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Le donne durante il regime fascista - Victoria de Grazia, Sintesi del corso di Storia

Questo testo affronta in maniera caleidoscopica il rapporto tra donne e regime fascista.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 27/03/2020

michela-cavenaghi
michela-cavenaghi 🇮🇹

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Scarica Le donne durante il regime fascista - Victoria de Grazia e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! Victoria de Grazia – Le donne nel regime fascista Il ruolo delle donne italiane durante la dittatura fascista non è da considerarsi limitato a quella di vittima del fascismo e del patriarcato. Le donne hanno avuto un ruolo attivo e sono state soggetti storici che hanno agito attivamente e calpestato la sfera pubblica. Si tratta di un panorama femminile ampliamente diversificato, le donne agivano in maniera differente se vivevano in campagna o città, se erano cattoliche o coniugate ecc. Tuttavia le differenziazioni tendono a sbiadire perché le politiche antifemminili del fascismo toccavano tutto le donne anche se, allo stesso tempo, cristallizzarono la distanza fra le donne benestanti e quelle delle classi inferiori. Quindi c’è sicuramente diversità delle esperienze femminili sotto il fascismo, ma anche uniformità del modello che il fascismo impone alle donne. Capitolo 1. La Nazionalizzazione delle donne Contraddizione del fascismo che da un lato vuole promuovere lo sviluppo economico come mezzo per elevare la forza della nazione, e dall’altro cerca di limitare i cambiamenti sociali connessi alla trasformazione economica. Questa contraddittorietà emerge palesemente se si considera come il fascismo trattò le donne italiane: da un lato intendeva relegarle alla sfera domestica, come angeli del focolare, dall’altro le mobilita in massa nelle organizzazioni fasciste, le fa partecipare alla sfera pubblica, calpestare le piazze. C’è nel fascismo una compresenza di ansia di modernità e progresso, e un attaccamento alla tradizione e ai ruoli tradizionali di potere. L’atteggiamento del regime verso le donne è emblematico di questa caratteristica del fascismo: tutte le pratiche sociali connesse con l’emancipazione femminile (voto, libero associazionismo, lavoro extradomestico, libere forme di solidarietà femminile …) sono condannate o vietate, ma per accrescere la forza economica della nazione, le donne sono mobilitate e organizzate in associazioni. C’è da notare che il movimento fascista non aveva elaborato fin da subito una politica verso le donne, tant’è vero che l’ONMI venne istituita solo dopo tre anni di governo fascista, e la campagna per l’aumento delle nascite risale al 1927. Cercando di proteggere e ripristinare il vecchio, il regime produce qualcosa di nuovo perché suscita partecipazione femminile. A differenza dell’esplicita violenza che il fascismo riserva, per esempio, alla soppressione dei sindacati e degli operai, la politica attuata nei confronti delle donne per relegarle a un ideale di “nuova italiana” tipicamente fascista, è subdolo e silenzioso, agisce sui loro corpi normalizzando alcuni modelli, per esempio la vocazione alla maternità, si parla di biopolitica. Prima della Prima Guerra Mondiale: crisi demografica che combacia temporalmente con la democratizzazione e diffusione di idee liberali. Le donne non erano più solo madri, ma lavoratrici, consumatrici e cittadine. Di conseguenza c’è un nuovo interventismo statale sulla popolazione, che si differenzia da Stato in Stato. Se ad esempio in Svezia si punta sulla politica sociale che permetta alle donne di essere madri e lavoratrici, nell’Italia fascista lo Stato si arroga il diritto di decidere sulle dimensioni della popolazione, puntando sulla quantità e non sulla qualità, proibendo aborto e anticoncezionali, e relegando le donne al ruolo di madri. Fino alla fine dell’Ottocento la nazionalizzazione delle masse aveva riguardato solamente gli uomini