particolare, non è, come molti pretendono, il figlio naturale dell’“eterna paura dell’altro”. Prima di esserne il sottoprodotto nel mondo dei pensieri e delle sensazioni, il razzismo è un rapporto sociale di oppressione tra classi, tra razze, tra nazioni, tra generi. Legge n. 189 del 2002, detta legge Bossi-Fini = si ha la possibilità di ottenere un regolare permesso di soggiorno per lavoro solo se si è in possesso di un regolare contratto di lavoro. Dal momento in cui il contratto di lavoro è terminato, si dispone di un periodo si 6 mesi per trovare un nuovo lavoro regolare, e se non ci si riesce, è obbligatorio il ritorno “a casa”. La sola alternativa è cadere nell’illegalità. La legge contiene poi una serie di misure punitive nei confronti degli immigrati: restringe i ricongiungimenti familiari, cancella la possibilità di ritirare i contribuiti versati all’INPS prima del 65esimo anno di età (prima lo si poteva fare dopo 5 anni dal rimpatrio), allunga il periodo di tempo di permanenza nei centri di detenzione, allunga il periodo di tempo previsto per poter richiedere la carta di soggiorno, crea il reato di re-ingresso clandestino (prima con la legge Turco-Napolitano l’immigrato riceveva un’intimazione a lasciare il territorio italiano entro 15 giorni, ora le espulsioni sono immediatamente esecutive), restringe la possibilità di avere accesso alle case popolari, restringe la possibilità per gli “irregolari” di essere curati presso strutture sanitarie, accresce il potere discrezionale dei pubblici poteri (l’espulsione può essere dichiarata per “motivi di ordine pubblico”, anche quando l’immigrato è in regola quanto a permesso di soggiorno). Per poter entrare regolarmente in Italia, un lavoratore immigrato deve concludere un contratto di lavoro all’estero, con l’impegno, da parte di chi lo assume, di garantirgli l’alloggio e le spese del rientro; a carico di chi lo assume c’è anche il dovere di accertare che non vi siano lavoratori italiani disponibili a svolgere quella data mansione. Chiaramente molti immigrati hanno dovuto sottostare ai più vari ricatti dei cosiddetti “datori di lavoro”, e non pochi hanno cercato di accedere al permesso di soggiorno attraverso finte assunzioni “regolari” pagate a dei prestanome. Inoltre, è previsto l’obbligo delle impronte digitali per gli immigrati che chiedono o rinnovano il permesso di soggiorno (prima clandestino uguale criminale, ora straniero uguale potenziale criminale). Tali leggi mettono disposizione delle imprese europee forza-lavoro priva di diritti da sotto-remunerare e da usare per ridurre il livello generale dei salari e dei diritti dei lavoratori. E quindi mobilitare la popolazione lavoratrice autoctona contro il “nemico esterno”. La produzione di “clandestini” non è occasionale, accessoria o involontaria, ma un elemento essenziale, permanente del funzionamento del capitalismo. È parte integrante delle politiche del lavoro richieste dalla mondializzazione neoliberista in atto. Per forza di inerzia si finisce per assumere come neutra e oggettiva una terminologia che tale non è: - “Ondate migratorie” e “flussi migratori”: termini tipici di una visione naturalistica (flussi) e allarmistica (ondate) dei processi migratori. - “Minoranze etniche” e “gruppi etnici”: usati per riferirsi a gruppi nazionali, a nazionalità non bianche, senza accorgersi che il lessico assunto è quello della vecchia tradizione colonialista che declassa le nazionalità non occidentali, al rango di etnie (sebbene siano gruppi umani di ampiezza immensa, vedi popolazioni cinesi o indiane), un declassamento non certo innocente. - “Extra-comunitari” e “stranieri”: che portano con sé un consapevole valore estraniante, perché degli immigrati sottolinea l’origine nazionale piuttosto che la funzione sociale. - “Migranti”: che marca il carattere provvisorio della loro presenza “qui”. Nel campo delle scienze e dei fatti sociali però, la neutralità è impossibile. Anche, per certi versi, nella lingua. Germania (modello “Gastarbeiter”) In Germania esiste una politica di immigrazione intesa come ricorso sistematico all’importazione di manodopera straniera. Nel 1880 circa, la Germania da paese di emigrazione diviene paese di immigrazione, in questa fase si sovrappongono grandi movimenti migratori, dovuti all’importazione di manodopera dalla Polonia e dalla Russia (maschi, giovani, scapoli ammessi solo stagionalmente). Si assiste a un controllo centralizzato dei lavoratori immigrati: hanno un unico documento comprendente contratto di lavoro + permesso di lavoro + permesso di soggiorno. All’inizio della Prima guerra mondiale, tutti i lavoratori immigrati provenienti da stati nemici vengono bloccati nel Reich, introducendo il lavoro forzato e una sorveglianza sempre più stringente (2,5 milioni). Nel primo dopoguerra, (Repubblica di Weimar) si cerca di limitare la forza lavoro immigrata, dando priorità ai nazionali: il numero dei lavoratori immigrati scende. Nella prima parte della Seconda guerra mondiale, dal 1933 al 1939, l’industria bellica richiede manodopera: aumentano quindi i lavoratori immigrati (cecoslovacchi, polacchi, italiani). Poi dal maggio 1939 al 1944 il numero dei lavoratori tedeschi che scende di più di 10 milioni, mentre quello degli stranieri deportati o “volontari” aumenta fino a 7,5 milioni (lavoro forzato + deportazioni + prigionieri). Si tratta della migrazione più violenta e intensa della movimento, ha regolarizzato 80000 sans papiers; tuttavia, ha proseguito nella politica di controllo dei movimenti migratori. Questa politica migratoria è sempre stata una gestione opportunistica, che dimentica del fatto che gli immigrati importati su richiesta sono in realtà esseri umani. Lotte degli immigrati francesi: scioperi della fame, scioperi degli affitti (74), comitati di sostegno formati da militanti e intellettuali famosi, marzo 96 maliani senza documenti occupano la chiesa di saint-Ambroise con la sola rivendicazione dei documenti… primi passi che porteranno al riconoscimento dei lavoratori immigrati come persone protagoniste della loro storia. Si prende atto che gli immigrati sans-papiers sono stabilmente insediati in Francia e che la repressione precedente ha solo fatto aumentare il numero degli irregolari. Sgomberano la chiesa in quattro giorni, e il fatto segna l’inizio per altri collettivi in tutta la Francia, fino alla creazione di un coordinamento nazionale. Si moltiplicano iniziative con partecipazioni di artisti e intellettuali, occupazioni e scioperi della fame, occupazione della chiesa di Saint-Bernard a Parigi sgomberata brutalmente con la forza. Nel 1997, il nuovo governo socialista opera la regolarizzazione dei sans-papiers secondo una metodologia basata sui criteri, “del caso per caso”, accentuando le divisioni interne al movimento (es. la paura di non ottenere il rinnovo e la volontà di essere assimilato, spiega il perché l’immigrato regolare non partecipi alle manifestazioni dei sans-papiers). Fa emergere le nozioni di buono e cattivo immigrato. Nel 2022, si assiste all’occupazione della basilica di Saint Denis da parte di un collettivo sans papiers di 130 persone, e presto esteso a migliaia di persone, con la speranza di ottenere la regolarizzazione. Il limite delle rivendicazioni mirate esclusivamente ad ottenere la regolarizzazione è che una volta ottenuta o non ottenuta, si rientra nell’ombra abbandonando le azioni collettive. In conclusione, ci troviamo oggi in una congiuntura tal per cui l’immigrazione comincia ad avvenire sempre più sotto le vesti dell’asilo che costituisce ormai l’unico canale di ingresso regolare. In Francia gli uomini politici e i politologi parlano spesso e volentieri di un modello repubblicano di integrazione, sottintendendo che si tratta di un modello di integrazione degli immigrati. Questo modello, così come si è realmente costituito, è invece un modello gioca proprio sulla xenofobia e sul mantenimento di uno status di inferiorità degli immigrati. Italia Legge 40/98 (Turco-Napolitano) + Legge 189/02 (Bossi-Fini) = 1. “Politica assimilazionista senza assimilazione”: gli immigrati non fanno parte dell’Italia e della storia italiana, essi devono adeguarsi rimanendo però degli estranei. 2. Verso gli immigrati è stata progressivamente avviata una “politica di non riconoscimento dei diritti delle minoranze culturali”: viene imposto loro di rimanere incapsulati, rinchiusi nelle proprie comunità, nelle proprie etnie (vedi la scuola: non si trova traccia di politica scolastica di tipo interculturale). Nonostante sia la seconda religione d’Italia, l’islam sul piano giuridico non ha ancora trovato riconoscimento e sul piano simbolico non è accettato da una parte consistente degli italiani. Nei mass media l’islam viene descritto come un elemento incompatibile con la civiltà occidentale. Anni 90, crisi del Golfo e guerra in Iraq: campagna propagandistica antislamica e contro gli immigrati arabi. 3. “Politica di selezione, rotazione e precarizzazione della manodopera immigrata”: la politica migratoria si è via via indirizzata a produrre immigrazione circolare, non integrata, scarsamente radicata, così da mettere disposizione del mercato del lavoro una continua riserva di lavoratori docili e a basso costo in quanto istituzionalmente precari. 4. “Politica razzial-culturale”: paradigma della fissità della cultura ed equiparazione tra cultura e razza: es. a favore degli oriundi argentini come immigrati facili da integrare in quanto portatori di valori comuni. Obiettivo principale: separare la forza lavoro immigrata dai suoi legami sociali e culturali e ridurre la persona a pura forza-lavoro, la quale, con la 189/02, il riconoscimento giuridico e sociale dell’immigrato è collegato all’esistenza di un rapporto di lavoro regolare, perciò l’instabilità del mercato del lavoro si trasmette al processo di integrazione e alla vita degli immigrati. Abituate come sono a vedere sempre e solo l’ideologia degli altri e mai la propria le società occidentali chiamano invasione quello che è un ovvio obbligo di fuga, un ovvio diritto all’esistenza da secoli sistematicamente negato ad interi popoli. Nei paesi dominati le prospettive di cambiamento a causa dell’interferenza dei paesi dominanti sono deboli, i popoli di colore quindi per realizzare questo cambiamento sono costretti ad emigrare nei paesi dominanti. Jus laboris: in Italia gli immigrati sono portatori di diritti dimezzati solo in quanto lavoratori, sono subordinati ad essere manodopera attiva e produttiva. Il modello dell’apartheid all’italiana ha radici lontane e vicine, quelle lontane affondano nella rappresentazione dello straniero come pericolo da tenere sotto controllo (TULPS 1931), la più importante radice vicina invece è la legge 40/98, essa voleva equiparare gli immigrati ai cittadini italiani sposando in questo modo il paradigma del’integration des immigrés rifacendosi all’esperienza inglese e olandese. Nel corso del tempo l’applicazione della legge 40/98 ha visto uno sbilanciamento verso il piano svizzero – tedesco. Lo stesso binomio che costituiva la filosofia della legge 40/98 integrazione e sicurezza, ha visto il parziale oscuramento del primo termine e il predominio del secondo. Le politiche degli anni 90 sono state indurite dalla legge 189/2002. La legge 189/2002 costituisce l’evoluzione in senso restrittivo e peggiorativo di elementi già presenti nella legge 40/98 (vedi ostacolare il ricongiungimento familiare). Questa legge determina una restrizione dei canali di ingresso regolare e una fortissima dipendenza del lavoratore dall’imprenditore, produce una accentuazione della precarizzazione del soggiorno e un livellamento verso il basso delle condizioni sociali degli immigrati. L’imprenditore diventa padrone dell’immigrato. Quello dell’immigrazione appare sempre più come un campo di sperimentazione in cui si punta all’incremento della povertà di massa come fattore di arricchimento per pochi, allo sviluppo del sottosviluppo. Gran Bretagna La storia dell’immigrazione in GB è strettamente legata al passato da impero coloniale. Dal 1946 al 1951, il governo laburista fa programmi per l’assunzione legale di stranieri europei, tra cui profughi tedeschi, donne e prigionieri di guerra assunti come braccianti agricoli + manodopera irlandese. Obiettivo: limitare l’immigrazione dei cittadini delle colonie e dei Paesi dei Commonwealth, sostenendo che per razza erano poco assimilabili allo stile di vita britannico. Dal 1948, il British Nationality Act afferma che tutte le persone con cittadinanza britannica hanno il diritto di entrare e lavorare regolarmente, ma introduce il nuovo criterio della “stretta relazione” ovvero che solo chi ha almeno il 75% di sangue europeo può richiedere la nazionalità. Il British Nationality Act viene probabilmente creato per cercare di evitare la decolonizzazione: mettendo i sudditi coloniali britannici su un piano di parità con quelli che vivevano nelle isole britanniche. Negli anni 50, si assiste all’arrivo di immigrati dai Caraibi e dal sud dell’Asia, come manodopera poco o non qualificata nelle industrie del metallo, nei servizi dei trasporti e nel settore tessile. MA! La scarsità di alloggi a causa della IIGM acuisce la necessità di mettere sotto controllo l’arrivo degli immigrati neri (nonostante in minoranza rispetto agli EU). Di conseguenza, si capisce di dover modificare il British Nationality Act, per ridurre l’immigrazione nera e i problemi di alloggi e servizi sociali ad essa associati, considerando che l’opinione pubblica era che l’identità nazionale britannica appartenesse ai bianchi. Varato da un governo conservatore il Commonweatlh Immigrants Act del 1962 introdusse per la prima volta i controlli sull’immigrazione per i sudditi britannici. Col nuovo regime normativo solo coloro che possedevano un passaporto rilasciato nel Regno Unito potevano entrare nel paese senza restrizioni. Fu invece adottato un sistema di permessi per tutti gli altri sudditi britannici. Un’altra osservazione da fare sulla legge del 1962 riguarda la discriminazione sessuale. Agli immigrati maschi era consentito condurre con sé la propria moglie ma non era ammissibile il contrario. Nel 1968 fu promulgato un secondo Commonwealth Immigrants Act. Un successivo governo conservatore contrasse ulteriormente l’immigrazione del New Commonweatlh con l’Immigration Act del 1971, il quale prevedeva che qualsiasi persona che desiderasse emigrare in GB doveva avere un permesso di lavoro con validità di 12 mesi e vincolato a un datore di lavoro. Nel 1993 l’asylum And Immigration Apeeals Act incoraggia la detenzione di chi attende l’esito della richiesta di asilo politico. Il Nationality Act approvato dal governo Thatcher nel 1981 creò due nuove categorie: i cittadini britannici dei territori dipendenti e i cittadini britannici d’oltreoceano. L’Asylum and Immigration Act del 1996 è stata la prima di una serie di misure finalizzate a ridurre i diritti riconosciuti ai richiedenti di asilo in termini di prestazioni sociali, alloggi e occupazione. La politicizzazione del dibattito sull’asilo è divenuta esplicita con il Nationality Immigration and Asylum Act del 2002. Ai richiedenti asilo non è consentito lavorare, indipendentemente dai tempi richiesti dalla procedura di ottenimento dell’asilo; i centri di accoglienza sono soprattutto nelle aree extra-urbane (= difficile interazione con la società britannica). Quali sono le politiche statali contro la discriminazione? La più rilevante per i giorni nostri è la politica tradottasi nel Race Relations Act del 1976. Essa dichiarò illegali le azioni volte a produrre discriminazione su base razziale, ove per discriminazione diretta si intende un trattamento meno favorevole nei confronti di un individuo per motivi di razza. Si ha invece discriminazione indiretta quando esclude di fatto gli appartenenti a una determinata minoranza etnica. La maggior