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Le donne nel regime fascista (Victoria de Grazia) - sintesi, Sintesi del corso di Storia

Sintesi del libro Le donne nel regime fascista (Victoria de Grazia)

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 30/04/2024

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Scarica Le donne nel regime fascista (Victoria de Grazia) - sintesi e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! LE DONNE NEL REGIME FASCISTA Capitoli: 1) La nazionalizzazione delle donne 2) L’eredità liberale 3) Essere madri 4) La famiglia e lo Stato 5) Crescere 6) Lavorare 7) Uscire 8) La politica delle donne in una nuova chiave 9) Verrà un giorno… 1- LA NAZIONALIZZAZIONE DELLE DONNE - Contraddittorietà dell’esperienza delle donne cresciute sotto il fascismo : messe dinanzi a nuove opportunità da un lato, sottoposte a nuove forme di repressione dall’altro. Il fascismo le voleva riportare al focolare domestico, confinarle al loro destino di madri e restaurare l’autorità patriarcale, ma lo fece con toni persuasivi piuttosto che violenti, cosa che rese ancor più insidiose e avvilenti le limitazioni alle libertà femminili. Ambivalenza tra ansia di modernità e desiderio di restaurazione. Le istituzioni fasciste, da un lato confinano le donne al focolare domestico, dall’altro richiedono loro nuove forme di coinvolgimento sociale. - Da cosa ha origine la spinta all’emancipazione delle donne? Dalla diffusione di idee liberali nella seconda metà dell’Ottocento, consolidandosi poi con la mobilitazione di milioni di donne nelle economie di guerra. Complice anche la diffusione di costumi sociali e sessuali più liberi, propri della cultura di massa. - Il regime fascista richiederà alle donne un duplice ruolo : di “rimediare” alla forte crisi demografica da un lato, di accrescere le nascite, non rinunciando ma anzi potenziando il loro ruolo di mogli e madri il cui compito principale era fare quanti più figli possibile; dall’altro di lavorare per lo Stato nazionale: con la Grande Guerra era divenuto chiaro che le donne stavano assumendo un ruolo assolutamente centrale nella costruzione della potenza dello Stato. Venivano infatti impiegate nelle fabbriche di munizioni, negli uffici commerciali, in quelli pubblici, lavoravano nei campi o si arruolavano nella Croce rossa. - Questo nuovo e importante ruolo lavorativo assegnato alle donne, lasciava pensare che al termine della guerra avrebbero acquisito diritti di cittadinanza analoghi a quelli degli uomini, come ricompensa per i loro sacrifici, ma non sarà così. La nazionalizzazione delle donne avverrà in termini autoritari, non liberaldemocratici: ogni aspetto della vita delle donne, sotto il fascismo, sarà commisurato agli interessi di Stato e dittatura, si richiederà loro di vivere e agire esclusivamente in base a ciò che potesse portare al consolidamento del potere fascista. - Fascismo durante anni ‘20 diviene in un primo momento un sistema di potere fondato sul partito unico, partendo come un movimento dalle basi incerte, poi negli anni ‘30 si trasforma in uno Stato con pretese totalitarie, pervaso da spinte imperialistiche sempre più forti. Volontà di creare un vero e proprio impero  la strategia mussoliniana ricorre dunque a una politica demografica che esercita un controllo sempre maggiore sul corpo delle donne, in particolare sulla loro funzione riproduttiva. Il regime eserciterà un vero e proprio ‘potere sulla vita’, come viene definito da Micheal Foucault, lo Stato si autoproclama come l’unico autorizzato a decidere delle dimensioni della popolazione; le donne non sono autorizzate a prendere nessuna decisione autonoma in materia. Allo scopo di accrescere le nascite, lo Stato fascista proibì l’aborto, l’uso di anticoncezionali e qualsiasi forma di educazione sessuale, favorendo al contempo l’uomo all’interno della famiglia, sul mercato del lavoro, nel sistema politico e nella società in generale. Sì, le donne erano chiamate a lavorare per lo Stato, ma la loro sfera principale rimaneva quella privata, mentre si riservava all’uomo quella pubblica. Le donne rimanevano relegate alla cura del focolare e dei figli, erano escluse dalla vita attiva all’esterno delle mura domestiche. - Altri fattori da ricordare: ECONOMIA ITALIANA  posizione nettamente arretrata all’interno dei paesi industrializzati, forte discrepanza che aumenta negli anni ’30 fra agricoltura (inefficiente) e struttura industriale (fortemente protetta dallo Stato e sostenuta dalla politica di riarmo dopo il 1933). Società fortemente differenziata negli atteggiamenti culturali e sessuali tra città e campagna e tra Nord e Sud. Forti differenze di classe e di cultura, tra la donna di città (emancipata, con massimo 2/3 figli) e quella di campagna (famiglia di 6 e più persone). - Le donne appoggiarono il fascismo?  