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LAZARILLO DE TORMES + GUZMAN DE ALFARACHE, Appunti di Letteratura Spagnola

Introduzione, analisi e spiegazione di tutti i capitoli del Lazarillo de Tormes, ipotesi di paternità e datazione + Guzmàn de Alfarache di Mateo Alemàn

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 27/07/2020

Chiara.De_Fazio
Chiara.De_Fazio 🇮🇹

4.7

(108)

28 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica LAZARILLO DE TORMES + GUZMAN DE ALFARACHE e più Appunti in PDF di Letteratura Spagnola solo su Docsity! LAZARILLO DE TORMES L’opera del Lazarillo de Tormes è così intitolata poiché l’eroe eponimo è Lázaro de Tormes. Il titolo completo, in realtà, è un po’ diverso da quello della Vulgata: “La vida de Lazarillo de Tormes y de sus fortunas y adversidades”. Ecco alcuni frontespizi di varie edizioni dell’opera che recano il titolo per esteso, e che risalgono tutti alla stessa data, ovvero al 1554:  frontespizio del 1554, edizione stampata a Burgos da Juan de Junta;  frontespizio del 1554, edizione stampata Alcalá de Henares da Salcedo: la seconda parte del titolo dice “Nuevamente impresa, corregida y de nuevo añadida de segunda impresión” , ma, in questo caso, “de nuevo” significa “por primera vez” perché questa edizione presenta sei brevi nuove aggiunte (circa 2000 parole in più rispetto alle altre edizioni) che ampliano alcune avventure di Lázaro, mettono l’accento su alcuni aspetti satirici e lasciano aperta la porta a delle future nuove continuazioni. La dicitura “segunda impresión” ci fa capire che è una ristampa, la seconda stampa dell’opera. Possiamo sapere con esattezza la data di pubblicazione perché nel frontespizio si legge “si vende in casa di Salcedo Librero nel 1554”, ma nel colophon la data di stampa di questa edizione di Alcalá de Henares è il 26 febbraio 1554. Dunque grazie a questa edizione sappiamo che quella del 1554 non è la prima;  frontespizio del 1554, edizione stampata ad Anversa (nelle Fiandre) da Martín Nucio, con privilegio Imperiale. Fino al 1992 queste erano le tre edizioni più antiche conosciute del Lazarillo de Tormes. L’agosto del 1992 è una data importante perché è la data in cui avviene una scoperta clamorosa: viene scoperta, in modo del tutto casuale, la biblioteca clandestina di BARCARROTA (toponimo della popolazione di Extremadura, nella provincia di Badajoz) in cui erano contenuti 10 libri a stampa e un manoscritto, tutti del XVI secolo. Questa biblioteca era stata murata per occultarne il contenuto. Fu scoperta, molto banalmente, durante i lavori di ristrutturazione di un'abitazione privata: buttando giù una parete venne fuori questo vero e proprio “tesoro”, e tra i 10 libri a stampa, c’era un’edizione del Lazarillo de Tormes, fino ad allora del tutto sconosciuta:  frontespizio del 1554, edizione stampata a Medina del Campo dai fratelli Mateo y Francisco del Canto, sul quale sono raffigurati i due protagonisti della storia: Lázaro e il cieco. Il colophon ci dice che il Lazarillo di Barcarrota fu pubblicato nel 1 marzo 1554. I testi trovati in questa biblioteca risalgono tutti allo stesso periodo (composti tra il 1525 e il 1554) e hanno in comune il carattere eterodosso: erano stati tutti occultati (chi viveva allora in quella casa probabilmente riceveva visite di commissari del Santo Uffizio, i cosiddetti visitadores, che potevano fare sopralluoghi nei negozi di librai, nelle tipografie, ma anche nelle case private, soprattutto a seguito di denunce, per verificare se vi fosse conservato o messo in vendita qualche testo di dubbia ortodossia). Il proprietario di questa piccola biblioteca clandestina, quasi sicuramente un umanista, aveva occultato una serie di testi che erano stati proibiti dall'Inquisizione nel 1559: insieme al Lazarillo, vi erano: un manoscritto italiano di contenuto erotico, un piccolo trattato di esorcismo, un esemplare unico della Oración de la Emparedada in portoghese, un’edizione latina della Lingua di Erasmo, un trattato di chiromanzia, ecc. Il fatto che questi libri erano scritti o stampati in lingue diverse (latino, italiano, portoghese) ci fa capire che il proprietario era un umanista. Nel dicembre 1995, il Ministero della Cultura della Junta de Extremadura comprò questa biblioteca alla famiglia proprietaria di questa casa e presentò questi libri al pubblico in una mostra organizzata al Museo Extremeño e Iberoamericano de Arte Contemporáneo di Badajoz nel gennaio 1996. Il pezzo forte fu, ovviamente, il Lazarillo de Tormes, che fu poi la prima opera ad essere pubblicata in edizione fac-simile nel luglio 1996. Il restauro dell'intera collezione fu completato nel febbraio 1998. Il 23 aprile 2002 fu inaugurata ufficialmente la Biblioteca de Extremadura a Badajoz, e da allora si trovano copie dei manoscritti del Barcarrota nella sua antica collezione (sono stati anche digitalizzati). La prima edizione del Lazarillo de Tormes, purtroppo, è andata persa. In nessuna delle 4 edizioni citate figura il nome dell’autore, dunque il Lazarillo si pubblica in anonimo, anche se sono state avanzate molteplici ipotesi di attribuzione della paternità dell’opera. Uno degli autori proposti di recente è Alfonso de Valdés (segretario di Carlo V per la corrispondenza in latino, e autore di due celeberrimi dialoghi, tra cui quello del Sacco di Roma) da Rosa Navarro, la quale ha pubblicato recentemente varie edizioni di questa opera sotto il nome di Valdés perché era convinta della sua paternità. In verità, tanta sicurezza non è stata condivisa da gran parte della comunità accademica, che anzi ha abbondantemente criticato questa scelta e ha avanzato altre ipotesi di attribuzione. La questione della paternità dell’opera è legata a quella della datazione: se la prima edizione risale ai primi anni del 1550, come suggeriscono alcuni critici, appoggiandosi all’argomento abbastanza solido che non è credibile che tante ristampe del 1554 avvengano molti anni dopo dell’apparizione della prima edizione a stampa, allora le ristampe devono essere state pubblicate immediatamente dopo il successo editoriale della prima edizione, ma in questo caso l’autore non può essere Alfonso de Valdés, perché nel 1550 era già morto da parecchio tempo (nel 1532). Nell’opera ci sono dei riferimenti ad eventi storici che potrebbero darci un’idea della datazione dell’opera, ma sono ambigui:  LA DE LOS GELVES (evento del 1510 o quello del 1520 ?)  AÑO ESTÉRIL DE PAN (1546)  CORTES EN TOLEDO (evento del 1525 o quello del 1538-39 ?) ⟶ ogni volta che Carlo V doveva finanziare delle spedizioni militari, convocava le Cortes (assemblee rappresentative) per richiedere il relativo contributo da parte dei regni spagnoli che costituivano il suo impero. L'opera presenta prima di tutto un prólogo, e poi è suddivisa in una serie di tratados con i rispettivi epigrafi. Nel titolo di ogni tratado vengono citati alcuni dei padroni di Lázaro, poiché egli fu “mozo de muchos amos” (ovvero servo di molti padroni). I titoli dei tratados, e la loro stessa divisione in trattati, non sono frutto di una decisione dell'autore del testo, perché sono assolutamente incongruenti, in particolare il primo, che si intitola: “Cuenta Lázaro su vida y cúyo hijo fue”, ma che in realtà parla di molte altre cose in più, poiché presenta il primo padrone di Lázaro, che avrà un’importanza capitale sulla sua crescita e formazione: il cieco. Questo primo epigrafe, in realtà, potrebbe essere applicato all’intero testo, non solo al primo trattato, poiché tutta l’opera racconta la vita di Lázaro de Tormes. TRATADO PRIMERO “Cuenta Lázaro su vida y cúyo hijo fue” ⟶ si presenta la genealogia di Lázaro. Lázaro racconta la sua vita (in tutta l’opera) in prima persona a una misteriosa Vuestra Merced, una Vostra Eccellenza non identificata, che è la destinataria del racconto. “Sappia Vuestra Merced, innanzitutto, che mi chiamano Lázaro de Tormes, figlio di Tomé González e Antona Pérez, originari di Tejares, un villaggio di Salamanca. Nacqui nel fiume Tormes (che attraversa la città di Salamanca) perché mio padre fu mugnaio per più di 15 anni e il suo mulino ad acqua si trovava proprio sul fiume Tormes. Le doglie colsero mia madre vicino al fiume, del mulino di mio padre, quindi mi partorì nel fiume, per questo mi posso dire nato nel fiume” (forse l'autore del libro ha tenuto presente l’Amadís de Gaula per questo aspetto, anche se i destini dei due personaggi sono completamente diversi: Amadís è figlio di un re e di una principessa; Lázaro è figlio di un mugnaio e di una prostituta, dunque il loro percorso di vita sarà diverso). “Mio padre si dedicava anche ad altro: venne accusato di salassi (furti fatti ai danni dei clienti) poiché rubava dai sacchi di grano che venivano portati al suo mulino per essere macinato. Fu preso, confessò e non negò, perciò venne perseguitato dalla giustizia e imprigionato. Espero