parte riguardavano comportamenti discriminatori nell’accesso al lavoro. Nel 1999: Commissione di inchiesta sul caso Macpherson, sulla morte di un adolescente di colore (omicidio di S. Lawrence). Macpherson definì il razzismo istituzionale: le omissioni di un’organizzazione nell’erogare un servizio appropriato e professionale alle persone per motivi di colore cultura od origine etnica. Questo caso pose l’attenzione sulla diffusione della discriminazione nei confronti di appartenenti a minoranze etniche da parte delle Nell’ultimo decennio hanno assunto notevole importanza nuove forme di razzismo: una è l’islamofobia, l’altra il razzismo nei confronti dei richiedenti asilo. La politica sull’asilo del governo del New Labour del 1997 è spaventosa. Si assiste alla costruzione di nuovi centri di detenzione: gli asylum seekers vengono deportati in questi centri o nelle sezioni di alcune carceri dove sono costretti a vivere in condizioni disumane oltre ad essere privati della libertà. L’idea di rinchiudere in carcere persone che nei loro paesi hanno sofferto risulta particolarmente insopportabile e perversa. La nuova legge sull’asilo e l’immigrazione approvata nel 1999 introduce alcune iniziative tra le più discriminatorie e umilianti degli ultimi anni: l’introduzione di voucher settimanali per l’acquisto di cibo per gli asylum seekers e la sistemazione in alloggi designati dalle autorità locali. Tanto per cominciare non tutti i negozi e super mercati accettano i voucher e poi cosa ancora più grave, infiniti sono i casi di persone che per settimane non li hanno ricevuti. Il governo New Labour ha coniato un termine che spiega come considera i cittadini stranieri che arrivano in GB: bogus (=fasullo, fraudolento ed ha una connotazione estremamente offensiva e denigrante). Si applica la detenzione amministrativa per i sospettati di terrorismo, in violazione della CEDU, ma ritenuta giustificata dato il momento e il pericolo reale di terrorismo. Le richieste di asilo inevase che il governo Blair aveva ereditato dai precedenti governi ha convinto il New Labour a promulgare una sorta di sanatoria nel 97 per cui a tutti i richiedenti di asilo che avevano cominciato la pratica almeno quattro anni prima è stato concesso un permesso di soggiorno indefinito. Se diniegato, il richiedente asilo aveva la possibilità di fare ricorso, ma doveva accettare di essere privo di sussidi. Se il ricorso avesse avuto esito negativo, sarebbe stato previsto il rimpatrio. NB: in confronto con gli altri paesi EU, la GB ha un’importante storia di lotta antirazzista e di femminismo nero, spiegabile con il fatto che la maggior parte degli immigrati da Africa, Asia e Caraibi nel periodo post-coloniale possedevano ufficialmente la cittadinanza. Questo significa diritti politici riconosciuti e partecipazione attiva alla vita politica, senza temere di essere espulsi. Belgio Negli anni 1930-1939 e dopo la IIGM il Belgio richiede manodopera straniera (minatori). Ovviamente la manodopera a buon mercato rende il lavoro operario belga più precario. I sindacati, quindi, sostenevano che il lavoro immigrato doveva essere subordinato alla carenza di manodopera autoctona. A destra troviamo una politica di accesso libero alle frontiere, con la pretesa di una limitazione dei diritti e l’espulsione degli stranieri disoccupati. A sinistra, una politica di controllo e di severa limitazione degli ingressi ma di eguaglianza per i diritti degli stranieri. Dopo la IIGM si ricorre a manodopera straniera, specialmente quella italiana tramite accordi bilaterali: “protocollo italo-belga” 1946 – 50000 lavoratori in cambio di carbone. La nuova legge sull’immigrazione viene colpito innanzitutto il protagonismo politico dei lavoratori immigrati. Svizzera Rappresentazione dominante degli immigrati = causa di svariati problemi sociali, in quanto troppo lontani dalla mentalità svizzera (giustificazione storicamente utilizzata, es. nel 1933 per limitare l’ingresso ad ebrei portatori di usi e costumi diversi) e volontà di preservare l’identità svizzera (dal 1991 infatti seleziona i éaesi da cui importare manodopera con la politica dei “circoli” ovvero popolazioni culturalmente vicine). Se in certi paesi il fatto di nascere sul suolo nazionale conferisce la nazionalità questo non è il caso della Svizzera. La costituzione federale prevede che la naturalizzazione di una persona passi per il riconoscimento di tre gradi di cittadinanza, comunale prima, cantonale poi e finalmente federale Questo diritto restrittivo spiega la percentuale elevata di nazionalità straniera residente sul territorio svizzero. Gran parte degli immigrati è occupata in lavori non qualificati o poco qualificati, poco o per nulla stabili. Le persone di nazionalità ex jugoslava e portoghese sono sempre più numerose nell’industria alberghiera, un tempo erano italiani o spagnoli che adesso invece si sono impiegati piuttosto nel commercio, nel sistema bancario e nelle assicurazioni, è una chiara illustrazione della gerarchia della precarietà. Sono due i tipi principali del lavoro sociale verso gli immigrati: - Modello regolatore: è il tipo predominante in cui in cui il servizio sociale non distingue fra stranieri e autoctoni. Il trattamento, dunque, è simile per tutti e non viene presa in considerazione la specificità culturale delle persone. Per esempio, i problemi di disoccupazione immigrati non sono visti diversamente da quelli che possono incontrare gli autoctoni. Inoltre, le difficoltà sono associate a fattori personali e non come problemi prodotti dalla società. - Modello emancipatorio: una piccola parte dei servizi sociale ha sviluppato un approccio differenziato ed un’azione specifica per le persone di nazionalità straniera. Si nota una specializzazione su due livelli, da una parte c’è l’identificazione degli immigrati come gruppo specifico, dall’altra parte c’è la presa in considerazione di problematiche che emergono in modo ricorrente. Se si tenta una modellizzazione di questo secondo approccio, si può affermare che interpreta le difficoltà incontrate dalle persone di nazionalità straniera come il risultato delle condizioni particolari loro riservate: in termini di statuto, di condizioni di lavoro, di accesso alla sicurezza sociale. Il modello regolatore parte implicitamente dal principio che i problemi delle persone di nazionalità straniera possono essere risolti nello stesso quadro dei problemi degli autoctoni. Ma non è così, la maggior parte dei problemi sociali incontrati dalle persone di nazionalità straniera si riferiscono alla loro condizione e al proprio statuto. Considerare i problemi sociali principalmente come individuali tende a nascondere involontariamente la vera causa. Un’azione simile applicata a situazioni diverse è discriminante, così come un’azione diversa per situazioni simili. Razzismo di stato Stati Uniti, Europa, Italia A cura di Pietro Basso Introduzione Il razzismo istituzionale è il primo propellente al riaffermarsi del razzismo che si sta osservando negli ultimi anni. Il testo studia questo fenomeno negli Stati Uniti, nell’Europa occidentale e in Italia. La prima causa del riacutizzarsi del razzismo è la mondializzazione neoliberista, afflitta da un eccesso di macchine rispetto alla quantità di lavoro vivo impiegata: quest’ultimo per la legge del profitto in occidente costa troppo, vuole troppe garanzie e ha troppi diritti. Per riuscire a calare i salari lo stato cerca di “riaccendere” le prassi razziste già sperimentate nel colonialismo storico in modo tale da riuscire a creare uno scontro aperto tra i lavoratori delle diverse razze e nazionalità. Va però precisato che i poteri costituiti euro-statunitensi non vogliono tornare a nazioni etnicamente omogenee; questa situazione per le imprese e per gli stati occidentali sarebbe disastrosa per due motivi: 1. Gli immigrati portano un contributo sempre crescente come lavoratori alla produzione agricola e manifatturiera e ai servizi alle persone sostitutivi del welfare. 2. Gli immigrati sono un importante apporto per la crescita demografica. Lo scopo primario delle politiche razziste è quello di poter disporre di una grande massa di lavoratori temporaneamente ospiti senza nessun diritto in questa condizione di mera forza- lavoro. Il razzismo di stato punta alla “pancia” delle popolazioni occidentali doc cercando di convincerle circa l’incompatibilità tra culture e civiltà diverse: gli stati affermano che gli immigrati hanno una tendenza naturale a delinquere e che fanno una concorrenza sleale. Si vuole in questo modo rilanciare una retorica identitaria nazionalista che pretende dagli immigrati qualcosa in più dell’integrazione o dell’assimilazione: pretende il totale espianto dalle proprie radici nazionali e culturali e la totale identificazione con il paese che ha avuto la magnanimità di accoglierli come ospiti. L’ascesa del razzismo nella crisi globale Il punto di partenza obbligato dell’analisi sono gli Stati Uniti perché in questo campo hanno svolto una funzione guida sotto tre aspetti: 1. La militarizzazione delle politiche migratorie, con due decisioni prese negli anni 90 sotto l’amministrazione Clinton, l’operazione Gatekeeper e il varo dell’illegal immigration reform and immigrant responsability act. L’operazione Gatekeeper, condotta in contrasto all’immigrazione illegale, si concretizzò nella costruzione di muri e barriere alla frontiera con il Messico. Naturalmente l’emigrazione dal Messico non si è fermata. Il solo effetto della blindatura delle frontiere è stato che l’emigrazione via terra verso gli Stati Uniti è diventata molto più rischiosa. La propaganda di stato all’epoca associò il contrasto all’immigrazione clandestina alla lotta al traffico di droga, che invece avviene in gran parte attraverso porti e aeroporti. Il risultato di questa operazione fu una criminalizzazione e una repressione senza precedenti. A tutto questo due anni dopo si aggiunse l’illegal immigration reform and immigrant responsability act, ovvero la possibilità di ricorrere alle espulsioni, inasprendo le sanzioni per l’attraversamento irregolare della frontiera e la permanenza sul suolo statunitense con permesso scaduto. 2. La criminalizzazione degli immigrati arabo-islamici, che ha compiuto un formidabile balzo in avanti dopo gli attentati dell’11 settembre dirigendosi prima verso gli islamisti sospettabili di terrorismo, quindi verso il mondo arabo-islamico preso in blocco per scaricarsi infine indirettamente su tutte le popolazioni immigrate degli Stati Uniti. 3. L’inferiorizzazione del nucleo più numeroso delle popolazioni immigrate (latinos) Il “pericolo epocale” per l’America, secondo Huntington Si è verificata fino agli anni 60 una virtuosa convergenza generale, immigrati inclusi, verso un senso di appartenenza nazionale che ha fatto degli Stati Uniti una super nazione, la nazione dominante del mondo. Fatto sta che questa capacità dell’America di omogeneizzare a sé gli immigrati di qualunque provenienza ha iniziato a venir meno negli anni 60, e negli anni 90 si è verificata una vera e propria crisi dell’identità nazionale americana. I fattori che hanno portato a questa crisi si possono ridurre al seguente binomio: il multiculturalismo e la formazione di un forte nucleo omogeneo di genti immigrate (i latinos) restio a farsi assimilare e soprattutto americanizzare. Ecco i due pericoli mortali da cui l’America deve guardarsi e contro cui deve reagire. Per Huntington, il multiculturalismo costituisce per la sua stessa essenza un’ideologia antiamericana, antieuropea e antioccidentale. Ciò che è da rifiutare è il porre sullo stesso piano la cultura americana, europea e occidentale e la cultura latino-americana, specie messicana, diversa e inassimilabile. Questa diversità dei latinos è dipinta dall’autore come inferiorità morale e culturale. Per l’autore nella crescente presenza dei latinos c’è qualcosa di ancora più inquietante delle loro scarse capacità morali e mentali: è il fatto che essi nutrono un senso di revanche verso gli Stati Uniti, sognando la riconquista delle terre che un tempo furono loro. Inoltre, i latinos, a differenza degli immigrati di altre nazionalità, sono più concentrati e quindi risultano più difficili da assimilare. I latinos sono il primo gruppo etnico che resiste all’assimilazione non volendo spogliarsi della propria storia, e anzi rivendicando il diritto della propria doppia identità. Ecco perché sono così temibili. Questo mette quindi in repentaglio la monocultura americana, l’identità e l’unità nazionale, e anche la supremazia americana nel mondo. Il pericolo epocale per l’Europa secondo Caldwell La visione di Caldwell si discosta poco da quella di Huntington: egli presta solo maggiore attenzione all’aspetto economico. Per l’autore l’immigrazione è un fattore distruttivo. Per l’Europa è onerosa sul piano materiale: egli ammette che può aver dato dei benefici ai paesi Europei, anche se minimi. Si può parlare di benefici decrescenti e costi crescenti per due motivi: 1. Gli immigrati hanno più assistenza sociale di quanta ne finanzino. 2. Gli immigrati si stabiliscono a vita in Europa e qui, invecchiando, rappresentano un costo per la società. Questo bilancio per Caldwell è ancora peggiore di quello statunitense perché l’Europa non è stata capace di attirare immigrati altamente qualificati in grado di stimolare l’economia. Ad ogni modo il danno prodotto dall’immigrazione, oltre che economico, è anche sociale, politico e spirituale. Gli immigrati portano altre culture diverse che sono incompatibili ed in conflitto con i valori europei: le società europee divenendo multietniche e multiculturali rischiano di disintegrarsi. Oltre che lo stato sociale è a rischio anche un altro elemento distintivo della storia europea: la sua laicità ed i diritti individuali. Il discorso ha come suo punto critico di riferimento gli immigrati islamici: questa sono la componente dell’immigrazione europea più numerosa e radicata e la più impermeabile all’europeizzazione, a causa della loro tendenza ad auto-segregarsi. Egli inoltre afferma che esiste un punto di svolta, che consiste nel momento in cui gli immigrati nati sul posto smettono di abitare nel paese che li ha accolti e iniziano a plasmarlo. Questo momento è arrivato in Europa negli anni 60 e 70, ed è proprio allora che l’Europa ha iniziato a reagire con le prime prese di posizione e le prime leggi contro gli immigrati: qui l’autore, oltre che elogiare la Germania e la Francia, afferma che la strada da loro intrapresa è quella obbligata. Bisogna dire agli immigrati: prendere o lasciare. L’unica soluzione alle minacce rappresentate dalle crescenti aspettative degli immigrati è l’indurimento delle politiche migratorie e insieme il rilancio della prassi assimilazionista. Le analisi di Caldwell e di Huntington permettono di enucleare il pensiero di stato dell’inizio del ventunesimo secolo: rilancio dell’occidentalismo, dell’identità e della storica superiorità occidentale; categorico rifiuto di ogni forma di società multiculturale; la ingiunzione agli immigrati assimilarsi con la civiltà europea; l’ingiunzione parallela di abdicare all’insostenibile pretesa di parità di diritti sociali e culturali fra autoctoni e immigrati; selezione contemporaneamente collettiva (nazionalità) e individuale degli immigrati in base alle loro qualifiche professionali; attività di mobilitazione delle popolazioni autoctone a sostegno di questa reazione di stato e di civiltà; ricorso ad ogni tipo di mezzi disciplinari e, se necessario, anche alla guerra. Il fenomeno Obama Sono confluite intorno a questa candidatura le ansie, le frustrazioni e l’attesa di risalita di quanti negli anni delle politiche liberiste e belliciste delle amministrazioni Bush hanno visto diminuire, se non precipitare, i propri standard di vita e di sicurezza lavorativa nel contesto di una crescente polarizzazione