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Le crociate nel medioevo, Appunti di Storia Medievale

Descrizione delle crociate, significato, caratteristiche, ruolo delle masse, indulgenze, e finanziamenti

Tipologia: Appunti

2023/2024

Caricato il 01/06/2024

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Scarica Le crociate nel medioevo e più Appunti in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! 1 LE CROCIATE 1. ……………………………………………………………………………………………………………………………. IL CONCETTO DI CROCIATA: DEFINIZIONI Con il termine crociate si intendono le guerre volute dal papato, volte ad allargare il nome cristiano e tramutatesi poi, fra XIV e XVIII secolo, in guerre di difesa dal pericolo turco. La crociata nasce come “pellegrinaggio armato in Terrasanta” con lo scopo di riconquistare la città di Gerusalemme, ma non fu raro che la guerra fosse condotta nei confronti di eretici, pagani, scismatici o nemici politici del papato, giustificate come propedeutiche alla crociata da condursi contro gli infedeli. Non si può però parlare di “guerra santa”, in quanto nessuno osò mai santificare una guerra. Si tratta quindi di guerre legittime, ma mai sante. CROCIATA-MOVIMENTO, CROCIATA-ISTITUZIONE La “crociata-movimento” è costituita da quel particolare complesso di miti e rappresentazioni strettamente legato alla pratica della “peregrinatio” e all’idea di redenzione, che sedusse per lungo tempo il laicato cristiano, affiancandosi alla “crociata-istituzione” tesa a disciplinarne le caratteristiche. La prima crociata si era configurata tanto come “iter”, viaggio militare volto alla difesa dei cristiani orientali, quanto come “peregrinatio” penitenziale verso i luoghi santi, assumendo le forme del pellegrinaggio armato. Tale concettualizzazione, presente negli scritti di Urbano II, avrebbero favorito l’inserimento del primo “iter” gerosolimitano nel quadro di una vera e propria “teologia della Storia”. La conquista di Gerusalemme nel 1099 e l’instaurarsi di un regno in quel luogo concorsero ulteriormente a canonizzare l’idea. Nonostante ciò per lungo tempo la crociata rimase un oggetto informe, privo di nome e malleabile, legato più alla pratica che alla teoria. Inizialmente il papato s preoccupò solamente di disciplinarne la pratica: prendere la croce significava combattere in nome della Chiesa, dopo aver pronunciato un voto, cui erano annesse determinate indulgenze, in caso di adempimento, o sanzioni, in caso contrario. Urbano II si occupò anche di imporre una limitazione alle partenze indiscriminate, ma nonostante ciò la “crociata popolare” rimase a lungo pratica comune. Si trattava di movimenti eterogenei, espressione del disagio ampiamente diffuso all’interno del laicato. L’idea che un atto materiale potesse garantire la salvezza contribuì al ridimensionamento del primato della vita contemplativa su quella attiva e favorì il diffondersi di un tipo di religiosità penitenziale che avrebbe caratterizzato XII e XIII secolo. La penitenza perse la sua funzione di sanzione e iniziò a configurarsi come un programma che prevedeva di restaurare la vita apostolica attraverso la carità e l’itineranza. Su tali istanze sarebbero sorti i nuovi “ordini mendicanti”. “CRUX CISMARINA”, “CRUX TRANSMARINA” Con il termine “crux transmarina” si intende una crociata condotta al di la del mare, in Terrasanta, mentre con quello di “crux cismarina” una spedizione volta a contrastare i nemici, politici e religiosi, del papato. Attorno alla crociata si concentrarono gli sforzi di teologi e canonisti, volti a definire l’apparato dei voti e delle decime, oltre che a giustificare l’idea stessa di una guerra condotta contro gli infedeli. Fra i primi a promuovere una riflessione in merito vi fu Innocenzo III, ma bisognerà attendere l’ “Apparatus” di Innocenzo IV per giungere a una elaborazione canonistica. Secondo quest’ultimo non era possibile convertire con la forza gli infedeli: la crociata era legittima perché tutte le “res sanctae” appartenevano a Dio e a questi erano state sottratte. I saraceni inoltre si erano macchiati di profonde ingiustizie e si ostinavano nel loro paganesimo: per questo l’uso della forza contro di loro era giustificato. Una posizione simile fu presa dal cardinale Ostiense, secondo il quale, avendo la Chiesa il diritto di governare sulla comunità universale, ogni crociata diveniva lecita in quanto obbligava gli infedeli a riconoscerne la sovranità. Egli ammetteva inoltre la possibilità di agire militarmente anche contro eretici e scismatici, rei di una colpa ancora più grave dei saraceni, in quanto capaci di dividere la Cristianità stessa. Spettava quindi alla chiesa stabilire di volta in volta gli obiettivi della crociata. Ciò giustificò il bando di crociate contro lo scismatico imperatore di Costantinopoli, gli eretici (catari), i pagani, molteplici oppositori politici (Federico II) e famiglie poco gradite al papa (Colonna). Ogni operazione volta a difendere l’integrità della chiesa o ad ampliare i confini della “Christianitas” iniziò così ad essere presentata come completamento dell’iter gerosolimitano e la “crux cismarina” si rivelava quanto mai necessaria per permettere alla “crux transmarina” di svolgersi correttamente. Secondo la costituzione “Excommunicamus” (Gregorio IX), fra i testi basilari della legislazione crociata, coloro che si fossero armati per lo sterminio degli eretici avrebbero goduto delle stesse indulgenze e dei privilegi concessi a chi si recava in 2 soccorso della Terrrasanta. Di conseguenza la crociata iniziò ad assumere i caratteri di una macchinosa operazione politica ed economica, funzionale all’affermazione teocratica del papato stesso. La Terrasanta poteva essere sostituito con una meta più urgente, mantenendo gli stessi privilegi spirituali e temporali. Era possibile anche riscattare il voto versando alla Chiesa una certa quantità di denaro tramite il quale finanziare la partenza di un combattente. “PASSAGIUM GENERALE”, “PASSAGIUM PARTICULARE” A partire dalla terza crociata e nel corso del XIII secolo la crociata conobbe un crescente moto di pianificazione evidente in molti campi, a partire dal mezzo scelto per la sua conduzione: la “navis”. L’iter gerosolimitano avrebbe mutato nome in “passagium”, da una parte all’altra del mare. Ciò facilitava il trasporto delle ingenti truppe necessarie a sostenere le spedizioni. A tale urgenza andò legandosi la necessità di pianificazione, che spinse il papato, deciso a sostituirsi ai principi nella guida dell’operazione, a richiedere consigli in forma scritta presso chi conosceva direttamente la situazione orientale. Fu Innocenzo III ad avanzare per primo richieste in tal senso nel 1199 al patriarca di Gerusalemme, al vescovo di Lydda e ai maestri degli ordini militari, ottenendo una serie di lettere che includevano relazioni dettagliate. Richieste simili furono avanzate anche da Luigi IX, re di Francia, e da Innocenzo IV nel 1245, nel corso del primo concilio di Lione. Esse sfociarono nella stesura da parte di Giovanni da Pian del Carpine e Guglielmo di Rubrik di accurate relazioni, nell’ottica di un’alleanza franco-mongola. Bisognerà poi attendere il secondo concilio di Lione, nel 1274, perché tale interesse si volgesse verso un ambito prevalentemente militare. Gregorio X avrebbe infatti richiesto una serie di pareri riguardanti il modo di procedere concretamente al recupero e alla conservazione dei Luoghi Santi. Il trattato del domenicano Humbert de Romans elaborava una vera e propria apologia della crociata, ritenuta un mezzo più che legittimo, e spesso obbligato, per trattare con i saraceni. Egli sosteneva inoltre che non si dovesse riporre speranza in una conversione degli infedeli e che fosse necessario inviare in Terrasanta un esercito permanente. Posizioni opposte furono invece prese dal domenicano Guglielmo da Tripoli, che si sforzò di porre in risalto i punti di convergenza fra la fede cristiana e quella musulmana e sollecitò l’invio di missionari nel Levante, più utili a suo parere di crociati bellicosi. Un’altra voce si levò da Gilberto di Tournai, che lesse il fallimento delle imprese precedenti come conseguenza dei peccati della Cristianità. Egli puntò il dito sulla brama di potere degli ordini militari e sull’inefficienza dell’esercito e al contempo condannò gli abusi connessi alla raccolta delle decime e alla pratica del riscatto del voto crociato tramite versamenti in denaro. Egli era fermamente convinto della validità della nuova strategia del “passagium particulare”, affermatasi nel corso del concilio, consistente nell’invio di piccole spedizioni formate da professionisti della guerra. I “crucesegnati” avrebbero dovuto essere quindi sostituiti da “stipendiarii”, soldati di professione, per evitare la partenza di truppe indisciplinate, scarsamente consapevoli del compito ricevuto, principale caratteristica del “passagium generale”. “PERFIDI SARACENI”, “CRUDELI TURCHI” Dopo il fallimento dell’alleanza turco-mongola, la caduta di Acri e il Giubileo del 1300 gli obiettivi della crociata sarebbero andati mutando. L’impegno contro i musulmani sarebbe stato assunto dai cavalieri dell’Ospedale di Rodi e dalla dinastia cipriota dei Lusignano. Genovesi e veneziani avrebbero fornito il loro apporto, ma tentando di preservare i propri interessi economici. Allo stesso tempo si presentò un pericolo nuovo, rappresentato dalla minaccia ottomana, che si espandeva in direzione di Costantinopoli. Nel 1354 i turchi occuparono Gallipoli e con la vittoria di Adrianopoli, nel 1362, completarono l’aggiramento della capitale imperiale, minacciando di espandersi verso occidente. In assenza di un papato forte la leadership crociata fu assunta da principi, signori e avventurieri. La spedizione di Smirne del 1343, quella di Amedeo VI di Savoia del 1366 e quella di Nicopoli del 1396 sarebbero state indirizzate contro i turchi. L’ultima crociata a dirigersi esplicitamente verso la Terrasanta fu promossa da Pietro di Lusignano nel 1365, risolvendosi in un “raid” contro l’Egitto mamelucco. Nel 1390 l’obiettivo della spedizione franco-genovese sarebbe stato il porto di al- Mahdiyya. L’idea di crociata così iniziò ad evolversi da pellegrinaggio armato in Terrasanta, a guerra per difendere il papato, a guerra antiurica. Nel corso del secolo le leghe antiche furono concepite come “passaggia particularia”, propedeutici alla crociata in Terrasanta. Papi come Innocenzo VI, Urbano V e Gregorio XI dimostrarono di avere ben chiara la differenza fra turchi e saraceni. Bisognava contrastare entrambi, ma i turchi rappresentavano il pericolo maggiore. Coi mamelucchi era infatti possibile trattare e finanche commerciare. Gregorio XI avrebbe rotto con la tradizione parlando espressamente di “negocium contra turchos”, cui avrebbero dovuto partecipare latini e greci, e tale processo giunse a maturazione con Urbano VI nel 1388. Egli avrebbe infatti concesso all’ennesima lega antiturca formatasi nell’Egeo i medesimi benefici spirituali 5 durante il concilio di Lione: egli proclamò una nuova imposta dai caratteri eccezionali, applicata in maniera uniforme per i sei anni consecutivi. Il pagamento della somma, da versare annualmente, fu diviso in due rate e, per garantire un prelievo regolare, l’ecumene cristiana fu divisa in ventisei “collectoriae”, estese dal Portogallo a Gerusalemme, dalla Norvegia alla Sicilia. Esse erano affidate a un collettore generale, che aveva il compito di procedere al prelievo. Questo sistema garantì di incamerare ampie risorse. Nel 1295, nel 1298 e nel 1301 Bonifacio VIII avrebbe imposto tre decime triennali consecutive in sostegno degli Angioini nella lotta contro gli Aragonesi. Clemente V poi, nel 1312, introdusse una decima sessennale nel corso del concilio di Vienne per il soccorso della Terrasanta, seguita nel 1319 da una triennale voluta da Giovanni XXII. Nel 1342 e nel 1346 Clemente VI avrebbe imposto una decima triennale, seguita da una biennale, per l’impegno contro i turchi. IL RUOLO DELLE MASSE La crociata mantenne sempre un elemento fondamentale, anche quando alle spedizioni prenderanno parte per lo più mercenari e eserciti di professione: la capacità di colpire l’immaginario, di sovvertire il quotidiano, di convogliare verso un obiettivo comune il desiderio delle masse di partecipare alla scrittura della Storia. La crociata fu soprattutto un’ “idea-forza”, un fattore di aggregazione, di unità e di definizione fra i più carismatici che la Cristianità abbia mai conosciuto. Lo scenografico esordio della crociata ha rappresentato un momento di svolta per il laicato cristiano, prima relegato a mero fruitore del sacro: per la prima volta le masse si fanno protagoniste, segnando uno spartiacque nella storia dell’Europa e del Mediterraneo. Esse prendono coscienza della propria unità, associandosi nel compimento di un’impresa comune. L’aspirazione del pellegrino e il desiderio del “miles” di mettersi al servizio della Chiesa trovano nella crociata uno sbocco comune. 