en Dios que está en la gloria, pues el Evangelio los llama bienaventurados ⟶ il Vangelo chiama “beati” i perseguitati dalla giustizia. Venne condannato all'esilio, e mentre scontava questa pena, si preparò per una spedizione contro i mori (armada contra moros): decise di partire al seguito di un cavaliere come suo mulattiere, ma durante questa spedizione, entrambi morirono”. […] Abbiamo qualche dettaglio in più a riguardo di questa cierta armada contra moros: “Mia madre mi affidò a un cieco che era di passaggio alla locanda dove lavorava, al quale disse che ero figlio di un buon uomo che morì ne la de los Gelves”. Dunque l’autore, quando cita una “cierta armada contra moros” si sta riferendo alla giornata de los Gelves ma questo riferimento è ambiguo, perché, in realtà, furono due le spedizioni a Gerba: una ⟶ del 1510, l'altra del 1520. Ma anche il bimbo aveva la pelle nera, solo che non lo sapeva perché non aveva mai visto la sua immagine riflessa. Questo episodio suscitò le risate di suo padre, che gli rispose scherzosamente, dicendo “Figlio di puttana!” Lázaro, ancora bambino,presta attenzione e riflette su questo episodio, dicendo tra sé e sé: “Quanti, in questa nostra vita, fuggono dagli altri perché non vedono la propria immagine!” (se il bimbo avesse avuto uno specchio davanti a sé, si sarebbe reso conto che il colore della sua pelle era identico a quello del padre, dunque non doveva averne paura. Chiaramente questa frase ha un significato metaforico, non si riferisce all’aspetto fisico). L'amante della madre di Lázaro si chiama el Zaide. Lázaro inizia a volergli bene per i regali che porta a casa: cibo, utensili per la casa, oggetti da rivendere per acquistare beni di prima necessità, ma presto si scopre che tutti questi oggetti erano rubati (ai danni del Commendatore della Magdalena): volle la sfortuna che tutto ciò (la relazione illecita) arrivò alle orecchie del maggiordomo del Commendatore, che fece le sue indagini e scoprì che una metà della biada a cui avrebbe dovuto dare da mangiare era rubata, come anche tutto il resto (anche se per cercare di accudire la famiglia). Osserva Lázaro: “Non ci stupiamo di un prete o di un frate, perché il prete ruba l’elemosina ai poveri, il frate ruba i beni nel monastero para sus devotas”. Qui c'è un gioco di parole, perché devotas, che significa devote, in questo caso sta a indicare le amanti (questo ci avvia “al caso”) dunque preti e ⟶ frati rubano soldi e beni nei monasteri o nelle loro parrocchie per fare regali alle loro amanti e per dare da mangiare ai figli nati da queste relazioni clandestine. Il gioco di parole nasce nel momento in cui devotas potrebbe essere un riferimento a de botas, che può significare due cose diverse: un otre di vino, oppure gli stivali dunque potrebbe essere che rubano nei monasteri per le donne e per il ⟶ vino, oppure per le donne e per comprarsi scarpe (questo riferimento alle scarpe non è casuale, perché comparirà nel brevissimo tratado 4, che poi verrà integralmente soppresso nell’edizione del “Lazarillo Castigado” del 1573, ad opera di Juan López de Velazco, per i suoi riferimenti maliziosi alla condotta morale del Fraile de la Merced. Infatti si diceva che questo frate “rompesse più paia di scarpe lui, che tutto il convento” perché, evidentemente, passava la giornata fuori dal convento per fare visita alle sue amanti o a prostitute di professione). Dunque, tornando al testo, Lázaro dice: “Non ci meravigliamo di preti e frati che rubano per le loro amanti o per le prostitute, quindi allo stesso modo, non meravigliamoci se un povero schiavo innamorato fa dei furtarelli per amore” (quando c'è di peggio in giro). Il maggiordomo fa le sue ricerche, poi arrivano gli ufficiali di giustizia, che interrogano Lázaro come testimone oculare. Lázaro è un bambino terrorizzato, quindi racconta tutto quello che sa, e racconta anche che, una volta, sua madre lo aveva mandato a vendere dei ferri di cavallo a un maniscalco, quindi fa venir fuori anche altri furti che prima erano sfuggiti al maggiordomo. Si fa luce su tutto e vengono puniti entrambi: Zaide venne frustato innumerevoli volte, e poi, su queste ferite gli versarono dell'olio bollente (era un antico metodo di tortura con il quale veniva versato, su queste ferite aperte provocate dalle frustate, del lardo sciolto sul fuoco); sua madre venne punita perché la legge proibiva di convivere con uomini di un’altra religione (Zaide era moro, quindi di un’altra religione, ma questo era considerato un’eresia) quindi venne frustata 100 volte, poi le proibirono l’accesso nella casa del commentatore de la Magdalena, e di far entrare in casa sua il povero Zaide (dunque la coppia viene separata definitivamente). La povera Antona Pérez, già vedova, e ora con due bambini piccoli da sfamare, è abbandonata al suo destino. Così, per non peggiorare le cose (refrán: “por no echar la soga tras el caldero”) accettò la sentenza e, per sottrarsi ai pettegolezzi, abbandonò il mestiere di prostituta e andò a servire in una locanda di Salamanca. Tra mille sacrifici e difficoltà, riuscì a tirar su da sola questo bimbo che era stato separato dal padre quando era ancora in fasce, finché non cominciò a camminare, e finché Lázaro non divenne un bravo giovanotto che aiutava sua madre al lavoro. A partire da “En este tiempo vino a pasar al mesón un ciego” inizia il racconto delle disavventure di Lázaro, che conosce il suo primo padrone: il cieco, un cliente della locanda dove lavorava sua madre. Lázaro è ancora piccolo, ma sua madre ritiene che è arrivato il momento che si mantenga da solo. Quando il cieco arriva alla locanda, rimane colpito da Lázaro e pensa che potrebbe fargli comodo, quindi chiede a sua madre se può prenderlo per fargli da guida, e lei accetta senza esitare. Lo raccomanda al cieco, dicendogli che è orfano, quindi vorrebbe che gli facesse da padre. Gli dice che suo padre era stato una brava persona (anche se in realtà era stato condannato per furto) e che quindi spera che suo figlio lo sia altrettanto. Il cieco la rassicura e le dice che lo tratterà come un figlio, più che come un servo. Così comincia il servizio di Lázaro al suo nuovo e vecchio (per l’età) padrone. Il cieco non è soddisfatto di quanto guadagna a Salamanca, così decide di cambiare piazza: arriva il momento del commiato tra Lázaro e la madre, che fa le ultime raccomandazioni al figlio perché sa che non lo rivedrà mai più, e gli dice “A partire da ora te la devi cavare da solo, bada a te stesso”. Lasciano Salamanca e arrivano al Ponte Romano, dove c’è la scultura di un toro. Il cieco dice a Lázaro di avvicinarsi a questa scultura: “Avvicina l'orecchio al toro e sentirai un grande rumore dentro di lui”. Il povero Lázaro è un ragazzino senza nessuna esperienza, quindi, ingenuamente, esegue le istruzioni del padrone, pensando che veramente avrebbe sentito un rumore. Come il ceco sentì che Lázaro aveva l’orecchio vicino alla scultura, gli afferrò la testa e gliela sbatté violentemente contro il toro, e il dolore fu talmente forte che gli fece vedere le stelle per tre giorni. Il cieco, poi, gli dà il primo insegnamento: “Impara, sciocco, che il servo di un cieco ne deve sapere una più del diavolo” (non ti fidare mai e fatti furbo, non farti ingannare mai più). Poi rise molto della burla. Queste parole cambiarono per sempre la vita di Lázaro. “In quel momento mi sembrò di svegliarmi da quello stato di torpore e ingenuità nel quale avevo vissuto fino ad allora (Lázaro smette di essere un bambino in quel preciso istante, e si rende conto che quello che gli ha detto sua madre è vero: deve badare a se stesso da solo); c'è bisogno che io stia in guardia, con gli occhi bene aperti, perché sono da solo, non c’è nessuno che mi protegga a partire da ora; devo pensare a come cavarmela” Lázaro imparerà molto rapidamente la lezione.