se con appoggio si intende consenso, la questione è irrisolvibile, in quanto in un regime autoritario non c’è possibilità di esprimere liberamente la propria opinione. Sicuramente sappiamo che, a differenza della classe operaia maschile, le donne non ebbero a disposizione canali attraverso cui esprimere i propri interessi o il malcontento. Quanto alle donne fasciste, proprio in ragione della loro fedeltà al regime assunsero atteggiamenti stoici, volti a ottenere riconoscenza per il loro silenzioso sacrificio. - Si può parlare di ‘modernità’ del fascismo riguardo alle donne?  la tesi secondo cui il fascismo avrebbe ‘modernizzato’ il ruolo delle donne si fonda su assunzioni errate, per esempio che prima del fascismo le donne fossero ‘disorganizzate’, quando in realtà erano in buon numero attive nelle organizzazioni cattoliche, socialiste o del femminismo borghese. Si pensa inoltre che una loro maggior presenza nella sfera pubblica significhi di per sé modernità, ma non si considerano le ragioni alla base di ciò, o che sia ‘moderna’ la partecipazione ad un’organizzazione politica, anche se fascista. - Esperienze compiute dalle donne che influenzano le loro modalità di partecipazione alla vita politica nazionale  si hanno specialmente dopo il 1945: come esercitarono il diritto di voto, come vissero l’avvento del consumo di massa, come si rapportarono al lavoro e alla vita privata. 2 – L’EREDITA’ LIBERALE - Concetto principale: il Fascismo ha sfruttato il disinteresse precedentemente mostrato dallo Stato nei confronti delle donne: in tempo di pace, nessun leader dell’Italia liberale (1861 – 1925, inizia con la costituzione del Regno d’Italia e termina con il discorso di Mussolini del 3 Gennaio 1925) aveva mai parlato delle donne come qualcosa di “importante”: le donne erano madri e lavoratrici, a volte insegnavano nelle scuole elementari e medie, erano attive nel volontariato, spesso anche contribuenti, ma lo Stato non accordava loro nessun riconoscimento per questi servizi. Le lamentele o le proposte delle donne non furono mai in grado di promuovere o frenare le scelte del regime, non venivano ascoltate. Che ruolo avevano dunque le donne durante la dittatura?  negli anni ’30, le donne erano importanti esclusivamente in quanto mogli e madri esemplari, angeli del focolare, madri di pionieri e soldati, erano una milizia civile a servizio dello Stato. 3 – ESSERE MADRI - Nella concezione fascista, il dovere delle donne verso la nazione consisteva innanzitutto e principalmente nel fare figli. Alla metà degli anni ’20, il regime diede inizio alla politica pro-natalista, identificando le donne come una ‘vitale risorsa nazionale’, e nel 1927 Mussolini mise al centro della politica interna del fascismo le strategie di ‘difesa della razza’. - Ma perché Mussolini aveva bisogno di nascite?  l’idea di Mussolini (“la forza sta nel numero”) era quella di arrivare da 40 a 60 milioni di abitanti entro la metà del secolo, obiettivo al quale dava due motivazioni: una di tipo mercantilista, ovvero avere una crescita della popolazione a sostegno dell’economia, per avere manodopera a buon mercato; la seconda ragione era il piano di espansione imperialista: la forte crescita della popolazione italiana avrebbe fornito al fascismo un motivo per pretendere colonie, e al contempo avrebbe fornito la forza militare per conquistarle. - Nell’ideologia fascista, la virilità veniva ovviamente estremamente esaltata: il perfetto uomo fascista doveva rispondere ad una serie di canoni di mascolinità promossi ed incarnati in prima persona da Mussolini stesso. I giovani fascisti vivevano l’iniziazione sessuale nelle ‘case chiuse’ istituite dal regime e sapevano delle scappatelle del duce tanto quanto bastava per ammirarne la virilità. Le case chiuse furono istituite per dare all’uomo fascista un luogo in cui ‘dare sfogo’ al suo ‘naturale istinto’ maschile senza abbandonare la famiglia: cosa fondamentale per Mussolini era che gli uomini tornassero a casa, in quanto il vero uomo era il capofamiglia: “Non è uomo chi non è padre”, il vero uomo aveva una prole numerosa. - Con il decreto legge del 19 dicembre 1926 venne introdotta la TASSA SUL CELIBATO: dai chiari intenti punitivi, fu tra le primissime misure pro-nataliste del regime. Essa si applicava agli uomini non sposati di età compresa tra i 25 ed i 65 anni e prevedeva un