che, cittadini e soldati, partecipavano attivamente alla vita politica. Con la grande guerra le donne sono impiegate nelle fabbriche, negli uffici commerciali e in quelli pubblici. Ma la nazionalizzazione delle donne fu realizzata in termini autoritari. Il fascismo sostenne la diversità delle donne a vantaggio politico e sociale degli uomini. Lavorando, anche nell’industria pesante, le donne furono introdotte nella sociabilità tipica della vita cittadina. Allo stesso tempo, consumi di massa e nuovi stili di vita su modello americano, penetravano anche nella vita delle italiane. Di fronte a queste nuove tendenze, il cattolicesimo allarmato promosse nuovi modelli femminili e nuovi codici di condotta morale. Il fascismo ha modernizzato il ruolo delle donne? 1. Innanzitutto le donne erano già organizzate da sole ben prima del fascismo: organizzazioni cattoliche, socialiste, del femminismo borghese o delle solidarietà informali. 2. Sembra che la partecipazione alla sfera pubblica significhi necessariamente modernità, mentre sfera privata coincida con arretratezza. Non è così. Il fascismo in realtà ridefinisce il rapporto tra sfera pubblica e privata, configurandosi come un totalitarismo: cercando di cancellare i confini fra le due sfere. Le donne partecipavano sì alla sfera pubblica, ma il fascismo cercò sistematicamente di impedire alle italiane di vivere quei momenti come emancipazione individuale e, tantomeno, collettiva. Capitolo 2: L’eredità liberale L’Italia liberale tratta con negligenza e distrattamente la questione femminile. Le donne non compaiono nell’agenda di governo e sono sottomesse e dipendenti dai mariti a tutti gli effetti: non hanno diritti economici e civili. Nel diritto di famiglia, tutto è delegato al pater familias senza la cui autorizzazione la donna non aveva alcun tipo di potere legale o commerciale; adulterio era un crimine solo per le donne; non c’era riconoscimento della paternità. Anche la Chiesa propinava un modello di femminilità imperniato sull’esaltazione della maternità. In questo contesto, in cui fra le cose l’alfabetizzazione femminile era poco diffusa, il femminismo italiano si affermò tardivamente e si legò al movimento più antagonista rispetto alle istituzioni liberali patriarcali, cioè il movimento dei lavoratori. Tuttavia nemmeno i socialisti sostenevano l’obiettivo dell’emancipazione femminile, che era posto in secondo piano rispetto alle istanze della classe operaia. E’ esistito in questi anni anche un movimento femminile cattolico, e si diffuse un femminismo pragmatico. Si tratta di donne che ritengono indispensabile agire attivamente nella vita pubblica, agendo come costruttrici dello stato, dell’assistenzialismo eccetera, al fine di ottenere giustizia e diritti. - Prima Guerra mondiale e primo fascismo È con la Prima guerra mondiale che le donne diventano protagoniste. Sono mobilitate in massa poiché lo Stato aveva bisogno del loro lavoro, del loro volontariato, del sostegno e propaganda sul fronte interno. Perciò le donne si aspettavano, alla fine della guerra, per lo meno un riconoscimento dei loro sforzi ottenendo rappresentanza e parità. Ciò non successe, lo stato liberale era in crisi e si afferma il fascismo. Alcune femministe leggono il programma nazionalista fascista in termini emancipatori. Cercavano una nuova e fresca avanguardia che si facesse portavoce delle loro istanze. Nota bene: si tratta di donne borghesi che simpatizzano con il programma fascista di “valorizzazione della vittoria e forte spirito di sacrificio”. Ma queste sostenitrici della prima ora erano solidali con le istanze fasciste? C’è da notare che il primo fascismo non prese particolari iniziative per creare, ampliare e organizzare una componente femminile. Chiedeva il voto a tutte le donne oltre i 21 anni, ma non erano gli unici. Le prime sostenitrici del fascismo sono personalità eccentriche, autonome e singole, che non condividono necessariamente lo stesso passato politico. È un movimento