⟶ Cominciarono il cammino, e in pochi giorni, il cieco gli insegnò il suo gergo (“jerigonza”) e gli disse: “Io non sono ricco, non ho oro, né argento da darti; l’unica cosa di cui ti posso far ricco sono i consigli per vivere, frutto di una lunga esperienza. Di questi sarò molto generoso”. Di fatto il cieco sarà una sorta di secondo padre per Lázaro, anche se estremamente violento, crudele, brusco e avaro, ma gli insegnerà veramente tanto. Il paradosso a cui assistiamo è che, sebbene cieco, gli apre gli occhi sulla vita, insegnandogli a vivere e a sopravvivere in condizioni di necessità. Dopo Dio, fu lui a dargli la vita inizia il ⟶ cammino di formazione di Lázaro de Tormes. “Mi fa piacere raccontare a Vuestra Merced queste sciocchezzuole, per mettere in luce quanta virtù hanno coloro che riescono a raggiungere l'apice partendo dal basso”. Ogni tanto, nel corso della lettera, questa Vuestra Merced viene richiamata, poi Lázaro ritorna al racconto delle sue disavventure. Il cieco è astuto e sagace, un’aquila, un uomo di un’intelligenza acutissima. La sua occupazione principale era quella di recitare preghiere (ne conosceva centinaia a memoria) e lui era il migliore attore di tutti nel farlo: era misurato nei suoi gesti, non era esagerato (sapeva scegliere l’intonazione giusta, la giusta espressione del viso, il giusto movimento del corpo, delle braccia, un tono basso, riposato; non faceva quelle smorfie che deformavano il viso, era attento e naturale). Inoltre aveva altri 1000 modi per guadagnarsi da vivere: conosceva preghiere per qualunque effetto possibile: per le donne che non potevano partorire, per quelle che dovevano partorire, per le mal maritate (quelle che avevano perso il favore del marito e lo volevano riconquistare); era in grado di prevedere: sapeva il sesso del nascituro; conosceva mille rimedi con le erbe mediche miracolose: per curare mal di denti, prevenire svenimenti, curare problemi ginecologici, ecc. Aveva una soluzione per tutto, conosceva tutte le proprietà delle erbe. Se si avvicinava qualcuno che lamentava qualcosa, egli diceva: “Fate questo, fate quest'altro, prendete o bollite quest'erba, prendete questa radice, ….”. Principalmente, erano le donne quelle che si rivolgevano a lui, perché credevano tutto quello che diceva, e così riusciva a guadagnare molti soldi, perché si faceva pagare per ogni preghiera che diceva o per ogni rimedio che forniva. Ciò nonostante, era un uomo estremamente avaro e meschino; non dava a Lázaro nemmeno la metà del cibo che gli sarebbe stato necessario, lo faceva morire di fame. Allora Lázaro, che aveva subito imparato la lezione del cieco, si dà da fare per sottrargli soldi, cibo e vino. Il cieco aveva il suo fardello (con il cibo dentro) chiuso con un lucchetto per non farsi fregare, ma Lázaro trova subito un modo: scuce il fardello da un lato e attinge a piene mani, rubandogli (come suo padre) pancetta e salsiccia: “Così mi diedi da fare per rimediare alla dannata magra a cui mi condannava il cieco”. Oltre al cibo, Lázaro gli ruba anche i soldi: quando arrivavano le offerte da parte delle persone che avevano chiesto al cieco di recitare una preghiera, Lázaro teneva preparata una “media blanca” (moneta dell’epoca) e faceva rapidamente un cambio, sostituendola con la “blanca” che solitamente davano al cieco, intascando dunque la metà del bottino del cieco. Per fare ciò senza essere scoperto, Lázaro nascondeva la media blanca in bocca, perché era usanza baciare i soldi dati in elemosina: è proprio in quell'istante che afferrava la blanca per fingere di baciarla e faceva questo veloce scambio. Il cieco si lamenta, chiedendosi come mai, da quando Lázaro è al suo servizio, gli danno tutti delle medias blancas, mentre prima gli davano tutti una blanca. Lázaro mette in atto anche altri tipi di furti: inizia ad apprezzare il vino, nonostante sia un bambino. All'inizio afferrava la brocca di vino e dava un paio di sorsi e poi la ridava al cieco, il quale, però, si rende rapidamente conto che la quantità di vino è diminuita, dunque capisce che Lázaro lo sta derubando e tiene sempre ben afferrata la brocca. Ma Lázaro trova subito un altro metodo per fregarlo ancora: beve dalla brocca con una paglia, a mo' di cannuccia, ma il vecchio si accorge anche di questo, perché sente il rumore di quando succhia, allora il cieco, per proteggersi dai furti, copre la brocca con la mano e se la stringe tra le gambe. Allora Lázaro, che ne sa già una più del diavolo, fa un piccolo foro alla base della brocca, che poi chiude con un tappo di cera, e al momento del pranzo, finge di patire il freddo e chiede al vecchio di potersi mettere fra le sue gambe a scaldarsi, vicino al fuocherello che hanno. Il fuocherello fa sciogliere la cera e Lázaro si colloca in modo tale da riuscire a bere le gocce di vino che filtrano da questo foro. Il cieco, però, si accorge che il livello del vino cala, e siccome ha un’intelligenza vivissima, scopre il foro e si vendica in maniera crudele: un giorno, mentre Lázaro stava bevendo dal foro, afferra la brocca e la frantuma sulla faccia di Lázaro, facendogli cadere tutti i denti (rimarrà per sempre senza denti). Inoltre, siccome la brocca era di terracotta, i cocci gli causarono molte ferite sul viso, che poi il vecchio gli disinfetta, sciacquandogli il viso con il vino, e gli dice: “Quello stesso vino che ti dava piacere, ora ti uccide”. Il colpo è tremendo, ed è un’altra delle lezioni che Lázaro riceve, infatti, da quel momento, inizia ad odiare il cieco. Se qualcuno che assisteva alle percosse chiedeva al cieco perché lo trattasse così male, lui gli raccontava le prodezze del ragazzo, e diceva: “Pensate che sia un povero bambino innocente? É un ladro che merita solo botte!” e allora tutti gli davano ragione. Per vendicarsi, Lázaro sceglieva i cammini peggiori: lo faceva passare per le strade dove c'erano pietre, o per i punti dove c’era più fango. Pur di danneggiare il cieco, era disposto ad attraversare anche lui le peggiori strade. Il cieco lo punzecchiava di continuo sulla nuca con il suo bastone, e anche se Lázaro gli diceva che sceglieva il cammino migliore per lui, non gli credeva mai perché era un’aquila e aveva un sesto senso molto accentuato. A un certo punto, il cieco decide di andare a Toledo, perché lì la gente era più ricca, anche se non propensa all’elemosina. Prima di arrivare, si fermano ad Almorox, dove gli regalano un grappolo di uva, che mangiano subito perché era già molto maturo. Il cieco concorda con Lázaro che procederanno secondo un ritmo prestabilito: prenderanno un chicco a testa, così che ne mangeranno esattamente la stessa quantità. Ma, nel giro di pochi secondi, il cieco comincia a prendere due chicchi alla volta, allora Lázaro, nel constatare che il patto non viene rispettato, fa altrettanto, anzi, per vendicarsi, inizia a mangiarne tre alla volta. Quando finisce il grappolo, il cieco sospetta che Lázaro lo ha fregato, ma egli nega tutto. Il cieco però ha un argomento di peso a suo favore, e gli dice: “La prova che mi hai fregato è il fatto che, quando hai visto che io prendevo due chicchi alla volta, tu non hai protestato, quindi è sicuro che hai fatto peggio di me”. Qui c'è una delle 6 AGGIUNTE DI ALCALÁ. Siamo a Escalona (vicino Toledo) e Lázaro ha una salsiccia che il cieco gli ordina di cucinare. Il cieco ha mangiato il grasso della salsiccia che cola durante la cottura, mentre Lázaro ha messo gli occhi sulla salsiccia intera, e mette in atto un piano diabolico: recupera una rapa e, un attimo prima che il cieco lo mandi a comprare del vino, sostituisce la salsiccia con la rapa. Torna con il vino un attimo prima che il cieco addenti quello che pensa essere il panino con la salsiccia (che invece ha mangiato Lázaro), e quando si rende conto che non sta mangiando salsiccia, naturalmente, accusa Lázaro, che ha appena inghiottito la salsiccia ancora tutta intera per la fretta. Per scoprire se il sospetto è fondato, il cieco utilizza un altro senso, l’olfatto: si avvicina ad annusare l'alito di Lázaro per vedere se si sente l'odore di salsiccia. Gli fa spalancare la bocca tanto da poterci conficcare il suo naso all’interno, che era lungo e aquilino; così, insieme all'ansia di Lázaro che teme di essere scoperto, e al fatto che per la fretta l'ha inghiottita intera, finì per vomitarla: questa fu la prova definitiva che aveva rubato lui la salsiccia. Se non fossero intervenuti i presenti, Lázaro sarebbe morto per le botte ricevute dal padrone, il quale gli strappò i capelli e lo lasciò mezzo morto a terra. Poi il cieco raccontò a tutti il furto di Lázaro, ma la sua vendetta sarà tremenda. Il cieco gli lava ancora una volta il sangue delle ferite con il vino, e gli dice “Devi di più al vino che a tuo padre, perché tuo padre ti ha dato la vita una volta, mentre il vino ti fa rinascere mille volte”. La profezia del cieco si realizzerà, perché il vino sarà un elemento chiave nella vita di Lázaro adulto. banchetto di turno. Se il malato guariva, gli lanciava 1000 maledizioni; se moriva gli lanciava 1000 benedizioni. In tutti i sei mesi in cui fu al servizio del prete, purtroppo, morirono soltanto 20 persone, o forse li uccise lui con le sue “preghiere”. Questi mesi furono di grande sofferenza, infatti Lázaro pensò molte volte di abbandonare quel padrone meschino, ma non lo aveva fatto mai, per due motivi: 1, perché era troppo debole per colpa della fame; 2, perché pensava: “Ho avuto due padroni: il primo, che mi ha quasi ammazzato di botte, mi faceva patire la fame; ma questo è ancora peggio. Pensavo di migliorare cambiando padrone, e invece sono andato a peggiorare. Se peggiorasse ulteriormente, mi aspetterebbe morte certa” (quando il prete lo caccerà di casa, questa paura diventerà realtà, perché il suo terzo padrone, lo scudiero, sarà addirittura peggiore: era povero, non aveva nulla da dargli, però, sarà il padrone