contributo fisso che variava a seconda dell’età ed un’aliquota che variava a seconda del reddito del soggetto. Non solo: dopo il 1937 il matrimonio ed il numero di figli divennero criterio di preferenza per la carriera. - Per quanto riguarda le donne, il discorso dell’Ascensione di Mussolini del 1927, con l’enfasi sull’incremento del tasso di natalità, segnò per loro un punto di svolta particolarmente netto. La maternità veniva ridotta all’atto fisico di produrre bambini, e la funzione procreativa definiva ogni aspetto dell’essere sociale delle donne. Le italiane non dovevano solo affrontare l’esclusione dalla politica, ma dall’intera sfera pubblica, in quanto il loro dovere principale era quello di procurare figli alla nazione. - Per non correre il rischio di ‘degradare la maternità’, lo Stato decise di rimuovere dalle strade la prostituzione sregolata, la sessualità illegittima, istituendo dei bordelli controllati dallo Stato, le case chiuse, dove le prostitute servivano i bisogni sessuali degli uomini senza sfuggire al controllo del regime. - Il passo successivo saranno le politiche maternalistiche, con iniziative concrete verso gli anni ’30, costituite da interventi repressivi quali la criminalizzazione dell’aborto uniti a misure in positivo come assicurazione di maternità, prestiti per matrimoni e nascite, assegni familiari, assistenza sanitaria e sociale alla famiglia e all’infanzia. Queste politiche non aumentarono i tassi di natalità in maniera significativa, ma ebbero importanti conseguenze: costituirono la base dei primi servizi pubblici moderni in Italia nell’assistenza alle madri e ai bambini. - Lo scopo principale delle politiche pro-nataliste del regime era quello di contrastare la tendenza al controllo delle nascite. Dall’inizio del secolo, infatti, la fertilità italiana entrò in tendenza negativa, cosa che il regime vide subito come un’emergenza nazionale. - LA FAMIGLIA ITALIANA, doppio regime di fertilità  la famiglia urbana era composta in media da 3 o 4 membri, mentre la famiglia contadina raggiungeva le 6-7 persone. Le mogli dei ceti impiegatizi mettevano al mondo circa 2 bambini, mentre le donne di campagna almeno 4. L’Italia tra le due guerre era quindi caratterizzata da due regimi di fertilità: uno tradizionale (campagne) e uno moderno (città). C’erano due culture della fecondità, uno delle zone urbane ed uno delle zone rurali. - Dopo il 1926 il controllo delle nascite fu ufficialmente proibito, ed i contraccettivi e l’aborto messi fuori legge. I tassi di natalità e le cause del declino della popolazione furono costantemente indagati da organismi quali l’Unione fascista delle famiglie numerose, l’Ufficio demografico del Ministero degli interni e l’Istituto centrale di statistica, creati tra il 1926 ed il 1937. Negli anni successivi gli italiani furono soggetti a indagini di ogni sorta, ed il campo delle statistiche demografiche visse una rapida espansione. Nell’Italia tra le due guerre il controllo delle nascite era una pratica diffusa, sia per ragioni socio- economiche (insicurezza delle condizioni di vita) sia per il crescente desiderio di gestione del proprio corpo delle donne, il desiderio di emancipazione. A limitare le nascite erano soprattutto le famiglie di impiegati e di operai, mentre i lavoratori agricoli continuavano a mettere al mondo una prole numerosa. Furono anche le difficoltà degli anni tra le due guerre, particolarmente dure per operai urbani e artigiani, sui quali cadevano le più pesanti conseguenze della politica economica della dittatura, a spingere queste classi alla limitazione delle nascite. A limitare drasticamente le dimensioni della famiglia di ceto medio, dunque, erano gli interessi individuali e il desiderio di essere moderni, combinati con il senso di precarietà economica. Le idee di autodeterminazione e modernità incontravano invece meno simpatia nella classe operaia, dove il pregiudizio e la povertà limitavano l’uso dell’unico mezzo contraccettivo disponibile, il preservativo. La scelta di controllare le nascite era quindi meno diffusa in quest’ambiente. Le donne delle classi superiori erano più esposte a modelli alternativi di maternità, potevano disporre di più aiuto da parte della famiglia e della servitù o far ricorso alle balie. - PROGRAMMA FASCISTA PER FAVORIRE LA NATALITA’  il fascismo, al contrario del nazismo, non fece mai ricorso a pratiche come la sterilizzazione. Almeno fino al 1937, Mussolini decise che la miglior politica a sostegno delle nascite era quella capace di dare un ‘pungolo al costume’ sufficiente a spostare l’ago della bilancia dalla