2. ……………………………………………………………………………………………………………………………. IL CRISTIANESIMO E LA GUERRA Nel corso dei secoli la crociata non ha mancato di affascinare l’Occidente, prestandosi a giudizi contrastanti. L’origine del connubio fra guerra e religione è stata variamente ricercata dagli storici nel Cristianesimo marziale di matrice bizantina, in quello sacrale dell’età carolingia e, più in generale, nell’affermazione di un Cristianesimo d’impronta vetero-testamentaria, particolarmente consono all’universo alto-medievale, la cui società era fondamentalmente guerriera. La riflessione circa la liceità per il battezzato di imbracciare le armi risale agli albori dell’era cristiana. Quando, fra II e V secolo, la funzione degli eserciti romani si fece anzitutto difensiva, non fu troppo arduo conciliare la fede cristiana e il suo possente anelito alla pace con il servizio militare. Un gran numero di cristiani popolava i ranghi legionari, ma parte della cristianità del tempo si trovava a disagio nell’esercizio delle armi. A partire dal tempo di Costantino la diffusione della fede cristiana avrebbe favorito un progressivo mutamento d’opinione in merito alla guerra. In particolare a seguito dell’editto di Tessalonica iniziò a farsi strada l’idea per cui, giacché l’imperatore era cristiano, combattere per lui era da ritenersi moralmente lecito, significando il contribuire al mantenimento dell’ordine che Dio aveva impresso alla società. Nel frattempo si andò delineando la possibilità che l’astensione dal sangue fosse una prerogativa solo di chi era deputato ai mestieri divini e di chi aveva scelto la vita monastica. Agli altri spettava la difesa dell’impero e della Chiesa. SANT’AGOSTINO E IL “BELLUM IUSTUM” Tra IV e V secolo si iniziò a riflettere sistematicamente sulla guerra e, in particolare, sul concetto di “bellum iustum”, ereditato da Aristotele, che ne aveva discusso nella “Politica”. Secondo il filosofo imbracciare le armi non doveva essere fine a sé stesso: era lecito in caso di difesa o per prevenire l’asservimento della cosa pubblica, ma anche per conquistare un impero e asservire quelle popolazioni meritevoli di schiavitù, oltre che in vista della pace. Tali istanze furono riprese da Agostino d’Ippona che, al principio del V secolo, sottolineando la minaccia apportata dai “barbari” all’impero e dagli eretici alla Chiesa, giustificava il ricorso alle armi, anche se in determinate condizioni. La guerra era, senza dubbio, un male, ma talvolta era un male necessario, volto a evitare una sventura maggiore o a riparare un’ingiustizia. Il “iustum bellum” rientrava nelle attività legittimate direttamente da Dio, anche se a certe condizioni. La riflessione sui testi agostiniani avrebbe portato, nel tempo, ad affinare il concetto, pienamente codificato solo negli anni Quaranta del XII secolo, a partire dal “Decretum” di Graziano nell’ambito della posizione giuridica dell’eretico. Una guerra poteva ritenersi “legale” se dichiarata dall’autorità del “princeps” e doveva essere volta alla difesa al recupero di beni 6 sottratti in maniera illecita. Il suo fine era quello di ripristinare la pace e la legittimità dell’ordine violato. Queste istanze furono ampiamente riprese dalla tradizione canonistica successiva: nella prima metà del Duecento si sarebbe ribadita la necessità che fossero i laici a imbracciare le armi, sotto l’autorità del “princeps” e della Chiesa e che la guerra fosse indirizzata a recuperare beni sottratti, a difendersi da un’aggressione o a ripristinare la pace. Tale riflessione giungerà a maturazione con Enrico da Susa, al quale si deve un tentativo importante di sistematizzazione della materia “crociata”Nella “Summa aurea” del 1253 egli avrebbe definito le diverse tipologie di “iusta causa”: la guerra contro gli infedeli, quella proclamata da un giudice legittimo e quella difensiva. Il contributo più importante sarebbe giunto da Tommaso d’Aquino, che avrebbe affrontato la questione nella “Summa Theologiae”, nell’ambito della trattazione sulla virtù e della carità. Autorità legittima, giusta causa e retta intenzione dovevano guidare il cristiano e la guerra, benché rimanesse frutto del peccato, poteva volgersi in promotrice di virtù, fino a trasfigurarsi in un vero e proprio atto di carità, se combattuta a vantaggio delle vittime di un’ingiustizia. L’INCONTRO LATINO GERMANICO Un elemento rilevante, capace di fornire alla società cristiana una spinta decisiva verso la sacralizzazione stessa della guerra, era stato fornito dalla progressiva integrazione tra romani e barbari fra III e VI secolo, che aveva costretto le Chiese a confrontarsi con una mentalità nuova, prettamente bellica. I germani riservavano alla guerra un posto peculiare, ammantandola di tratti sacrali. La conversione al Cristianesimo portò i germani a un lento processo di acculturazione, che si accostò al tentativo di cristianizzare pratiche e costumi. Il connubio fra universo germanico e mondo cristiano aveva caratterizzato particolarmente la Gallia dei franchi: era già evidente al tempo dei Merovingi e, a maggior ragione, con i Pipinidi e i Carolingi. Con questi ultimi era andata sviluppandosi una stretta alleanza, cementata dalla riproposizione, sotto Carlo Magno, dell’impero di Roma nella sua “facies” cristiana. La “renovato imperii” aveva accresciuto il valore dell’idea di una guerra legalizzata, proclamata da un’autorità legittimata a farlo, il cui volere rispecchiava quello divino. La figura dell’imperatore, da questo momento in poi, aveva iniziato ad assolvere a un duplice compito: difendere l’impero e la sua Chiesa. Al contempo le guerre intraprese acquisirono carattere sacrale, sino a comprendere nel novero le violente azioni di conquista ai danni dei sassoni. La Chiesa però non avrebbe mai teorizzato la liceità di tali guerre: la santità era piuttosto prerogativa del singolo partecipante, nel momento in cui questi si accostava al conflitto con spirito di contrizione, esercitando le virtù cristiane in maniera eroica. L’idea di remissione dei peccati è un elemento nuovo, che si affermò in particolare nell’Europa post-carolingia a seguito di un lungo processo, e che giunse a maturazione nel clima di incertezza e frammentazione caratteristico del periodo. LA DIFESA DELLE CHIESE Nel X secolo saraceni, ungari e normanni colpivano principalmente i monasteri, nei quali si concentrava il grado maggiore di ricchezza e il livello minore di difesa. Proprio dall’ambiente monastico venne una spinta ulteriore verso la sacralizzazione del guerriero, evidente nel diffondersi del culto verso particolari santi “militari”, archetipo dei quali era san Michele arcangelo, protagonista di lunghi itinerari di pellegrinaggio. Nel 932 un sinodo riunito a Erfurt giunse addirittura a limitare la consuetudine di celebrare messe dedicate a quest’ultimo a seguito delle vittorie militari, temendo che dietro la pratica si celasse un residuo di paganesimo. Si può pensare poi alla devozione per Gerardo d’Aurillac, immortalato dall’abate di Cluny nella sua “Vita” come il modello del cavaliere pronto a spendersi per i poveri, o figure come santa Fede di Agen, protagonista di numerose storie in cui agiva crudelmente contro chierici e laici colpevoli di sottrarre beni alle comunità monastiche, incarnando un tipo di violenza addirittura “benedetto” dalla Chiesa. La forza esercitata in difesa della Chiesa e affidata ai “miles” cristiani iniziava così ad essere non solo ammessa, ma necessaria.Il clero otteneva così il duplice scopo di pararsi dalle aggressioni e di arginare la violenza divenuta endemica, piegandola a proprio vantaggio. Fra X e XI secolo si ricorse spesso alla convocazione di assemblee locali o regionali con l’obiettivo di porre un freno ai soprusi. Nel corso di un concilio celebrato nel 989 a Charroux fu proclamata la “Pax Dei”, che dichiarò inviolabili alcune categorie di persone e certi luoghi. Nel 1027, durante il concilio di Toulouges, a tali disposizioni furono affiancate una serie di norme di natura temporale, che introdussero la “tregua Dei”, consistente nel vietare ogni forma di combattimento in specifici periodi. Fu in particolare il monastero di Cluny a promuovere l’applicazione di tali norme. A seguito di un concilio celebrato a Roma nel 1059 da Niccolò II, tali misure entreranno a far parte stabilmente della politica ecclesiastica. Le norme proclamate nel corso dei concili non erano pedissequamente rispettate, ma nonostante ciò le paci e le tregue ecclesiastiche del X e XI secolo introdussero sanzioni spirituali, quali l’anatema e la scomunica. 