a cui Lázaro si legherà di più perché, le rarissime volte in cui gli capiterà di avere dei soldi per le mani, si mostrerà estremamente generoso). Il prete in casa ha solo il baule con i panini, il problema è che questo baule è chiuso a chiave, alla quale Lázaro non ha accesso, fin quando, un bel giorno, la provvidenza divina manda un “angelico” arrotino a casa del prete, chiedendo se ci fosse qualcosa da far riparare. In quel momento, Lázaro ha come un'illuminazione, e dice una bugia all’arrotino: “Senza volere ho perso la chiave del baule, ho paura che il mio padrone mi picchi per questa mia leggerezza”. Allora l'arrotino gli procura subito una copia della chiave, e in quel momento stesso, Lázaro apre il baule e contempla questo “paradiso di pane” (paraíso panal). Non ha soldi per pagare l’arrotino, quindi gli offre del pane dal baule. Per un paio di giorni, Lázaro mangiucchia il pane di nascosto; ma, al terzo giorno, il prete si accorge che c'era meno pane nel baule, così decide di contare e annotare quanti panini ci sono: 9 e una metà. Lázaro si trova dunque in un guaio, perché ora che il pane è contato, non può più mangiarlo di nascosto, così, quando il prete esce di casa, Lázaro si limita ad aprire il baule e annusare il pane, lo bacia mille volte e, visto che ne è rimasto un pezzo, ne ritaglia un velo per mangiarlo. La fame cresce, allora gli viene un'altra illuminazione: non può sottrarre i pezzi di pane interi, ma, siccome il baule è vecchio e rotto in più punti, può simulare che un topo vi si sia intrufolato dentro e ne abbia rosicchiato qualche pezzo. Lázaro comincia a raschiare la crosta e un po’ di mollica da questi panini, placando la fame. Quando torna a casa, il prete non ha alcun dubbio, perché Lázaro è stato molto abile: l’imitazione è stata perfetta. La meschinità del prete si vede quando i due si mettono a tavola, perché il prete, con un coltello, ritaglia tutta la parte di pane che avrebbero rosicchiato il topo (perché gli fa schifo) e la dà a Lázaro, dicendogli: “Mangia pure, che i topi sono animali puliti”. Così, tra il pane rosicchiato con le dita, e quello ricevuto a tavola, Lázaro riesce a mangiare qualcosa. “Così finimmo di mangiare, anche se, in verità, io non iniziavo mai a mangiare” (perché quello che mi dava, difficilmente poteva essere definito un pasto) ⟶ parallelismo con un passaggio celeberrimo del “Buscón de Quevedo” (altro romanzo picaresco, pubblicato nel 1626), in cui il picaro di turno è Don Pablos, il quale finisce come servitore di un nobile, Don Diego Coronel (suo ex compagno di scuola e grande amico d’infanzia) nel “pupilaje” del Licenciado Cabra: all’epoca era usanza che un maestro ospitasse a casa sua degli studenti, ai quali garantiva vitto, alloggio e una formazione intellettuale, e loro lo seguivano come servitori. Questo pupilaje si contraddistingueva per la stessa negra hambre che patisce Lázaro a casa del prete, e la descrizione di questi pasti è diventata famosissima: erano “comidas eternas sin principio ni fin”, mangiano un brodo talmente trasparente (perché era fatto quasi solo con acqua e un cecio) che Narciso avrebbe corso grande pericolo. Prima mangiava il padrone e gli alunni nobili, poi mangiavano i servitori (come Don Pablos). Il passaggio che ci ricorda lo stesso episodio di Lázaro è: “Cenaron, y cenamos todos, y no cenó ninguno” (“Cenarono, cenammo tutti, e non cenò nessuno”) perché il pasto offerto era talmente povero che non si sfamava nessuno. Scoperta la presenza di un topo, il prete inizia a dargli la caccia: prima mette delle toppe di legno nelle fessure della cassapanca per tappare ogni buco, poi comincia a mettere delle trappole per topi (il che migliora la situazione di Lázaro, perché nelle trappole ci vanno anche croste di formaggio, quindi può mangiare sia le briciole di pane che quelle di formaggio). A quel punto, il prete si informa con i vicini, che gli dicono che, se non riesce a catturare il topo, vuol dire che non si tratta di un topo, ma di una serpe, perché riesce a sgusciare via. Allora il prete decide di dare una caccia spietata alla serpe: la notte non riesce a prendere sonno; ogni rumore che sente, per lui è la serpe che si sta introducendo nel suo baule. Ben armato, si dirige verso il baule per fare la guardia, convinto che prima o poi riuscirà a beccarla. Spesso si avvicina al misero giaciglio di paglia fatto da Lázaro, perché gli animali a sangue freddo cercano calore, in particolare quello umano, così sveglia Lázaro, nella speranza di sorprendere il ladro. Lázaro dice: “Speriamo che non mi morda, perché io ne ho il terrore”. Notte dopo notte, caccia dopo caccia, il prete perde il sonno, ma non riesce mai a trovare questa serpe. Di notte, Lázaro non si avvicina al baule, per paura di essere scoperto; ne approfitta quando il prete va a dire la messa alla mattina. Il problema di Lázaro è che deve nascondere il duplicato della chiave, ma in casa del prete non ha una propria stanza, con dei cassetti da chiudere a chiave per conservare le sue cose; l'unico posto sicuro è la sua stessa bocca, infatti ogni notte si mette la chiave in bocca (è abituato da tempo a usare la bocca come una sorta di borsellino o tasca in cui nascondere le cose, perché il cieco lo perquisiva continuamente, quindi nascondeva le monete in bocca. Riusciva anche a mangiare tenendo le monete in bocca). Una notte, però, il tubicino della chiave provoca un fischio che sembrava il sibilo della serpe, perché Lázaro dormiva con la bocca aperta. Il prete sente questo fischio e si avvicina al giaciglio di Lázaro, convinto di avere la serpe in pugno e di ucciderla, e inizia a riempire di botte Lázaro, che ha la testa ormai è spaccata, è tutto sanguinante. Poi accende la luce, e il prete vede la chiave in bocca a Lázaro, quindi viene svelato l'arcano: è stato Lázaro l’autore dei furti. Tante le botte che ha ricevuto, Lázaro perde coscienza e resta “in coma” per tre giorni. Il prete lo fa curare, dopodiché lo metterà alla porta. Quello che succederà a Lázaro nei suoi ultimi tre giorni di permanenza in casa del prete, lo racconterà perché lo ha sentito dire dal padrone, che raccontava l'accaduto ai fedeli e ai vicini che andavano a casa sua. Passati tre giorni, Lázaro riprende conoscenza e, ancora con la testa tutta impiastricciata di unguenti, il prete gli dice: “Finalmente sono riuscito a beccare topi e serpi che mi rubavano il cibo”. Quando Lázaro riesce ad alzarsi dal letto, il prete lo caccia di casa e gli dice: “Io non voglio un servo così astuto in casa mia, da oggi in poi trovati un altro padrone. Sei stato di sicuro il servo di un cieco!” Dopodiché, si fa il segno della croce, come se avesse avuto davanti il diavolo in persona. Il terzo padrone sarà addirittura peggiore dei primi due, non sul piano umano, bensì sul piano pratico, perché era povero, non aveva nulla da offrirgli, se non un misero giaciglio. TRATADO TERCERO “Cómo Lázaro se asentó con un escudero y de lo que acaeció con él” è uno dei trattati più ⟶ importanti, anche in vista dell’interpretazione del finale dell'opera, per quanto riguarda la spiegazione del famoso “caso”. Lázaro si avvia verso l'apice del suo successo, ma dovrà ancora cambiare molti padroni (hacia la cumbre de toda buena fortuna) prima di migliorare il suo status sociale. A proposito di status sociale che non sempre corrisponde alla vita reale, viene introdotto quello che sarà il terzo padrone di Lázaro, uno scudiero. Lázaro è ancora descalabrado: è molto debole a causa delle ferite causategli dal prete, e vive di elemosina perché è rimasto senza padrone. Arriva a Toledo, e in 15 giorni, la ferita sulla testa si chiude. Finché ha la testa fasciata e mezza sanguinante, non ha problemi ad ottenere cibo, ma nel momento in cui guarisce, gli abitanti di Toledo si mostrano molto meno generosi (non gli danno più l'elemosina e gli dicono “Cercati un lavoro!”). Lázaro è dunque un pordiosero (un mendicante, chi chiede per l'amore di Dio), ma deve ormai trovarsi un nuovo padrone. “Dio mi fece imbattere in uno scudiero che camminava per le strade di Toledo, ben vestito e ben pettinato”: Lazzaro è tratto in inganno dal suo aspetto. Lo scudiero gli dice: “Cerchi un padrone? Vieni con me, devi aver pregato tanto stamattina, e Dio deve averti ascoltato, visto che ti ha mandato un padrone come me”. Lázaro lo segue, gli sembra la persona giusta per lui, tutto gli lascia pensare che sia una persona ricca e che quindi finalmente la negra hambre finirà (il termine negro si usa per sottolineare l’intensità di un’azione negativa). Ma purtroppo non sarà così. I due si incontrano di mattina e attraversano buona parte della città di Toledo. Lázaro lo segue di mercato in mercato, poiché è ora di fare la spesa, e uno dei compiti dei servi è quello di accompagnare il padrone nei mercati e caricarsi le ceste (le buste) della spesa, ma in questo