parte delle nascite. Questa spinta consisteva in: 1. Repressione 2. Programmi assistenziali (madre e bambino) 3. Propaganda. L’obiettivo degli specifici programmi fascisti in merito furono soprattutto le donne della classe operaia, in quanto più bisognose di servizi e dunque più vulnerabili di fronte ai programmi assistenziali del regime. La repressione sembrava la via più facile e congeniale alla dittatura, con leggi che punivano l’aborto , già esistenti durante lo Stato liberale, ma rese più severe col fascismo che ne fece un crimine contro lo Stato (1926). Qualsiasi cosa pubblicizzasse i mezzi di prevenzione o interruzione di gravidanza fu ritenuto di offesa alla morale pubblica e proibito. Nel rinnovato codice penale del 19 ottobre 1930 vi era un intero titolo dedicato ai “delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe”. La successiva legislazione introdusse pene per chiunque incitasse pubblicamente all’uso di mezzi anticoncezionali e abortivi, anche indirettamente o con pretesti scientifici o terapeutici. La soppressione dell’informazione sulla contraccezione era addirittura sostenuta dalla legge di pubblica sicurezza, creare impedimenti alla fecondità del popolo italiano era ritenuto crimine contro lo Stato perseguito col massimo zelo. La Chiesa ovviamente contribuì all’oscuramento delle informazioni sul sesso. Le donne crescevano, ancor più dei ragazzi (per i quali era prevista un’iniziazione sessuale acquisita tramite la frequentazione di prostitute o discorsi espliciti con uomini più maturi), nella più totale ignoranza in materia di educazione sessuale, crescevano pensando che tutto fosse peccato: il sesso, il ballo, perfino l’igiene intima. Molte donne non sapevano nulla delle mestruazioni prima che arrivassero, quasi nulla del sesso maschile fino alla prima notte di matrimonio, e ben poco anche delle nascite finché non diventavano madri. Erano abbandonate a loro stesse e totalmente ignoranti delle loro funzioni riproduttive. Data l’inaccessibilità dell’informazione contraccettiva, i giovani prendevano spesso misure a casaccio, spesso dopo il rapporto, se non dopo la concezione. I preservativi, a parte l’astinenza, erano l’unico mezzo sicuro disponibile, ma erano ideologicamente associati al sesso extramatrimoniale, alla prostituzione e alle malattie veneree. Il principale effetto del blocco dell’informazione fu quello di incrementare il ricorso all’aborto, che veniva praticato nei modi più rischiosi: ricorrendo a sostanze emetiche, irrigazioni con infusi di erbe ed irritanti chimici, forcine, ferri da calza, sonde e raschiature. Il codice penale del 1931 prescriveva pene pesanti (da due a cinque anni) anche per chi procurasse o aiutasse l’aborto, oltre che per la donna che lo praticasse da sola (da uno a quattro anni). - LA MODERNIZZAZIONE DELLA MATERNITA’: I SERVIZI ASSISTENZIALI  Il Fascismo prese diverse iniziative per ridurre la mortalità infantile e per migliorare la salute e le condizioni di vita delle gestanti e delle madri in allattamento. Gli anni tra le due guerre videro non solo una proliferazione di servizi assistenziali pubblici alle famiglie, ma anche la professionalizzazione della pediatria (l’ordine fu fondato nel 1932), dell’ostetricia, delle levatrici e persino delle balie. Nell’Italia fascista, però, al contrario dell’Italia liberale, la crescita di servizi assistenziali alle famiglie andò di pari passo con la soppressione dei diritti. Nell’interesse della promozione della razza, infatti, il benessere della madre fu subordinato a quello del neonato. sociali privilegiate, le inclinazioni politiche liberali ed i costumi emancipati le identificavano come FEMMINISTE, chissà meno inclini a fare figli. Era un’arma per riportare le donne al loro ‘compito’ di angeli del focolare e madri. La propaganda fascista costruì infatti due immagini femminili: - La DONNA CRISI = cosmopolita, emancipata, urbana, magra, isterica, decadente e sterile. Erano le donne perlopiù borghesi, che consideravano i figli numerosi come qualcosa di limitante. - La DONNA MADRE = patriottica, rurale, florida, forte, tranquilla e prolifica. Donne perlopiù di ceto proletario che continuavano a considerare, nonostante tutto, la famiglia numerosa come un elemento di forza della propria classe sociale. Le madri erano esaltate come le ‘fattrici di una prole numerosa’, le ‘madri di soldati’ e le ‘genitrici della razza’, facevano figli che poi sarebbero stati loro strappati dal regime, dalla guerra. Tutto veniva ricondotto all’obbligo morale delle donne di avere un comportamento ‘materno’: anche le donne soggette ad abusi sessuali erano trattate più come colpevoli e provocatrici che come vittime, poiché con il loro atteggiamento ‘poco materno’ avevano suscitato interesse sessuale. Quale fu il risultato concreto di queste politiche sulla maternità?  