della ricchezza. Da due a tre milioni di immigrati hanno manifestato in tutte le principali città statunitensi e un numero molto superiore di lavoratori immigrati hanno scioperato contro il progetto di legge Sensenbrenner (governo Bush), che avrebbe pesantemente peggiorato la condizione degli undocumented, a cominciare dalla trasformazione dell’ingresso clandestino da violazione amministrativa in reato penale. Della storia degli Stati Uniti non vi era mai stato uno sciopero nazionale e non vi era mai stata un’organizzazione così ramificata e partecipata di una dimostrazione di massa. Anche se l’aspettativa che Obama mettesse mano alla svelta alla riforma migliorativa della legislazione in materia di immigrazione e alla regolarizzazione dei clandestini era alta, egli rimase, e rimane tutt’ora, in silenzio. Obama ha concesso grande autonomia ai singoli stati in materia di immigrazione e questi approvano leggi antiimmigrati ancora più dure di quelle già in vigore: in Alabama, ad esempio, è stato introdotto il reato di immigrazione clandestina e schizzo sociologico all’oggi dei paesi islamici, questi risultano composti pressoché solo di percettori di rendite petrolifere e di estremisti-terroristi. Il mito dell’Islam colonizzatore-conquistatore Il secondo stereotipo di importanza forse anche maggiore è quello che vuole l’Islam proteso per sua natura a colonizzarci per imporci le sue norme di comportamento reazionarie, e pronto a farlo con ogni mezzo, terrorismo incluso. Che l’islamismo politico sia animato dalla volontà di combattere contro l’Occidente è un fatto. Che alcune tendenze dell’islamismo politico abbiano nel loro programma anche azioni violente contro le istituzioni occidentali in terra d’Occidente, e non solo più nei paesi arabi o islamici, è un dato di fatto. Ma queste volontà nascono da una spinta offensiva o difensiva? Iniziamo dal tema della colonizzazione dei nostri territori, cominciandoci a chiedere chi da secoli colonizza i territori di chi. La presa di coscienza di questo sistema di oppressione Occidentale è centrale nell’islamismo politico, a cominciare da colui che può esserne considerato il progenitore, al-Afghani. Egli è stato il primo a prospettare, come risposta ad un tale assoggettamento, la ricostruzione del califfato su basi nuove, riformate, moderne, pan-islamiche. Nell’islamismo radicale c’è l’amara presa d’atto della soggezione in cui versano paesi e popoli musulmani occupati da forze straniere. Qui la nazione non è più tanto il singolo paese: è, almeno idealmente, il mondo islamico plurinazionale preso nel suo insieme, perché solo come insieme questo mondo può sperare di uscire dalla condizione bisecolare di soggezione all’Occidente. Se il colonizzatore o il neo-colonizzatore europeo ha cercato e continuano a cercare nel proprio passato la legittimazione a dominare, al loro opposto anche i colonizzati, umiliati da un presente pieno di afflizioni e sistematicamente delusi in tutti i loro tentativi di essere come i loro colonizzatori, si sono rivolti e si rivolgono al proprio passato per attingere da esso forza e ragioni per la propria resistenza e per la propria lotta anticoloniale. Riscoprono così le loro tradizioni, e le vivono come meccanismo di difesa. Detto di quanto sia inconsistente la tesi che vuole l’islam proteso a colonizzare il territorio europeo, ci occupiamo della colonizzazione culturale europea da parte degli immigrati islamici qui emigrati. Sarebbe infatti in atto una sorta di crociata cultural-religiosa alla rovescia con l’obbiettivo di conquistare le nostre anime ai costumi e alle credenze reazionarie proprie dell’islam. Non ha senso negare che esista e sia attiva in Europa una corrente estremamente minoritaria che nutra progetti di questo genere. Ma è altrettanto vero che su altri le reazioni che si vogliono rappresentare come de-assimilazione e auto-segregazione identitaria altro non sono che inevitabili forme di auto-difesa individuale e collettiva della propria dignità, e mezzo di auto-affermazione. La donna islamica tra l’incudine e il martello L’islam opprime le donne, da sempre. A noi euro-occidentali il nobile compito di liberare le prigioniere dal loro carcere. La soggezione sociale e personale della donna all’uomo non è certo un’esclusiva delle società islamizzate. A riguardo la tesi di stato europea è: qui da noi regna l’armonia fra i sessi. Qui si rispetta la donna. Non è assolutamente permesso violarla, né percuoterla, né molestarla nel fisico o nel morale. Nessuno può farle violenza e sperare di farla franca. Dare il massimo risalto alla violenza di cui sono colpevoli, veri o presunti, immigrati o figli/nipoti di immigrati, e per contro minimizzare, e se possibile occultare, la violenza compiuta da autoctoni. Un altro fatto estremamente sfruttato dall’industria dell’islamofobia per aumentare l’odio razziale è la questione del velo delle donne islamiche, condizione forzata che testimonierebbe la loro inferiorità all’interno delle loro società. Ad ogni modo, che ci siano o meno i veli, dei risultati utili l’industria del razzismo li raggiunge comunque: distolgono l’attenzione dalle cause di fondo della misera condizione dei lavoratori islamici e dalle proprie responsabilità; screditano ad un tempo le donne islamiche in quanto passive schiave dell’uomo, e gli uomini islamici in quanto schiavizzatori delle donne. In questo modo sarà meno complicato precarizzare la loro esistenza, abbassare il prezzo del loro lavoro e approfondire il solco fra le donne islamiche e le donne europee, tra le genti islamiche presenti in Europa e le popolazioni autoctone. 2. La rinnovata persecuzione dei rom La campagna di denigrazione e di ordine pubblico contro i rom è, dopo l’islamofobia, il secondo dei temi fissi del razzismo istituzionale europeo dell’ultimo decennio. Estremamente frammentate le popolazioni rom non hanno mai intrapreso la strada verso la formazione di uno stato nazionale, e neppure verso un qualcosa di simile ad una coscienza nazionale. E anche questa particolarità della loro storia ha esposto vasti gruppi familiari rom ad una pesante marginalità. Una marginalità che negli ultimi decenni è stata sempre più contigua ai grandi aggregati urbani, con nuovi mestieri improvvisati e ben poco remunerativi e combinati con microattività illegali, in un’esistenza da classico sottoproletariato. l loro forzato movimento da est a ovest ha fornito ai governi dell’Italia, della Francia, ecc. il pretesto per ripresentare i rom, gli zingari come nomadi per natura, e predisporre loro delle strutture ad hoc coerenti con questa loro vocazione: i campi nomadi. Questi sono strutture di segregazione che nella quasi totalità dei casi servono solo ad escludere i rom dalla vita sociale e a degradarne ulteriormente l’esistenza. In condizioni del genere l’accattonaggio, il furto ed altre attività illegali restano la sola possibilità per sfamarsi e tirare in qualche modo a campare fin che ci si riesce. Questa discriminazione serve a due scopi in uno: inferiorizzare attraverso i rom, presentati quasi sempre nel dibattito pubblico come genti dell’Est, l’intera gamma delle popolazioni slave dell’Est Europa e criminalizzare la povertà, quella povertà che il neoliberismo e la crisi stanno facendo crescere a vista d’occhio. 3. La criminalizzazione dei clandestini Dopo l’islamofobia e la criminalizzazione dei rom, il terzo motivo ritornante del razzismo di stato europeo è l’immigrato clandestino. È stato un crescendo di misure anticlandestini che ha avuto il suo culmine con la cosiddetta “direttiva della vergogna” approvata a grande maggioranza dal parlamento europeo il 18 giugno 2008. La direttiva impone di armonizzare verso il peggio entro il 2010 le leggi e le prassi amministrative e poliziesche che riguardano i sans papiers. Il tempo massimo di detenzione nei centri è innalzato ad un massimo di 18 mesi, anche per i minori accompagnati. Non è prevista alcuna eccezione per le donne incinte e per le vittime di tortura o di tratta. L’espulsione sarà corredata da un divieto di rientro per 5 anni. I minori non accompagnati potranno essere espulsi anche verso paesi diversi dal proprio, nei quali non hanno né famiglia né tutore. E per la prima volta è prevista anche la possibilità di deportare gli immigrati irregolari nei paesi di transito, ai quali l’Unione Europea versa soldi per organizzare campi di concentramento e barriere spinate. Se quindi gli stati europei non vogliono escludere davvero gli immigrati, a cosa serve la guerra alla clandestinità? Serve innanzi tutto a garantire agli stati, alle imprese, alle famiglie, ai singoli privati che del lavoro degli immigrati fanno uso, la piena libertà di disposizione su di essi. Non si deve dimenticare mai infatti che l’intera politica migratoria non riguarda i soli immigrati, ma è parte integrante della politica del lavoro, riguarda cioè tutto il mondo del lavoro. E sotto questo stesso profilo la politica anti-clandestinità serve a ribadire che sono gli stati, i governi e i parlamentari europei i titolari del diritto di scegliere chi vogliono e chi non vogliono sul proprio territorio. L’aggressione di stato ai clandestini ha un contenuto simbolico che eccede il mondo degli immigrati e lo stesso mondo del lavoro autoctono perché esprime un’idea di società nella quale le misure penali speciali, l’adozione di metodi militari nella ordinaria vita civile, i campi di internamento divengano, e vengano accettati dalla popolazione, come dati di realtà ovvi, banali e necessari. E possano perciò essere estesi, quando è il caso, ben al di là dei clandestini e degli stessi immigrati regolari. L’asservimento degli immigrati Nel 2008 e nel 2009 l’Italia è stata attraversata e interessata da un rigurgito violento di xenofobia e di razzismo. Alcuni osservatori hanno individuato la causa di ciò nella secca vittoria della destra alle elezioni politiche del 2008, e nel governo scaturito da essa, fautore di una politica esplicitamente antiimmigrati. Di sicuro l’acutizzazione del razzismo avvenuto in Italia non è il risultato di un’ondata improvvisa di stupidità di massa. È invece il frutto del sistema dei rapporti sociali che in questi decenni l’Italia ha instaurato con l’immigrazione: un sistema discriminatorio che ha prodotto una disuguaglianza, basata sulla provenienza nazionale e sul pregiudizio razziale. Prendendo in considerazione l’ordinamento giuridico, gli immigrati sono sottoposti a un regime legale speciale. La legge 39 del 1990 ha delineato un modello di politica migratoria che è stato riconfermato e affinato nelle successive leggi sull’immigrazione. Essa ha introdotto alcuni principi e istituti che ancora oggi costituiscono il sistema di oppressione degli immigrati, tra i quali: il contingentamento dell’immigrazione attraverso un decreto flussi periodico con cui viene determinato il numero massimo di ingressi regolari consentiti per lavoro; la chiamata nominativa, che pone come condizione per l’ingresso l’esistenza di un contratto di lavoro; l’avvio da parte dell’imprenditore dell’iter burocratico per l’autorizzazione all’ingresso. Ma dato che per diversi anni il decreto flussi non è stato emanato, e dal momento che è alquanto difficile che si verifichi l’incontro perfetto tra domanda e offerta di lavoro, per un lungo periodo di tempo l’immigrazione è transitata obbligatoriamente attraverso canali e percorsi non regolari. Cause ed effetti dell’acutizzazione del razzismo Le cause del razzismo sono di tipo economico, politico, sociale e culturale, mentre la loro convergenza in una congiuntura di crisi economica globale e in una fase politica nazionale di tipo autoritario hanno sostenuto e accentuato l’acutizzazione del razzismo. In Italia il razzismo e la discriminazione verso gli immigrati non costituiscono, come si è visto, una novità o un fenomeno recente; negli ultimi anni semmai c’è stato un salto di qualità e quantità. Perché? 1. Un primo elemento si può individuare nella necessità da parte del sistema delle imprese, in un momento di stagnazione economica, di spremere al massimo la forza lavoro immigrata, e da lì l’intera massa dei lavoratori. 2. L’acutizzazione del razzismo è, secondo elemento, anche la risposta ai processi di radicamento degli immigrati, il cui lavoro è diventato sempre più rilevante nel funzionamento del sistema economico. Questo fattore ha portato ad un aumento del peso e della centralità sociale degli immigrati, e della riduzione della distanza sociale dagli autoctoni, elementi che li ha resi meno sfruttabili, meno ricattabili. Questo lento avvicinamento fra popolazioni viene oggi contrastato con una impennata di xenofobia finalizzata all’estraniazione degli immigrati. 3. Un terzo elemento è da individuare nell’aggravamento della situazione economica e sociale del paese, in particolare nel peggioramento delle condizioni generali della popolazione e nel timore diffuso tra la massa della popolazione di veder peggiorare la propria situazione. Fattori che hanno favorito l’attecchimento del razzismo tra le fasce popolari, verso le quali è stata socializzata l’idea che tutti i problemi della gente sono determinati dalla presenza degli immigrati. 4. Un ultimo elemento da prendere in considerazione è il processo di leghizzazione dell’Italia e della politica italiana. C’è stata una diffusa accettazione di alcuni punti dell’ideologia leghista nella gran parte del paese. Mondi Migranti 2017 Due decenni di ricerca sulla migrazione messicana in una nuova destinazione non- metropolitana degli Stati Uniti: riflessioni dal campo Fare spazio all’accoglienza. Una riflessione sul progetto territoriale di accoglienza integrata di Roccagorga Il contributo si focalizza sull’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati in “contesti fragili” e in località montane. Roccagorga è un piccolo Comune situato nei Monti Lepini, nella provincia di Latina, scelto come punto di osservazione per comprendere le variabili in gioco nel processo di inclusione degli stranieri in comuni caratterizzati da piccola dimensione e perifericità. Il Comune, che conta 4.578 abitanti di cui 445 stranieri. Se si guarda infatti al centro storico, l’area con la maggior parte di abitazioni vuote, l’incidenza degli stranieri raggiunge anche il 20%, a conferma che questi sono andati ad occupare prevalentemente un patrimonio storico di edilizia minore, precedentemente Nonostante la lontananza che la separa dai luoghi del lavoro nella concia, Alte ha progressivamente acquisito una forza attrattiva sempre maggiore per la collettività bangladese. Le ragioni sono molteplici. L’ingresso lavorativo è stato favorito dall’enorme richiesta di forza-lavoro per le fabbriche, ma l’accesso alla casa si è dimostrato irto di ostacoli. Molti lavoratori stranieri si sono allora rivolti verso Alte: in forza del rapido spopolamento, la Frazione dimostrava un’ampia disponibilità abitativa e una svalorizzazione degli alloggi tale da renderne l’acquisto accessibile anche agli operai immigrati. Un secondo fattore è costituito dal processo di “familiarizzazione” della migrazione bangladese che si è trasformata da immigrazione di lavoratori in immigrazione di famiglie in seguito alla continua crescita di ricongiungimenti familiari. L'immigrazione bangladese ad Alte ha arrestato un declino sociodemografico, attraverso la rifunzionalizzazione degli spazi pubblici e privati, l’incremento delle nascite, il sorgere di numerosi esercizi commerciali, l'apertura di due sale di preghiera islamica. La Frazione ha iniziato progressivamente a soddisfare necessità della popolazione bangladese, assumendo profondi significati simbolici e materiali e diventando un punto di riferimento per tale collettività in Provincia e Regione. Al contempo, il nuovo volto di Alte è presentato dalla stampa e dalle forze politiche locali come “problematico”: la vivacità sociale e il protagonismo