caso, lo scudiero non compra nulla. Lázaro inizia a farsi delle domande, pensa che la merce di quei negozi non gli piaccia e che forse farà la spesa altrove, ma lo scudiero prosegue senza fermarsi da nessuna parte. Alle 11 suonano le campane della Chiesa e vanno a messa, dopodiché, escono dalla Chiesa e prendono altre strade, ma nemmeno in questo caso si fermano a fare spesa. Allora Lázaro pensa che lo scudiero non ha comprato nulla perché, essendo ricco, avrà avuto dei servi che si saranno preoccupati di fare la spesa per lui, e che quindi il pranzo lo troverà già pronto in tavola. Suona l’1 e arrivano finalmente a casa, che aveva l'entrata buia e lòbrega: tetra, che incuteva timore a chi entrava (non faceva presagire nulla di buono). Entrano in casa e lo scudiero gli chiede di aiutarlo a piegare il suo mantello, poi comincia una chiacchierata tra i due perché il padrone vuole avere notizie sulla vita di Lázaro, il quale, ovviamente, risponde con una serie di bugie (non può raccontare delle sue disavventure a servizio del cieco e del prete, siccome aveva commesso svariati furti) mentendo come meglio sa, perché è convinto che lo scudiero sia una persona altolocata, quindi vuole sentirsi alla sua altezza. Il problema è che il tempo passa, ma non si vede ombra di cibo né di altre persone in quella casa, allora i segnali negativi si moltiplicano: non si vede altro che le nude pareti, non ci sono mobili, una sedia, un tavolo, una cassapanca: sembrava una casa di fantasmi. Ad un certo punto, il padrone non può non preoccuparsi del suo servo, quindi gli chiede se ha mangiato, e Lázaro dice di no, poiché è stato con lui dalla mattina presto quando lo ha incontrato. Allora il padrone mette subito in chiaro che lui non pranzerà: gli dice che aveva fatto una ricca colazione la mattina, ed è sua abitudine non toccare cibo fino alla sera: “Arrangiati in qualche modo per pranzo, che poi ceneremo”. Quando Lázaro sente questa frase, capisce che è ripassato dalla padella alla brace, e che si prospettano giorni, settimane, mesi all'insegna di nuove privazioni, travagli e sofferenze, così gli viene in mente la considerazione che faceva quando pensava di andare via dal prete (non se ne andava perché temeva di peggiorare le cose). Lázaro non può far altro che disperarsi, ciò nonostante, gli dice: “Non vi preoccupate, non vado dietro al cibo in maniera compulsiva, sono una persona estremamente moderata, non succede nulla se salto un pranzo; e per questa mia virtù sono stato sempre lodato dai padroni che ho avuto finora”. Il padrone gli dice: “Me ne compiaccio, e per questo ti loderò anche io. Bisogna essere moderati a tavola, non siamo mica porci che dobbiamo ingozzarci; mangiare moderatamente è da gentiluomini”. Queste parole ci ricordano quelle del prete, quando diceva che i preti dovevano essere morigerati nel mangiare (anche se poi si ingozzava quando poteva mangiare a spese altrui). Lázaro pensa tra sé e sé: “Ho capito bene perché lodi tanto la temperanza: perché non hai un soldo da spendere per il cibo!” Allora, visto che lo scudiero stesso gli ha detto di arrangiarsi come poteva per pranzo, Lázaro tira fuori dalla lurida camicia che indossa dei tozzi di pane che gli erano avanzati delle elemosine dei giorni precedenti. Come lo vede, lo scudiero, che in realtà era a digiuno da chissà quanto tempo, gli chiede cosa stesse mangiando. Poi prende in mano uno dei tozzi e dice: “Sembra un pane di buona qualità. Dove lo hai preso? Lo avranno preparato mani pulite?” Lázaro dice: “Non so chi lo ha preparato, ma il sapore è buono”. Il padrone inizia a mangiare il pane, dunque Lázaro capisce al volo che deve mangiare in fretta, per evitare che lo scudiero gli sottragga quasi tutto il pane. Finito di mangiare, il padrone si scrolla di dosso le briciole, entra in una stanza e porta fuori una brocca scheggiata, offrendone il contenuto a Lázaro, il quale pensa che sia vino, e per fare il modesto, dice: “Signore, non bevo vino”, ma lo scudiero non può permettersi di comprare il vino, e gli dice: “È acqua, puoi bere!” Lázaro beve un po’, poi continua a chiacchierare fino a quando cala la notte. Lázaro si ricorda della promessa fattagli dello scudiero a pranzo, ma, come motivazione per la “non cena”, il padrone inventa un’altra scusa: “Meglio non uscire, perché già è buio e i negozi sono molto distanti. Non è sicuro uscire perché Toledo è una città molto pericolosa e di notte ci sono molti ladri. Arrangiamoci per stasera, domani mangeremo. Siccome vivo da solo, non ho nulla in casa da offrirti, perché di solito mangio fuori. Da domano ci organizzeremo diversamente”. Lázaro vuole continuare a fare la parte del bravo ragazzo, e dice: “Non c'è problema, posso passare una notte senza mangiare”. Il padrone dice: “Bravo, che mangiare poco allunga la vita!” Allora Lázaro dice: “Se mangiare poco allunga la vita, allora io sarò immortale!” Poi si mette a letto, nella negra cama, fatto di un canniccio rivestito di qualche straccio sporco. Questo letto è scomodissimo perché è molto duro, inoltre Lazzaro è magrissimo, quindi non riesce a dormire perché le ossa si scontrano con il canniccio. E’ tutto povero e molto sporco, non c'è nemmeno una scopa per spazzare a terra. Passano la notte come possono, intanto Lázaro invoca la morte per mettere fine al suo dolore. Il giorno dopo si alzano, Lázaro aiuta il padrone a prepararsi, che intanto pulisce i suoi accessori, soprattutto la cinghia di cuoio a cui è legata la sua spada, che loda in tutti i modi. Inoltre tiene un rosario con i grani grossi. Finisce di prepararsi, si sistema bene il mantello sulle spalle ed esce di casa, dando precise istruzioni a Lázaro: “Sistema la casa mentre io vado a sentire la messa. Fai il letto, vai a riempire la brocca di acqua al fiume che sta qui sotto, poi chiudi tutto a chiave, non sia mai ci rubino qualcosa. Poi riponi la chiave sullo stipite di modo che io possa entrare se dovessi tornare prima di te”. Lázaro capisce che la vita del suo terzo padrone è fatta di apparenze: tutto sembra indicare un status sociale che, alla prova dei fatti, si dimostra assolutamente fallace. L’incongruenza più eclatante è quella del primo trattato, perché Lázaro racconta la sua vita nel corso di tutto il romanzo, non sono nel primo capitolo; inoltre parla delle sue origini ma, principalmente, parla delle sue disavventure al servizio del suo primo padrone (il cieco mendicante), quindi il titolo del trattato non ne rispecchia il contenuto. Inoltre, una situazione analoga si verifica anche per il titolo del romanzo stesso, poiché, in realtà, nel corso di quasi tutto il romanzo, il protagonista è sempre chiamato Lázaro, solo in un episodio del primo trattato viene chiamato Lazarillo (quando il vecchio si accorge di aver addentato la rapa al posto della salsiccia, e gli chiede: “¿Qué es esto, Lazarillo?”). E’ interessante il fatto che Lázaro risponda con “¡Lacerado de mí!” (povero me!) mette in relazione ⟶ il nome Lázaro con l’aggettivo lacerado e il sostantivo laceria. Così come Lazarillo, a partire dal successo di questo romanzo, è diventato nome comune per indicare la guida di un cieco, così Lázaro, oltre ad essere nome proprio di persona, è anche nome comune, perché deriva dal nome del mendicante della parabola del Vangelo di San Luca, XVI Lazzaro: ⟶ povero straccione. Questa parola è poi entrata a far parte anche dell’italiano, con particolare riferimento al fenomeno avvenuto nel Regno di Napoli: i “lazzari” erano il basso strato della popolazione salito alla ribalta con la rivolta di Masaniello (a metà ‘600). Il successo di questo termine (con riferimento ad una particolare fascia sociale) è messo in rapporto anche con il successo del Lazarillo de Tormes, quindi ci sarebbe un doppio legame (sia con il Lazzaro mendicante della parabola, sia con Lázaro, protagonista del romanzo). Da Lazzaro deriva anche il termine “lazzaretto” (lebbroso). TRATADO CUARTO “Cómo Lázaro se asentó con un Fraile de la Merced y de lo que acaeció con él” ⟶ a causa del bando dell’año estéril de pan, Lázaro e lo scudiero non possono più chiedere l’elemosina per strada, quindi vengono soccorsi da delle vicine di casa, che di mestiere facevano le filatrici di cotone, ma che probabilmente erano anche delle prostitute/amanti del Fraile de la Merced, un frate ben poco esemplare nella sua condotta poiché passava tutto il giorno fuori dal convento per fare visita alle sue amanti (le chiamava “parientes”: i termini di parentela si sono sempre usati per coprire relazioni illecite). Le vicine lo presentano a Lázaro, e infatti, dopo l’imminente abbandono da parte dello scudiero, diventerà il suo quarto padrone. Il frate regalerà a Lázaro il suo primo paio di scarpe, ma questa azione suscita qualche sospetto, perché di solito, all’epoca, si premiavano i servi con regalie di capi d’abbigliamento o scarpe, come ricompensa