7 LA GENESI DEL “MILES CHRISTIANUS” Nel corso del concilio di Arles del 1037 alle consuete sanzioni si andò affiancandosi il pellegrinaggio penitenziale alla volta di Gerusalemme, in particolare per coloro che violavano la tregua commettendo omicidio. Questa misura diverrà sempre più frequente, sommandosi all’invito a partecipare alla lotta in corso nella penisola iberica. L’aspirazione alla pace, la necessità di arginare la violenza dei “milites”, l’applicazione di sanzioni spirituali e l’invito a prendere le armi in difesa della Chiesa erano elementi già circolanti da tempo. Urbano II avrebbe semplicemente raccolto e ricapitolato istanze ampiamente presenti nella società. Benché la Chiesa tentasse di fornire ai guerrieri di professione una serie di motivazioni legittime, la guerra restava comunque un’azione deplorevole, della quale vergognarsi. Un fatto nuovo può essere individuato nel progressivo affermarsi dell’idea per cui il combattimento in nome della Chiesa potesse fingere da penitenza. Tale aspetto rientrava nella proposta di un’etica nuova prospettata ai “milites”, fondata sul rispetto della volontà di Dio e la difesa dei più deboli. Il favore concesso dalla Chiesa al guerriero ebbe un peso nella definizione di un nuovo archetipo dell’uomo a cavallo, facendone un cavaliere di Cristo, un “miles Christi”, espressione inizialmente legata al combattimento interiore, che iniziò ad essere impiegata per indicare colui che decideva di porre la propria spada al servizio della Chiesa. Nella prima metà del XII secolo l’istanza della guerra fra Vizi e Virtù sarebbe stata ripresa da Bernardo di Clairvaux, che l’avrebbe applicata alla lotta contro gli infedeli, la cui eliminazione fisica era da ritenersi lecita. Il “miles” cristiano acquisiva così una fisionomia particolare, segnando una grande differenza rispetto ai secoli precedenti. La Chiesa di Roma iniziò a incitare i guerrieri ad attuare una “conversio” particolare, incoraggiandoli a lavorare alla causa della “libertas Ecclesiae”Si trattava del processo che avrebbe presto portato il papato a utilizzare con sempre maggior frequenza uno strumento di natura feudale: la concessione a chi proclamava di combattere in sua difesa del “vexillum Sancti Petri”. La Chiesa del tempo, impegnata in un profondo moto di revisione del proprio “status”, sarebbe riuscita a conferire a queste guerre un senso ecclesiale. L’ORDINE TRINITARIO DEL MONDO Nell’esposizione sul salmo 132 Agostino tratteggiava i contorni di tre forme di vita. A suo dire, Noè era simbolo di coloro cui spettava la guida della Chiesa; Daniele aveva scelto una vita di quiete, divenendo figura del monaco; Giobbe incarnava coloro che servivano Dio col duro lavoro e disinteressatamente. Nel medioevo questa tripartizione andò incontro ad ampie modifiche, riconfigurandosi a fronte di una società profondamente mutata. Attorno all’anno Mille la definizione di uno specifico “ordo” cavalleresco era ormai un dato acquisito e si era andata affermandosi una tripartizione differente: gli “oratores”, deputati alla preghiera, i “bellatores”, i combattenti, e i “laboratores”, che si guadagnavano da vivere con il duro lavoro. Il clero costituiva la prima categoria, mentre il laicato la seconda e la terza. Si trattava tuttavia di una lettura semplificatoria, che seguiterà comunque a lungo a costituire un valido riferimento. Il mondo ecclesiastico in realtà conosceva divisioni importanti: tra alto e basso clero, tra clero secolare e universo monastico. Anche i “bellatores” non erano esenti da divisioni: in ragione del censo, dei legami politici locali o sovralocali. Anche i “laboratores” conoscevano molteplici articolazioni, costituendo la base della società. Era comune inoltre la commistione fra funzioni, a partire dalla stessa regola di Benedetto e la clericalizzazione di alcune abbazie, come quella di Cluny. LA RIFORMA DELLA CHIESA L’intero secolo XI fu caratterizzato dalla riforma della Chiesa, che si protrasse anche per i secoli successivi. All’azione degli imperatori sassoni e franconi, che avevano contribuito a moralizzare la Chiesa, legandola al potere laico, aveva fatto seguito un ampio moto di “restaurazione” delle caratteristiche della chiesa apostolica, che aveva nei monasteri il fulcro principale. Il papato promosse una sorta di bonifica della gerarchia dai suoi membri mondani, simoniaci e nicolaisti. E’ il caso ad esempio di Milano, che vide lo sviluppo della pataria. I riformatori, davanti alla frivolezza di certi principi-prelati, eran andati postulando un rinnovamento etico delle strutture ecclesiastiche e una riduzione della distanza fra la gerarchia sacerdotale e il restante popolo di Dio. In funzione di ciò, in un primo momento, si appoggiarono alcuni movimenti religioso-popolari a base laica che si proponevano di risanare i costumi del clero o che si organizzavano militarmente contro quei signori che avessero osato infrangere la “pax dei” o la “tregua”, ai cui vertici i papi accordarono il proprio vessillo. Allo stesso tempo i riformatori inaugurarono una politica assai rigida dal punto di vista dogmatico: la stessa a cui è da imputare lo scisma del 1054 con la chiesa d’Oriente. Nel 1059, durante un concilio celebrato in Laterano, papa Niccolò II dichiarò l’incompetenza imperiale a intervenire nell’elezione dei vescovi, 10 non furono sopportati a lungo e i massacri vennero soffocati nel sangue dalle truppe del re d’Ungheria. I pochi a giungere a Costantinopoli, nell’estate del 1096, furono velocemente trasferiti oltre il Bosforo. Da qui i francesi decisero di attaccare Nicea e i tedeschi portarono battaglia all’esercito del sultano turco di Konya, venendo sconfitti. Alla notizia dell’accaduto coloro che erano rimasti indietro abbandonarono il campo. La spedizione era iniziata quindi nel peggiore dei modi. Urbano II si rivolse così ai potenti: i primi contingenti partirono nell’estate del 1096, guidati da alcuni fra i nomi più prestigiosi della Cristianità (Ugo di Vermandois, Roberto conte di Fiandra, Goffredo di Buglione, Raimondo di Saint-Gilles. La spedizione coinvolse massicciamente la penisola italiana: all’impresa presero parte i normanni del Mezzogiorno e i “cives” delle città marinare. Molti si aggregarono alle schiere che attraversarono la penisola: quella provenzale, quella franco-normanna. La maggior parte di quest’ultima partì nel 1097 dalla Puglia e, raggiunta la sponda epirota, si diresse verso Costantinopoli. Diversi gruppin partirono invece autonomamente, i “pauperes” guidati da Pietro l’Eremita erano periti nel corso dei primi scontri contro i turchi. L’appello crociato coinvolse anche le schiere normanne guidate a Boemondo d’Altavilla, che interpretarono l’iter gerosolimitano, almeno inizialmente, alla stregua di un’occasione per mettere piede in Oriente. DA ANTIOCHIA A GERUSALEMME Le schiere raggiunsero presto Costantinopoli, causando preoccupazione alla corte imperiale, soprattutto dopo i disordini creati dai “pauperes”. Non era disciplinato il comportamento delle schiere, come non erano chiare le loro i nten azioni. Il “basileus” Alessio Comneno li colmò di onori e doni, facendo loro intendere di considerarli al proprio servizio, costringendoli a prestargli omaggio tramite un giuramento di fedeltà che prevedeva la restituzione delle terre eventualmente conquistate un tempo appartenute all’impero. Non tutti accolsero favorevolmente la proposta: Goffredo di Buglione e Raimondo di Saint-Gilles si mostrarono piuttosto restii. Anche i normanni erano divisi: Tancredi d’altavilla decise di passare il Bosforo in incognito, mentre Boemondo si mostrò assai docile, nel tentativo di ricucire i rapporti con l’imperatore. L’idea di conquistare Gerusalemme era al tempo più appannaggio dei “pauperes”. La maggior parte dei crociati appoggiò il bizantino, nonostante la diffidenza ispirata loro dai greci: nel maggio del 1097 i latini assediarono Nicea, che si arrese presto al “basileus”. I “crucesegnati” furono ricompensati, ma invitati a proseguire verso est. L’esercito fu diviso in due schiere: l’avanguardia, guidata da Boemondo, fu assalita dalle truppe selgiuchidi, ma il sopraggiungere della seconda schiera contribuì a risolvere la situazione. Si decise quindi di proseguire congiuntamente la marcia, che si fece dura e penosa. Dopo altre vittorie della cavalleria pesante europea, si fece chiari che si dovesse puntare su Antiochia, nonostante i rifornimenti divenissero sempre più complessi. L’assedio della città si rivelò difficoltoso. Fu Boemondo a risolvere la situazione: i normanni riuscirono a scalare le difese e nel giungo 1098 la città cadde in mano dei latini. Il mancato aiuto bizantino alle truppe assedianti segnò la fine di ogni possibilità di riconciliazione fra le parti. La disfatta delle tappe nemiche a fine giugno sembrò a molti un miracolo: la carica frontale della cavalleria europea si rivelò devastante. Si trattò di un vero punto di svolta, che fu possibile anche grazie all’aiuto delle marinerie italiane, e in particolare genovesi. La strada per Gerusalemme sembrava ormai spianata, ma iniziarono a sorgere rivalità fra i principi e i baroni presenti. Dopo due mesi si misero in cammino, a eccezione delle truppe di Boemondo, che riuscì a mantenersi in Antiochia. Il 7 giugno 1099 i crociati scorsero in lontananza Gerusalemme, in mano ai fatimidi egiziani. L’esercito cristiano si acquartierò a nord e a sud delle mura e, dopo l’arrivo dia alcune galee di supporto, iniziò l’assedio della città. Dopo una serie di combattimenti si riuscirono ad oltrepassare le mura e la città cadde nel giro di poche ore. Attorno alla metà di agosto i “crucesignati” riuscirono a fermare preso la piana di Ascaloa le trippe del gran visir del sultanato del Cairo. L’obiettivo era dunque formalmente stato raggiunto. IL REGNO DI GERUSALEMME Conquistata Gerusalemme, bisognava procedere all’organizzazione del territorio. L’arcivescovo di Pisa, Daiberto, fu acclamato patriarca grazie al sostegno di Boemondo, a cui questi riconobbe il possesso di Antiochia. Il programma del nuovo patriarca si rivelò improntato all’impianto nella neonata società oltremarina degli ideali della riforma, e fu dunque chiaramente indirizzato in senso teocratico: la Chiesa di Roma doveva regnare di diritto su Gerusalemme. Ciò si scontrava con la volontà dei principi crociati che andavano ritagliandosi una serie di domini personali e che necessitavamo di un re la cui “potestas” si limitasse alla sola Gerusalemme e al suo circondario. Nel luglio del 1099 Goffredo di Buglione ottenne la nomina ad “advocatus” del Santo Sepolcro e nel 1100 si spinse fino a cedere alla Chiesa gerosolimitana l’intera Gerusalemme. L’impellenza era quella di inquadrare le conquiste in un sistema stabile, capace di 11 garantire il mantenimento della presenza latina in Terrasanta. I “crucesignati” avevano conquistato un’ampia zona della Siria settentrionale e la stretta fascia costiera siro-libanese. Il nord era occupato da die signorie autonome: la contea di Edessa, fondata da Baldovino, e il principato di Antiochia, in mano a Boemondo. Più a sud vi era la contea di Tripoli, il cui assedio si sarebbe compiuto solo nel 1109. Alla morte di Goffredo, il fratello Baldovino fu invitato a prenderne il posto: egli accorse nella Città Santa riuscendo a vincere la resistenza di Daiberto, il cui intento era quello di sottoporre Gerusalemme alla giurisdizione ecclesiastica. La notte di natale del 1100 Baldovino fu unto e incoronato re di Gerusalemme. Egli sentì subito la necessità di completare la conquista del litorale siro-palestinese e di ristabilire la sicurezza lungo le strade di pellegrinaggio e le carovaniere. La pacificazione con Daiberto fu di breve durata: dal marzo successivo il re iniziò ad accusare il patriarca di ogni ,malefatta, compresa la compravendita di reliquie, con l’obiettivo di privare la Chiesa di ogni posizione di potere. Daiberto fu così privato di ogni diritto sulle proprietà del Santo Sepolcro e fu costretto a rifugiarsi in Antiochia, preso Tancredi. Baldovino riuscì così a impadronirsi del tesoro e delle rendite patriarcali. Daiberto decise di tornare in Italia, assieme a Boemondo. L’obiettivi di traslare oltremare i principi della riforma della Chiesa era dunque raggiunto solo in parte: l’istituzione dei canonici del santo sepolcro andava in quella direzione, ,a l’idea di sottoporre il territorio al dominio diretto della Chiesa era fallito. La ricerca di un equilibrio si protrarrà a lungo, fino a trovare soluzione nel concilio di Nablus, nel 1120. LE CITTA’ MARINARE, I LOMBARDI Il principale frutto della prima crociata sarebbe stato l’instaurarsi di una serie di entità politiche nei territori di conquista, la cui debolezza strutturale