della componente immigrata vengono mal tollerati dalla società “ospitante” e dalle forze politiche. La costruzione della presenza immigrata come “problema” ha portato all’attuazione di una serie di provvedimenti da parte delle giunte comunali avvicendatesi dal 2005 al 2014. Tali provvedimenti hanno visto nella questione degli alloggi uno dei suoi elementi portanti. Il primo risale al 2007 ed è riconducibile al progetto “Montecchio si- cura”, varato con delibera comunale n. 163 del 28 maggio 2007. L’intervento si poneva l’obiettivo di “favorire il miglioramento della qualità della vita di individui, famiglie e gruppi della Comunità” attraverso “la convivenza e il dialogo tra le varie componenti del Paese, la prevenzione di fenomeni di marginalità e devianza nonché la promozione dell’igiene, della pulizia e del rispetto delle regole”. Tale provvedimento si è tradotto, per i residenti immigrati, in un inasprimento della procedura per l’ottenimento del nulla osta al ricongiungimento familiare. A ciò si è aggiunta l’attuazione di “controlli diffusi e ripetuti sul territorio, da parte dei Vigili Urbani”, “l’estensione dell’orario di pattugliamento” e la creazione di una sezione staccata dei vigili urbani. Alla fine del 2007 sono iniziati i controlli all'alba nelle case da parte dei vigili urbani e dei tecnici comunali e dell’Ulss degli appartamenti degli immigrati – anche in possesso della cittadinanza italiana. Il Comune ha indicato i seguenti obiettivi dei controlli: “accertamento della presenza di eventuali immigrati clandestini, della esatta composizione dei nuclei familiari, dell'adempimento degli obblighi relativi alla comunicazione di ospitalità e delle condizioni igienico sanitarie degli immobili”. I controlli – che si sono spinti ben oltre la formale verifica dell'idoneità abitativa e che spesso, per stessa ammissione del sindaco, non sono stati nemmeno motivati da tale verifica – si sono concentrati sulle case dei bangladesi, alimentando sia la diffidenza della popolazione autoctona, sia la paura e il senso di insicurezza tra gli immigrati e la loro sensazione di essere “ospiti non graditi”. La nuova amministrazione (centro-destra) ha fatto rimuovere parte dell’arredo urbano nei luoghi di incontro e di socialità pubblica degli immigrati (le panchine di Viale della Stazione), ha ristretto l’agibilità dei locali della principale sala di preghiera islamica, ha interrotto il servizio mensa scolastico alle famiglie che non risultavano in regola con il pagamento, ha imposto la presentazione e il deposito di una traduzione italiana di qualsiasi avviso o pubblicazione rivolto alla popolazione in lingua diversa dall’italiano. Viene introdotto, cioè, tutto l'armamentario delle ordinanze comportamentali, situazionali e rafforzative. Le delibere 233 e 347 del 2009, hanno previsto un ulteriore innalzamento dei parametri abitativi necessari all’idoneità alloggiativa che il Comune, inoltre, ha posto come requisito necessario al rilascio della residenza, senza la quale non si ha accesso a un ampio spettro di diritti sociali (cittadinanza = dieci anni di residenza regolare + requisito necessario per l'ottenimento del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo) e, soprattutto, che a fortiori è necessaria al nulla osta al ricongiungimento familiare. L’idoneità alloggiativa è infatti un prerequisito necessario per la presentazione delle istanze di ricongiungimento, per la stipula del “contratto di soggiorno” richiesto in sede di avvio di un’attività di lavoro subordinato. Molte famiglie bangladesi sono state così costrette a dividersi, cambiare o vendere casa, rinunciare al ricongiungimento, pagare frequenti multe e sanzioni commutate per ospitalità vere o presunte di cui non sarebbero stati adempiti gli obblighi. Nel luglio 2010, un’ulteriore ordinanza ha stabilito che, a seguito dell’interruzione della dimora abituale da parte di un soggetto e/o di un nucleo familiare, fosse predisposta l’immediata cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente. Tale provvedimento – limitante il diritto alla mobilità dei residenti stranieri, poiché rende complicati eventuali lunghi periodi di assenza dall’abitazione. Per fronteggiare tale situazione, i lavoratori e le famiglie bangladesi, attraverso il loro associazionismo, hanno introdotto una serie di mobilitazioni di concerto con l'associazionismo autoctono e le organizzazioni sindacali. Nella Frazione, sono attive almeno quattro associazioni bangladesi: due maggiormente impegnate nell'ambito sociale e politico, una delle quali emanazione di un'associazione provinciale con sede a Vicenza e una nata ex novo ad Alte; un'associazione attiva soprattutto sul versante artistico culturale; un'associazione di stampo religioso. In questa sede, è necessario concentrarsi soprattutto sulle prime due. Tra le forme di mobilitazione attuate, va ricordato il corteo del 1° marzo 2010. Va sottolineato, che se, a livello regionale e nazionale, l'iniziativa del 1° marzo, ricalcata sull'esperienza francese, ha avuto scarso successo. Al contempo, però, la resistenza messa in atto dai lavoratori immigrati è stata ridotta a “merce di scambio”, strumentalizzata dalle forze politiche (Vitale, 2012), soprattutto dai sindacati, che appoggiavano la precedente giunta (non immune, come mostrato, da pratiche politiche altrettanto razziste e discriminatorie) per riconquistare l’esigua quota di voti, ago della bilancia nella competizione elettorale. Va poi menzionato lo “sciopero della spesa”, promosso, ancora una volta dalle associazioni immigrate e costituito dall'astensione dagli acquisti entro il territorio comunale di Montecchio da parte dei propri connazionali. Le mobilitazioni e il successo del corteo del 1° marzo hanno spinto le sigle sindacali a impugnare le delibere e il 31 maggio 2011 il Tribunale di Vicenza ne ha dichiarato il carattere discriminatorio. Queste delibere non hanno fatto che creare ulteriori conflitti: si sono create nuove associazioni bangladesi, attraverso i sindacati, che cercavano di essere riconosciute come quelle che rappresentavano di più il popolo bangladese. Se la combattività delle shomiti ha fornito la spinta necessaria alla buona riuscita del corteo del 1° marzo e all'esito positivo del ricorso dei sindacati in sede legale, la loro rivalità si è esacerbata fino a sfociare in un vero e proprio confronto fisico in cui uno dei protagonisti è finito in coma per trauma cranico, portando a un progressivo allontanamento dei bangladesi di Alte dall'associazionismo e dalla partecipazione politico-sociale. Al contempo, per le sue dimensioni contenute, Alte ha costituito una sorta di “banco di prova” su cui sperimentare politiche di governo dell'immigrazione e dell’ordine pubblico in senso escludente e discriminatorio. Ecco che, quindi, se le forze politiche che guidano le istituzioni locali hanno utilizzato il “laboratorio Alte Ceccato” e hanno implementato prassi escludenti che si sono combinate con le norme nazionali per tentare di affermarsi politicamente su una dimensione che prescinde i confini comunali; i sindacati e le associazioni bangladesi, a loro volta, hanno attivato le proprie reti. Il caso di Alte Ceccato costituisce sia un'esperienza vincente di auto-organizzazione degli immigrati nel contrasto alle politiche discriminatorie, sia un esempio di come l'associazionismo immigrato possa talvolta avvitarsi su sé stesso e implodere. Uomini in movimento. Il lavoro della maschilità tra Bangladesh e Italia Della Puppa F. Il cammino dei migranti bangladesi si configura come un continuo susseguirsi di atti di istituzione della vita adulta, un percorso pieno di eventi consacrativi in continua tensione tra il paese di origine e quello di destinazione. Il primo significativo passaggio istitutivo è l’investimento migratorio e la partenza dal paese di origine. Tale investimento non è dettato solo da fini economici ma da una pluralità di fattori: gli obblighi sociali, le aspettative familiari, le costruzioni normative di genere e la realizzazione individuale. La migrazione diventa un viaggio necessario per diventare uomini. Il bidesh (“la terra straniera”. In contrapposizione a Bangla-desh “la terra dove si parla il bangla” che costituisce lo shodesh “terra natia” e il desh “il paese”) è il luogo in cui si diventa adulti, si dimostra di saper portare il peso delle responsabilità familiari ma anche le ambizioni individuali. L’esperienza migratoria traccia una linea tra un prima e un dopo nella biografia individuale del probashi (gli immigrati sono chiamati o Londoni o Probashi “abitanti esterni”, bideshi “straniero”), separa chi sceglie di emigrare da chi rimane in patria ma soprattutto differenzia coloro che sono legittimati a farlo da chi non lo è. Durante questo primo ritorno in patria i giovani dimostreranno di aver superato ogni prova e confermano una prima trasformazione della loro identità sociale, è il primo passo per un avanzamento nel percorso di ingrasso nell’età adulta e rende possibili gli altri eventi istitutivi. Il matrimonio costituisce il prossimo atto di istituzione (decisioni operate dai familiari, altri hanno compartecipato alla combinazione, altri hanno chiesto di accettare una relazione già presente. Altro atto fondamentale è il ricongiungimento familiare: ricongiungendosi alla moglie, gli immigrati si emancipano dalla condizione di mera forza-lavoro e intraprendono la costruzione di un progetto di vita quanto più possibile stabile, affermando così le loro necessità affettive, riproduttive e familiari. La genitorialità viene rappresentata come un traguardo imprescindibile verso l’età adulta maschile e si configura come un evento consacrativo individuale e collettivo, attraverso il quale il migrante si inserisce nella continuità generazionale della famiglia di origine e la produce. Diventando padre l’immigrato deve conformarsi al nuovo status e farsi carico di nuove responsabilità: il soddisfacimento dei bisogni materiali ed emozionali dei familiari e la garanzia di una solida stabilità sociale e giuridica nel contesto dell’immigrazione. L’acquisizione della cittadinanza italiana e l’automatico suo trasferimento ai discendenti costituirebbero un ulteriore traguardo: l’ottenimento del passaporto italiano. L’acquisizione di una cittadinanza italiana è l’acquisizione di una cittadinanza europea, attraverso la quale loro possono realizzare il “sogno d’oltremanica”. Questa comporta un’ulteriore consacrazione dei migranti e possono suscitare sia l’invidia di alcuni connazionali, sia il biasimo di coloro che dichiarano di aver adottato altre strategie e di aver deciso di rimanere ad Alte. Al contempo tali passaggi tracciano la via di un movimento potenzialmente infinito in cui la meta finale si sposta con chi la insegue. I probashi appaiono lacerati da una strutturale mancanza di stabilità e da una permanente provvisorietà anche se alcuni si dimostrano capaci di essere “a casa” in qualsiasi luogo. La migrazione può conferire onore e prestigio ai rappresentanti della famiglia del migrante o, al contrario, gettare su di loro l’ombra della umiliazione per il tradimento del tradizionale ordine patriarcale. in viaggio: prospettive, percorsi, narrazioni Il ricongiungimento familiare è stato definito “quel processo che riguarda famiglie interessate da un periodo di separazione forzata, fisica o culturale dei membri, i quali decidono di ricongiungersi dopo un lasso di tempo”, e rappresenta uno dei principali canali di ingresso regolare in Italia. Nel cuore della diaspora La migrazione in Italia di molti intervistati si inserisce in una tradizione migratoria familiar. Se per le sorelle o le figlie dei pionieri della diaspora bangladese le credenziali sociali acquisite con la migrazione delle generazioni precedenti si sono tradotte nella possibilità di celebrare matrimoni vantaggiosi, per i figli maschi o i fratelli minori l’unico modo per riprendere il percorso di mobilità sociale ascendente attivato dalla generazione precedente, spesso, è emigrare a loro volta. Le spinte alla migrazione sono connesse alla riattivazione della mobilità sociale dei ceti medi, ai migliori standard di vita per sé e per i figli a cui si avrebbe accesso nel bidesh e, di conseguenza, al miglioramento della propria posizione nel mercato matrimoniale. Per i giovani bangladesi l’emigrazione diventa la via maestra per emanciparsi dall’immobilismo sociale e dall’inattività lavorativa. L’emigrazione è un modo per emanciparsi Per i fratelli questo passaggio rinsalda i legami internamente alla cerchia familiare, rafforzando il senso di appartenenza dei singoli al gruppo e assicurando la continuità familiare anche nella diaspora. Per i cognati rappresenta la conferma della correttezza di quella che si era configurata come un’incerta e sofferta scelta matrimoniale e la concretizzazione delle aspettative che la famiglia di origine ha riversato sulla coppia. Per i suoceri la nascita implica l’ulteriore assunzione dei ruoli e responsabilità e mette in moto nuovi processi di riflessività. L’istituzione della vita adulta si configura comune movimento senza fine e un percorso costituito dalla successione continua di traguardi. La genesi di una nuova generazione conferma l’immortalità simbolica del guardiano della famiglia che prende forma nella riproduzione familiare e che si dispiega nel tempo e nello spazio. Da un lato, l’ingresso della paternità rappresenta un passaggio necessario per la piena realizzazione del probashi; dall’altro, la progressiva socializzazione nel bidesh dei nipoti si traduce in un’inevitabile transculturazione che può portare a far sì che si sposino con partner di diversa fede religiosa e origine nazionale. Alle nuove generazioni nate in Europa è concessa l’adozione di condotte pratiche riconducibili ad uno stile di vita occidentale purché non perdano di vista il loro posizionamento nell’intero percorso familiare. Tale consapevolezza rappresenta un elemento fondamentale affinché la riproduzione della famiglia non si riconduca al mero susseguirsi biologico delle generazioni che la compongono, ma permetta la continuità della sua memoria e del suo prestigio e, di conseguenza, l’immortalità simbolica dei suoi membri e l’onore dei suoi rappresentanti. Uscire dal paese, diventare uomini Gli intervistati rispecchiano la composizione della componente della diaspora che, in quegli anni, si orientava verso l’Europa mediterranea: giovani uomini celibi, di ceto medio o medio- alto con un elevato titolo di istruzione. La rotta principale utilizzata ha previsto l’attraversamento della cortina di ferro e i territori dell’Unione Sovietica o, in epoca più recente, dei paesi dell’Europa Orientale per giungere entro i confini dell’Unione Europea. Una volta a Roma, alla scadenza del visto turistico, molti si mimetizzano nell’ormai popolosa collettività presente in città, inserendosi nei segmenti dell’economia informale e attendendo possibilità di regolarizzazione. Una volta in possesso del permesso di soggiorno, i probashi possono muoversi liberamente nel territorio italiano alla ricerca di migliori opportunità. La frazione vicentina, come altre bangla-towns, sembra poter offrire queste possibilità. C’è un’alta possibilità di ottenere un regolare contratto di lavoro e per far fronte alle prime necessità abitative la collettività sfrutta al meglio il capitale sociale intracomunitario adottando strategie coabitative (subaffitto dei posti letto o la condivisione con molte persone). In questa fase la sfera lavorativa assorbe interamente l’esistenza degli immigrati. Questi anni sono ricordati per i momenti di spensieratezza che diluiscono le asprezze della migrazione e della fabbrica, gli anni della giovinezza. È la nostalgia di un’età e di un momento della vita che si idealizza nell’istante stesso in cui si fa parola, è la nostalgia per la capacità di potersi illudere e di