per i loro servigi da mezzani, dunque è facile pensare che questo frate avesse più di una relazione amorosa illecita con queste filatrici e che Lázaro fosse il suo messaggero/intermediario. Lázaro romperà queste scarpe nel giro di soli 8 giorni per il suo andirivieni al servizio del frate, e quindi deciderà di abbandonarlo, anche per “altri motivi che preferisce non elencare” (probabilmente è un’allusione ad una relazione illecita tra Lázaro e il frate, quindi il frate sarebbe stato anche sodomita. Questa interpretazione, però, non è stata accolta da tutti i critici, perché alla fine di ogni capitolo, Lázaro accelera il racconto per non essere prolisso, perché il suo obiettivo è quello di arrivare alla sua versione dei fatti su cui è stato interrogato dalla Vuestra Merced). Dunque, abbandonato anche il frate, Lázaro entra al servizio del suo quinto padrone. TRATADO QUINTO “Cómo Lázaro se asentó con un buldero y de las cosas que con él pasó” Lázaro entra a servizio ⟶ di un buldero (da “bula”, bolla: spacciatore di bolle, venditore di indulgenze). La vendita delle indulgenze fu uno degli argomenti più scandalosi discussi da Lutero in una delle sue 95 Tesi (la numero 27) affisse sulla porta della Chiesa del castello di Wittenberg nel 1517. La teoria delle indulgenze era basata sul presupposto che esistesse un tesoro di meriti accumulati dalla Madonna e dai Santi a cui la Chiesa poteva attingere per rimettere le pene temporali ai peccatori che si erano confessati e pentiti dei peccati commessi, e per abbreviare la penitenza (chi otteneva l’indulgenza poteva essere sollevato da queste pene temporali, quali il digiuno, la preghiera, con cui scontare i peccati commessi). Uno degli elementi scatenanti del fenomeno della vendita delle indulgenze fu il debito contratto da Papa Leone X con i banchieri tedeschi Fugger, che finanziarono i lavori della costruzione della Basilica di San Pietro. Per pagare questo debito, Papa Leone bandì una vendita delle indulgenze in tutta la Germania. Lo scandalo fu che i predicatori che furono incaricati di venderle arrivarono a dire che, acquistando queste indulgenze, si rendeva superflua sia la confessione che il pentimento del peccatore, si acquistava direttamente la grazia. Celeberrimo fu lo slogan del frate tedesco Tetzel, che invitava alle offerte dicendo “Quando cade il soldino nella cassetta, l’anima vola in cielo benedetta”. Questo mercimonio delle indulgenze fu assolutamente censurato da Martin Lutero, che ne fece un cavallo di battaglia per mettere in risalto la corruzione della Chiesa Romana. Lázaro definisce questo nuovo padrone “disinvolto e svergognato”, perché non esita a ricorrere a mille stratagemmi pur di piazzare la merce, deve raccogliere quanti più soldi può da questi fedeli creduloni. Esattamente come il quarto, anche il quinto trattato fu cassato integralmente dall'Inquisizione nell’edizione del Lazarillo Castigado, perché questa satira della vendita delle indulgenze fu considerata inaccettabile, proprio perché fu uno degli argomenti forti dei protestanti. La strategia di vendita dello spacciatore di bolle era: si informava sui preti del luogo per capire come accattivarseli (facendogli qualche piccolo regalo) e garantirsi il loro appoggio prima di fare la predica a tutti i fedeli riuniti a cui offre le indulgenze in vendita. Cerca di capire chi sono gli interlocutori che aveva davanti a sé: se erano persone colte, parlava loro in castigliano; se erano preti che non avevano fatto studi approfonditi (ma si erano comprati il posto), millantava conoscenze di latino e si metteva a parlare per ore in un latino inventato. Siccome il suo obiettivo era quello di “piazzare” queste bolle, ricorreva anche a stratagemmi fatti con destrezza per far avvenire questo miracolo. In un modo o nell’altro doveva venderle, con mezzi leciti o illeciti. Lázaro racconta l’episodio di quella volta in cui, dopo 2/3 giorni di prediche, la vendita delle indulgenze andava a rilento, allora il buldero architetta un piano diabolico, di cui Lázaro è all’oscuro: lui stesso cade nella trappola. Tutto comincia la notte prima della predica finale, quando inizia una discussione tra il buldero e l'ufficiale giudiziario del luogo: scoppia una rissa e volano parole grosse davanti a parecchi testimoni. I due si scambiano parole offensive, e in particolare lo sbirro accusa il buldero di essere un falsario e che le bolle che predicava erano false. La popolazione, che era già abbastanza restia, adesso è ancora meno invogliata a comprare le bolle. Il buldero si arrabbia molto per queste accuse che lui considera infondate e cerca di difendersi, poi i due vengono separati e tutti se ne vanno a dormire. Il giorno dopo c'è il sermone finale. Su invito del buldero e del prete del luogo sono accorsi tutti i fedeli, che vanno mormorando alle spalle del buldero dicendo che le indulgenze sono false. Inizia il sermone e fa irruzione in chiesa l'ufficiale giudiziario della sera prima, che dice: “Fermi tutti! Prima che il sermone finale vada avanti, io vi devo dire una cosa, e devo confessare che io stavo per essere complice di un misfatto: questo ciarlatano mi aveva proposto di aiutarlo in questo affare per poi dividerci il guadagno. Ma visto il danno che farei alla mia coscienza e alle vostre tasche, me ne pento, e vi confesso che le bolle che vende sono false, quindi non dovete comprarle” sta ⟶ ingannando con la verità, perché sta dicendo una cosa che è vera: lui è complice dello spacciatore di bolle. L’unica parte falsa del suo discorso è quella finale, quando dice di essersi pentito e che ha deciso di rivelare l’inganno di cui non vuole essere più complice. Il buldero lo lascia parlare; quando termina il discorso gli chiede se volesse aggiungere altro, poi si inginocchia nel pulpito e, con lo sguardo rivolto al cielo e un atteggiamento devoto, si rivolge a Dio e dice: “Tu sai tutto, sai che queste accuse che mi vengono rivolte sono ingiuste, ma io sono disposto a perdonarlo, l'unica cosa che mi preoccupa è la salvezza dei fedeli qui presenti, perché alcuni di essi erano venuti qui in chiesa per acquistare le indulgenze e invece ora non lo faranno più perché dissuasi dalle parole ingiuriose e false di quest’uomo. Signore Dio, io invoco il tuo intervento, fai giustizia, manifestati con qualche evento miracoloso, dai un segno del fatto che sono io il portatore di verità e non quel calunniatore. Possa questo pulpito sprofondare se io sto mentendo, ma se sto dicendo la verità ed è lui a mentire, persuaso dal demonio, che sia punito per queste menzogne”. Finito di parlare, lo sbirro cade a terra mezzo morto, con la schiuma alla bocca (sembra avere una crisi epilettica), si dimena e si rigira per terra: sembra posseduto dal demonio. Tutti urlano perché Dio ha ascoltato l’invocazione del buldero, sono costernati, quindi invocano l'intervento del buldero (che intanto è ancora inginocchiato nel pulpito, talmente assorto nella divina contemplazione che sembra quasi non accorgersi di ciò che sta succedendo) per salvare la vita al povero ufficiale che sta morendo, perché il miracolo a cui tutti avevano assistito aveva chiarito una volta per tutte che era lui il portatore di verità. Allora il buldero, fingendo di risvegliarsi dalla contemplazione, osserva tutti con aria angelica e dice: “Preghiamo tutti per la salvezza di questo peccatore”. Poi scende dal pulpito e chiede ai presenti di invocare la Misericordia Divina per farlo tornare in sé e cacciare da lui il demonio. Si inginocchiano tutti perché nessuno vuole la sua morte; vogliono solo il suo pentimento. Il buldero inizia una preghiera che fa commuovere tutti i presenti, poi mette in atto il colpo di scena: si mette la bolla sulla testa e l’ufficiale si riprende pian piano, poi getta ai piedi del buldero e gli chiede l’indulgenza per aver parlato per bocca del demonio. I due fanno la pace e la gente fa l’assalto per comprare le indulgenze, che vanno a ruba come il pane. Anche nei villaggi vicini si sparge la voce di questo evento miracoloso, e tutti accorrono alla locanda dove alloggia il buldero per comprare le indulgenze miracolose. Lázaro cadde dunque nella trappola del suo padrone come tutti i fedeli, perché aveva creduto che fosse tutto vero. Si rese conto che era tutta una messinscena (iniziata la sera della rissa) solo quando sentì le risate dei due complici che si prendevano gioco dei fedeli creduloni. A partire da qui, inizia un lungo INSERTO DELL’EDIZIONE COMPLUTENSE DI ALCALÁ, che si riferisce ad un altro episodio che mette in mostra le arti oratorie e attoriali del buldero. Poi aggiunge Lázaro: “Quante ne devono fare questi imbroglioni alla gente ingenua!” Non furono semplici quei quattro mesi al servizio del buldero + frase aggiunta dall'edizione di Alcalá (“non patii la fame come con gli altri padroni”). Da qui il racconto inizia ad essere