era tuttavia del tutto evidente. L’impresa si era infatti svolta sotto il segno della divisione, i baroni si erano divisi, tentando di guadagnare per se determinati vantaggi. Fu Pasquale II a sobbarcarsi l’onere della vittoria, patrocinando un ampio progetto volto a rinsaldare la conquista. Al principio del 1099 il papa chiese al milanese Anselmo IV da Bovisio di mettersi in viaggio verso l’oriente. La diocesi lombarda necessitava di pacificazione, a seguito delle lotte fra la pataria e i suoi molti avversari. L’arcivescovo partì nel 1100 alla testa di diverse migliaia di “crucesignati” dall’area padana. Nel marzo 1101 la schiera giunse a Costantinopoli, dove si diede alle solite violenze. Giungendo ad assaltare il palazzo imperiale. Alessio li traghettò quindi al di la del Bosforo e si accamparono a Nicomedia. Decisero quindi di lanciarsi contro i turchi , che avevano preso in ostaggio Boemondo di Antiochia. La scelta si rivelò disastrosa e l’esercito crociato fu più volte sconfitto e poi schiacciato del tutto. Anselmo tornò quindi a Costantinopoli. La spedizione milanese si inseriva in un più ampio progetto, che vedeva il vescovo genovese riformatore Arialdo procedere all’organizzazione di un’armata navale destinata a recare in Terrasanta il legato papale Malizio di Porto, al fine di affermare il controllo papale sulla conquista. La flotta guadagnò, nel 1100, Laodicea, dove il legato si incontrò con Baldovino, sposandone la causa. I genovesi assalirono quindi Arsuf e Cesarea, sostenuti da alcune galee pisane. Ripresero poi il mare e, sulla via del ritorno, incrociarono una sessantina di galee imperiali. Seguì uno scontro durante il quale i greci furono sconfitti e costretti a trattare. Il supporto genovese si rivelò fondamentale: la conquista di Cesarea poneva in mano al regno latino di Gerusalemme tutto il litorale compreso tra Haifa e Giaffa. Un volta sul trono, Baldovino I diede avvio a una serie di campagne militari per ampliare e consolidare la conquista, allo scopo di creare una serie di signorie dipendenti. La conquista dei restanti porti litoranei, essenziali per i rifornimenti, fu possibile grazie all’aiuto di pisani e genovesi, che diedero avvio a una loro presenza capillare capace di influenzare profondamente l’assetto delle nuove formazioni statuali. La partecipazione di Venezia fu assai più cauta, vista la sua alleanza con Costantinopoli. GLI ORDINI MILITARI Baldovino rimase sul trono fino alla sua morte, nel 1118. Sotto i suoi successori gli stati crociati avrebbero assunto la forma di grandi signorie, sottoposte al formale dominio della corona gerosolimitana. Ciascun principe aveva i propri vassalli, e quelli del re si rivelarono particolarmente riottosi e difficili da controllare. Non mancavano problemi esterni: i “crucesignati” rimasti in Terrasanta erano pochi e il mondo musulmano iniziava velocemente a riorganizzarsi. Si rivelò ben presto necessario disporre di una forza militare stabile, favorendo l’aggregazione di milizie armate tra coloro che erano rimasti in Terrasanta a seguito della conquista. Tra costoro si sarebbe distinto un gruppo di cavalieri che aveva adottato una forma di vita religiosa che tuttavia permetteva loro di imbracciare le armi. Nel 1120 il concilio di Nablus stabilì che il chierico che avesse preso le armi per ragioni difensive non doveva essere considerato colpevole. Ciò lasciava campo aperto al sorgere della cavalleria templare, probabilmente nello stesso anno. Baldovino II accolse un gruppo di cavalieri 12 inizialmente legati all’Ospedale amalfitano di San Giovanni Battista o ai canonici del Santo Sepolcro, concedendo loro un’ala del palazzo reale ed emancipandoli dall’obbedienza al priore del Santo Sepolcro per sottoporli a quella del patriarca gerosolimitano. Nacque così il primo nucleo dell’ordine. Nel 1129 papa Onorio II, durante il concilio di Troyes, concesse alla fraternità una regola che ne disciplinava la forma di vita. Nel 1139 Innocenzo II li avrebbe affrancati dall’obbedienza al patriarca, sottoponendoli alla propria autorità. Tale riconoscimento fu in gran parte frutto dell’impegno di Bernardo di Chiaravalle: egli contrappose alla mondanità e allo sfarzo dei cavalieri del tempo, la povertà assoluta e l’impegno contro gli infedeli dei “milites novi”. Le loro funzioni perpetuavano le aspirazioni dei “crucesignati”. Tale processo influenzò l’Ospedale che avrebbe iniziato a militarizzarsi, entrando di diritto, qualche decennio più tardi, nei ranghi dell’esercito. Il loro sforzo sarebbe stato accompagnato da quello di altri ordini, tra cui si distinguerà quello dei Teutonici. LA RICONQUISTA MUSULMANA E LA SECONDA CROCIATA Il dinamismo latino spinse i potentati musulmani ad abbandonare il frazionamento politico che li caratterizzava, dovuto alla divisione fra i due califfati di Baghdad e del Cairo. I franchi erano così costretti a sostenere, da una parte l’urto della controffensiva egiziana, mentre dall’altra a contrastare i tentativi di allargamento territoriale promossi dall’ “atabeg” di Mosul e Aleppo, Zangi, all’insegna del “jihad”. Di origine turcomanna quest’ultimo era riuscito a ritagliarsi un potentato fra il Tigri e l’Oronte, dando segno di volersi allargare verso occidente. Nel 1130 egli mosse contro gli antiocheni, approfittando della morte di Boemondo II. Cinque anni dopo volse contro Damasco, ma dovette abbandonare l’assedio per ordine del sultano, che iniziava a temere il suo prestigio. Fra 1137 e 1138 mosse contro di lui Giovanni II Comneno, figlio di Alessio. La corona di Gerusalemme passò a Baldovino III, affidato alla tutela della madre Melisenda. Questa situazione indusse i vassalli di Tripoli e Antiochia a muoversi autonomamente. Fu tale contesto a permettere a Zangi ogni libertà di azione. Nel 1144 egli mosse alla volta di Edessa, che fu conquistata dopo ventotto giorni di assedio e la cui popolazione cristiana venne massacrata. L’atabeg non riuscì però a mantenervisi a lungo: fu ucciso poco dopo e la città tornò al signore precedente. Edessa fu poi riconquistata dal “Norandino”, figlio e successore di Zangi. Nel frattempo i baroni oltremarini si erano affrettati a chiedere aiuti all’Occidente. Nel 1145 Eugenio III proclamò una nuova spedizione tramite la bolla “Quantum praedecessores”, rivolta al re di Francia e a tutti i fedeli d’Oltralpe. L’appello fu rinnovato qualche mese dopo, nel 1146, tramite la “Divina dispensatione”. Egli non fece altro che riassumere quanto stabilito dai suoi predecessori. Luigi VII dichiarò la sua disponibilità già nel 1145 e incaricò Bernardo di reclutare in Francia i contingenti necessari. L’eloquenza del cistercense si rivelò decisiva: nel 1146 il re di Francia prese la croce. Le suggestioni che si andavano diffondendo al tempo favorirono la partecipazione di grande masse di persone all’impresa. La Germania fu uno dei principali teatri di reclutamento. All’impresa partecipò anche il re d’Italia e Germania Corrado III Hohenstaufen, sull’esempio del suo rivale, il duca Guglielmo di Baviera. La seconda crociata si risolse nel muoversi organizzato e ordinato di due corpi di spedizione: quello francese e quello tedesco. L’imperatore Manuele nel 1146 promise al papa e al re di Francia aiuti in cambio di un giuramento di fedeltà da parte dei “crucesignati”. Corrado si mosse per primo e, partito nel 1147, percorse la medesima strada prescelta da Goffredo di Buglione, giungendo a Costantinopoli a settembre. La presenza tedesca sollevò diversi problemi, a causa delle inevitabili devastazioni operate nel corso della marcia. Si decise di non attendere l’arrivo dei francesi: traghettata velocemente in Asia, l’armata si mise in marcia, seguendo l’itinerario compiuto dai crociati mezzo secolo prima. La cavalleria pesante tedesca subì una violenta imboscata da parte di quella turca e Corrado stesso fu costretto a fuggire a Nicea, trovandovi Luigi. Quest’ultimo a sua volta era giunto a Costantinopoli il 4 ottobre. I due eserciti riuniti proseguirono lungo la costa, ma nel 1148 l’avanguardia francese subì una sonora sconfitta sulle alture del monte Cadmos, costringendo Luigi a ritirarsi. Si cominciò a vociferare sul possibile tradimento dei greci e per scongiurarle Manuele inviò una flotta, che però si rivelò insufficiente. L’esercito andò incontro a una fine miserabile, finendo in mano turca. Desideroso di raggiungere il Santo Sepolcro, Luigi respinse l’inviato di Raimondo di Poitiers di attaccare Aleppo. Partito da Antiochia, marciò su Gerusalemme, entrandosi solennemente nel giugno del 1148. Qui trovò Corrado alla fine del mese, alla presenza di Baldovino III e della madre, dei grandi maestri dell’ordine militare e di baroni influenti, si decise di attaccare Damasco. Ciò avrebbe reso possibile controllare le retrovie del regno e garantire la sicurezza della Transgiordania. La città fu quindi posta sotto assedio, ma la mancanza di macchine belliche si fece presto avvertire, costringendo alla ritirata. L’iter proposto da Eugenio era fallito miseramente. Nel corso della campagna di predicazione germanica alcuni nobili sassoni avevano chiesto a Bernardo di benedire alcune campagne militari contro i Vendi, volte tanto all’evangelizzazione, quanto all’occupazione del territorio. Nel marzo del 1147, mediante una dieta tenutasi a Francoforte, l’abate accolse la 15 avuto un ruolo importante nell’accettazione da parte di Venezia della proposta di partecipare a una nuova crociata. La spedizione fu inizialmente affidata a Tebaldo III conte di Champagne, ma a seguito della sua scomparsa prematura sarebbe stata guidata da Bonifacio di Monferrato. Nel 1201 il nuovo comandante firmò un contratto con il doge veneziano, Enrico Dandolo, per il trasporto di armi e pellegrini, in cambio del diritto di incamerare la metà esatta di ogni conquista o del profitto derivato dalla spedizione. Il doge stesso prese la croce. Fu così che nel 1202 i crociati e i veneziani partirono da San Nicola e, giunti nei pressi di Zara, il doge propose ai crociati di pagare parte del debito aiutandolo a sottometterne gli abitanti, recentemente ribellatisi alla sua autorità. Il sacco di una città di sede romana provocò l’indignazione del papa, che scomunicò i veneziani, ma non i crociati, per non compromettere la spedizione. Proprio a Zara l’esercito fu raggiunto dal principe bizantino Alessio, figlio di Isacco II Angelo. Egli chiese aiuto ai crociati per sconfiggere l’usurpatore, suo zio Alessio III Angelo, promettendo in cambio del denaro e la riunione delle Chiese. Nel luglio 1203 i crociati giunsero a Costantinopoli, riuscendo in breve tempo a restaurare sul trono l’imperatore deposto. La permanenza latina in città provocò però la sollevazione di parte della cittadinanza. Nel febbraio del 1204 Alessio IV fu assassinato e al suo posto divenne imperatore Alessio V Ducas Murzuflo, a capo dell’opposizione. I crociati risposero dando fuoco alla città, sottoposta a un duro saccheggio, e imponendo sul trono un imperatore latino: Baldovino di Fiandra. Ebbe così inizio la vicenda dell’impero latino d’Oriente: le terre imperiali furono spartite. Un terzo andò al nuovo sovrano, e gli altri sue rispettivamente a crociati e veneziani. L’intera carta del Mediterraneo ne risultò rivoluzionata, infondendo forti preoccupazioni a genovesi e pisani. Con questi ultimi Venezia firmò subito un trattato di pace, mentre con i genovesi fu subito guerra. LA QUINTA CROCIATA