provare stupore per un mondo e una vita che si dispiega fuori dal Bangladesh. Perché mettersi in movimento? La migrazione e il confronto con le società di destinazione e col suo mercato del lavoro finiscono per destrutturare e ridisegnare l’identità sociale dei migranti. La migrazione costituisce una strada percorribile solo da una ristretta cerchia di candidati relativamente benestanti configurandosi come una strategia di difesa dei propri standard di vita più che come un disperato tentativo di sopravvivenza. L’unico modo per garantire l’accesso alla sanità privata e per tenere aperte ai fratelli minori le porte dell’istruzione universitaria. La via dell’emigrazione costituisce un dono ma anche un obbligo familiare, di genere e generazionale. La migrazione può costituire anche una strategia di preservazione della propria appartenenza di ceto che va connessa al rifiuto di un lavoro in Bangladesh considerato inadeguato rispetto al proprio titolo di studio, al proprio status sociale e al proprio prestigio familiare. I probashi, da cittadini di prim’ordine nel terzo mondo, diventano “secondo class citizen” nel primo mondo. Nonostante il declassamento, la permanenza in Europa offre ai probashi standard di vita impensabili nel paese di origine. Chi arriva in Italia ha accesso alle condizioni di vita e di lavoro del ceto operaio in Europa, ciò comporta comunque un miglioramento del tenore di vita. Essere operai in Europa rende possibile raggiungere alcuni obiettivi e permette di accedere a una serie di garanzie da cui si sarebbe esclusi nel contesto di origine. All’incertezza per il futuro si aggiungono, in Bangladesh, le difficoltà del presente: l’indisponibilità di generi alimentari non compromessi dalla nocività, una microcriminalità diffusa al punto da spingere gli abitanti dei maggiori centri urbani all’auto-imposizione di un coprifuoco serale... La migrazione si configura come una strategia dei ceti medi per avere accesso alle élite e per riprendere il percorso di mobilità ascendente. Alla solitudine che accompagna i primi anni in Italia, si sovrappone la frustrazione di dover rimanere, in terra di immigrazione, manovali a vita, operai non specializzati esclusi ancora una volta da qualsiasi forma di mobilità a dispetto del titolo di studio conseguito nel paese di origine. Per sfuggire dalla repressione politica Nemmeno l’instaurazione formale della democrazia parlamentare nel 1991 è riuscita a stabilizzare il quadro politico bangladese. Ancora oggi la violenza politica e la pratica dell’eliminazione fisica dei rivali mediante gli apparati militari obbedienti al governo costituisce una realtà quotidiana che spinge molti a partire. Fuggiti dal paese, a causa di avvicendamenti politici che avrebbero messo in pericolo le loro vite, questi intervistati vivono il lungo iter verso la regolarizzazione nel bidesh. La loro irregolarità impedisce loro il rientro nel contesto di origine per anni, costringendoli a iniziare un percorso di radicamento nel contesto di immigrazione. La migrazione dei protagonisti di queste interviste si è configurata negli anni come un processo irreversibile. Per sposarsi più in alto In una società gerarchizzata e ascrittiva gli scambi matrimoniali avvengono seguendo una logica tendenzialmente omogamica. Il matrimonio rappresenta un’istituzione fondamentale per comprendere il senso delle traiettorie dei probashi, costituendo tanto una modalità di conferma del loro prestigio, quanto una strategia per migliorare la loro posizione secondo un modello ipergamico per il quale i membri di una famiglia di basso status possono qualificarsi socialmente attraverso uno scambio matrimoniale vantaggioso. I tempi prolungati per la regolarizzazione, però, obbligano alcune volte a ridefinire il progetto matrimoniale a causa della dilatazione dei tempi di rientro che ciò produce, dell’invecchiamento anagrafico a ciò collegato e, di conseguenza, dell’inevitabile ampliamento dello scarto anagrafico tra il probashi e la candidata sposa. Prende forma, così, un restringimento delle possibilità di scelta della partner e il ridisegnamento del progetto genitoriale e del numero dei figli della coppia. L’età della migrazione e l’età del matrimonio Per i migranti celibi, la progressiva immersione nel mondo adulto avviene durante la diaspora e attraverso la diaspora. Il ciclo di vita che si apre col matrimonio è considerato “la vita” tout court. Il potere simbolico del matrimonio risulta più rilevante delle responsabilità del probashi di mantenimento economico: senza di esso il completamento dell’evoluzione maschile è irrealizzabile. Le modalità e i rituali secondo i quali viene contratto il matrimonio del migrante ricalcano gli habitus matrimoniali della società e della famiglia di origine. Quelli degli intervistati sono tutti matrimoni combinati e hanno sempre sancito un’unione con una donna di origine bangladese. La motivazione della prassi endogamica: una scelta dell’aspirante sposo o al costume, alle pressioni familiari, alle contingenze in cui i celibi si troverebbero nel bidesh. Alcuni intervistati ritengono che il matrimonio tra coniugi di diversa origine possa essere motivo di conflittualità e rotture. Inoltre, il “doppio dovere familiare” del probashi (nei confronti del nucleo famigliare e nei confronti della famiglia estesa) potrebbe essere capita solo da una donna proveniente dallo stesso contesto socioculturale. La riproduzione della norma endogamica va anche collegata alle dinamiche di esclusione sociale ed espulsione dal mercato matrimoniale italiano a cui gli immigrati sono sottoposti. L’istituto del matrimonio combinato viene riprodotto secondo modalità diverse, assumendo molteplici connotazioni e veicolando significati simbolico-materiali molto eterogenei. Tutti i matrimoni combinati hanno previsto che i due coniugi si vedessero prima di sposarsi, ma è diversa la distribuzione del potere decisionale rispetto al processo di combinazione tra i componenti della famiglia del celibe. La famiglia è l’unico attore deputato a gestire i tempi e le modalità del matrimonio e a poter prescrivere la sposa (individuata in una sola candidata) al figlio. Nei casi presentati dall’autore il probashi acconsente al matrimonio nel momento in cui questo si rivela necessario all’organizzazione familiare (se si necessita di una presenza femminile per un contributo al lavoro riproduttivo e/o che si prenda cura della casa e della famiglia), accettando la sposa impostagli e seguendo la norma secondo la quale è la famiglia ad avere la precedenza sulla volontà del singolo. In alcuni matrimoni nonostante siano stati combinati principalmente dalla famiglia dei futuri sposi, il figlio ha potuto esprimere il suo assenso o il suo dissenso nei confronti dell’operato della famiglia, godendo così di più autonomia e potere decisionale. Vi sono alcuni elementi comuni che attraversano “le narrazioni matrimoniali” degli intervistati: il timore di deludere i genitori e la volontà di non sovvertire le loro aspettative. Qui abbiamo una distribuzione simmetrica del potere: il probashi può scegliere autonomamente la sposa, preventivamente interpellata, e solo allora interviene la famiglia per organizzare il rituale di ufficializzazione. Qualora il migrante non riesca a trovare una candidata si può rivolgere ad agenzie matrimoniali o i match-makers. Soprattutto per i matrimoni riconducibili a questo modello, una delle principali difficoltà è legata ai tempi ristretti di cui il migrante celibe dispone per il rientro in Bangladesh che avverrà utilizzando le ferie accumulate. Ciò li porta a comprimere fortemente il processo di combinazione e a delegare. In questo modello si ha il totale trasferimento dell’autorità decisionale e secondo il quale l’unico attore detenente il potere di combinare il matrimonio è l’aspirante sposo. La famiglia è al servizio dell’aspirante sposo, essa provvede a ricostruire il protocollo formale del rituale, a formalizzare la richiesta nei confronti della famiglia della candidata e a ufficializzare l’unione. Tale “messa in scena” è necessaria ai fini della salvaguardia della reputazione delle due famiglie nel contesto della shomaj. È il primogenito a doversi sposare per primo e un fratello minore non può contrarre matrimonio se un fratello a lui maggiore è ancora in condizione di celibato. Nonostante questa norma ci sono casi in cui i giovani non sono nelle condizioni di aspettare, poiché le future spose stavano per sorpassare “l’età giusta” al matrimonio, rischiando di compromettere il posizionamento nel mercato matrimoniale e di non riuscire più a sposarsi. L’atto di sposarsi è un elemento indispensabile per attribuire senso alla propria vita. Coloro che sono stati consacrati dal rituale matrimoniale hanno la piena espressione sessuale e la coabitazione con la partner all’interno di una cornice legittimata. La realizzazione completa della sfera sessuale e la necessità di diventare padri rendono urgente il matrimonio. Ricongiungersi Il ricongiungimento è solitamente contemplato da molto prima del matrimonio. Talvolta, anzi, le nozze sono avvenute solo dopo aver raggiunto i requisiti necessari al ricongiungimento. Per altri invece il ricongiungimento è stato pianificato tenendo conto dell’organizzazione quotidiana, delle esigenze del lavoro di cura della casa della famiglia estesa in Bangladesh. Il contributo al lavoro familiare della sposa del figlio può comportare una risorsa irrinunciabile per l’organizzazione dell’aggregato domestico al quale passa ad appartenere. Il primo ostacolo che si incontra per effettuare il ricongiungimento familiare sono le carte o, meglio, i requisiti per ottenerle: un documento di soggiorno idoneo, un contratto di lavoro capace di garantire un reddito ritenuto adeguato e la disponibilità di un alloggio sufficientemente ampio. Per rispondere al requisito abitativo alcuni acquistano un immobile accendendo un mutuo al quale fanno fronte subaffittando una stanza dell’immobile; alcuni continuano ad abitare in un appartamento ristretto ma si fanno rilasciare da un connazionale, che possiede un’abitazione più ampia, una dichiarazione di ospitalità fittizia; altri stipulano un breve contratto di affitto per un appartamento spazioso progettando di tornare a vivere in un’abitazione più modesta. Coloro che hanno ricongiunto all’inizio degli anni duemila, riportano tra gli impedimenti maggiori la lentezza della burocrazia italiana e la corruzione che pervade gli uffici dell’ambasciata italiana nel paese di origine. Parallelamente all’inasprimento della rigidità legislativa in tema di ricongiungimento prende forma un progressivo ribaltamento delle tendenze produttive e abitative: l’accesso alla casa diventa più facile, le possibilità di L’investimento sulla “seconda generazione” ha inizio sin dalla pianificazione dell’estensione della propria famiglia nucleare e dal numero di figli attorno cui si decide di costruire la propria traiettoria di vita. Riguardo la contraccezione e il numero di figli desiderati abbiamo diversi punti di vista: chi come Kajal che ha più di due figli e rappresenta l’ampiezza del suo nucleo familiare come una conseguenza alla volontà della moglie di avere un figlio maschio dopo quattro femmine, lui afferma di non volere più figli ma di voler rispettare la volontà di dio non utilizzando contraccettivi ma alternando periodi di astinenza sessuale alla pratica del coito interrotto; chi come Sheif che, pur avendo solo due figli, nega di adottare il coito interrotto e di essere pronto ad accettare quello che dio da; altri probashi esplicitano apertamente la loro scelta circa il numero dei figli e sollevano il tema del costo dei figli. Amir utilizza “condom”, Majir parla della “pastiglia” ed altri affermano di “fare attenzione”. Saffar e sua moglie arrivano ad un intervento di vasectomia per lui e lei alla sterilizzazione tubarica, andando incontro a una scelta permanente, definitiva e irreversibile. Un nucleo poco esteso può ottimizzare le risorse familiari nell’unico famiglio in modo da garantire più chance di realizzazione e ascesa sociale a un unico soggetto. I probashi si rifiutano che i loro figli e le loro figlie siano destinati al loro stesso destino: se ciò verrà evitato, la loro esistenza avrà avuto successo. Oltre alla diminuzione del numero dei figli il progetto di mobilità ascendente prevede l’investimento sulla loro istruzione, il progetto scolastico dei figli diventa il presupposto per il successo sociale. L’impossibilità dei padri di seguire appieno le incombenze scolastiche dei figli a causa di scarsa conoscenza della lingua italiana o della stanchezza psico-fisica rimanda loro la condizione di immigrati declassati e di genitori inadeguati. L’investimento sui figli non parrebbe differenziato lungo direttrici di genere. Solo due intervistati configurano un buon matrimonio come traguardo accettabile per le figlie anche in assenza di un titolo di studi medio-alto e di un’adeguata realizzazione professionale. Anche per questi padri, però, la realizzazione personale che contempli una mobilità ascendente attraverso il successo universitario ha la precedenza sulle altre traiettorie e il matrimonio costituisce una seconda opzione. La maggior parte dei padri afferma di voler lasciare libertà completa rispetto alle scelte matrimoniali dei figli e di essere pronto ad accettare qualsiasi loro scelta, l’unico elemento non negoziabile risulterebbe essere il percorso di studi. Molti esponenti della prima generazione di probashi ad Alte hanno negoziato le modalità di combinazione del loro matrimonio e si rappresentano, ora, potenziali agenti di un’ulteriore trasformazione nella pratica matrimoniale dichiarando di voler concedere maggiore autonomia ai figli. Non è solo la generazione nata o ricongiunta in Italia e ivi socializzata, quindi, a essere protagonista dell’innovazione delle pratiche di combinazione matrimoniale, ma anche quella dei loro padri. Cittadini in Europa Accecati dall’illusione di vedere i figli iscritti a Oxford o a Cambridge e mossi dalla speranza di “uscire dalla fabbrica” a favore di un inserimento lavorativo meno usurante, i probashi decidono di intraprendere una nuova migrazione oltre manica. Nasce così il progetto Londoni che corrisponde non sono a Londra ma anche tutti i centri urbani della GB storicamente coinvolti nella diaspora. Lo strumento che rende possibile tale mobilità è la cittadinanza italiana. Diventando cittadini italiani i probashi diventano cittadini europei. Nel caso non riuscisse a trovare un lavoro con il quale soddisfare le necessità della famiglia, nel bidesh britannico il probashi riuscirebbe a trovare il supporto della protezione sociale fornita dal governo. Un’altra motivazione della riattivazione del processo migratorio è rappresentata dall’insoddisfazione dei padri per il sistema scolastico e universitario italiano. Lasciare l’Italia, approdare in Inghilterra, fare proprio il medium linguistico internazionalmente condiviso, ripartire eventualmente per gli Stati Uniti o l’Australia, mantenere i legami con il paese di origine, senza escludere il ritorno nel bidesh italiano: sono le opportunità che i probashi vogliono garantire ai figli. Il duplice welfare di Londoni Il sistema welfare di Londoni è considerato più includente di quello italiano. Gli effettivi contributi erogati dal governo inglese, però, non dispiegherebbero l’attrazione esercitata dalla nuova destinazione migratoria, determinata da una rappresentanza irrealistica e idealizzata del welfare britannico. Accanto al welfare istituzionale prende forma un welfare informale e comunitario, effetto della governance del multiculturalismo britannico, a cui le famiglie di origine bangladese avrebbero facile accesso. Il modello britannico ha contribuito alla creazione di soggetti associativi e ne ha finanziato le attività. Le organizzazioni più importanti sono