nuovo e liberatorio. È reso attraente dal dannunzianesimo, che con la figura di D’Annunzio mobilita la filantropia femminile a sostegno delle truppe, e dal futurismo italiano che, seppur esplicitamente antifemminista e misogino, sostiene attivismo, antiautoritarismo e forme di amore libero. Le fasciste della prima ora condividono una critica al fallace sistema liberale, il desiderio di uno Stato forte e ordinato, rifiuto del socialismo riformista. Parallelamente alla maternità, il fascismo ridefinì anche la paternità. Essa si definiva in base al numero di figli, e va da sé che il coito interrotto fosse un’ “orrenda frode contro lo Stato”. Sempre nell’ottica della difesa della razza e la crescita demografica, venne istituita la “tassa sui celibi”nel 1926. Si tratta di una misura punitiva molto alta, chiamata anche “tassa sull’egoismo”. Il fascismo ritiene necessario sancire e celebrare pubblicamente la procreazione. È istituita la Giornata della madre il 24 Dicembre, per sfruttare il culto cattolico della Vergine Maria. Ideale di donna: casta, dedita e pronta al sacrificio. Tuttavia la madre che veniva celebrata era quella prolifica. Basti pensare che in occasione dell’adunata nazionale a Roma vennero premiate le madri che avevano partorito più figli, e non vennero chiamate per nome ma per il numero dei figli. - Politica natalista fascista – emancipazione femminile e femminismo Il pro natalismo fu un’arma contro le donne che si identificavano come femministe. Il fascismo costruì due immagini femminili: la donna isterica, urbana, magra, sterile e la donna madre, patriottica, rurale, tranquilla, prolifica. La prima era identificata come la donna che lavorava, giacché il lavoro sulle donne creava nevrastenia e sterilità, senza considerare che le distraeva dai doveri familiari. Capitolo 4: La famiglia e lo Stato Alla donna fascista si chiedeva di servire i bisogni della famiglia e contemporaneamente essere in prima linea per lo Stato. Questa una contraddizione che emerge con forza nell’atteggiamento dello Stato fascista verso la famiglia. Il fascismo pensa ad un nuovo modello di famiglia come pilastro dell’ordine sociale: orientata alla sfera pubblica, patriarcale, strutturata secondo una divisione del lavoro in base al sesso, eliminando la “famigliola” individualistica borghese e pensando il nucleo famigliare in funzione del pubblico, della collettività. Questo modello familiare prefigurava le gerarchie corporative dello stato. Ma allo stesso tempo la famiglia è percepita e resta un’istituzione privata, un rifugio. Il governo fascista chiede molto alle famiglie italiane in termini economici. Infatti i nuovi bisogni indotti (i nuovi consumi, i nuovi modelli di conduzione della casa anche per le famiglie di ceto inferiore ecc) sono difficilmente appagabili da famiglie che, allo stesso tempo, devono ottemperare al compito di produrre i figli e far quadrare il costo degli affitti e della sussistenza con i bassi salari. Il prototipo di famiglia esaltato dal fascismo è quella contadina, rurale e patriarcale. Al fine di limitare la migrazione interna dalle campagne alle città - nell’ottica di una riduzione della dipendenza alimentare dall’estero, per diminuire il numero di ex contadini disoccupati nelle città – Mussolini mette in atto una politica antiurbanista e ruralista: progetti di promozione della stanzialità, bonifiche. Le famiglie contadine, che difficilmente ricorrevano alla protezione sociale statale, rafforzavano modelli tradizionali di autorità (capo famiglia contadino), solidarietà parentale e comunitaria. Il “salario familiare” era caldeggiato non solo dal fascismo, e consisteva nel salario unico che il capofamiglia guadagnava e che permetteva di mantenere moglie e figli. Ma nel 1931 più del 45 % delle famiglie italiane dipendevano da due o più percettori di salario. Perciò il fascismo provvede con un sistema di sussidi e assegni familiari che, lungi dal costituire un incentivo alla crescita della famiglia, era