Nel corso del Duecento l’obiettivo principale della “crux transmarina” fu la conquista dell’Egitto. Alla morte del Saladino avevano preso il sopravvento le ragioni del commercio: tra il 1215 e il 1216, alla vigilia della quinta crociata, potevano contarsi in Egitto circa tremila cristiani occidentali, impegnati in attività commerciali. Nel 1211 al-Adil e Giovanni di Brienne procedettero all’estensione della tregua in corso per ulteriori sei anni. Nel frattempo in Occidente Innocenzo III era tornato a chiedere con insistenza il recupero di Gerusalemme. La spedizione fu progettata nel 1213, fu promossa dal papa nel corso del concilio lateranense del 1215 e avrebbe avuto come obiettivo principale la conquista del cuore del dominio Ayyubide: l’Egitto. Per al-Adil non si sarebbe trattato di tenere testa a eserciti ingenti, quanto piuttosto di contrastare arrivi discontinui, sottoposti a un comando frammentario. Un manipolo di crociati sbarcò ad Acri nel 1217, tentando a più riprese di conquistare la fortezza di Tabor, al comando di Andrea II d’Ungheria e del duca Leopoldo d’Austria. Il sultano dovette accorrere in Siria in aiuto del fratello e lanciare un’operazione diversiva su Cesarea. Poco dopo gli eserciti ripresero la strada di casa, senza aver concluso nulla. Ben presto però fu chiaro che l’obiettivo principale era l’Egitto. I primi contingenti sbarcarono a Damietta alla fine di maggio del 1218, guidati da Giovanni di Brienne. La scelta del porto nilotico derivava dalla sua posizione strategica. Le forze franche si riversarono con veemenza, decise a farne la propria principale testa di ponte per la conquista del paese. Al-Adil, che allora si trovava al Cairo, demandò la difesa del porto a un altro figlio, al-Kamil, che tuttavia non potè evitare lo smantellamento della Torre delle Catene, posta a difesa del canale principale. Al- Kamil ebbe quindi l’onere si sostenere l’attacco, oltre a quello di farsi riconoscere come nuovo sultano dai dignitari cairoti. Approfittando dell’indecisione dei crociati, che attendevano rinforzi da Occidente, al-Kamil lanciò una serie di offensive contro il loro campo, nessuna delle quali si rivelò decisiva. In seguito il sultano si ritirò al Cairo, avverato di un complotto organizzato ai suoi danni. Vedendosi alle strette al-Kamil tentò di trattare con i crociati, dopo aver ordinato al fratello di abbattere le mura di Gerusalemme, così da rendere la città indifendibile in caso fosse caduta in mani latine. Ciò è da connettersi con la richiesta di una tregua che comprendeva la cessione ai franchi della Città Santa, la restituzione della Vera Croce e il rilascio dei prigionieri dalle carceri egiziane e siriane. Queste proposte trovarono come contraltare un pressante invito alla conversione ricevuto da parte di Francesco d’Assisi. Ogni tentativo di riconciliazione cadde però nel vuoto. Le offerte di pace del sultano furono però ricusate: il legato papale Pelagio di Albano, capo indiscusso della spedizione, apportò un massiccio attacco contro Damietta, che cadde all’inizio di novembre. A questo punto i capi crociati decisero di aspettare l’arrivo di Federico di Svevia, in procinto di essere nominato imperatore. Giovanni di Brienne fece ritorno ad Acri, vendesi esautorato dalla guida dell’impresa. Nonostante il voto crociato emesso nel 1215, Federico non arrivò, ma inviò un magro e bellicoso contingente guidato da Ludovico di Baviera, che appoggiò l’organizzazione di un attacco a sud di Damietta. Da entrambe le parti si cercarono rinforzi: il cardinale ordinò al re di Gerusalemme di fare ritorno in Egitto, mentre il sultano chiese aiuto ai suoi due fratelli. I crociati furono accerchiati tra il corso principale del Nilo e un suo affluente e furono costretti 16 a tornare indietro. La resa fu negoziata nel 1221 e fra le due parti fu negoziata una tregua di otto anni: i crociati avrebbero dovuto abbandonare Damietta e restituire i prigionieri; al-Kamil avrebbe reso ai crociati la Vera Croce. Il sultano uscì dal conflitto piuttosto provato: terminata l’emergenza franca, egli dovette guardarsi dalla crescente ostilità di uno dei fratelli, che nel 1223 occupò Salamiya e tentò di appropriarsi di Hama, ma senza successo. Le sue ambizioni furono però bloccate dall’allenza fra al-Kamil e il suo altro fratello. Tuttavia questo’ultimo, nel 1226, avrebbe chiesto aiuto proprio ad al-Mu’azzam per contrastare le incursioni dei khwarezmiani, che mostravano di voler instaurare nella sunnita Baghdad un califfato sciita. LA “CROCIATA” DI FEDERICO II Di fronte alla possibile alleanza fra khwarezmiani e al-Mu’azzam, al-Kamil chiese aiuto ai franchi, favorito dall’assunzione della corona gerosolimitana da Federico II. Nel 1226 l’imperatore procedette a una ratifica della tregua in corso, mandando ad al-Kamil l’arcivescovo di Palermo, Bernardo, e il fido Tommaso d’Acerra, in qualità di vicario imperiale. In risposta il sultano inviò a Palermo una delegazione con lo scopo di impedire l’alleanza che si profilava a levante. In breve tempo i saraceni e i franchi sarebbero quindi diventati alleati. Il sultano invitò Federico a recarsi ad Acri, promettendogli il controllo di Gerusalemme e tutto pareva convergere verso una normalizzazione dei rapporti in vista di un’alleanza vantaggiosa. Proprio allora però un evento inaspettato scombinò i piani: la morte di al-Mu’azzam e la debolezza del figlio ridussero la possibilità di un’invasione khwarezmiana, convincendo al-Kamil della possibilità di mettere direttamente mano sulla Siria ayyubide, che formalmente già gli apparteneva. La crociata di Federico II fu l’unica ad essere risolta per vie diplomatiche e, soprattutto, a riguadagnare la Città Santa. Federico si rendeva conto di quanto sul “negotium crucis” fosse ormai uno strumento politico nelle mani del papato, e ne rivendicava la guida. Gregorio Ix comminò una scomunica nei confronti dell’imperatore nel 1227, a seguito della mancata partenza di Federico dal porto di Brindisi. Ricevuta però la notizia della morte di al-Mu’azzam e temendo che l’accordo con al-Kamil potesse saltare, si risolse a partire nel giugno del 1228. Egli si imbarcò su alcune galee veneziane e ricercò immediatamente il favore dei propri sudditi orientali e dei baroni oltremarini. L’avvicinamento fra Federico e al-Kamil fu favorito dalla ribellione del nuovo signore di Damasco e dalle notizie provenienti dal regno di Sicilia, in procinto di essere invaso dall’esercito papale. Nel 1229 i due conclusero un trattato a Giaffa che contemplava la restituzione di Gerusalemme ai cristiani, la possibilità di riedificarne le mura, il pieno possesso del contado fra la Città Santa e Giaffa e fra Nazareth e Acri e la facoltà di ricostruire alcuni castelli. In cambio l’imperatore avrebbe dovuto dissuadere i franchi e gli altri nemici del sultano dal portare guerra nei suoi territori, prestandogli, se necessario, il proprio aiuto. L’accordo suscitò scandalo fra gli ecclesiastici e nel mondo musulmano. Al-Kamil riuscì a soffocare l’opposizione ayyubide, lasciando intravedere la possibilità di un’unificazione dei domini ayyubidi sotto l’unico sultanato cairota. LA CROCIATA DEI BARONI La morte di al-Kamil nel 1238 fu seguita da una nuova lotta di potere. Il giovane al-Adil, figlio del sultano, succedette al padre in Egitto e fu costretto a fronteggiare il fratello al-Salih che, invitato dal padre oltre l’Eufrate, aveva proceduto all’acquisto di un ingente numero di schiavi destinati a far parte delle proprie milizie. Gli schiavi di al-Salih avevano tutto l’interesse che il loro signore prendesse il potere. Egli riuscì nel suo intento nel 1240. Nel frattempo l’Occidente viveva un momento difficile: lo scontro fra papato e impero entrava nella sua fase più dura. Gregorio IX si era mosso subito per organizzare una nuova crociata. L’appello fu colto da Tibaldo IV, conte di Champagne, da alcuni nobili francesi e da un consistente gruppo di cavalieri inglesi, guidati da Riccardo di Cornovaglia. Tibaldo ricevette indicazioni accurate di procedere affinché la tregua fosse rispettata: egli sbarcò in Acri a settembre, con l’intenzione di intraprendere dei negoziati, ma nel corso di una marcia verso sud alcune frange fuori controllo lanciarono un attacco contro la guarnigione egiziana a Gaza. La reazione ayubbide fu violenta: il drappello di uomini fu disperso, ma la tregua era ormai rotta e Al-Nasir ne approfittò per occupare Gerusalemme. A questo punto Federico rispose energicamente, inviato vettovagliamenti assieme alla flotta al comando di Riccardo di Cornovaglia e intimando all’ayyubide la restituzione della Città Santa. Una volta giunto in Oltremare Riccardo riprese le trattative di pace, offerendo al nuovo sultano la neutralità dei franchi nei conflitti interni ai propri territori. La proposta fu accettata e si giunse così a un nuovo accordo, firmato ad Ascalona nel febbraio del 1241, che riportava i confini del regno di Gerusalemme a quelli precedenti alle conquiste del Saladino. Si trattò di un risultato importante, nuovamente figlio della diplomazia. Il governo sultaniale era particolarmente debole: al-Salih subiva infatti la pressione dello zio, di al-Nasir e dei signori di Aleppo e Homs. Poco dopo la partenza dei crociati, costoro avevano siglato un accordo coi franchi d’Oltremare, favorito dai Templari: Franci e saraceni si 17 trovavano nuovamente sullo stesso fronte. L’universo ayyubide subì però l’ennesima rottura: tra 1241 e 1243 le truppe di Damasco, coadiuvate da alcuni contingenti templari, tentarono inutilmente di prendere Gaza, tenuta saldamente da al-Salih. LE CROCIATE DI LUIGI IX Nel giugno 1244 un nutrito gruppo di combattenti khwarezmiani oltrepassò l’Eufrate, calando in Siria. Il patriarca latino, Roberto di Nantes, e altri baroni si impegnarono a rinforzare la guarnigione in difesa di Gerusalemme. In molti invece preferirono fuggire, abbandonando la città al proprio destino. A luglio i combattenti si riversarono in città, che per qualche tempo riuscì a sostenere l’assalto. I più valenti cavalieri d’oltremare si radunarono in fretta ad Acri, raggiunti da alcuni alleati siriani, mentre i khwarezmiani confluirono nell’esercito di al-Salih, stanziato a Gaza. Il 17 ottobre, nei pressi di Harbiya, ebbe luogo una delle battaglie più importanti che l’Oltremare avesse mai visto, durante la quale l’esercito fronco-siriano fu completamente annientato. Filippo di Monfort e il patriarca di Gerusalemme fuggirono ad Ascalona, assieme ai pochi sopravvissuti. L’interesse primario del sultano era però la Siria ayyubide, contro la quale si volse immediatamente, ponendo Damasco sotto assedio. Occupò poi alcuni luoghi strategici della Galilea e mosse contro Ascalona, difesa dagli Ospitalieri, che sarebbe caduta nel 1247. Salì dunque a Gerusalemme, per poi fare ritorno in Egitto. L’Occidente cristiano nel frattempo si era mosso: l’onere della nuova crociata, fortemente voluta da Innocenzo IV, sarebbe stato assunto da Luigi IX di Francia. La spedizione fu bandita nel corso del concilio di Lione del 1245 e sarebbe stat guidata e sostenuta quasi interamente dal sovrano francese e non avrebbe coinvolto i legittimi sovrani di Gerusalemme. Nuovamente il piano d’attacco prevedeva l’occupazione dell’Egitto per imporre al sultano uno scambio ragionevole con Gerusalemme. Nel 1246 Luigi strinse accordi con i genovesi per l’armamento e il nolo di navi: la spedizione mise in moto