le pressioni dello Stato non modificarono le tendenze di lungo periodo al controllo delle nascite, né cambiarono in maniera significativa il tasso di natalità, ma condizionarono importanti istituzioni e cambiarono i comportamenti, i simboli pubblici e le concezioni della maternità, oltre ad introdurre organismi significativi nell’assistenza alle madri come l’ONMI. 4 – LA FAMIGLIA E LO STATO - Donne, famiglia e Stato  La ‘perfetta donna fascista’ doveva essere un ibrido: doveva servire tutti i bisogni della famiglia e al contempo farsi carico dell’interesse dello Stato. Alle donne si richiedeva di abbracciare in toto la causa patriottica, facendo ogni sorta di sacrificio possibile, come dimostra l’esistenza di cerimonie di offerta degli anelli: seguendo l’esempio della regina Elena, che il 18 dicembre 1935 aveva donato la propria fede nuziale per la guerra d’Etiopia, migliaia di donne italiane contribuirono allo stesso modo, finché si giunsero a raccogliere complessivamente 2262 chili d’oro. Le donne non rinunciavano solo alle proprie fedi nuziali, ma sacrificavano i risparmi e loro più intimi ricordi di famiglia per lo Stato. Non solo: obbedivano alle indicazioni del regime in merito alla necessità di comprare prodotti nazionali, bevendo infusi italiani come il carcadè piuttosto che il tè inglese, piantando piante di ricino per ricavarne l’olio da cucina, o nel caso fossero massaie, lavorando in piccole attività industriali domestiche. La cerimonia degli anelli è un valido esempio di cosa si richiedeva alle donne: rinunciare a qualcosa di intimo, personale e di valore come la fede nuziale d’oro per avere una medaglia di rame senza valore, un riconoscimento ‘vuoto’. Ci fa capire come il primo obbligo delle donne fosse verso il duce, il fascismo e la nazione, ma nel contempo doveva essere anche verso la famiglia, il marito, i figli come auspicavano la Chiesa e tutti gli slogan pro-natalisti del regime. Le donne dovevano servire sempre e comunque sia lo Stato che la famiglia, venivano loro richiesti sacrifici e ritmi spesso insostenibili. Non solo: spesso la sproporzione tra il sacrificio loro richiesto e ciò che ne ricavavano concretamente le casse dello Stato era consistente. La nazione doveva essere vista come ‘la famiglia più larga’ e andava ugualmente servita e curata. - Per quanto riguarda la famiglia, lo Stato fascista voleva eliminare la ‘famigliuola borghese’, con le sue tendenze individualistiche, le donne pretenziose e gli uomini egoisti; e voleva invece promuovere una nuova famiglia fascista, orientata alla sfera pubblica, che non si ponesse mai contro lo Stato o in antitesi con gli interessi della collettività nazionale. È evidente la contraddizione: come può la famiglia, istituzione privata, convertirsi in qualcosa di pubblico? Il programma del regime iniziava dal convincere le donne (sempre più alla ricerca di emancipazione) a tornare alla vita privata e riaffermare l’autorità dei pater familias su mogli inquiete e figli disobbedienti, spingere le donne a identificarsi con la ‘felicità’ della famiglia. Gli atteggiamenti dello Stato, come verso le donne anche verso la famiglia, contraddittori, paradossali: da un lato il fascismo esaltava la famiglia e faceva dei suoi valori un momento essenziale dell’arte del governo; dall’altro chiedeva alle famiglie pesanti sacrifici economici , sfruttandole in tutti i sensi. Lo Stato riconosceva che la famiglia era sacrosanta e indivisibile, ma, in nome della nazione, la dittatura giustificava ogni tipo di intromissione, di intervento abusivo : dalla richiesta di lealtà politica e coinvolgimenti politici di diversi tipo, fino ad arrivare alla separazione fisica dei membri della famiglia ai fini della preparazione militare. La richiesta era duplice e contraddittoria verso la famiglia, ma soprattutto verso le donne: il fascismo le ricacciava dentro casa, dove dovevano contribuire al buon funzionamento della sfera privata come procreatrici e nutrici, ma al tempo il regime le richiamava al compimento di nuovi doveri. La dittatura si ritrovò intrappolata in un paradosso da essa stessa costruito: il FAMILISMO FASCISTA, ovvero un’ideologia della domesticità che enfatizzava la vita in comune, l’autorità paterna e la dedizione femminile alla famiglia nell’interesse del partito e dello Stato, si ritorceva contro i propri obiettivi: più le famiglie