legato all’abbassamento dei salari sotto il livello di sussistenza. Il fascismo aveva grandi ambizioni per la famiglia italiana, e a partire dal 1931 cominciò ad affrontare la riforma del codice di famiglia, che divenne legge nel 1942. La preoccupazione era un ulteriore calo dei tassi di natalità e disintegrazione della famiglia stessa. Il nemico comune individuato è l’agnosticismo liberale. Il fascismo per fini opportunistici e per non inimicarsi la Chiesa, sancisce la sacralità della famiglia e del matrimonio religioso. Sostiene il concetto di “onore familiare” e l’annesso delitto di onore. Il codice Rocco all’articolo 587 sanzionava il delitto d’onore, inteso come onore del padre o dei fratelli: se per tutti gli omicidi la pena minima era di ventun’anni, per il delitto d’onore solo dai tre ai sette. Le donne erano punite per adulterio, la loro condotta morale era più dannosa che quella maschile. In Italia esisteva un ampia rete di strutture sociali, caritatevoli e volontarie, prevalentemente cattoliche, che prestavano supporto alle famiglie bisognose. Le donne erano presenti in maniera massiccia nelle associazioni caritatevoli, specialmente le borghesi delle classi medio – alte. Il fascismo attua una politica sociale “a buon mercato” cioè programmi improvvisati con tornaconto politico palese, non tanto volti a risolvere strutturalmente le problematiche, ma piuttosto a conferire pubblicamente premi e riconoscimenti (vedi premio alle madri prolifiche). Ad ogni modo era molto difficile per i bisognosi accedere ai servizi, in primis a causa del frazionamento dei centri di erogazione: c’era moltissima burocrazia e le donne (erano principalmente loro che si muovevano fra uffici comunali, enti statali, associazioni caritatevoli) sottoponevano il proprio caso ad almeno cinque o sei uffici prima di risolverlo. Inoltre i servizi avevano un volto privatistico e imprevedibile: sebbene fossero spacciati come universali (per tutti quelli che lavoravano), erano erogati in maniera dipendente dalla volontà di chi li erogava, erano diseguali, centralizzati, autoritari e condizionati dalle ideologie. Ad esempio l’assistenza di fabbrica era erogata solo se l’operaio era in linea con l’ ideologia fascista, previo controllo dei carabinieri. - Ruolo della casa Durante il periodo fascista le donne mettono in atto una riforma della casa su modello americano a cui si dà il nome di massaismo. Consiste essenzialmente in una nuova forma di economia domestica basata sulla razionalizzazione scientifica della gestione del lavoro domestico. Già nel primo dopoguerra si crearono gruppi e associazioni di donne che adattavano la vita domestica e la gestione della casa ai tempi moderni (ad esempio, organizzazione delle massaie rurali, Federazione dell’ago, insegnamento dei lavori di piccola produzione domestica. Mentre queste esperienze erano fortemente differenziate fra strati sociali, nell’Italia fascista sono le donne borghesi ad essere protagoniste. Esse codificano i propri principi di gestione della casa e li diffondono alle classi più basse: la casa borghese si riconferma come sfera separata e fortino della donna. A differenza degli Usa, in Italia ben poche famiglie si possono permettere i mobili e gli elettrodomestici per l’organizzazione della vita domestica, e solo le “signore” dispongono di servitù. Le distinzioni di classe si concretizzano e si palesano proprio nell’abitazione. Le donne di classe operaia, che lavoravano, crescevano i figli, e curavano la casa, consideravano irritanti i corsi di economia domestica tenuti dalle borghesi. La casa era un grave problema: aumento della popolazione, in particolare della popolazione urbana che nonostante le politiche ruraliste aumentò circa di due milioni tra il 1921 e il 1936. Le case popolari costruite dal regime erano spesso date a impiegati dello Stato o tramite favoritismi. - Donne rurali Intervento del fascismo nelle campagne per organizzare le donne rurali: secondo un sondaggio del 