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LE BUONE PRASSI DEL SERVIZIO SOCIALE, Dispense di Metodi E Tecniche Del Servizio Sociale

APPUNTI sulle buone prassi e buone pratiche da adottare nel servizio sociale.

Tipologia: Dispense

2017/2018

Caricato il 09/06/2018

Ash880
Ash880 🇮🇹

4.4

(17)

7 documenti

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Scarica LE BUONE PRASSI DEL SERVIZIO SOCIALE e più Dispense in PDF di Metodi E Tecniche Del Servizio Sociale solo su Docsity! LAVORARE PER BENE: LE BUONE PRASSI Abbiamo detto che in base alla letteratura internazionale, il metodo d’intervento dell’assistente sociale maggiormente legittimato oggi è quello “unitario”, che tiene conto non solo della persona individuale, dei suoi punti di forza e di debolezza, ma anche di questo individuo all’interno dei gruppi sociali di appartenenza, compreso il gruppo allargato della comunità. Metodo che tende a superare una vecchia ideologia che riteneva che i metodi d’intervento dovessero essere analizzati e attuati separatamente (Casework, Groupwork, Community Work). E’ vero però, che di là da questo quadro complessivo che prevede un metodo unitario, quando andiamo a formulare un piano d’azione dobbiamo necessariamente pensare a dei metodi che possono adattarsi in maniera particolare alle situazioni che via via ci troviamo di fronte. Tra le varie possibilità c’è quello di utilizzare le buone prassi, che hanno diversi significati, considerate anche un metodo d’intervento, un modo per approcciare una situazione problematica, rispetto alla quale delle prassi precedenti non ci hanno soddisfatte. Si va a ricercare qualcosa di diverso. La buona prassi può essere considerata un metodo d’intervento laddove altri piani e approcci non hanno funzionato, o riteniamo che non possano funzionare, o perché ci troviamo di fronte a delle problematiche nuove rispetto alle quali non sappiamo come approcciare e quindi abbiamo bisogno di qualcosa che ci indirizzi e ci guidi. Le buone prassi sono non delle idee progettuali all’interno di cartelle, ma sono interventi che effettivamente vengono realizzati, in un dato contesto sociale, in un dato periodo storico, nei confronti di una data tipologia di utenza. Per evitare che ci sia quest’idea diffusa di un servizio sociale non produttivo, inefficace, incapace di trovare delle adeguate soluzioni rispetto a delle problematiche sociali emergenti, vengono adottate queste buone prassi. In tale campo ci si chiede se: è pensabile definire e valutare una pratica come buona e in che modo si definisce buona? Andremo a vedere come da un’idea progettuale si passa alla realizzazione di una buona pratica fino alla sua valutazione. Buone prassi e qualità nel lavoro sociale Si parla di buone prassi soprattutto perché ci sono state serie di valutazioni del servizio sociale che hanno mostrato tutto ciò che non va bene. Si parte da quest’aspetto per arrivare a una serie di considerazioni. Il termine non nasce nel contesto specifico del lavoro sociale, ma si diffonde soprattutto in altri ambiti, come quello economico e di pubblica amministrazione, a partire dagli anni ’90 (per una serie di riflessioni che riguardano soprattutto la pubblica amministrazione). Si parlava molte volte di un’assenza di comunicazione tra Stato e cittadini, di procedure troppo lente e una burocrazia forte. I cittadini non si sentivano capiti in quelli che erano i loro bisogni e le loro esigenze. In quel periodo ci si rende conto di quanto questi aspetti andavano a creare ostacoli per la risoluzione di problemi per la cittadinanza. Tutta una serie di riforme negli anni ’90 ha rappresentato una svolta in tal senso, con l’introduzione di una serie di nuovi criteri (di efficacia, di efficienza, di trasparenza). Tutt’oggi nei siti di pubblica amministrazione, troviamo una voce “amministrazione trasparente”, perché da quel periodo in poi s’inizia a puntare sulla trasparenza delle azioni e sul rispetto di questi criteri a beneficio dei cittadini. Tutti questi aspetti andavano a caratterizzare degli interventi, dei progetti. Per incentivare la pubblica amministrazione in quegli anni, puntando su delle buone prassi (che mettevano alle spalle il vecchio e anonimo modo di operare per attivare procedure nuove, efficaci, trasparenti e più utili per il cittadino, come per esempio, con espletamento di pratiche più veloci), si bandivano