un’enorme quantità di denaro. Nel 1248 i crociati partirono da Aigues-Mortes e, dopo aver svernato a Cipro, mossero alla volta di Damietta, la cui popolazione si diede alla fuga. La piega degli eventi convinse il sovrano della possibilità di conquistare il Cairo, ma la marcia si concluse nel peggiore dei modi: le truppe egiziane sbarrarono la strada ai crociati ad al- Mansura, costringendoli a ritirarsi verso nord. La cattura del re da parte dei mamelucchi, in procinto di prendere il potere in Egitto, fece precipitare gli eventi. La sua liberazione poi, nel 1250, sarebbe stata possibile mediante un ingente esborso di denaro. La spedizione si concluse con un nulla di fatto e il regno di Francia ne uscì pesantemente indebitato. La progressiva erosione dei territori latini destò nuova preoccupazione in Luigi Ix, che prese la croce nel 1267. I genovesi al tempo mostravano disaffezione nei confronti della corona francese, ed erano in guerra con Venezia. Il sovrano si rivolse quindi al papa Clemente IV, che fece intravedere la possibilità di una scomunica se non ci si fosse impegnati per una pace o un armistizio in vista della spedizione. La crociata rappresentò per Genova un motivo di guadagno, tanto più che Venezia rifiutò le offerte francesi. Genova si impegnò a fornire navi al re di Francia, che pagò subito una parte della somma, rinfrancando gli animi. La partenza fu fissata, ma un ritardo dei genovesi la ritardò: la flotta potè prendere il largo nel luglio 1270. Il piano di luigi consisteva nell’attaccare Tunisi, provocando le proteste dei genovesi, che con quelle piazze commerciavano già da tempo. Giunti in Tunisia i crociati attaccarono Cartagine, per poi assediare Tunisi. Le condizioni del campo crociato si fecero presto precarie. Lo stesso Luigi IX fu colto da dissenteria e morì, segnato la fine miserabile dell’impresa. Si sarebbe trattato dell’ultima grande crociata del secolo. LA GUERRA DI SAN SABA Dopo la sua prima spedizione Luigi IX rimase ad Oltremare fino al 1254, operando in favore della fortificazione di alcune fortificazioni. La sua partenza fece piombare il regno nel disordine, del quale approfittarono le comunità italiane. Nel corso del Duecento la costa siro-palestinese aveva iniziato a contenere all’Egitto il ruolo di principale mercato commerciale del Mediterraneo sud-orientale e buona parte dei traffici si era concentrata su Acri. In città genovesi, pisani e veneziani possedevano ognuno un proprio quartiere. Le tensioni accumulate nell’arco di un cinquantennio sfociarono nella cosiddetta “guerra di San Saba”, scoppiata nel 1256. Si trattò del primo conflitto dichiarato fra le tre città marinare italiane. Le attenzioni collettive si concentrarono su un edificio di proprietà del monastero greco-ortodosso di San Saba. Nello stesso periodo un genovese di nome Barocio Mallone aveva trasportato ad Acri una nave regolarmente acquistata, che però risultò rubata ai veneziani. Questi ultimi occuparono così l’edificio e assaltarono il quartiere genovese, dando inizio a una guerriglia, che avrebbe insanguinato la città per i successivi due anni. Ad ogni modo sembra che i genovesi abbiano risposto incendiando alcuni legni veneziani nel porto, per poi trincerarsi tra le mura del proprio quartiere. Il conflitto andò velocemente allargandosi alle principali autorità della Terrasanta, 20 LE CROCIATE DEL TRECENTO SMIRNE A preoccupare la Cristianità nel Trecento erano soprattutto i turchi, giunti velocemente a minacciare direttamente i territori imperiali. Approfittando delle lotte per il potere Orkhan era riuscito )nel 1326 c.ca) ad ampliare i suoi domini, occupando Brussa e Gallipoli, e assicurandosi il controllo sugli stretti. A contendere il primato anatolico era allora Umur Ben, sovrano turcomanno dell’emirato di Aydin, il cui quartier generale si trovava a Smirne. Tra 1332 e 1334 ebbe luogo il primo tentativo di occupare la città per opera di una lega che vedeva riuniti l’imperatore costantinopolitano e il re di Francia Filippo VI di Valois. L’operazione terminò con un nulla di fatto, permettendo a Umur di accrescere il proprio potere. Nel 1344 Venezia, Cipro e gli Ospitalieri di Rodi si riunirono in una “sancta unio”, mettendo insieme una flotta considerevole. Il patriarca latino di Costantinopoli guidò personalmente l’attacco. Umur Beg riuscì a riconquistare le posizioni perdute, benché il suo prestigio ne uscisse distrutto. Nel frattempo Clemente VI ordinò di predicare una nuova crociata in aiuto di Smirne, volta a bloccare il dinamismo turco. Umberto di Viennois fu posto dal papa a capo della spedizione. Partito da Marsiglia nel 1345 si diresse verso Venezia, raccogliendo un discreto numero di “crucesignati” italiani lungo la strada. In novembre salpò alla volta di Negroponte e giunse presso l’isola di Chio, eletta a base delle operazioni. La flotta fece poi vela verso Smirne, riuscendo ad occupare la città bassa. Nel frattempo i veneziani strinsero un’alleanza con lo czar serbo Stefano Dushan, che ambiva a conquistare Costantinopoli. In cambio i genovesi chiesero ed ottennero dal papa il permesso di commerciare con l’Egitto. Lo scoppio dell’epidemia di peste avrebbe suggerito una rapida soluzione del conflitto: le forze del Delfino ottennero una vittoria presso l’isola di Imbros su una flotta turca. Poco dopo Umur Beg perì tentando di riconquistare Smirne. Nel 1350 la città fu ceduta all’Ospedale: tuttavia i turchi furono autorizzati a presidiare la cittadella, mentre i veneziani guadagnarono importanti privilegi commerciali. Umberto dovette rinunciare a qualsiasi vantaggio. ALESSANDRIA Alla lega del 1343 aveva preso parte anche il sovrano cipriota, Ugo IV di Lusignano, che non cedette alla tentazione di lavorare affinché l’impresa di Smirne mutasse in un “passagium generale” contro l’Egitto. Contro Alessandria si mosse invece il suo successore, Pietro di Lusignano, con l’obiettivo di riconquistare la Terrasanta. Nel 1362 egli intraprese un viaggio in Europa, cercando di convincere i re di Francia e Inghilterra e alcuni principi tedeschi a sostenere un “passagium particulare”, che preludesse a un più ampio “passagium generale”, bandito ad Avignone nel 1363 da papa Urbano V. L’elezione di Carlo V a re di Francia avrebbe però disturbato l’azione. Pietro sarebbe comunque riuscito a mettere assieme una poderosa flotta a,,passando francesi, inglesi, ciprioti e cavalieri dell’Ospedale, che si radunarono al largo di Rodi. La destinazione fu inizialmente tenuta segreta. Ad ottobre i crociai giunsero in vista del porto di Alessandria: fu portato un poderoso assalto e la città fu conquistata in circa un giorno. La spedizione mutò però presto in un nulla di fatto: la conquista non poteva essere mantenuta, né si poteva sostenere l’urto dei mamelucchi. Alessandria fu cinque evacuata e la rappresaglia fu immediata, colpendo in particolare i mercati latini con un blocco dei commerci. Venezia si appresto quindi a inviare ambasciatori al Cairo. Pietro continuò gli assalti alle coste siro- libanese e anatolica, fino alla sua morte nel 1369. AL-MAHDIA Nel 1390 fu bandita una crociata contro il porto di al-Mahddiya, originata dalla necessità di fornire una risposta alla guerra di corsa lungo la costa nordafricana. Fu Genova a fornire nuovamente il naviglio necessario, mirando ad acquisire un porto che consentisse di controllare lo smercio dei prodotti africani. A capo della spedizione vi fu il principe francese Luigi II, duca di Borbone, mentre il comando della flotta fu affidato a Giovanni Centurione. La partenza fu fissata per la fine di luglio a Genova, ma le difficoltà di approvvigionamento fecero ricadere la scelta su Marsiglia. Sia Clemente V che Bonifacio VIII benedissero la crociata, garantendo che la partecipazione si allargasse. Si trattò di una spedizione imponente, l’ultima del suo genere. La flotta salpò quindi da Marsiglia il primo di luglio, facendo sosta in Sardegna e poi fare vela verso l’isola di Kuriat. Qui fu elaborato un piano di attacco, decidendo di porre al-Mahddiyya sotto assedio, così da colpire il cuore dell’economia della zona. I croati sbarcarono alla fine di luglio, senza trovare opposizione. Gli assediati compirono alcune sortite causando forti perdite e dopo sette settimane ebbe inizio il bombardamento delle mura. Le maattie e la carenza d'acqua e di cibo convinsero molti a ripartire, a cominciare 21 dai genovesi. Furono avviati dunque i negoziati, che si chiusero con il pagaamemrto di un’importante indennità da parte del sultano hafside. I croati quindi si ritirarono in un clima di generale malcontento. NICOPOLI Alle soglie del Quattrocento il dominio ottomano era ormai giunto a lambire l’Adriatico. Nel 1389 la giovane potenza serva era stat sbaragliata. Nel 1394 Bayazid conquistò Tessalonica e Manuele II ricercò l’aiuto dei veneziani, che gli venne però negato. Fu il re d’Ungheria a muoversi per organizzare una risposta, invitando i papi a proclamare una nuova crociata e Carlo VI di Francia e Riccardo II d’Inghilterra ad intervenire. Nel 1396 le due potenze rinnovarono l’armistizio. La spedizione trovò un patrono nel duca di Borgogna, Filippo l’Ardito, che vi pose a capo suo figlio: Giovanni, conte di Nevers. All’appello risposero alcuni fra i più celebri cavalieri di Francia e la spedizione partì da Digione il 20 aprile 1396. Raggiunse velocemente Buda, dove convennero altri volontari. Nel frattempo una flotta fornita da Ospitalieri e veneziani penetrava nel mar Nero, ancorandosi nel delta del Daubio. La marcia proseguì fino a Nicopoli, che fu velocemente posta sotto assedio, ma allora ci si accorse della carenza di macchine da guerra. La città resisteva ostinatamente e il 25 settembre ebbe luogo una sanguinosa battaglia, dalla quale l’armata crociata uscì pesantemente sconfitta. L’esito della battaglia lasciò ai turchi campo libero e nel 1399 essi posero Costantinopoli sotto assedio. Solo il maresciallo Boucicaut si adoperò per la sua difesa, costringendo i turchi a levare le tende. Il ritiro dei crociati si doveva anche a Timur, khan mongolo, che riaccese le speranze cristiane di un’alleanza volta a sconfiggere la potenza ottomana, battuta ad Ankara nel 1402. LE CROCIATE DEL QUATTROCENTO VARNA Nel 1413 salì al trono turco Mehmet I, grazie all’appoggio del “basileus” Manuele Paleologo. Ospitalieri e genovesi aiutarono a consolidarne il potere, sperando in qualche vantaggio. Nel 1415 i turchi occuparono Smirne e alla morte di Mehmet Genova appoggiò il figlio e successore Murad II. Dopo l’assedio di Costantinopoli del 1422 e la riconquista di Tessalonica del 1430 da parte di Murad II, Giovanni VIII si convinse che solo l’appoggio europeo avrebbe consentito di mettere in salvo ciò che restava dell’impero. In cambio egli decise di offrire ai latini l’unione delle Chiese. Così nel 1437 intraprese un viaggio in Europa, che portò nel 1439 alla chiusura dello scisma, proclamato in concilio a Firenze, che può si concluse senza alcun impegno concreto. Nella primavera del 1438 i turchi ripresero l’offensiva assediando Belgrado, le cui difese seppero resistere all’urto. In Anatolia i cristiani trovarono un alleato in Ibrahim, bey del Karaman, deciso a contrastare l’egemonia asiatica di Murad. Al contempo Costantino Paleologo, despota di Minstra, conduceva una crociata per proprio conto, avanzando in Tessaglia in direzione di Costantinopoli. Il bando di crociata emanato da Eugenio IV nel 