1931 nove milioni di donne della popolazione rurale sfugge completamente all’organizzazione fascista. Grazie alle abilità organizzative di Regina Terruzzi, viene fondata l’Organizzazione delle massaie rurali a partire dall’analoga organizzazione che raccoglieva le massaie della provincia di Milano. L’obiettivo primo dell’organizzazione era sostenere le piccole industrie domestiche delle donne nelle campagne, che conferivano alle donna una certa indipendenza economica nei confronti del marito e del proprietario (cesti intrecciati, coltivazione dell’ orto, allevamento del baco da seta …). Se da un lato l’organizzazione rafforzava l’orgoglio per i costumi e le tradizioni rurali, dall’altro metteva in comunicazione donne di città e donne di campagna e mostrava a queste ultime la misura delle loro privazioni e fatiche, contribuendo implicitamente a suscitare il desiderio di abbandonare la città. I bambini nel fascismo erano altrettanto organizzati e indottrinati, strappati alle madri nell’ ottica che “i figli appartenevano alla nazione”. Numerose le organizzazioni (Balilla, Onmi, Gioventù italiana del littorio) che organizzavano servizi sociali e ricreativi, e addestramento premilitare. Il fascismo amplia la frequenza scolastica e gli asili. Le colonie avevano chiari scopi eugenetistici: i bambini venivano vaccinati, controllati di peso e indottrinati al sistema gerarchico. L’ossessione per la crescita demografica accresce parallelamente all’allineamento con la Germania nazista (anno 1937). La famiglia continua ad essere percepita come un rifugio contro l’ingerenza statale. Si parla di familismo oppositivo. Lo stato caricava in particolare la componente femminile della famiglia di forti pressioni: le donne erano madri in un contesto in cui il ruolo sociale della maternità era minato e declassato, spesso costrette a lavorare quando il lavoro femminile era dequalificato ed erano discriminate, barcamenarsi nel labirinto della burocrazia, occuparsi della casa nei suoi nuovi standard. Le donne quindi ricercano forme di solidarietà nei legami familiari, nelle associazioni religiose e nelle subculture di classe. Ritrarsi della società civile, non integrate perfettamente nel nascente Stato fascista, difendono la famiglia e gli interessi locali. Capitolo 5: Crescere L’Italia fascista era per il 45 % composta da una popolazione di giovani d’età inferiore ai 25 anni. Le giovani fasciste vivevano la loro giovinezza tese da un lato fra l’ideale di abnegazione materna all’interno delle mura domestiche, mentre dall’alto erano educate all’attivismo sociale, a scendere in piazza e a diventare brillanti accompagnatrici dei dirigenti maschi. Tensioni e contraddizioni che il regime incoraggiava, richiedendo alle giovani di essere cittadine attive e responsabili nella vita pubblica, ma abnegate e dipendenti in casa. A tutto ciò si aggiungono i nuovi consumi di massa, nuovi attitudini sessuali. Chi erano le giovani fasciste? 1) le “maschiette” nate fra il 1900 e il 1910, disinibite dall’assenza di uomini durante la guerra e dal clima emancipazionista postbellico 2) ragazze nate dopo la grande guerra che avevano assorbito la cultura di massa americana e allo stesso tempo le organizzazioni fasciste. Tutto ciò genera conflitti generazionali con i genitori. Ambizione delle ragazze ad una vita indipendente e al lavoro, ma allo stesso tempo, soprattutto le borghesi, erano educate ad una vita divisa tra obblighi familiari e domestici. Le donne nubili (zitelle) erano stigmatizzate pubblicamente dal fascismo. Il regime sottoponeva le ragazze a messaggi contradditori. Tre forze che condizionavano i giovani: fascismo – cattolicesimo – mercato. I giovani italiani erano influenzati dalla cultura di massa, attraverso il cinema, le pubblicazioni e le riviste, anche se l’accesso a questi servizi di intrattenimento era ristretto e costoso. L’industria cinematografica era prevalentemente americana, perciò il giovane pubblico italiano entrava in contatto