quelle religiose che oggi gestiscono ingenti finanziamenti pubblici e privati erogati dal governo britannico. Questo denso network associativo e religioso affiancandosi a quello informale e a quello istituzionale rappresenterebbe un supporto economico per le famiglie che dipendono dal lavoro del primomigrante. Una via di uscita dalla fabbrica? Tra chi ha deciso di partire di nuovo c’è chi è impossibilitato a svolgere fino al pensionamento le mansioni particolarmente usuranti nelle quali gli immigrati sono solitamente occupati. Come Malek, il suo medico gli ha consigliato di non continuare il suo lavoro in conceria, il suo corpo non può più sopportare questo lavoro. La migrazione in Inghilterra oltre a costituire una via di fuga dai lavori per immigrati, è finalizzata all’apertura di quelle prospettive che, a differenza dell’Italia, sarebbero accessibili anche ai figli di origine immigrata. Questa nuova migrazione è in parte la risposta all’insoddisfazione e alla solitudine delle donne ricongiunte ad Alte. In virtù dell’ampiezza della collettività bangladese d’oltremanica, infatti, quello britannico è rappresentato come un contesto che offre alle donne più possibilità: maggiori opportunità occupazionali e relazionali. Inoltre, l’esclusione che la società di immigrazione agisce nei confronti degli immigrati impedisce loro di sentirsi a casa e ciò si riverserà anche sui loro figli, in Italia essi rimarranno sempre “figli di un operaio bangladese”. Gli intervistati ritengono che l’unico modo per offrire migliori possibilità sia emigrare in un paese anglofono. Per un’educazione religiosa dei figli nella diaspora L’appartenenza religiosa e l’adesione a una comunità di pratiche rientrano tra gli elementi identitari e di costruzione tanto del ruolo genitoriale quanto di quello bangladese nella diaspora. La pratica religiosa e la preghiera islamica si possono configurare, nella migrazione, come un corpus di pratiche e rituali da misurare e ricondurre nello spazio domestico, sottoposto all’adeguamento al contesto sociale e politico ostile. Al contempo, però, rappresentano un dovere educativo nei confronti dei figli nati o ricongiunti in Italia. La polisemia dello status civitatis L’acquisizione della cittadinanza italiana acquista molteplici significati: da un lato risorsa di mobilità transnazionale, dall’altro forma di resistenza e strumento di radicamento familiare. Una volta che il primomigrante diventa cittadino italiano può immunizzare anche i familiari ricongiunti. La Voce di donna dietro la tenda La presenza delle donne è stata una presenza che ha accompagnato assiduamente tutte le tappe del percorso di ricerca compiuto, intervenendo frequentemente sulle narrazioni dei loro parenti. La presenta di esse sul set delle interviste ha preso forma anche in Bangladesh, spesso determinando intrecci narrativi degli intervistati. A Charmuguria, nel corso dell’intervista a Misbah, da dietro il velo a proveniva un rumoreggiare della madre, della moglie e della cognata che assistevano a quello che si configurava come un vero e proprio evento familiare, integrando le risposte del guardiano con continue precisazioni al femminile. A Farid, la cognata di un migrante, ha messo in difficoltà il traduttore fornendo di volta in volta particolari aggiuntivi. Le donne, in questo saggio, emergono in quanto soggetti che prendono parola, esprimono dissenso, impongono prospettive e danno spessore alla loro presenza al punto da intervenire non solo sulle stesse rappresentazioni degli uomini, ma anche sulle loro traiettorie migratorie, biografiche e familiari. Il ricongiungimento familiare in Europa e in Italia. Politiche, ambivalenze, rappresentazioni Della Puppa F. Il dibattito sul processo di ricongiungimento ha avuto una posizione centrale sulle politiche dell’UE. Il ricongiungimento familiare, infatti, è una tra le principali modalità di ingresso regolare negli Stati membri. Esso è stato inquadrato come passaggio fondamentale per la costruzione sociale della maschilità adulta degli immigrati. Il primomigrante, in questo caso solitamente un uomo, una volta createsi le necessarie condizioni, fa rientro nel Paese di origine per sposarsi con una donna che, subito dopo, viene ricongiunta in quello di immigrazione. Le democrazie europee se da un lato dichiarano il proprio impegno nel garantire i diritti umani riconosciuti dalle convenzioni universali di cui si sono fatte firmatarie, dall’altro rivendicano la propria autonomia nel determinare chi è ammesso ad accedere entro i confini dello Stato e secondo quali modalità. La legislazione sul ricongiungimento familiare nell’Unione europea si trova in maniera basilare nella Direttiva 86/03 “relativa al diritto al ricongiungimento familiare” che prova a coniugare la necessità del “controllo delle frontiere esterne” con “l’obbligo di protezione della famiglia e di rispetto della vita familiare” e l’obiettivo di attuare un “ravvicinamento delle legislazioni nazionali relative alle condizioni di ammissione e soggiorno dei cittadini di Paesi terzi”. La Direttiva impegnava gli Stati membri ad armonizzare le leggi e le prassi amministrative e poliziesche riguardanti l’istituto del ricongiungimento familiare. In particolare, essa indica la possibilità per gli Stati di chiedere il raggiungimento di alcuni requisiti legati al reddito, all’alloggio e alla capacità di automantenimento dei ricongiunti e, contenendo una definizione dei familiari di cui gli Stati possono autorizzare l’ingresso entro il territorio, delinea la struttura che la famiglia ricongiunta deve assumere. Per chi vuole ricongiungere i propri familiari nel contesto di immigrazione ci sono dei requisiti da rispettare:  La direttiva richiede un alloggio considerato normale e che corrisponda alle norme di sicurezza;  La famiglia ricongiunta deve riprendere il modello familiare nucleare. Dunque, coniuge e figli minorenni (e in casi particolari e in grave stato di necessità i figli maggiorenni e genitori degli sposi)  modello di famiglia nucleare, eterosessuale e monogamica. La direttiva sottolinea inoltre la centralità del vincolo matrimoniale.  per chi si allontana da questo modello: è prevista ampia discrezionalità di ogni Stato UE la decisione su come precedere (quindi ci sono divergenze delle legislazioni nazionali);  Legame di dipendenza tra ricongiungente e ricongiunto poiché la data di scadenza del permesso di soggiorno del familiare non può andare oltre a quella del soggiornante  subordinando la condizione amministrativa del ricongiunto a quella del primo migrante e alla sua situazione contrattuale e lavorativa (doc. di soggiorno e contratto di lavoro sono nuovamente legati). Ma dipendenza anche economica, in quanto deve mostrare di poter mantenere la famiglia nel paese di immigrazione per poter ricongiungerli. Italia Soprattutto la legge Bossi-Fini ha introdotto forme di restringimento (attraverso innalzamento di parametri e requisiti socio-materiali per l’ottenimento del nulla osta, ma anche dei familiari ammessi) in ambito di ricongiungimento. Requisiti: economici (reddito minimo annuo), abitativi. La normativa italiana: - agisce da filtro selettivo dell’immigrazione  rende possibile l’ingresso di soggetti giovani che possano inserirsi nel mercato del lavoro e frena l’ingresso di coloro che rappresentano un costo per la società ricevente, in un quadro di taglio alla spesa sociale e alle risorse del welfare (genitori del primo migrante, +65 anni, senza figli in patria, gravi motivi di salute). - la legge vincola la durata del permesso di soggiorno del familiare ricongiunto a quella del permesso di soggiorno del ricongiungente. - I figli che raggiungono i 18 anni per mantenere il permesso di soggiorno devono inserirsi nel mercato del lavoro o continuare gli studi (sono spinti a intraprendere percorsi più brevi e più professionalizzanti per ottenere più facilmente il permesso)  si rafforzano le disuguaglianze sociali su base etnico-nazionale. Le politiche migratorie stabiliscono chi fa parte della famiglia, cos’è la famiglia e le performance che dovrebbe mettere in atto (i ruoli di ognuno).  Per queste donne (straniere, donne, nere) è presente una discriminazione multipla. Molte intervistate si sentono escluse dai servizi di protezione perché sudamericane. Comportamenti ammissibili e comportamenti rischiosi Ci sono modelli di comportamento che sono impiegati nell’orientare i propri comportamenti. Comportamenti rischiosi, che renderebbero le donne che li agiscono più vulnerabili alle violenze: es. codici di abbigliamento o le indicazioni sulla fruizione dello spazio pubblico. Questi suggerimenti danno una rappresentazione secondo la quale la responsabilità della violenza è condivisa anche dalla donna (che ne è vittima). È una rappresentazione che deresponsabilizza l’aggressore. La violenza diventa una sanzione dotata di senso, spiegabile, comprensibile. Accettando questa distinzione di comportamenti ammissibili e no, le donne partecipano alla riproduzione del dominio maschile. Molte intervistate si sono trovate nella condizione di non volersi sposare con il partner italiano per paura che i familiari del partner le ritenessero “spose per interesse”. Oltre a questo, hanno accettato tanti altri comportamenti sempre per paura delle rappresentazioni che la società e i legami familiari del partner potrebbero avere di loro (“lo sposi per avere i doc. in regola”). In questo modo compartecipano alla costruzione della loro vulnerabilità, si privano di alcuni loro diritti, per reagire agli stereotipi di “spose per interesse”. Si vogliono mostrare come “donne che vogliono solo l’amore” e totalmente disinteressate agli aspetti materiali, trovandosi talvolta in situazioni di vulnerabilità.  Più difficile per le migranti accedere alle risorse materiali e sociali.  Legame tra permesso di soggiorno e di lavoro.  Rete sociale scarsa.  Difficoltà a trovare gli alloggi.  L’informalità burocratica. Tutte cose che portano spesso a non ricorrere a tutele legali in caso di molestie. Spesso non ci si rivolge ai sindacati perché si lavora in nero. Come posso negoziare o denunciare quando non sono in regola? Famiglie ricongiunte. Esperienze di ricongiungimento di famiglie del Marocco, Pakistan, India Tognetti Bordogna Presupposto: sono necessari nuovi approcci di studio dei processi di ricongiungimento familiare. Le teorie fino ad ora formulate circa il processo di ricongiungimento familiare non sono più sufficienti per analizzare e intervenire nel contesto dinamico che è oggi l’Europa. Si tratta, infatti, di teorie che adottano un approccio economico allo studio delle famiglie della migrazione, approccio che non consente di cogliere tutte le specificità e le dinamiche. Nella letteratura classica, infatti, le migrazioni vengono solitamente osservate attraverso 2 diversi approcci: - Approccio microsociologico  i processi migratori sono considerati l’esito della somma delle decisioni individuali in relazione alla ineguale distribuzione geografica della terra, del lavoro, del capitale e/o delle risorse. Questo approccio concepisce i migranti come attori che decidono, sulla base di un calcolo razionale di costi e benefici, dove e quando investire i capitali di cui dispongono per ottenere un guadagno prevalentemente economico. Limiti di questa interpretazione: il comportamento migratorio dei singoli tende ad essere interpretato solo in chiave utilitaristica; il soggetto è concepito solo come “uomo economico” e così facendo non si riescono a spiegare quei comportamenti individuali e collettivi che si discostano dal comportamento razionale rispetto allo scopo. Inoltre, non vengono abbastanza considerati i fattori strutturali entro cui si inscrivono i processi migratori e che ne condizionano gli esiti, quali: le politiche governative, l’atteggiamento della pubblica opinione e della società civile verso gli stranieri, la preesistenza o l’assenza di una comunità etnica… - Approccio macrosociologico  tende a considerare le migrazioni come un processo causato da cambiamenti strutturali di tipo economico e politico. Questo approccio evidenzia gli effetti negativi dei processi di decentramento produttivo verso le aree periferiche del sistema capitalistico, in termini di inasprimento della diseguaglianza economica. In quest’ottica le migrazioni appaiono intrinsecamente connesse ai processi di globalizzazione economica. Limiti di questa interpretazione: prevale la considerazione dei migranti come soggetti tendenzialmente passivi, in balia di forze sovrastanti. Sono, quindi, necessari nuovi approcci, capaci di cogliere la complessità di tale processo. Nel testo vengono individuati due approcci sviluppati più di recente e ritenuti maggiormente efficaci, che portano a concepire le migrazioni come sistemi circolari, interdipendenti, progressivamente sempre più complessi e mutevoli: L’approccio del networking Uno di questi nuovi approcci è quello basato sullo studio dei networks (= studio delle reti sociali)  esso si colloca ad un livello intermedio fra le visioni micro o macro e insiste sulla dimensione sociale, non unicamente razionale o economica, delle migrazioni internazionali. Secondo questo approccio, le migrazioni risultano strettamente connesse all’esistenza di reti di relazioni interpersonali tra migranti e non migranti, fra coloro che sono partiti e coloro che sono ancora nel paese di origine. I network, intesi come insiemi complessi di legami di amicizia, parentela, affinità e comunanza d’origine che collegano i soggetti fra loro nelle aree di origine e in quelle di arrivo condeterminano i movimenti migratori nel tempo. L’approccio di rete, dunque, colloca le decisioni individuali entro gruppi sociali che, parimenti, mediano fra i comportamenti soggettivi e le condizioni strutturali di tipo economico e politico. L’approccio di rete assume che la migrazione avvenga nell’ambito di una serie di relazioni che sono in grado di condizionare o indirizzare le valutazioni soggettive, e di svilupparsi a prescindere dai condizionamenti strutturali di tipo economico e politico. La migrazione è vista come un processo che allo stesso tempo dipende dal network e lo crea. In sintesi, tale approccio, dando risalto alla dimensione sociale della migrazione e al ruolo centrale delle relazioni fra gli individui e i collettivi, vede l’insieme delle relazioni degli individui e dei collettivi alla base della scelta migratoria. In questi studi, quindi, la famiglia viene vista come parte della rete e come un agente di socializzazione, che sostiene il gruppo geograficamente disperso e costituisce reti di assistenza, d’informazioni e di obblighi. La decisione di migrare è raramente il frutto di un processo decisionale individuale, la sua tempistica è strettamente correlata al ciclo della vita familiare e agli eventi importanti del corso della vita della prima e della seconda generazione di immigrati, e non è necessariamente una risposta diretta alle opportunità del mercato del lavoro. L’approccio transnazionale Tale approccio intende le migrazioni come processi e sostiene che gli immigrati sono inseriti in un campo sociale transnazionale. Questo fa si che l’analisi si concentri sui network che collegano migranti e non migranti, sia in senso morfologico che, soprattutto, qualitativo. Per i migranti, far parte di un campo sociale transnazionale significa per esempio assumere nello stesso tempo ruoli e obblighi riconducibili sia al gruppo di origine sia ai gruppi di elezione nella società di approdo. L’unità di indagine privilegiata sono gli individui e le loro reti sociali e l’attenzione è posta su fenomeni di transnazionalismo dal basso, che si contrappongono a fenomeni di globalizzazione. Secondo questo approccio, la struttura e il modo di essere famiglia, oggi, hanno assunto nuove forme e modalità, che vanno oltre alla vicinanza fisica dei membri e la relazione quotidiana