stringatissimo. TRATADO SEXTO “Cómo Lázaro se asentó con un capellán y lo que con él pasó” ⟶ tratta le vicissitudini al servizio di un maestro pittore di tamburelli, ai quali Lázaro macinava i colori, e con il quale soffrì mille mali (non fu un’esperienza piacevole). Poi diventa servo di un cappellano, per il quale si mette a vendere l'acqua per la città di Toledo, girando su di un asinello che trasporta queste anfore cariche d’acqua. Questo mestiere gli permette di iniziare a salire il primo gradino della scala sociale. Anche questo trattato è molto breve. In questi quattro anni riesce a risparmiare i soldi necessari per comprare vestiti decorosi di seconda mano e anche una spada, dopodiché dice al suo padrone di riprendersi il suo asino perché non vuole più fare quel lavoro, e si mette al servizio dell’alguacil, il suo ottavo e ultimo padrone. TRATADO SÉPTIMO “Cómo Lázaro se asentó con un alguacil y de lo que le acaeció con él” ⟶ Lázaro va al servizio di un ufficiale giudiziario (sarà il suo ultimo padrone), ma l’esperienza durerà ben poco perché gli sembra pericoloso: una notte vengono attaccati con pietre e bastoni da alcuni delinquenti che fuggivano dagli sbirri per rifugiarsi in Chiesa (gli ufficiali di giustizia non potevano fare irruzione in chiesa perché era un luogo sacro che dovevano rispettare; anche Don Pablos del Buscón, alla fine delle sue peripezie, troverà asilo in una chiesa perché aveva ucciso due “corchetes” e poi partirà per le Indie), dunque Lázaro capisce che questo mestiere non fa per lui. Poi racconta di come Lázaro ottiene un oficio real: diventa pregonero (banditore) a Toledo. Anche qui ci sono degli inserti dell'edizione di Alcalà. Un giorno Lázaro accompagna un ladro, condannato ad essere impiccato, e si ricorda della profezia di Escalona. La frase “acompañar los que padecen persecuciones por justicia” ci ricorda una frase del primo trattato, quando, parlando del padre di Lázaro, si dice che “padeció persecución por justicia”. Entrambe le frasi ci riportano alla memoria il celeberrimo discorso della montagna, ovvero quello delle beatitudini, di cui l’ottava recita: “Beati i perseguitati dalla giustizia perché di essi è il regno dei cieli”. Questa beatitudine si richiama in tono satirico, perché si gioca sul doppio significato di “POR”: può introdurre un complemento di causa, ma anche d’agente, come in questo caso: “fu perseguitato dalle autorità giudiziarie” (non “i perseguitati a causa della giustizia”, coloro che vogliono condurre una vita ispirata ai principi di Gesù, e quindi vengono perseguitati). Quindi vediamo anche il doppio significato di “justicia”, che può significare “virtù” oppure “potere giudiziario”. La frase presente nel primo trattato sarà cassata dall’edizione espurgata. Se il padre di Lázaro (ladro, punito e condannato all’esilio) fu perseguitato dalla giustizia, Lázaro adulto, invece, in quanto banditore, accompagna coloro che sono perseguitati dalla giustizia le ⟶ origini infamanti di Lázaro riemergono in queste citazioni indirette all’interno del settimo trattato, anche a proposito della figura materna. “Le cose mi sono andate così bene come banditore, che tutto ciò che ha a che fare con il mio mestiere di banditore lo gestisco io; anzi, se c’è qualcosa da vendere si chiede del banditore Lázaro de Tormes”, strada questa ipotesi. Comunque, il fatto che questo testo sia fortemente anticlericale non impedisce che potesse essere scritto da un frate. Altri papabili autori sono: una confraternita di 6 picari (attribuzione di metà ‘600); un gruppo di vescovi spagnoli (in viaggio per il Concilio di Trento); i fratelli Valdés (Alfonso e Juan); Lope de Rueda, Sebastián de Horozco; Francisco Cervantes de Salazar (ipotesi molto recente), ecc. Al giorno d’oggi, ancora non c’è un nome sul quale si trovano tutti d’accordo, quindi è possibile trovare in vendita nelle librerie il “Lazarillo de Tormes” sotto la A di anonimo, sotto la H di Hurtado de Mendoza e sotto la V di Alfonso de Valdés (è esattamente la stessa opera). E’ molto gettonata l’ipotesi dell’anonimato, anche perché l’opera viene presentata dall’autore come un’autobiografia (Lázaro de Tormes scrive la storia della sua vita), accentuando l’apparenza di storia vera; quindi non stupisce il fatto che non figurasse nessun nome sul frontespizio del testo. L’autore non può essere una confraternita di picari perché, leggendo il prologo del testo, si citano autori classici come Plinio, Cicerone, che sicuramente un banditore di umili origini come Lázaro de Tormes non poteva conoscere o aver letto in versione latina. Secondo Rosa Navarro è andato perduto un foglio del prologo del manoscritto originale (precisamente l'ultima parte del prologo dell'autore anonimo e l’inzio del racconto da parte di Lázaro) perché la storia in cui Lázaro racconta la sua vita e il caso inizia “in medias res”, ovvero da quel “Suplico a Vuestra Merced”, mentre l’identità della persona che cita Plinio e Cicerone parrebbe essere qualcun’altra (non Lázaro). L'opera è scritta in uno stile umile, nella speranza che, da questa storia, si possa ricavare qualche frutto o almeno il piacere di leggere, visto che si tratta di “letteratura di evasione”. E’ un romanzo picaresco, ma in nessuna parte del testo compare la parola pícaro, a differenza invece del Guzmán de Alfarache. GUZMÁN DE ALFARACHE Quest’opera di Mateo Alemán è divisa in due parti: nel 1599 appare la prima; nel 1604 la seconda. Nei 5 anni che intercorrono tra la pubblicazione delle due parti succede qualcosa di aspettato. La prima parte si era conclusa con il proposito di essere continuata, così, lo scrittore valenzano Juan Martí, sotto lo pseudonimo di Mateo Luxán de Sayavedra, nel 1602 pubblica la seconda parte apocrifa. La stessa cosa successe con il Don Quijote di Cervantes, il quale pubblicò la prima parte del testo autentico nel 1605 e la seconda parte nel 1615; ma nel 1614 venne pubblicata una seconda parte apocrifa da parte di Alonso Fernández de Avellaneda, suscitando una grande ira in Cervantes. Anche Alemán accolse con grande ira la pubblicazione del Guzmán apocrifo di Sayavedra, infatti si vendicò di lui, rendendolo un personaggio negativo della sua seconda parte (facendolo macchiare di furti e tradimenti ai danni del protagonista e che, durante un naufragio, impazzirà e finirà affogato). Il Guzmán de Alfarache è un testo estremamente lungo, molto articolato, e di lettura non agevole, perché la storia è complicata da molte digressioni moraleggianti. Entrambe le parti si articolano in tre libri, ognuno dei quali ha i suoi propri capitoli, i cui epigrafi ricordano quelli del Lazarillo de Tormes, soprattutto il primo, perché “cuenta quién fue su padre” ⟶ “…cuyo hijo fue”. Una delle caratteristiche del Guzmán de Alfarache è la presenza novelle totalmente indipendenti dalla storia principale che sono interpolate nel romanzo, sotto forma di racconti che vengono fatti da due personaggi che si incontrano e che vogliono rendere il viaggio più piacevole (come ad esempio il capitolo 8), incrementando notevolmente la lunghezza del testo. L'epigrafe del libro segundo contiene la parola pícaro: “Trátase cómo vino a ser pícaro y lo que siéndolo le sucedió” anche Guzmanillo racconta chi furono i suoi genitori, si ritrova abbandonato ⟶ al suo destino, ma per sua propria scelta, perché è lui ad andare via di casa (a differenza di Lázaro) per conoscere il mondo e per conoscere la sua famiglia italiana (perché ha dei parenti a Genova che lo accoglieranno malissimo e dei quali poi si vendicherà crudelmente). Anche Guzmanillo è mozo de muchos amos nei suoi molteplici viaggi e nelle sue peripezie: diventa pinche de cocina (lavapiatti al servizio di un cuoco, uno dei mestieri più umili dell’epoca). Abbandonato dal padrone, torna ad essere un pícaro e fa un furto a un droghiere. Poi va a Toledo e, dopo una serie di peripezie, passa al servizio di un capitano, arrivando finalmente in Italia (Genova è la meta del suo viaggio). Nel libro tercero assistiamo alla metamorfosi di Guzmán: “Trata en él de su mendiguez y que con ella le sucedió en Italia” Guzmán non incontra i parenti che immaginava, poiché questi gli fanno ⟶ uno scherzo e quindi lui fugge a Roma, dove si trasforma in mendicante di professione: comincia a mendicare, impara per bene il mestiere, vive una serie di altre vicissitudini, fino a che non va al servizio dell’ambasciatore di Francia. Finisce così la prima parte dell’opera; passeranno poi 5 anni prima della pubblicazione della seconda parte. All’inizio della prima parte dell’opera, nella “Declaración para el entendimiento de este libro”, Mateo Alemán dice che, in un primo momento, aveva pensato di pubblicare la storia in un unico volume, ma poi ha cambiato idea. Nel leggere la prima parte, al lettore potevano sorgere dei dubbi, che lui va a chiarire. “Él mismo escribe su vida desde