con i costumi e gli stili di vita apparentemente più moderni e desiderabili tipici degli States. I nuovi costumi includevano anche i costumi sessuali, il trucco e il rapporto fra i sessi. Di ciò si discuteva specialmente sulle riviste, come ad esempio “Piccola” o “Eva”. Al posto del modello tradizionale di matrimonio combinato, si diffonde l’ideale di corteggiamento, innamoramento e capacità seduttive delle donne. I giornali per le ragazze davano consigli su come “civettare” e trattare un uomo, ma erano totalmente negligenti per quanto riguarda l’informazione sessuale. Non c’era educazione sessuale nelle scuole, nemmeno da un punto di vista biologico. Le ragazze non sono introdotte al piacere sessuale. Moralizzazione degli atteggiamenti sessuali che si diceva portassero a malattie. In definitiva le ragazze rimanevano ignoranti presidi, insegnati al liceo o classi 4° e 5° dei tecnici. Decreto del 5 settembre 1938: quota massima del 10 % di donne nelle aziende medio gradi, pubbliche e private. In realtà le svariate forme discriminatorie, avevano già abbassato la quota delle donne ben prima del 38. Comunque c’erano aziende e settori che impiegavano esclusivamente donne. Esaltazione della massaia rurale e della ruralità da parte del fascismo. Ciononostante l’esodo dalla campagna alla città era in costante aumento, e interessava più le donne che gli uomini. Forse perché la disparità salariale era meno accentuata nei contesti urbani: nell’agricoltura il salario femminile era circa il 50 % di quello maschile, nell’industria toccava il 60 – 70 %. Inoltre c’era previdenza sociale e maggiore possibilità di svaghi e tempo libero. Dilaga in Italia la forza lavoro invisibile e informale, che lavorava a domicilio. L’economia sommersa sfuggiva alle statistiche ufficiali. Le lavoratrici domestiche erano impiegate nelle case dei ricchi e provenivano spesso dalle campagne. Erano sfruttate, non avevano orari, svolgevano tutte le faccende domestiche per una misera paga. Il lavoro in fabbrica era quello più ambito dalle donne, creava senso di comunità e identità collettiva e, nonostante le numerose conseguenze a livello fisico (affaticamento cronico, cicli irregolari, vene varicose ecc), lavorare significava acquisire una personalità propria e indipendenza. Capitolo 7: Uscire Il caffè è il luogo della socialità maschile per le élite. Il nuovo luogo di sociabilità tipicamente femminile era invece, negli anni 30, il cinematografo. La cultura di massa e commerciale era un problema per il regime: nuove nozioni di collettività ma anche di individualità. Il fascismo propinava fondamentalmente tre modelli di donna: 1) cattolica e casta 2) americana e egualitaria 3) borghese di buone maniere. Impegno della Chiesa contro l’immoralità dei tempi e l’abbigliamento “immodesto”. Ma il moralismo non proveniva solamente dall’ambito cattolico: Stato e Chiesa concordavano che le donne che uscivano da sole, che si vestivano succinte o avevano un atteggiamento emancipato e “sfacciato”, erano un problema per l’ordine pubblico. Il regime fonda i circoli del dopolavoro, che ospitavano le attività del tempo libero di 4 milioni di italiani. Il tempo libero femminile è gestito diversamente rispetto a quello maschile: non c’è differenza fra tempo libero e tempo di lavoro, perché il primo si mischia con impegni domestici e gestione parentela. Diffusione dell’ influenza culturale americana in tutt’Europa. In Italia però ci sono più timori che altrove a riguardo. Sentimenti contrastanti verso America: desiderio di modernità e attrazione, contemporaneamente a disturbo e timore. Le donne americane erano allo stesso modo desiderabili, ma la loro indipendenza e emancipazione intimoriva gli uomini italiani. Il regime aveva in alta considerazione il corpo femminile, che era stato sdoganato dal cinema e dalla cultura di massa. Innanzitutto il regime cercò di dettare a) canoni di bellezza: la “donna crisi” era magra, mascolinizzata, americana o francese, ed era un