concorsi progettuali con finalità di concorrere agli interessi dei cittadini stessi. Anche nel settore del servizio sociale si è iniziato a domandare cosa funzionasse davvero. Il termine buona prassi in questo contesto ha mostrato tutti i suoi limiti: concepire la qualità solo come il raggiungimento di alcuni requisiti standard non era possibile, poiché avrebbe portato alla totale svalutazione degli aspetti sociali di un intervento. Ciò che rende buona una pratica nel contesto sociale non è riconducibile solo a elementi generalizzabili, poiché entrano in gioco una serie di fattori, spesso non prevedibili, che vanno fronteggiati al momento. Non esistono criteri definiti e se ci sono, bisogna chiedersi da chi vengono stabiliti. Non dobbiamo pensare che una buona prassi nel servizio sociale sia qualcosa d’irrealizzabile, di perfetto o di astratto. Può essere definita una “esperienza professionale concreta”, perché parte da un’esperienza vera che è stata pensata effettivamente da un operatore di un qualsiasi servizio e che una volta teorizzata e divulgata, può essere definita buona, perché ha dato buoni risultati e si prenderà di riferimento quando s’interverrà in altre situazioni. 1. Teorizzazione di una buona prassi Il discorso non è così semplice. C’è tutto un passaggio affinché si possa definire una pratica come buona. I risultati degli interventi sociali non sono immediati. Il lavoro sociale, occupandosi di persone che per loro natura sono uniche, originali e imprevedibili, diventa molto complicato. Soprattutto diventa difficile andare a stabilire se quella procedura può essere considerata buona e attraverso quali criteri. Partendo da un’esperienza concreta, reale, questa pratica deve essere teorizzata. 2. Divulgazione di una buona prassi Quando la pratica diventa teoria deve essere divulgata, resa nota e presentata a convegni, seminari e al mondo scientifico in generale. In questo modo la buona pratica può diventare una sorta di capitale iniziale e presa a riferimento in altre situazioni. Una volta acquisiti tutti i pareri e il piano d’intervento è stato progettato e descritto in tutti i suoi passaggi, questa situazione diventa un nuovo sapere per i professionisti del sociale. Il sapere degli assistenti sociali è un sapere che non necessariamente discende dai libri, può provenire dall’esperienza concreta, da ciò che viene fatto su territorio e nei servizi. Prassi che viene teorizzata appunto, e poi diventa un nuovo sapere per gli operatori. Questi ultimi lo conoscono tramite la divulgazione. Valutazioni negative del lavoro sociale Le valutazioni che riguardano il lavoro sociale hanno messo in evidenza sempre gli aspetti negativi (s’insiste molte volte sulle risorse che non ci sono, sul malfunzionamento dei servizi) che generano uno scontento generale. Sono gli stessi operatori, molte volte, a crearsi quasi un alibi per le cose che non vanno bene, quasi una giustificazione al non fare. Molti operatori, tendono a vedere in modo negativo il proprio lavoro, ad avere una percezione anche esterna che si rispecchia su di loro e la propria considerazione stessa del lavoro come professione negativa che si rispecchia all’esterno. Un gioco di specchi tra professionisti e società, tra utenti e professionisti e così via. Si creano situazioni a specchio da cui diventa difficile uscire. Cultura negativa della quale si diventa difficile parlare bene del lavoro sociale. Cultura del “deficit”, s’insiste su quello che manca e non su quello che funziona. Bisogna partire da ciò che di buono c’è. Appare necessario ridefinire questa tendenza negativa a raffigurare la nostra professione e pian piano, si va in qualche modo a rovesciare questa prospettiva in uso. Limite dell’evidenza scientifica Nello scenario attuale nel Regno Unito, le linee guida dei vari servizi, prevedono gli interventi dei professionisti su quella che è l’evidenza scientifica (non lasciare nulla al caso, ma attuare soltanto quello che la ricerca ha dimostrato essere l’intervento migliore con migliori risultati). Ma, l’evidenza scientifica implica un punto di vista limitato e riduttivo rispetto a quella che è la pratica sociale. Quindi, una buona prassi, in quest’ambito, non può essere definita buona soltanto perché ha dato un determinato risultato. E’ definita buona in rapporto alla relazione sociale che si è sviluppata, alle varie sfumature dell’agire. Possiamo