las galeras” l'opera, come il ⟶ Lazarillo de Tormes, è autobiografica: è il racconto della vita di un pícaro, scritto in prima persona, in età adulta, ma non per rispondere ad una richiesta concreta di chiarire un episodio in particolare: Guzmán si propone al suo pubblico di lettori come atalaya de la vida humana: sentinella della vita. Scrive la sua autobiografia dalle galere regie sulle quali è costretto a remare poiché è stato condannato per i vari delitti che ha commesso (ha vissuto una serie di lunghissime esperienze delittive, soprattutto furti). Guzmán, però, si pente degli errori commessi nella sua vita da delinquente, e scrive la storia della sua storia: essendosi pentito, vuole convertirsi in sentinella della vita umana, ovvero vuole che la sua vita serva da esempio per far sì che chi lo legge capisca qual è la strada giusta da seguire e non ripeta i suoi errori. Scrive la sua storia, pentito, per avvisare tutti quelli che nella vita dovessero trovarsi davanti a un bivio (come si è trovato lui da ragazzino appena ha lasciato la casa materna), per consigliare loro di non scegliere la strada più allettante, perché è spesso la strada del vizio e della perdizione. Dunque nella seconda parte dell’opera, vediamo Guzmanillo che ha appena iniziato la sua vita da vagabondo, non sa bene che strada prendere e si trova ad un bivio, che non è soltanto concreto, è anche un bivio metaforico, dove, purtroppo, sceglie la strada sbagliata, quella del vizio: sarà l'inizio di una vera e propria carriera delinquenziale, che lo porterà ad essere condannato a vita sulle galere regie (da cui poi si salverà, perché sulla galera dove è legato si organizza una rivolta tra i galeotti, ma lui denuncia tutto ai Capitani a bordo, quindi la rivolta viene stroncata sul nascere e dunque si attende il perdono reale: la prospettiva è di una immediata liberazione). Inserisce molti sermoni moraleggianti, perché usa la rievocazione di questi episodi passati per ammonire il suo pubblico di lettori (sono molto importanti perché ci danno conto della conversione di Guzmán). Dunque, Mateo Alemán, in questa declaración, mette in guardia i lettori sul punto di vista del pícaro pentito, e mette in chiaro il fatto che l’opera ha una finalità moraleggiante. Tutto questo non potrebbe essere compreso dal lettore se non avesse l’aiuto di Mateo Alemán, se non alla fine della seconda parte, che però è stata pubblicata anni dopo. Approfittando dei tempi morti della vita sulla galera, Guzmán mette a frutto le sue conoscenze di persona colta, perché, a differenza di Lázaro de Tormes (la cui preparazione è tutta fondata sugli insegnamenti del cieco, lui ha studiato latino, greco, retorica; è un aspirante religioso, quindi i suoi insegnamenti sono dotti, colti. Mateo Alemán chiarisce anche che la prima parte dell’opera è divisa in 3 libri, così come anche la seconda parte. Nel libro segundo della prima parte Guzmán decide di cominciare una nuova vita, dunque lascia il suo padrone e si reca a Madrid, dove inizia a chiedere l’elemosina, poi inizia a vendere i vestiti che ha indosso, di modo che, quando arriva a Madrid, arriva con l’aspetto di un galeotto. Cerca un padrone, ma nessuno lo prende a causa del suo aspetto, perché lo vedono come uno straccione sporco e lo credono un pícaro ladruncolo, dedito agli stravizi (come il vino, i giochi di carte, la vita di strada). Allora si dedica alla picardía, perdendo tutta la vergogna che aveva potuto avere fino ad allora. Si unisce ad altri ragazzini come lui, che vivono di stratagemmi e di furti, e riesce a mettere da parte dei soldi e avere il cibo assicurato, perché chiedeva la carità (anche se gli pesava dover vivere così). Non aveva un mestiere e, nel frattempo, percorre fino in fondo la strada del vizio. “Non avrei cambiato questa vita di picardía” però, a un certo punto, comincia ad avere paura di essere considerato vagabondo, così decide di diventare esportillero entrando nella confraternita degli asini: portava la cesta nella quale si metteva la spesa fatta al mercato per conto di terzi (come gli asini) guadagnando dei soldi, perché anche questo era un lavoro, anche se la vita da pícaro è comunque una vita dei bassifondi, una vita bassa e umile. Dunque, ecco come Guzmán entra a Madrid, fatto pícaro. Libro tercero – 1° parte Guzmán si dedica ad un altro mestiere, quello dell'arte bribiática, ovvero il mendicante di professione: si fingeva storpio, malato o invocava la misericordia altrui, ottenendo almeno, per carità, dei tozzi di pane. Dunque lascia Genova, dove è stato maltrattato e deriso da coloro che considerava i suoi parenti italiani e arriva a Roma, dove si dedica a questo nuovo mestiere, aiutato da un ragazzino italiano che lo guida e gli insegna l’ABC di come chiedere l’elemosina. Libro tercero - 2° parte CAPÍTULO 8 ⟶ “Sacan a Guzmán de Alfarache de la cárcel de Sevilla para llevarlo al puerto a las galeras. Cuenta lo que pasó en el camino y en ellas”. Ci sono vari passaggi in cui Mateo Alemán fa dei riferimenti al genere del romanzo picaresco con degli omaggi al Lazarillo de Tormes, come ad esempio, il frammento in questione, che è importante per l'eco che percepiamo del finale del Lazarillo. Ci avviamo verso la conclusione del romanzo. Dopo una vita all'insegna di crimini e delitti, Guzmán inizia a rivedere con nuovi occhi il suo percorso, a riconsiderare la bontà delle scelte fatte finora, fino ad arrivare ad una notte in cui avviene una vera e propria conversione di questo pícaro.  Lázaro de Tormes, alla fine della sua lettera indirizzata a Vuestra Merced per dare conto del caso che le era giunto alle orecchie, aveva chiosato il suo racconto autobiografico dicendo: “En este tiempo estaba en mi prosperidad y en la cumbre de toda buena fortuna”.  Guzmán de Alfarache, alla vigilia del suo ingresso nella galera regia (navi su cui i galeotti erano condannati al remo), è arrivato a “la cumbre del monte de las miserias”, ha toccato il fondo del vizio, del peccato, della perversione, è arrivato ormai agli estremi di una vita di perdizione, quindi inizia a farsi strada in lui il pentimento. Si trova di fronte a un nuovo bivio: o sprofonda definitivamente negli inferi del peccato, della perdizione, o decide di cominciare la risalita verso il cammino della virtù. Parla a se stesso: “Svegliati, Guzmán da questo torpore nel quale sei sprofondato per troppo tempo. E’ vero che qui ti ci hanno condotto le tue colpe, hai condotto una vita dissoluta finora, ma sei ancora in tempo per redimerti; è quello che devi fare”. Quella fu una notte agitata, piena di ripensamenti, in cui passa in rassegna tutte le sue scelte ed esperienze, da quando era solo un bambino ed aveva abbandonato la casa materna, fino ad arrivare a “la cumbre del monte de las miserias”. L'indomani si risveglia renovado: ringrazia Dio per questa conversione che è avvenuta perché si sente una nuova persona, un nuovo Guzmán. E’ deciso a cambiare vita, ma è pur sempre un uomo: non si trasforma in 24h in un santo; continua a commettere errori, ma l'importante è che ha un nuovo cuore che gli batte in petto e una nuova visione della vita: finalmente ha imboccato la strada della virtù. Il problema, però, è il fatto che quando uno è un delinquente incallito, è difficile che gli altri si fidino di lui. CAPÍTULO 9 ⟶ Prosigue Guzmán lo que le sucedió en las galeras y el medio que tuvo para salir libre della. Sulla galera regia dove è condannato Guzmán si prepara una rivolta, capitanata da un tale di nome Soto, che lo coinvolge per una questione logistica tra i ribelli (in realtà, poi pensa di ucciderlo e di sbarazzarsi di lui), ma Guzmán ha una sorta di illuminazione e decide che bisogna incominciare a dare prova del “nuevo yo” che si è fatto strada in lui, il nuovo Guzmán deve cominciare ad agire. Così, decide di denunciare i rivoltosi che stanno preparando questa congiura: invoca l’attenzione di un soldato perché gli permetta di parlare direttamente al capitano per svelare la cospirazione (i rivoltosi stanno progettando di prendere il controllo della nave e liberarsi, uccidendo tutti i soldati lì presenti). Il capitano lo ringrazia e gli promette una buona ricompensa. Si fanno le opportune verifiche e si scopre che la sua denuncia è più che fondata, dunque i cospiratori, a seconda della gravità del reato e del grado di responsabilità, vengono puniti duramente: alcuni vennero frustati, altri vennero condannati a vita a remare sulla galera, altri vennero impiccati e, i più colpevoli, vennero squartati pubblicamente. Il capitano, per ricompensarlo, lo fa liberare delle catene che lo mantenevano legato ai remi. Guzmán chiede il perdono del re per la remissione di tutte le sue colpe, per questo gli viene consentito di circolare liberamente sulla galera, senza catene e senza più condanna al remo.
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