dovevano ricorrere al sistema assistenziale, più diventavano coscienti dei conflitti tra gli interessi familiari e la politica dello Stato. Il sistema assistenziale fascista infatti (sussidi di disoccupazione, assicurazione contro gli infortuni, assegni familiari) era inteso a garantire, attraverso il sistema salariale, che fosse l’uomo il maggior percettore di reddito ed il garante del benessere della famiglia. Al posto di questo familismo nacque un FAMILISMO OPPOSITIVO: si verificò una mancata disponibilità, quando non una resistenza, agli appelli della patria. - La famiglia come risorsa economica  come si è ben compreso, il fascismo diede una rinnovata ed enorme importanza alla famiglia per il proprio tornaconto. La famiglia, durante il fascismo, era innanzitutto una risorsa economica da sfruttare a beneficio dello Stato. La contraddittorietà della politica fascista verso la famiglia derivava soprattutto dalla compressione del salari e dei consumi, che portava il regime a sfruttare a suo piacimento le risorse economiche familiari, ad un livello inusuale per un paese ormai incamminato sulla strada dell’industrializzazione. La piccola impresa familiare era una realtà in cui, lontano dagli occhi delle statistiche statali, il capofamiglia riusciva a produrre a costi competitivi aiutato da figli e amici intimi. Era una realtà in cui le donne non giocavano un ruolo economico rilevante, almeno fino alla guerra d’Etiopia, in seguito alla quale divennero il fulcro del nucleo familiare in quanto consumatrici e produttrici di beni e servizi. Il nucleo familiare forniva ancora ogni tipo di servizi: nella maggior parte delle famiglie urbane le donne cucivano, preparavano e conservavano cibi, le donne anziane e le ragazze accudivano i piccoli. La maggioranza delle famiglie viveva in centri di ridotte dimensioni e una buona parte ricavava mezzi di sussistenza dall’attività agricola. Gli operai spesso coltivavano piccoli orti, i borghesi ricevevano salumi, olio e vino dalle proprietà di famiglia della campagna vicina  l’AUTOCONSUMO era alto, molti servizi erano prodotti dall’impresa familiare. Pian piano però, molte famiglie italiane si ritrovarono sempre più dipendenti dal mercato e dai servizi di uno Stato assistenziale povero ed instabile. Lo sfruttamento delle risorse familiare fu ovviamente socialmente differenziato, colpendo più pesantemente le famiglie di operai urbani e contadini. Durante il fascismo, il salario familiare (= il capo di famiglia deve lucrare quanto è necessario per il sostentamento proprio, della moglie e dei figli, e quindi ha diritto a una retribuzione per il suo lavoro adeguata alle necessità di vita propria e della propria famiglia secondo il livello del progresso sociale) era un lusso che il regime non concesse, nel 1931 il 45% delle famiglie dipendevano da due o più percettori di salario, senza contare le donne che lavoravano a tempo parziale ed in nero per sostenere la propria famiglia. Dalla metà degli anni ’30, in evidente sostegno alla politica demografica, il regime cominciò ad armeggiare con i sussidi alle famiglie, pagati ai capifamiglia da enti statali ed imprese private. Nel 1936 gli assegni familiari furono estesi a tutti i lavoratori industriali, indipendentemente dal numero di ore lavorate, e nel 1937 vennero estesi a tutti i dipendenti delle aziende agricole e commerciali con familiari a carico. Il sistema degli assegni familiari era però legato all’abbassamento dei salari sotto il livello minimo di sussistenza e aveva dei costi sociali enormi, tra cui quello di favorire i maschi capifamiglia rispetto alle mogli e ai figli che pur lavorando vivevano ancora in casa. Il regime aveva sicuramente un atteggiamento diverso, di maggior interessamento, verso le famiglie di impiegati dello Stato (professori inclusi) e di certe categorie di impiegati del settore privato, soprattutto banche ed assicurazioni, per ovvi motivi: i ceti medi costituivano la base principale del consenso al regime. Garantire loro una condizione adeguata, renderli in grado di mantenere una moglie a casa, uno o due figli nei lunghi anni di studi e le apparenze borghesi nell’abitare, nel vestire e nel tempo libero era necessario. Al contrario, i lavoratori poveri e diseredati erano soggetti ad un sistema assistenziale pessimo, calcolatore e rigido. - Politica della famiglia fascista , nuovo codice di famiglia  la politica fascista nei confronti della famiglia fu tanto grandiosa nelle ambizioni, quanto lacunosa nelle realizzazioni. La ‘politica della famiglia’, come venne denominata a metà anni 30, nacque dalla paura che