tra di essi. Esso, quindi, intende le famiglie migranti come un fluido costantemente ricostituito e rinegoziato, attraverso lo spazio e il tempo. Inoltre, secondo questa lettura, il campo sociale transnazionale all’interno del quale sono inseriti i singoli e le famiglie migranti, è caratterizzato da un regime di stratificazione civica che influenza e delinea a sua volta i processi di ricongiungimento. Più che di famiglie ricongiunte dovremmo parlare di pluralità dei ricongiungimenti, anche all’interno dello stesso gruppo geo culturale, sia per quanto riguarda le modalità e le pratiche di ricongiungimento, sia per i vissuti e le aspettative. Per quanto riguarda le modalità del ricongiungimento, esse possono essere differenziate sia in relazione al genere di chi lo attiva, sia del familiare che viene ricongiunto che della nazionalità di appartenenza. Eccone alcune tipologie: - Ricongiungimento al maschile  ricongiungimento in cui il primo a emigrare è il maschio - Ricongiungimento al femminile  in cui il primo migrante è femmina - Famiglia completamente ricongiunta  quando figli e coniuge del ricongiungente sono tutti stati ricongiunti nel paese di immigrazione del primo - Famiglie parzialmente ricongiunte  quando il ricongiungimento avviene solo per alcuni membri della famiglia mentre con gli altri rimasti nel paese di origine si attivano rapporti di tipo transnazionale Oltre che alle diverse modalità di ricongiungimento, vi sono anche diverse percezioni di esso, che variano in relazione al genere, all’età e al paese di provenienza dei diversi soggetti. Nonostante il confinamento della famiglia ricongiunta, da parte della normativa, ad un modello standard, nella realtà le forme famiglia assumono forme articolate e plurali, ecco di seguito le nuove tipologie di famiglie della migrazione: - Famiglia transnazionale  costituita da individui che, pur legati fra loro da legami affettivi e matrimoniali, vivono l’esperienza di famiglia in contesti diversi, spesso anche fisicamente molto distanti tra di loro. Tema centrale: modalità con le quali i diversi membri si tengono in contatto e quali implicazioni hanno queste sulle relazioni, sui ruoli di genere e su quelli intrafamiliari. Queste forme famiglia possono essere: o Completamente transnazionali: nessun componente è stato ricongiunto o Parzialmente transnazionali: alcuni componenti sono stati ricongiunti - Famiglia monogenitoriale  tipologia di nucleo che troviamo sempre più nel contesto migratorio. - Nuove unioni  queste tipologie di famiglie possono essere formate nel contesto migratorio dopo la migrazione di entrambi i partner, oppure costruite con un componente rimasto al paese di origine che, dopo il matrimonio, viene ricongiunto. - Famiglie ricostituite  si tratta solitamente di famiglie composte da donne immigrate che hanno “sfruttato” la migrazione come mezzo per separarsi dai mariti e che hanno ricostituito una nuova famiglia nel paese di arrivo. Si tratta di una realtà sempre più evidente nel nostro Paese, legata alla crescita della presenza femminile nei flussi migratori. - Famiglie miste  composte da 1 partner autoctono ed 1 immigrato. Si tratta di una realtà emergente e in continua crescita in una prospettiva futura. Queste forme familiari costituiscono una vera e propria rivoluzione culturale in quanto spesso, mettono in discussione le regole matrimoniali delle rispettive famiglie ma anche quelle della società di appartenenza. - Famiglie miste miste  entrambi i coniugi sono immigrati nel paese terzo dove si sono conosciuti e sposati e hanno creato la nuova famiglia. - Famiglie combinate  negoziate o forzate, spesso dalle rispettive famiglie di origine dei nuovi coniugi e per motivi economici. - Famiglie circolanti  i cui membri alternano momenti di emigrazione e momenti nel paese di origine. La stratificazione civica È l’insieme del sistema di ineguaglianze fondate sulla relazione tra differenti categorie di individui e lo Stato e la relativa attribuzione/negazione di differenti pacchetti di diritti. Questo meccanismo di stratificazione civica ha effetti profondi sul percorso di inclusione socio – giuridica, sia di chi ricongiunge o è ricongiunto, che delle famiglie ricongiunte. I diversi status dei migranti (residente a lungo termine, residente a breve termine, irregolare) corrispondono a diversi spettri di cittadinanza proporzionali al crescere dello status a cui si appartiene. Il passaggio da uno status all’altro è controllato sulla base delle regole di transizione che consentono lo slittamento da una fase all’altra. Perché questo avvenga, però, i migranti sono tenuti a mostrare di possedere i requisiti per continuare a stare in un dato status o per poter avanzare ad uno status superiore. Ad ogni status corrisponde un pacchetto di diritti differenti: per esempio, il diritto al ricongiungimento familiare può essere esatto solo se si possiedono determinati requisiti di Una parola va spesa anche per quanto riguarda le condizioni di vita all’interno dei CPR (centri di permanenza per il rimpatrio). In queste strutture non sono state applicate nemmeno le più semplici e basilari misure per impedire la diffusione del virus, così sono scoppiati numerosi focolai nonostante i quali i centri non sono stati chiusi ma hanno continuato a ricevere nuovi ospiti. Si consideri poi l’arbitraria applicazione della legge 658/2020 riguardante le misure volte a supportare i cittadini in difficoltà economica, attraverso la consegna di buoni alimentari o borse della spesa. Questa disposizione è stata interpretata in modi molto diversi ed applicata con arbitrarietà dalle diverse amministrazioni comunali, spesso escludendo le persone rifugiate e richiedenti asilo, dando così vita a numerose discriminazioni. Nel nostro paese (come nella maggior parte degli stati europei) è praticamente inesistente una politica volta a garantire visti di ingresso per la ricerca lavoro o a stabilire quote di ingresso per lavoro autonomo, stagionale e a tempo indeterminato. Così, il Mediterraneo, così come la penisola balcanica e quella iberica, sono diventate le principali rotte che vengono percorse da rifugiati e richiedenti asilo con la speranza di poter raggiungere l’Europa. Il nostro, non è un sistema che prende in considerazione le persone, ma che guarda soltanto ad esse come un problema da confinare e contenere. Il sistema italiano è stato trasformato in un sistema volto a contenere piuttosto che accogliere, che allontana le persone piuttosto che creare occasioni di incontro nelle società locali, che disciplina piuttosto che promuovere socializzazione e autodeterminazione. L’esperienza della “Wonderful World House” a Parma viene presentata come una reazione alle politiche di esclusione adottate a livello nazionale con il d.l. 113/2018 e la l. 132/2018 ed è descritto come uno spazio che offre opportunità di incontro e di autodeterminazione sia agli immigrati che agli italiani. Nel corso degli anni, a seguito dell’Emergenza Nord Africa, è andato sviluppandosi sempre più un sistema di accoglienza basato sui grandi centri, solitamente isolati dai centri abitati e dai servizi pubblici. Tuttavia, la consapevolezza dei risultati positivi che un approccio volto alla promozione dell’integrazione sociale avrebbe potuto portare, ha condizionato e ispirato alcune esperienze che hanno visto coinvolti la società civile, le istituzioni locali e gli enti del terzo settore. Questo tipo di approccio ha sempre considerato il welfare pubblico universalistico come la chiave fondamentale, non solo nell’ambito dell’assistenza e dell’accoglienza di persone richiedenti asilo e rifugiate, ma come via da seguire per la realizzazione di una piena e vera cittadinanza, per lo sviluppo della partecipazione sociale e per la promozione di relazioni interculturali nei contesti locali. Si tratta di un approccio che rientra nella cosiddetta “Community Based Protection”, proposta dall’UNHCR come una strategia per garantire una vera protezione ai rifugiati ma anche per promuovere lo sviluppo delle comunità locali. Il 23 dicembre del 2019, Wonderful World House ha aperto le sue porte ai primi due ragazzi immigrati che, solo nel corso delle settimane successive sono diventati 10. Si trattava di persone che prima vivevano in case abbandonate, nelle stazioni o in altri posti poco sicuri della città; la maggior parte di loro era in possesso della protezione umanitaria mentre altri erano richiedenti asilo. I candidati vengono selezionati da una lista di attesa stipulata a livello territoriale, sulla base di diversi criteri di urgenza. Quando entrano nel progetto, gli ospiti firmano un accordo di accoglienza della durata di 3 mesi (rinnovabili) nel quale vengono presentati gli impegni dell’Associazione, così come i loro. Il progetto offre ai ragazzi gli stessi servizi che vengono offerti dagli SPRAR/SIPROIMI. La partecipazione dei volontari è un elemento fondamentale del progetto in quanto vuole mostrare un modo diverso di fare accoglienza e di promuovere l’integrazione delle persone immigrate, volontari che stanno lì durante la giornata. Per questo, l’esperienza di Wonderful World House viene vista come un’occasione di innovazione sociale. A Trento, gli intervistati chiave mostrano come, a seguito del cambio di rotta politica, non potendo più fare affidamento al sistema della provincia, il terzo settore e le associazioni si sono dovute inventare in maniera creativa e collaborante per trovare alternative inclusive. Sono stati creati front-office informativi per le pratiche legali dei richiedenti asilo e rifugiati e per il rinnovo documenti, intensificati i corsi di italiano, servizi per i senza fissa dimora e soluzioni abitative per chi esce dalla “bolla dell’accoglienza”. Dal punto di vista lavorativo si tenta di orientare tramite invio CV attraverso canali formali e informali. Il lavoro è la fonte principale di perdita di fiducia nelle istituzioni Le lotte dei richiedenti asilo in Italia Le lotte dei richiedenti asilo sono presenti dagli ultimi decenni degli anni Novanta ma è solamente dal 2011 che i richiedenti asilo vengono riconosciuti come soggetti politici, che difendono i loro diritti e dignità, parallelamente all’ottenimento dell’accoglienza. I richiedenti asilo in ogni caso creano lotte e questo è ottimale per i conflitti sociali, dando voce ai migranti lavoratori e, in generale, ai lavoratori. Ciò fa riflettere il mondo politico rispetto la relazione tra immigrazione e capitalismo, rispetto la relazione tra lavoratori nazionali e migranti e rispetto le lotte sociali e le lotte dei migranti. Potrebbe esserci un grande movimento unitario di solidarietà tra le persone svantaggiate, che non sono solo i richiedenti asilo ma, di fatto, non è possibile a causa di altri meccanismi che dividono e disprezzano (fanno disprezzare) l’altro, a partire dal razzismo istituzionale. Ci sono varie esperienze in Italia di lotte e auto-organizzazione degli immigrati, già a partire dagli anni 90 che si suddividono in: - Associazionismo (ass. religiose, culturali ecc): fragile a causa della poca stabilità lavorativa, giuridica degli immigrati. - Partecipazione a sindacati: forte a partire dagli ultimi due decenni, ha visto prima un avvicinamento degli immigrati ai sindacati e poi si sono avvicinati loro stessi agli altri. Le manifestazioni hanno dato origine al Sindacato Cobas, che, nel corso del tempo ha iniziato ad occuparsi in maniera più globale alla questione immigrazione. La partecipazione alle manifestazioni vedeva partecipare anche i richiedenti asilo. Es: Jerry Masslo (sudafricano, bracciante agricolo in Campania, ucciso dalla malavita organizzata presente soprattutto laddove c’è il caporalato, poiché si era lamentato delle paghe basse). Dal 2011 al 2017 ci sono state 390 manifestazioni occasionali, con durata di qualche ora/giorno e senza conseguenze. Si riferivano soprattutto alle condizioni di vita all’interno dei centri, al cibo, clima, vestiti, paghetta, possibilità di uscire; si riferivano anche ad aspetti legali, di lentezza nell’esaminazione delle domande, dei molti dinieghi e degli atteggiamenti violenti degli operatori dei centri. Prendevano spazio fuori dai centri, nelle strade, nei porti o di fronte alle sedi istituzionali e consistevano in scioperi della fame, picchetti, blocchi stradali. I migranti hanno partecipato anche a mobilitazioni organizzate, più strutturate in cui sicuramente c’erano tra le motivazioni le condizioni di vita ma c’erano anche i macro- argomenti delle politiche sull’immigrazione e del sistema di accoglienza. Caratteristica peculiare è la partecipazione di associazioni, sindacati indipendenti e ONG. Le modalità sono simili a quelle delle proteste occasionali ma hanno una durata e un impatto maggiore. La barzelletta del grande equalizzatore: covid e disuguaglianze La crisi ha colpito tutti i paesi, tutti i lavori tanto che alcuni governatori l’hanno definita “grande equalizzatore” ma non è così. La possibilità di contrarlo e la prevenzione e cura del covid dipendono dalla classe sociale e dalla struttura di relazioni sociali: - il contagio è minore per le persone che hanno auto private e vivono in abitazioni proprie mentre è più facile nelle situazioni di sovraffollamento abitativo o di utilizzo di mezzi pubblici. - l’esposizione è stata inevitabile per la classe operaia che non poteva fare smart working. Sono stati i primi, infatti, ad essere colpiti dalla disoccupazione e per evitare di perdere il permesso di soggiorno hanno accettato condizioni di lavoro ai limiti della dignità. - aggiungiamo poi poca possibilità di accesso ai test, poco accesso ai trattamenti sanitari e ai dispositivi di sicurezza personale, maggiore presenza di malattie preesistenti (es. diabete). - Circolare del ministero dell’interno dell’aprile 2020: ha dato pieno diritto ai responsabili dei centri di accoglienza di adottare anche misure coercitive per impedire l’uscita dei richiedenti, in contrasto alle normative che lasciavano le persone partire per comprovati motivi professionali o di salute o per svolgere attività motoria. La condizione di vita dei richiedenti asilo all’interno dei centri di accoglienza ha permesso il diffondersi del Covid. Non si era in grado di mantenere il distanziamento a causa del sovraffollamento e, nei casi di positività, solamente ¼ sono stati posti in isolamento. La condizione dei migranti è peggiorata dal punto di vista lavorativo (aumento disoccupazione, squalificazione), salute (aumento tassi di contagiosità legati a condizioni lavorative, abitative), negli alloggi (poca disponibilità). Ha sottolineato la duplice disuguaglianza degli immigrati, in quanto lavoratori e stranieri. Triplice nel caso nelle donne, in quanto tali. Tutti questi aspetti sono però “tollerati” poiché il lavoratore straniero, ricattabile, che accetta ogni condizione e ogni salario fa comodo all’economia italiana. Uno dei settori con più lavoratori nel nostro Paese è l’agricoltura. Con l’arrivo del covid il governo ha deciso di fare una sanatoria, a vantaggio più dell’economia che dei lavoratori poiché questi settori avevano bisogno di manodopera a basso costo, nei settori alimentare, di cura, pulizia. Sanatoria elettiva che permette di comprendere la logica di profitto sottostante piuttosto che la tutela dei diritti delle persone. L’intento è quello di regolarizzare gli stranieri irregolari e far emergere lo sfruttamento lavorativo e il lavoro irregolare. Nel testo del decreto si dice che il provvedimento è legato a ragioni di natura sanitaria (es. per lavorare in condizioni di sicurezza e per l’accesso a tutti i servizi sanitari per il contenimento dei contagi). Tuttavia, il fatto che il provvedimento si riferisca solo a situazioni specifiche e ristrette fa pensare che sia una risposta alla domanda di offerta di lavoro in alcuni settori del mercato del lavoro italiano e non un concreto