1443 cadde sostanzialmente nel vuoto. La campagna cominciò in modo brillante, ma il duro inverno balcanico e la tattica turca della guerriglia ebbero la meglio. I crociati ripiegarono quindi su Belgrado, per poi tornare a Buda. Il sultano era stato costretto ad accorrere in Anatolia per guerreggiare contro Ibrahim. Il re e i signori di Polonia e Ungheria decisero così di compiere assieme lo sforzo decisivoper cacciare i turchi dall’Europa. Solo il despota di Serbia si tirò indietro. Murad mobilitò così l’esercito e nei pressi di Varna l’esercito crociato subì una violenta sconfitta. Sul trono costantinopolitano nel frattempo salì il despota di Morea, Costantino XI. BELGRADO La conquista di Costantinopoli da parte del giovane Mehmet II nel 1453 fu seguita da un nuovo entusiasmo crociato. Papa Niccolò V si rivolse alle potenze italiane cercando di creare un fronte comune. A ciò lo spingeva con insistenza il cancelliere dell’imperatore Federico III, Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II. Dai Balcani giungevano inoltre notizie incoraggianti. Nel 1454 l’imperatore convocò una dieta a Ratisbona, chiamando a raccolta il duca di Borgogna e gli stati italiani, che però disertarono. Nel frattempo riprendeva l’offensiva turca: nel 1455 le milizie sultaniali occuparono Novo Brdo (Kosovo) e Belgrado. Un contributo alla difesa venne dalla predicazione di Giovanni da Capestrano, che riuscì a mettere insieme qualche migliaio di poveri, contadini, frati e chierici. Il risultato fu una doppia vittoria cristian, ottenuta nel 1456, sia sul Danubio, sia sulla terraferma. Nonostante ciò il momento restava grave. A rinfocolare lo spirito crociato fu l’elezione a papa di Pio II che, nonostante il fallimento della dieta di Mantova, non si diede per vinto. Nel 1463 gli Ottomani avrebbero completato l’occupazione della Bosnia, inducendo l’imperatore e il re d’Ungheria a 22 trovare un’intesa. Pio II riuscì a stipulare un accordo con Venezia e col duca di Borgogna, sulla base di un progetto di spartizione dell’impero. All’impresa avrebbe preso parte anche il papa, che nel 1464 si avviò alla volta di Ancona. Ad attenderlo però ci sarebbe stata una folla di sbandati, confortati ad agosto dall’arrivo della flotta veneziana. Il successore del papa, Paolo II, avrebbe tentato di proseguire l’opera del predecessore, ma senza particolari risultati. OTRANTO Nel corso degli anni Settanta i turchi, padroni ormai dei Balcani meridionali, si sarebbero spinti sino al Friuli. Nel maggio 1480 attaccarono Rodi e fecero poi vela verso Brindisi. Furono però spinti dal vento in direzione di Otranto, allora in mano aragonese. Il 6 agosto la città fu presa d’assalto e sottoposta a un duro saccheggio. La maggior parte della popolazione fu massacrata e la strage provocò ampia apprensione. Si formò così una lega che comprendeva Firenze, l’Ungheria, papa Sisto IV e il re di Napoli. Il papa si appellò a Genova, che fornì imbarcazioni nella speranza di recuperare al dominio genovese parte dei possedimenti orientali. Nel frattempo le contese per la successione di Mehmet II contribuirono ad allentare la pressione. La flotta prese il mare in giugno e, fatto scalo a Civitavecchia, ripartì alla volta di Napoli, per poi puntare su Otranto. I primi attacchi andarono a vuoto e la perdita di numerosi uomini consigliò ad Alfonso d’Aragona la via diplomatica. Egli si accordò quindi con i turchi, ottenendo la liberazione della città. LE CROCIATE DEL CINQUECENTO Nel Cinquecento il conflitto tra mondo ottomano e latino si sarebbe ulteriormente acuito, conoscendo però dinamiche diverse. Allo scontro frontale si sarebbe sostituita una strisciante guerirà di corsa, proveniente in particolar modo dal Maghreb, cui le potenze marinare avrebbero efficacemente risposto. Il mondo cristiano, a ogni modo, conosceva la sua rivincita allargando gli orizzonti. Il dinamismo turco rimaneva all’ordine del giorno: Suleyman tra 1520 e 1566 riuscì a ridare vigore al sultanato turco. L’idea di riunire l’Europa cristiana si concretizzava nella costituzione di un esercito fatto di lanzichenecchi tedeschi, spagnoli, cavalieri borgognoni e condottieri italiani. Il primo fronte era presidiato dalle galee genovesi di Andrea Doria, mentre il secondo risultava più debole. Tra 1529 e 1535 Carlo riportò diversi successi, liberando Vienna e conquistando Tunisi. La caduta di Buda e la sconfitta di Algeri permisero nel 1541 a Khayr al-Din di scorrazzare indisturbato sui mari. Nel 1543 Nizza fu sottoposta a saccheggio da contingenti turchi e francesi, mentre poco dopo Tolone fu completamente occupata. Fra i punti qualificanti del concilio di Trento del 1545 vi fu proprio il “negotium crucis”. Solo alla morte di Khayr al-Din la Cristianità riprese l’iniziativa: nel 1550 al- Mahdiyya fu assaltata dalle truppe imperiali. Nel 1553 papa Giulio III giunse a minacciare di scomunica il re di Francia Enrico II, qualora avesse perseverato nell’appoggiare i turchi. Nel 1560 l’isola di Jerba fu occupata da una cinquantina di galee, ma la guarnigione lasciatavi a presidio fu presto debellata. Il secolo compreso fra la Battaglia di Lepanto (1571) e l’assedio di Vienna (1683) vide la passione crociata spegnersi progressivamente. L’Europa andava incontro a problemi interni, ma l’impero ottomano restava tuttavia un problema. La politica aggressiva di Solimano fu perseguita da suo figlio, Selim I. Nel 1569 i cristiani persero Tunisi, poi fu la volta di Cipro, assaltata nel 1570. Dopo aver stipulato una tregua con l’impero, Selim rinnovò gli accordi con il re di Francia, promettendo la tutela di pellegrini e mercanti diretti in Terrasanta. Venezia, privata dell’isola di Cipro, dovette allora rivolgersi a Filippo II di Spagna. La notizia della presa di Famagosta nel 1571 raggiunse velocemente l’Occidente, favorendo la formazione di una “santa lega” che comprendeva Spagna, Venezia, Malta, il papa, il ducato di Savoia e il granducato di Toscana. Quattro giorni dopo sbarcava a Napoli il fratellastro di Filippo, dom Giovani d’Austria. Un mese più tardi una flotta imponente salpava da Messina, riportando una grande vittoria a largo delle coste di Lepanto, destinata a rinverdire i sogni crociati.La vittoria non fu però sfruttata, lasciando il tempo ai turchi di riorganizzare una flotta. Venezia non potè quindi fare altro che trattare la pace, conclusa l’anno successivo. Al contempo la conquista di Tunisi, persa nuovamente nel 1574, da parte della flotta spagnola si rivelò effimera. Il successo ottomano era quindi completo. Pio V nel 1572 aveva concesso a tutti coloro che avrebbero preso parte alla guerra contro i turchi la stessa indulgenza che i suoi predecessori avevano accordato ai “crucesignati”. 25 una flotta e dall’erezione di nuove fortificazioni.La rinascita sarebbe stata possibile soltanto adottando le virtù minoritiche della “bonitas” (carità, castità, umiltà, sobrietà, legalità): interessa quindi la fondazione di una nuova società oltremarina e della Cristianità intera. UMANESIMO E CROCIATA Nel corso della prima metà del Quattrocento il ripensamento della crociata avrebbe trovato fondamento nel pericolo turco. La rinnovata sensibilità umanistica non avrebbe esitato a collegare l’avanzata ottomana a quella della barbarie sulla Grecia antica. Il ricordo della conquista di Gerusalemme sarebbe affiorato in vario modo: tanto nelle orazioni ad “principes”, quanto nell’ampia pubblicistica “contra Turcos”. Fra il papato di Eugenio IV e quello di Pio II si sarebbero affermate nuove forme di comunicazione, capaci di reinventare il messaggio crociato integrando elementi biblici, classici e medievali. Il parallelo con la contemporaneità avrebbe costituito una costante: il tentativo di affermare una parvenza di continuità con la tradizione precedente avrebbe contribuito a forgiare il vocabolario della guerra antiottomana. L’elemento nuovo era costituito dall’accentuazione del suo carattere difensivo, nel tratteggiare i termini di una cristianità assediata. L’esempio migliore di tale rinnovamento è costituito dall’orazione “Costantinopolitana clades”, presentata da Enea Silvio Piccolomini nel 1454, che adottava i termini dell’oratoria ciceroniana. La sua efficacia oratoria si sarebbe dimostrata schiacciante e la “Clades” venne rielaborata nella “Cum bellum hodie”. Nel “De pace fidei” Nicola Cusano indicava come preferibile la via del dialogo. Una svolta importante nell’elaborazione di un canone storiografico legato alla crociata sarebbe giunta per opera di Benedetto Accolti, autore di una storia della crociata in quattro libri, che aveva lo scopo di porre i propri concittadini in buona luce di fronte al papa, evidenziando come il disinteresse nei confronti della spedizione non fosse unicamente fiorentino. La prima parte era incentrata sulla preparazione della spedizione e sulla partenza; la seconda sull’arrivo a Costantinopoli, la presa di Nicea e la marcia in Asia Minore; la terza si occupava dell’assedio di Antiochia; la quarta infine trattava della presa di Gerusalemme. La fonte principale era l’opera di Guglielmo di Tiro. IL CINQUECENTO: CATTOLICI E PROTESTANTI Il cinquecento avrebbe visto rinascere una nuova “passione crociata” legata, tuttavia, a riusi molteplici. Ci si sarebbe interrogati ulteriormente sull’ammissibilità morale dello strumento: il tentativo di Leone X di organizzare una spedizione contro i Turchi nel 1517, ebbe come principale esito l’elaborazione di un corposo memoriale, in cui si ribadiva la liceità della crociata come guerra difensiva. La retorica e l’ideologia restavano dunque quelle dei secoli precedenti. Il papato non avrebbe rinunciato tuttavia a fare uso dello strumento crociato per difendere i propri interessi. Dopo la metà del secolo Paolo V giungerà a minacciare una crociata contro lo stesso Carlo V. Ci si rese conto quindi che la questione andava regolamentata: nel corso del concilio di Trento papa Paolo III tentò di limitare l’indulgenza crociata, ma incontrò l’opposizione spagnola. Bisognerà attendere il 1567 e il papato di Paolo V perché la vendita delle indulgenze venisse abolita. Per la storiografia protestante la crociata non era altro che uno strumento dell’affermazione papale, condannabile implicitamente. Il luterano Ulrich von Hütten e l’ugonotto Francois de la Noue vi si opponevano per ragioni confessionali. I due pilastri su cui essa si reggeva, l’autorità papale e la concessione delle indulgenze, erano sottoposti a una critica radicale. Erasmo, pur dichiarandosi a favore della guerra antiurica, criticava la crociata come strumento della politica papale, descrivendo le indulgenze come una vergogna. Lutero stesso inoltre avrebbe ammesso la possibilità del conflitto, da affidarsi alle potenze secolari. L’ambiente protestante avrebbe fornito alla rielaborazione concettuale della crociata una spinta importante: l’attenzione si sarebbe concentrata sul ruolo del papa, reo di aver riposto la propria fede nella Gerusalemme terrena. Nel mezzo della diatriba fra cattolici e protestanti andarono emergendo alcuni temi che avrebbero caratterizzato la successiva riflessione, a partire dalla distinzione fra motivazioni temporali e spirituali, e dunque fra istanze papali e devozione del popolo. Il britannico John Foxe attribuiva ad esempio la causa del fallimento delle crociate all’idolatria della Chiesa di Roma. Il luterano Drasser lodava lo spontaneismo dei primi crociati, condannando