dire che soltanto riflettendo su quest’approccio critico al servizio sociale, in cui gli operatori devono mettere sempre in discussione il loro agire, si può fare della pratica in un luogo in cui si elabora il sapere. Se tutti gli operatori adottassero quest’approccio critico nei confronti del proprio operato, si potrebbe sperare in un cambiamento di prospettiva. Sul territorio esistono delle situazioni di discriminazione, di disuguaglianza, di grande malessere sociale. Folgheraiter pone un problema di natura politica. Lui si domanda: possono essere gli assistenti sociali responsabili della mancata attuazione di politiche di giustizia sociale e di equità sociale? Oppure ci sono responsabilità a livelli più elevati? E’ difficile rispondere ma dobbiamo porci con responsabilità. La nostra responsabilità è di non adottare l’atteggiamento dello “scarica barile”. Molti assistenti sociali nei servizi si pongono in questi termini. Ci si limita a quel poco che si riesce a fare. Quest’atteggiamento, non è che non abbia un fondo di verità. E’ vero che molte volte il profilo professionale non è adeguatamente valorizzato, che le risorse sono insufficienti, che il dirigente persegue obiettivi non giusti, che la politica di assunzione penalizza determinati ambiti piuttosto che altri. Ma tutto questo può giustificare che io come professionista posso sentirmi così inerme e pensare che la responsabilità sia tutta degli altri? Io cosa posso fare? Si deve avere un margine di responsabilità. Non posso essere io il responsabile finale di politiche sociali, ma una parte di responsabilità è detenuta dal mio ruolo. Questo discorso si riconnette alle buone prassi, perché rispetto al mio livello di responsabilità, devo poter attivare risorse, individuare progetti e approcci nuovi, coinvolgere operatori e altri servizi per il raggiungimento di un progetto concreto buono. Di solito comincia chi ha una maggiore professionalità, motivazione, chi investe di più professionalmente, chi si mette in gioco. Le buone prassi sono quello strumento nelle mani degli operatori, ma anche della dirigenza. Riguardo agli interventi del servizio sociale, è uno strumento nelle mani dei professionisti. Nel momento in cui si trova di fronte un’utenza difficile, particolare, al di là delle proprie competenze, ci si rende conto di avere bisogno di capire e conoscere di più quella realtà di utenza. Cosa posso fare? Quale metodo d’intervento posso attivare? Posso vedere cosa è stato fatto in una situazione del genere, in un altro contesto territoriale, per esempio. Mi documento sugli interventi fatti altrove, per capire in che maniera hanno impostato i progetti concreti, quali sono stati i risultati più interessanti, per avere un’idea e capire come mi posso muovere. Nel fare questa ricerca, si troverà una buona prassi che ha determinate caratteristiche. Si prende questa buona prassi, si estrapola e diventa un modello di riferimento e di orientamento. Un progetto realizzato altrove, diventato una buona prassi, perché ha funzionato (significa che è un’idea progettuale che ha raggiunto una percentuale sufficiente degli scopi prefissati, che ha riscontrato il favore dei destinatari degli interventi, che è riuscita ad affrontare degli ostacoli esistenti), può essere adattato in modo intelligente e funzionale. Bisogna tener conto di una serie di elementi che vanno a diversificarsi rispetto al contesto iniziale. Eviterò di fare gli stessi errori che possono aver fatto originariamente. Diventa un metodo che non conoscevo che attingo da altri ma che adatto alla mia situazione e che può essere vincente anche per questa situazione. Il fine è dunque quello di offrire una chiave di lettura, che serve a identificare le buone prassi esistenti e che nel momento in cui vengono teorizzate e divulgate, possono produrre in prospettiva un vero e proprio sistema. Si tende a capovolgere la situazione di partenza di cultura del deficit, per valorizzare aspetti che vanno bene. “Una buona prassi non è un gesto eroico ma un modus operandi funzionante disponibile a tutti”. (Dr. Dario Ianes) Ciò per sottolineare ancora una volta il fatto che quando si parla di buone prassi, non bisogna pensare che si tratti di un modo di agire perfetto e ideale, ma qualcosa di concretamente accessibile a tutti, basta solamente saperlo valorizzare.
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