tentativo di contenere la diffusione del contagio. Ma il DL 34 fa riferimento solo ad alcuni settori produttivi, e lascia inosservati i settori tessile, ingegneristico e del turismo, dove emergono situazioni di sfruttamento di manodopera straniera. COMMA 1  è il datore di lavoro che deve presentare domanda per il proprio lavoratore immigrato irregolare, il quale quindi è dipendente dalle azioni del proprio datore di lavoro. Devono persuadere coloro che li impiegano illegalmente a denunciare l’irregolarità, aprendo la strada a un mercato informale di vendita di contratti di lavoro. COMMA 2  possono fare domanda da soli solamente i soggetti a cui è scaduto il permesso di soggiorno e che sono in attesa di rinnovarlo a causa dei ritardi amministrativi causati dalla chiusura delle questure per COVID. E i richiedenti asilo? Possono prendere questa strada anche loro, ma ritirando la loro domanda di protezione umanitaria (che è un diritto soggettivo assoluto) solo per poter avere un permesso di ricerca di lavoro entro sei mesi (nel contesto di crisi economica attuale sono pochi). Trattando così il fenomeno dell’irregolarità come, ancora una volta, emergenziale, e non come il risultato strutturale della chiusura dell’accesso legale (e quindi come il risultato delle politiche stesse). Possono chiedere la regolarizzazione solo tre settori produttivi: - Agricoltura/allevamento e simili - Lavoro domestico - Assistenza E con i seguenti requisiti: - Permesso di soggiorno con scadenza dopo il 31 ottobre 2019 - Presenza in Italia entro l’8 marzo 2020 Per chi ha la proceduta di richiesta di asilo ancora in corso: non è possibile convertirla in un permesso per lavoro (ancora, con eccezione dei tre settori sopra citati…) – ciò porta al procedimento contrario in caso di esito negativo della domanda – a irregolarità. Le richieste di regolarizzazione sono avvenute per lo più da migranti in situazioni stabili (es. con un capitale relazionale e sociale più elevato), e che avessero un datore di lavoro (o un intermediario che trovi un datore di lavoro) disponibile ad avviare la procedura. Questa possibilità (e il relativo costo) non è accessibile ai richiedenti asilo all’interno dei campi informali. Nuovamente, gli immigrati sono diventati gli attori fondamentali per il rilancio del settore agricolo italiano dopo la pandemia, rimanendo però continuamente esposti ad un alto rischio di contagio, ricevendo in cambio un permesso di soggiorno temporaneo e di breve durata. Strumentalizzazione della pandemia: pregiudizio degli immigrati come portatori di malattie, invasori e approfittatori. La situazione di allerta sanitaria in alcuni centri di accoglienza era sicuramente legata alla inadeguata gestione dell’accoglienza (senza efficaci protezioni) che riproduceva dei ghetti. Ha rappresentato le vittime come le responsabili dell’epidemia. Il dibattito pubblico e politico a seguito di questi eventi ha rappresentato l’immigrato come portatore di peste, strumentalizzando il linguaggio che alimenta timori ingiustificati. La seduta non è pubblica, e il richiedente può farsi assistere a sue spese da un legale (gratuito patrocinio), se vulnerabile può essere ammesso del personale di sostegno. L’audizione è inammissibile (quindi anche la domanda) se il richiedente ha già una protezione in un altro Stato e se reitera un’identica domanda senza nuovi elementi. La decisione della CT avviene tramite PEC, se in accoglienza, oppure tramite poste all’ultimo domicilio dichiarato. La domanda può essere accettata o diniegata. Il diniego può avveni Per fronteggiare l’esodo dei profughi ucraini, il 4 marzo 2022, l’Unione Europea ha applicato per la prima volta la Direttiva 55/2001/CE. La direttiva si applica nei casi in cui il Consiglio dell’Unione europea conferma “un afflusso massiccio di sfollati” che non possono rientrare nei loro Paesi, soprattutto a causa di guerre, violenze o violazioni dei diritti umani, e avvia l’attuazione di “misure intese a garantire l’equilibrio e gli sforzi tra gli Stati membri che ricevono tali persone e subiscono le conseguenze dell’accoglienza stessa”. La protezione temporanea, a seguito dell’attivazione da parte del Consiglio UE, deve essere applicata in tutti gli Stati membri, a prescindere dal fatto che questi abbiano o meno approvato l’attivazione. Dal 4 marzo 2022, i cittadini ucraini e i loro familiari, i cittadini non ucraini e gli apolidi che beneficiano di protezione internazionale in Ucraina e i loro familiari, i cittadini non ucraini titolari di un permesso di soggiorno permanente che non possono tornare nel proprio paese di origine possono richiedere al Questore la protezione temporanea. Il regime di protezione temporanea consente agli sfollati di godere di diritti di soggiorno, accedere al mercato del lavoro, all’istruzione, ad un alloggio, all’assistenza sociale e medica. I cittadini ucraini una volta in possesso del permesso di soggiorno per protezione temporanea, possono circolare liberamente in Unione Europea per un periodo di 90 giorni. Inoltre, beneficiare della protezione temporanea non preclude la possibilità di richiedere la protezione internazionale o altre forme di protezione previste nel paese ospitante. La protezione temporanea dura un anno dal giorno in cui essa viene attivata dal Consiglio, ma tale termine può essere ridotto o prorogato di un altro anno. Si specifica che si sente spesso parlare di “permesso di soggiorno di durata annuale”, quando in realtà è la protezione ad avere durata annuale, a partire dal 4 marzo 2022, di conseguenza il permesso rilasciato scadrà il 4 marzo 2023, a prescindere dalla data di rilascio dello stesso. Questo permesso di soggiorno viene emesso a titolo gratuito, quindi esente dall’imposta di bollo o da un contributo di stampa (a differenza di quelli sopra) – no bollettino di 80,46€, no marca da bollo da 16€. L’Italia è sempre stata colta impreparata nel fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione. L’arrivo nelle nostre comunità dei cittadini immigrati ha creato nuovi bisogni, in particolare è stata percepita la forte necessità di “collocare” un numero sempre maggiore di persone. Proprio per questo motivo, nel corso degli anni, le politiche e le istituzioni si sono concentrate sul tema dell’accoglienza in modo differente e molto spesso contrastante. I diversi orientamenti dei numerosi Governi italiani che si sono succeduti, la direzione intrapresa dall’Unione Europea e le esigenze effettive che si sono presentate nel corso del tempo hanno dato luogo a una normativa complessa, spesso poco chiara che ha creato un sistema di accoglienza strutturato su più livelli. In Italia l’accoglienza è strutturata principalmente su due binari paralleli. Il primo, quello che dovrebbe essere l’ordinario, è il Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI), il secondo è invece composto dai Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). All’inizio e a lato di questi due binari troviamo gli hotspot, i centri di prima accoglienza, che dovrebbero ufficialmente aver sostituito i CPSA (Centri di Primo Soccorso e Accoglienza), i CDA (Centri di Accoglienza) e i CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo). In realtà la transizione tra questi ultimi ai centri di prima accoglienza è stata realizzata con estrema lentezza, tanto che le diverse sigle sono coesistite per un lungo periodo. Ci sono poi i CPR (Centri di Permanenza e Rimpatrio), che sono gli ex CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione). I CAS sarebbero stati immaginati come strutture di prima accoglienza straordinarie, in caso di arrivi ravvicinati e consistenti di cittadini stranieri. Infatti, all’esaurimento dei posti nei centri di prima e seconda accoglienza, i richiedenti asilo dovrebbero essere inseriti in strutture “temporanee”, fin tanto che la macchina dell’accoglienza lavori per trasferire le persone in altri progetti di accoglienza (regola inserita nel d. lgs. 142 del 2015). Queste strutture sono individuate, attraverso bandi di gara, dalle Prefetture territoriali, e sono generalmente gestite da enti dei Terzo Settore, come cooperative ed associazioni. A seguire la norma, i Cas dovrebbero quindi rappresentare l’ultima possibilità e risorsa, in caso in cui i posti negli altri circuiti siano saturi. In realtà, questo sistema di accoglienza è diventato consuetudinario. Il problema è che il nostro sistema di accoglienza prevede troppi pochi posti nelle strutture di accoglienza di secondo livello, che dovrebbero essere la scelta ordinaria, e punta tutto sul sistema CAS. I Cas dispongono di uno schema di capitolato di appalto, che mira a definire quali beni e servizi devono essere erogati nella gestione dei centri di accoglienza. Nel documento pubblico sopra menzionato, si parla di “registrazione dello straniero (…) e rilascio di un tesserino per la registrazione delle entrate e delle uscite tramite sistema di rilevazione automatico delle presenze – se esse consentite”, “la comunicazione giornaliera alla Prefettura delle presenze del centro”, la fornitura di “pasti giornalieri tramite derrate alimentari”, menzionando poi altri tipi di servizi essenziali che vengono però lasciati in disparte nella quotidianità operativa di un operatore sociale, poiché la burocrazia da rispettare ha forzatamente la meglio. Si intendono i servizi di segretariato sociale, l’assistenza sociosanitaria, i servizi di mediazione linguistico- culturale, di orientamento sul territorio, di inclusione lavorativa e sociale. La modifica più significativa a questo modello di accoglienza avviene con i Decreti Sicurezza degli anni 2018/2019 nei quali si delinea una politica di razionalizzazione degli appalti e di compressione dei costi di gestione. Nei nuovi capitolati si prediligono i centri collettivi più numerosi, a discapito dell’accoglienza diffusa in singole unità abitative. L’ultima modifica legislativa, avvenuta con il Decreto Lamorgese, che ha introdotto i SAI in sostituzione dei SIPROIMI, non ha modificato in alcun modo i circuiti CAS. Il D.L. 21 ottobre 2020, n.130, convertito in Legge 18 dicembre 2020 rinomina il Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati SIPROIMI in SAI, Sistema di accoglienza e integrazione.  La rete SAI è costituita agli enti locali (grandi città o cittadine di provincia) che accedono alle risorse del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo per realizzare l’accoglienza ai richiedenti asilo e rifugiati. La presa in carico del progetto avviene dalle realtà del Terzo Settore, ovvero gli enti gestori, che mirano a garantire un’accoglienza diffusa e integrata con servizi di informazione, orientamento, formazione, integrazione, assistenza sanitaria e legale tramite percorsi individuali redatti in un PAI (piano di assistenza individuale). L’obiettivo a lungo termine dovrebbe essere la ri-conquista della propria autonomia, anche a livello economico ed abitativo. All’interno di questo sistema ci sono dei progetti specializzati per persone con specifiche vulnerabilità, come minori stranieri non accompagnati, persone con disabilità, donne sole o vittime di tratta o tortura. Il Ministero dell’Interno, al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione ha istituito il Servizio Centrale. Il Servizio Centrale è il principale organo di monitoraggio, assistenza e diffusione delle informazioni del circuito SAI, che si avvale di una banca dati online che racchiude tutti i dati e gli interventi realizzati in favore dei beneficiari del progetto. Il Servizio Centrale è anche l’ente che segnala agli enti locali i possibili inserimenti, su precedente segnalazione dei singoli progetti territoriali o di enti terzi (come Prefetture e Questure). Gli hotspot e i Cas sono considerati di responsabilità esclusiva del Ministero dell’Interno che opera attraverso le prefetture, mentre il Sau, la seconda accoglienza, è di responsabilità del Servizio Centrale, istituito all’interno del Dipartimento delle Libertà Civili dell’immigrazione del Ministero dell’Interno e affidato all’ANCI (Associazione nazionale comuni italiani). Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Italia è stata principalmente un Paese di emigrazione piuttosto che di immigrazione. I primissimi flussi migratori si registrano intorno agli anni 50, anche se si caratterizzano da un’incidenza notevolmente più bassa rispetto a quelli di altre nazioni europee (Francia, Germania e Gran Bretagna) in piena espansione economica e quindi alla ricerca soprattutto di manodopera a basso costo. Questi primi flussi comprendono i profughi ex prigionieri del Terzo Reich, gli esuli dell’Istria e della Dalmazia, ex coloniali, jugoslavi, dissidenti polacchi, che rappresentano a tutti gli effetti un lascito della guerra e delle sue conseguenze. In questa prima fase il Ministero dell’Interno italiano assume principalmente un ruolo di vigilanza e di monitoraggio. Sull’immigrazione pesa ancor in modo determinante il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS) del 1931, che prevede l’obbligo di visto per l’ingresso degli stranieri. Al contempo, a livello Europeo, viene affrontato e definito il Diritto di Asilo con la Convenzione di Ginevra del 1951. Tale diritto viene riconosciuto anche dalla Costituzione Italiana all’art 10, ma di fatto, non esiste una legge specifica di riferimento fino agli anni 90, con la legge Martelli, legge 39/1990. Questa è la prima vera legge organica in materia di immigrazione. Le disposizioni emanate dalla legge riguardavano soprattutto le modalità di ingresso e le condizioni di soggiorno degli stranieri in Italia. La legge dedicava ampio spazio alla disciplina dei controlli alle frontiere esterne, ha introdotto il contingentamento degli ingressi (tramite quote), chiamata nominativa (preesistenza di un posto nel mercato del lavoro) e ha dato disposizioni rispetto all’iter burocratico per l’ingresso dell’immigrato da parte del datore di lavoro. Nel 1998 viene approvata la legge n. 40, la cosiddetta legge Turco-Napolitano, che è poi stata consolidata nel d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”. Il Testo Unico interviene nel diritto dell’immigrazione definendo le regole di ingresso, di soggiorno, di controllo, e di repressione. Si può affermare che i principi cardini del testo unico sono la programmazione dei flussi migratori (sistema delle quote), il contrasto all’immigrazione clandestina e la concessione di una serie di diritti per l’integrazione degli stranieri. Per programmazione dei flussi si intende che, sulla base della necessità di manodopera, il Governo italiano stabilisce il numero di stranieri che possono entrare in Italia per motivi lavorativi. Per quanto riguarda il contrasto all’immigrazione clandestina, con il Testo Unico, gli stranieri entrati in Italia senza visto di ingresso regolare sono considerati “clandestini”. “Irregolari” invece sono gli stranieri che non hanno più i requisiti per la permanenza sul territorio nazionale. L’ingresso e il soggiorno illegale sono considerati d’ora in poi un reato punibile, anche con l’espulsione. Uno degli strumenti per il contrasto all’immigrazione clandestina è il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Vengono, inoltre, istituiti i Centri di Permanenza e Temporanea (CPT), dove vengono collocati gli immigrati soggetti a provvedimenti di espulsione e respingimento. Il Testo Unico ha introdotto importanti, e controverse, novità nella legislazione italiana in materia di immigrazione, alcune anche positive come la possibilità del ricongiungimento familiare. A seguito della vittoria delle elezioni della coalizione di centro-destra nel 2002, viene promulgata la Legge 30 luglio 2002, n. 189, anche detta legge Bossi-Fini. Essa ha l’obiettivo di rendere la situazione straniera più precaria e meno protetta da tutele sociali e giuridiche.
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