modello negativo, asessuata e androgina, non nera adatta alla procreazione. Era “pallida, scheletrica”. Al contrario, la donna prosperosa era più autentica e desiderabile. Incarnava la maternità. Tuttavia contemporaneamente anche la cultura commerciale lanciava immagini influenti di bellezza femminile (cfr. concorso per segretarie lanciato da “Piccola” nel 1929). b) Politica dello sport: se inizialmente il regime incoraggia l’attività fisica delle donne senza remore, intorno al 1930, su influenza della Chiesa e timoroso che potesse essere uno slancio all’emancipazione, il regime fa marcia indietro e promuove un’attività fisica regolata e medicalizzata. Lo sport, soprattutto quello competitivo e agonistico, non doveva distogliere la donna dalla sua funzione primaria: la maternità. c) altro punto di interesse del regime era la moda femminile. Uno dei primi obiettivi fascisti fu di scoraggiare l’importazione di abiti e moda dall’estero, per incoraggiare le donne fasciste a “comprare italiano”. I vestiti di alta moda divennero l’ostentazione del lusso delle donne aristocratiche e alto borghesi. La politica autarchica del regime sostenne infatti l’industria nazionale della moda, tant’è che nel 1933 fu fondato a Torino, l’ente nazionale della moda. Tuttavia intorno alla fine degli anni ’30, il regime iniziò a mutare opinione circa le “donne di lusso”, che vennero associate con la mera ostentazione e l’indifferenza al patriottismo. A partire dagli anni venti circa, venne introiettata negli italiani una nuova concezione della casa e della domesticità. La grande diffusione delle radio e dei telefoni, che comunque rimaneva un lusso, aveva incoraggiato l’idea di una casa non chiusa in se stessa, ma aperta alla vita pubblica, una piattaforma da cui lanciarsi nella società. Il fascismo aveva un atteggiamento duplice nei confronti della nuova domesticità: da un lato l’assecondava, dall’altro la disprezzava. Il salotto aristocratico perse d’importanza. Era il prodotto d una concezione aristocratica del rango e il fascismo gli fece perdere la sua centralità, nell’ottica di un rimodellamento dei legami fra spazio pubblico e privato. In sintesi, le donne erano libere di uscire molto più di prima. La dittatura non poteva impedire di accedere alla cultura di massa. Tuttavia non disponevano della libertà per decidere quando e come usarla, quando e come uscire. Il regime cercava di controllare gli impulsi individualistici che potevano essere generati dalla cultura di massa. Capitolo 8: la politica delle donne in una nuova chiave In Italia si parla di “femminismo latino”, una nuova sintesi politica che concilia il vecchio femminismo e il fascismo. - Il femminismo è latino poiché sostiene caratteri che si considerano peculiari della femminilità italiana: vocazione alla famiglia, attaccamento alla tradizione - nazionale perché le istanze femminili sono subordinate agli interessi dello Stato. Scevro del riformismo socialista e dell’individualismo americano, che livella le differenze per richiedere la parità dei diritti. - Perché è un femminismo? Cosa c’è di femminista? Problematico. Avevano rinunciato ad un’organizzazione autonoma delle donne o alla parità di diritti in senso assoluto, ma volevano ancora una voce indipendente e un miglioramento della condizione femminile nella società italiana. Puntavano a creare una cultura femminile diffusa a livello nazionale che sostenesse la supposta volontà fascista di “andare verso il popolo”: Le donne dei ceti privilegiati si sacrificavano per il bene della nazione. Conciliare il femminismo di inizio secolo e il fascismo non è cosa da poco. La volontà fascista di organizzazione le donne in massa, attraverso le organizzazioni sotto l’egida del PFN, ricalca la consapevolezza che ormai le donne pretendono impegno sociale. Inizialmente, prima della fondazione delle organizzazioni femminili (1935 – 1936), il fascismo sfruttò la stampa, le istanze e la retorica del femminismo borghese. Successivamente