l’instabilità economica ed i problemi sociali potessero causare ulteriori cadute dei tassi di natalità. I provvedimenti tipici delle politiche della famiglia consistevano in sussidi alle famiglie e detrazioni fiscali per i familiari a carico, oltre che la creazione di burocrazie addette all’assistenza. Vi era una ‘fetta’ di italiani che proponevano una nuova politica della famiglia, necessaria perché lo stato ‘curasse’ una serie di mali familiari quali il declino dei tassi di natalità, il problema dei figli illegittimi, la mortalità infantile, la delinquenza giovanile. Nuovo codice di famiglia  le premesse si ebbero nel nuovo codice penale elaborato tra il 1926 ed il 1931, sotto la guida di Alfredo Rocco, che fece della famiglia un’istituzione pubblica piuttosto che privata. La prima stesura del nuovo codice si ebbe nel 1936, poi l’intero corpus divenne legge nel 1942, momento dal quale peserà come una grande cappa di piombo sull’emancipazione legale delle donne nella società post-fascista. Il nuovo codice definiva la famiglia come un’ISTITUZIONE PUBBLICA, essa era il ‘nucleo fondamentale della società nazionale’, un’unità morale ed economica la cui integrità era garantita dal potere pubblico. Lo Stato doveva infatti assicurare l’integrità morale e la ‘sanità della successione delle generazioni’, anche se in concreto era intervenuto in pochi casi, per esempio per tutelare i bambini abbandonati o non riconosciuti. Nell’Ottocento si diceva che gli italiani erano divisi in due classi: chi mangiava il pane bianco, chi il pane nero. La casa, che avrebbe dovuto costituire un rifugio dalle preoccupazioni, divenne in questo periodo il luogo in cui moglie e marito erano angustiati dai conti da quadrare, e dunque un ambiente subissato di problemi. Gli ideali borghesi rispetto alla casa e la proposta di riforma delle donne borghesi, non erano dunque concretamente realizzabili per le donne degli altri ceti, e la riforma non poteva che rimanere sul piano teorico. Raggiungere le donne di classe operaia era ancora più problematico, in quanto fisicamente, oltre che socialmente, distanti dai filantropi borghesi. Un’abitazione decente era ancora più difficile da ottenere negli anni 30, quando si ebbe un forte incremento della popolazione urbana. Il regime era consapevole della carenza di abitazioni, ma l’Istituto nazionale delle case popolari, come la maggior parte degli enti fascisti, era corrotto. Non era raro che le case sovvenzionate venissero occupate in realtà da impiegati dello Stato e del partito invece che dalle classi popolari alle quali erano destinate: il risultato fu che la questione della casa rimase un grave problema. Il compito di cavarsela, spettava ovviamente alle donne, specialmente per quanto riguardava la casa, cosa di cui i mariti non si preoccupavano minimamente. Le famiglie vivevano sotto l’incubo dello sfratto e l’alta disoccupazione maschile durante la crisi aggravò la situazione. Le mogli dei lavoratori disoccupati divennero la fonte principale di reddito della famiglia, di norma attraverso i lavori di pulizia. L’intervento principale delle donne di ceto superiore fu quello rivolto alle donne contadine: l’intervento fra le donne di campagna era teso, così come le strategie del governo, a frenare l’esodo rurale attraverso il rafforzamento delle istituzioni familiari contadine (MASSAISMO). Nonostante la campagna antiurbanesimo del regime infatti, l’esodo verso le città era fortissimo in questo periodo, e gli abitanti dei centri urbani crebbero di due milioni circa tra il 1921 ed il 1936. L’attrazione esercitata dalle città era forte, come dimostrava la diffusione della moda urbana. Fu così che Luigi Razza, capo della Confederazione fascista dei sindacati dell’agricoltura, chiese a Regina Terruzzi di dar vita alle MASSAIE RURALI, un’organizzazione che nel 1934 venne sottratta (proprio grazie al lavoro della Terruzzi) dal controllo del sindacato, ed affidata ai fasci femminili. L’organizzazione fiorì pian piano, e concentrò la sua azione soprattutto nella promozione delle piccole industrie domestiche. Il programma delle massaie rurali era il miglioramento delle condizioni di vita contadine, soprattutto per quanto riguardava il lavoro e ciò che se ne ricavava. Non è affatto certo che il massaismo sia riuscito nel suo scopo principale di consolidare la famiglia contadina, ma promuovendo l’accesso al mercato consentiva un reddito autonomo guadagnando autonomia a mogli e figlie. Questo guadagno veniva speso spesso in prodotti cittadini (scarpe nuove, nastri,stoffe…): l’organizzazione, volente o nolente, aprì senza