la doppiezza del papa, uso a fare della crociata uno strumento di governo. La risposta cattolica accostava alla lotta contro gli infedeli, quella contro i protestanti. IL CINQUECENTO: LA CROCIATA MUNICIPALE La battaglia di Lepanto contribuì a risvegliare gli entusiasmi sia nel mondo cattolico, sia in quello protestante. Nel 1591 Giacomo VI di Scozia, calvinista, l’avrebbe celebrata in versi nel poema “His Maiesties Lepanto”, tratteggiandola nei termini della vittoria di Dio contro l’Anticristo; Shakespeare vi avrebbe fatto riferimento nell’ “Otello”. Nel frattempo la “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso (1575-1581) riscuoteva 26 grande fortuna, divenendo enormemente popolare. Le sue fonti erano l’opera di Guglielmo di tiro e la revisione di Benedetto Accolti. L’opera contribuì a rendere amato l’epos crociato, condizionando eruditi e dilettanti. Non è raro infatti trovarla citata come fonte per gli avvenimenti della prima crociata: è il caso dell’opera di Giovanni Francesco Negri, gli “Annali”, in cui sono narrate le vicende del presunto contingente bolognese presente alla conquista di Gerusalemme. Probabilmente l’opera del Tasso ebbe un peso nell’uso di redigere liste di nomi di “crucesignati” italiani, mutuato forse dalla rassegna dei nomi dei capi contenuta nel primo canto. Liste del genere si trovano a Bologna, a Venezia, a Parma, a Rimini, a Faenza, a Fano e a Volterra. Il medesimo motivo encomiastico è riscontrabile nel tentativo di accaparrarsi la provenienza del “primo crociato”, primato conteso fra molte città italiane (Genova, Pisa, Firenze…). L’opera del Negri si inserisce in questo filone, benché la sua prospettiva risulti più ampia, e avrebbe costituito a lungo l’unico scritto italiano dedicato alla questione. Nonostante ciò l’interesse italiano resterà ancorato al contesto municipale. Da questo punto di vista un caso importante è quello genovese, teso a esaltare una partecipazione più dinamica rispetto a quella di altri centri (Agostino Calcagnino). IL SEICENTO: JACQUES BONGARS Nel corso del Seicento la Francia sarebbe passata all’avanguardia della riflessione sulla crociata. Nel 1611 Jacques Bongars pubblicava una delle più celebri raccolte di testi crociati, compresa significativamente sotto il titolo di “Gesta Dei per Francos”. La prefazione concedeva ampio spazio a Guglielmo di Tiro, di cui pubblicava integralmente l’ “Historia”, accompagnata dall’edizione delle principali fonti della prima crociata. La seconda parte conteneva invece l’edizione del “Liber secretorum fidelium crucis” di Torsello e quella del “De recuperatione Terre Sancte” di Dubois. L’opera, dedicata al re di Francia, possedeva un preciso afflato politico: il titolo poneva in evidenza l’indiscutibile apporto francese, rivendicando il compito sacro di difendere la Cristianità alla Corona. Bongars forniva dunque uno strumento interpretativo importante, capace di influenzare i successivi orientamenti: le crociate non erano state altro che un’impresa divina compiuta per mezzo della nazione francese. Tommaso Campanella, parimenti convinto del ruolo provvidenziale della Francia, avrebbe a sua volta proposto la liberazione di Gerusalemme come segno della “renovatio saeculi”, che avrebbe coinciso con l’instaurazione della monarchia universale e la fine della storia. L’ESOTISMO Il fallimento dell’assedio di Vienna nel 1683 avrebbe confermato la convinzione di un repentino tramonto della potenza turca, suscitando la stesura di nuovi piani di crociata. Nel frattempo l’islamistica muoveva i primi passi, contribuendo a una maggiore conoscenza reciproca, sfociata, di li a poco, nella moda orientalistica: connotato fondamentale della cultura europea del sette-ottocento. I prodromi di ciò possono leggersi nell’opera di Galland, “Smyrne ancienne et moderne”. L’Europa del tempo fu attraversata da un interesse per l’universo turco, non più limitato alla considerazione del suo apparato bellico. Ciò si doveva anche al raffreddarsi dei rapporti conflittuali. Gli orizzonti iniziarono quindi ad allargarsi e l’esotismo andava accompagnandosi al sorgere di una sensibilità erudita, esercitata in tutti i campi, e all’adozione di un metodo critico. I benedettini della Congregazione di San Mauro fornivano le basi di un nuovo approccio alle fonti che avrebbe informato di sé la storiografia posteriore. La crociata diveniva quindi un oggetto di studio, permettendo al contempo di soddisfare l’interesse per l’età di mezzo e per l’oriente. Ciò tuttavia non avvenne dappertutto: il Italia l’interesse rimase circoscritto all’esperienza municipale; altrove si sarebbe continuato a sfruttare l’argomento per ragioni confessionali. In questo caso si ribadiva l’idea per cui la crociata era una distorsione del Cristianesimo operata dal papato, nella quale si riversavano tutti i motivi che avevano portato alla Riforma. L’ILLUMINISMO FRANCESE L’avvento dei lumi segnò una svolta importante nell’elaborazione del mito. Uomini come Diderot e Gibbon avrebbero visto nella crociata null’altro che il frutto del fanatismo religioso e il simbolo del dispotismo clericale. La crociata diventava dunque un obiettivo polemico, rientrando a pieno nella discussione sul tema della tolleranza. L’universo orientale assurgeva a simbolo di poesia, raffinatezza e sensualità, tramutandosi in un vero e proprio mito culturale. Il confronto fra la barbarie latina e la raffinata cultura islamica, contro cui la crociata si era volta, risultava impietoso, come mostrava la rivalutazione della figura del Saladino, in cui rifulgevano sia le virtù cavalleresche, sia i nuovi ideali di tolleranza e solidarietà, che ne facevano il prototipo del sovrano illuminato. Montesquieu nell’ “Esprit de lois” si limitava a svalutare il fenomeno, ritenendolo frutto del fanatismo, capace unicamente di recare in Europa la lebbra, mentre Voltaire vi presentava maggior 27 attenzione. Egli, nella sua breve “Histoire des croisades”, considera le crociate come il prodotto di un’età oscura, da rilegare nel museo degli orrori della storia, come l’esito di una malattia epidemica, frutto di credenze illogiche e superstizioni, del tutto opposte alla civiltà che egli scorreva nel mondo greco e arabo. La sua critica, in particolare alla prima crociata, si rivelava favorevole nei confronti di alcuni personaggi: Alessio Comneno, Federico Barbarossa, Federico II Luigi IX. Di essi tuttavia ammirava, più che la “pietas” religiosa, l’intelligenza politica. La crociata dunque era stata un’azione inutile, incapace di fornire all’Europa un processo di civiltà. Diderot invece forniva nell’ “Encyclopedie” una visione meno edulcorata: la crociata non era stata altro che ujn miscuglio di odi e falsità, capaci di portare l’Europa al declino, spopolando le contrade, arrestando il progresso agricolo, arricchendo chiese e monasteri. Tali istanze furono riprese da Mailly, nel suo “L’esprit de croisades”, fornendo una narrazione distesa e concentrata in particolar modo sugli aspetti miracolistici, tracciando un quadro fosco che finiva per condizionare l’intera civiltà medievale, identificando la causa delle crociate nel fanatismo religioso. Di altro avviso era Condorcet che forniva una nuova sistemazione della materia, dividendo la storia una in nove epoche: la prima crociata separava la sesta dalla settima, quale spartiacque fra la barbarie e la civiltà. Egli notava infatti come, a fronte dei numerosi orrori commessi durante le singole spedizioni, esse avevano favorito il commercio e accresciuto le relazioni con il mondo arabo. L’ILLUMINISMO INGLESE La crociata si appropriava al contempo della tradizione empirista inglese, che avrebbe fornito un’interpretazione più equilibrata del fenomeno. Nel 1769 William Robertson in un lungo testo intitolato “View of the Progress of Society in Europe” leggeva la crociata quale tappa importante del progresso della civiltà. Essa era stata capace non solo di scuotere l’Europa dal letargo cui era piombata a seguito delle “invasioni barbariche”, ma anche di contribuire al rinnovamento dei costumi, e ne ricino duceva la genesi alla pratica del pellegrinaggio. La predicazione di Pietro l’Eremita e il concilio di Clermont divenivano cause occasionali, il cui unico pregio era stato quello di dare avvio al movimento, liberando le masse dal letargo in cui ero piombate. Egli tuttavia non esitava a condannare gli orrori, associandoli al fanatismo e all’avidità delle schiere crociate. Criticava inoltre l’atteggiamento dei “philosophes” francesi, incapaci di comprendere il sincero desiderio religioso. Anticipando temi e problemi tipici del Romanticismo, egli forniva una visione positiva della crociata, implicita nell’allargamento degli scambi commerciali e nel disgregamento dei legami feudali. Il sorgere delle autonomie cittadine e il costituirsi delle monarchie nazionali avrebbero costituito il frutto della partecipazione alla crociata di molti europei. L’opera di Robertson fornì una base importante per la riflessione di Gibbon, venata di forti accenti etici. Egli si domandava innanzitutto se la guerra condotta a fini religiosi potesse ritenersi lecita, osservando come la crociata rientrasse nei canoni di legittimità del proprio tempo. La crociata andava dunque intesa nell’ambito delle categorie del tempo in cui si era realizzata. Nonostante ciò essa era sottoposta a una critica serrata, improntata sulla tolleranza e condita di antipapismo. Gibbon era però disposto ad ammetterla quale merito: in particolare nella capacità di aprire agli europei nuovi orizzonti commerciali e manifatturieri. Egli mostrava inoltre una fine sensibilità storiografica nel tentativo di comprenderne le cause: l’origine della spedizione si doveva alle richieste di aiuto all’Occidente da parte di Alessio Comneno. L’opera spostava quindi indirettamente l’attenzione dal piano dell’etica, per collocare la crociata nel proprio contesto. Nella sua brutalità, la crociata restava uno dei grandi avvenimenti della storia, da cui la stessa Europa aveva avuto inizio. Il progressivo affermarsi del Romanticismo avrebbe considerato la crociata quasi il fulcro dell’età di mezzo, esaltando il sentimento delle masse. UN IMMAGINARIO REAZIONARIO Gli scritti dei “philosophes” istituivano un forte nesso fra crociata e fanatismo religioso, frutto di un’epoca barbara. La religione e il dogmatismo rappresentavano un ostacolo al progresso della civiltà: la Rivoluzione sarebbe cresciuta in questo clima culturale, leggendo nella crociata il segno dell’intolleranza. Era naturale quindi per i controrivoluzionari assumere toni esattamente opposti, brandendo la crociata a modello sino a promuoverne l’identificazione con un’ipotetica “guerra santa”. La rivolta scoppiata in Vandeane 1793 avrebbe contribuito a semplificare il quadro, adottando il linguaggio della crociata e l’estetica della guerra per la fede, in senso lato politico, quanto metafisico. Al contempo i giacobini avrebbero scorto nei vandeani quella massa criminale di cui Voltaire aveva parlato a lungo. La crociata ne usciva dunque trasfigurata, piegata tanto agli ideali rivoluzionari che al loro contrario. Essa mostrava così tutta la sua malleabilità di idea-forza. A procedere in questa direzione erano anche l’Italia cattolica e la Spagna, caratterizzate dall’adozione di moduli simili, improntata alla difesa della fede che si credeva sotto attacco.
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