le prime tendenze emancipazioniste vennero soffocate. In che misura le donne dovevano essere cittadine dello Stato fascista? Il femminismo latino puntava sul volontariato come un dovere sociale, identificazione emotiva con lo Stato, ma gli uomini interpretavano questa attitudine come subordinazione. Frustrazione delle donne e delle ex femministe che, invecchiando, vedevano gli stili di vita delle più giovani più liberi, ma non mossi da impulsi emancipazionisti. Sembra che il femminismo era un’ideologia obsoleta, una vecchia carcassa da dimenticare, come tutte le macerie del passato liberale. I gruppi femministi che facevano riferimento al femminismo storico, vennero inizialmente invitati a sciogliersi liberamente. Il femminismo storico venne soppiantato a) movimento cattolico b) movimento fascista. a) Il movimento cattolico costituiva un’alternativa ai fasci femminili e prosperò per tutti gli anni venti. Pubblicamente sulla stampa non fu mai ostacolato dal fascismo, anche se è lecito sospettare che ci furono delle rivalità tra i gruppi femminili cattolici e fascisti. Nel 1931 l’UDCI (unione delle donne cattoliche d’Italia) contava 250 mila associate, mentre i fasci femminili 150 mila. Scopo dei movimenti cattolici è quello di ricristianizzare l’Italia, nella deriva industriale e moderna. Per fare ciò si serve degli strumenti della cultura di massa (radio, stampa, cinema): riforma della cultura e dei costumi. Erano tese alla società civile. Importanza della solidarietà femminile, l’acquisizione di una forte identità personale (anche se repellevano l’individualismo dell’emancipazionismo liberale). Emerge la profonda impronta cattolica della società civile, che non voleva più la secolarizzazione dell’Italia liberale, non voleva sentirsi dilaniata tra Stato o Chiesa. b) Nel 1932 – 1933 i fasci femminili ottennero vigore organizzativo ma vennero definitivamente accettate solo nel 1935-1936 quando, in occasione della campagna di Etiopia, le donne si mobilitarono considerevolmente. Nonostante l’organizzazione di massa delle donne, il fascismo non affrontò mai il problema di fondo cioè quale funzione politica le donne dovessero esercitare sotto il regime. Questo turbava tanto gli uomini, che erano minacciati e disapprovavano l’attivismo femminile, quanto le donne, che volevano riflettere sul significato della loro azione in un più ampio contesto. Fu Teresa Labriola a teorizzare il femminismo latino. Esso era teso alla pratica, piuttosto che alle teorizzazioni (tipiche invece del vecchio femminismo) Il patrocinio della cultura era in mano agli uomini. Tuttavia questa esclusione alimentò nelle donne la consapevolezza di essere parte di una cultura separata ma di eguale valore, se non superiore. L’esclusione dalla sfera politica le spinse nella sfera culturale. Scrivere romanzi, negli anni venti, era la manifestazione della nuova politica culturale femminile. Tuttavia le eroine femminili di questi romanzi si adattavano a canoni penosi: erano donne sedotte e abbandonate, immagini di abnegazione, rinuncia all’amore e alla felicità. Le femministe italiane si affermavano rivendicando il monopolio del sacrificio? Come emerge dal libro di Sibilla Aleramo, Una donna, la donna guadagnava la libertà ma a prezzo della serenità. Anche durante il fascismo le donne si attivarono nell’assistenzialismo sociale (esempio nacque la figura della “visitatrice fascista”) e facevano opere di carità e benevolenza a titolo volontaristico. Tuttavia si trovavano in una condizione piuttosto complessa poiché significava rilevare le lacune dello Stato sociale mussoliniano. La donna si realizza anche “al di fuori delle mura domestiche” ma senza fare del vano femminismo o mascolinizzandosi troppo, o peggio entrare in competizione con gli uomini. Il volontariato sembra costituire la dimensione politica delle femministe latine. Sold sezione operaia di lavoranti a domicilio Capitolo 9 Verrà un giorno
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