meno canali di comunicazione tra donne di città e di campagna, che misero in luce tra le altre cose anche le durezze della vita contadina. Paradossalmente dunque, contribuì allo sfilacciarsi del tessuto della società rurale. L’attenzione verso i bambini  l’attenzione che il regime rivolse ai bambini è forse l’aspetto della politica della famiglia più contradditorio in assoluto. Il fascismo sbandierava infatti la sua benevolenza verso i piccoli, verso il loro benessere (si pensi all’ONMI, i Balilla ed i gruppi giovanili). Nel contempo però, fin dal momento della loro nascita diveniva chiaro che sarebbero stati strappati alle madri, alle famiglie, per gli intenti del regime, rivolti allo Stato e alla difesa della razza piuttosto che alla famiglia. Fin dal 1930 iniziarono gli sforzi per abituare le madri all’idea che i figli appartenevano alla nazione, e che in caso di guerra dovevano essere sacrificati alle sue necessità. Il regime dunque combinava un paternalismo umanitario con una funesta ed astratta rivendicazione delle vite di chi al paternalismo era soggetto; esaltava il legame privilegiato tra madre e figlio e lo violava immediatamente con brutalità. In ogni caso, l’assistenza statale ai bambini costituì il cambiamento più visibile e ricco di conseguenze per la vita familiare: - Il fascismo ampliò la frequenza scolastica e soprattutto quella prescolastica (asili) - La Gioventù italiana del littorio (GIL) organizzava servizi sociali e ricreativi, oltre all’addestramento premilitare - Le colonie del partito, al mare e ai monti, ospitavano ogni anno un milione di ragazzi: le cure marine e l’elioterapia erano considerate vantaggiose per i bambini. Ma soprattutto, le colonie avevano fini eugenistici: la mobilitazione su larga scala era forse l’unico modo di strappare i bambini alle madri, di farli uscire dai propri quartieri e controllarli e curarli. I campi meglio organizzati, si preoccupavano non solo di mandare i ragazzi a casa abbronzati ed indottrinati al rispetto per il duce e per la Chiesa, ma anche aumentati di peso. Il familismo oppositivo –→ a partire dal 1937 si spinse l’acceleratore sulla politica demografica, per esempio con una seduta del Gran Consiglio del 4 Marzo 1937, al termine della quale fu annunciato un programma in 7 punti per accrescere la popolazione italiana. L’enfasi cadeva ancora una volta sull’autorità del padre, oltre alla precedenza ai padri di famiglie numerose nell’assegnazione del lavoro e delle promozioni. Il 3 giugno 1937 fu fondata l’Unione fascista delle famiglie numerose, dotata di un fondo annuale di 500 mila lire e aperta a tutte le famiglie con almeno 7 figli viventi. Nonostante i premi e gli incentivi per indurre le persone ad accrescere le proprie famiglie, gli interessi familiari non erano ben sintonizzati con la politica nazionale, e molte famiglie iniziavano a rifiutare le imposizioni del governo. Contro uno Stato che si dimostrava incapace di salvaguardare gli interessi familiari, la logica familiare si poneva come una forza antipolitica, e il culto fascista della ‘famiglia al servizio dello Stato’ era minato da atteggiamenti antistatali che potevano essere definiti come ‘familismo oppositivo’. Molti giunsero alla convinzione che la famiglia esisteva separatamente dalla società, come un rifugio contro l’abusività politica, piuttosto che come un pilastro dello Stato nazionale. Il familismo oppositivo nasceva soprattutto di conseguenza alle nuove pressioni che ricadevano sulle componenti femminili della famiglia, alle quali si chiedeva un sforzo sempre maggiore e sempre meno umano in nome della lealtà allo Stato. 5 – CRESCERE La volontà di Mussolini era quella di plasmare una nuova generazione di italiani, nella quale i maschi erano ovviamente al centro delle attenzioni, mentre le ragazze andavano convinte a diventare madri prolifiche e generose, oltre che ardenti patriote. Tuttavia, il fascismo iniziò pian piano ad avere dei problemi nel suo rapporto coi giovani: le aspettative del mondo giovanile nei confronti della Rivoluzione fascista non erano soddisfatte dall’invecchiamento del regime. Largo alla ‘donna nuova’ –→ il rapporto del fascismo con la gioventù femminile era talmente contraddittorio che alla fine degli anni 20 c’era grande incertezza su come educare una ragazza. Il regime contribuiva a questa confusione con le sue contraddittorie richieste alle giovani, che si voleva fossero al contempo cittadine responsabili e membri subordinati della famiglia, persone attive nella vita pubblica dell’Italia nuova, ma sottomesse all’autorità paterna. Sotto il regime, crebbero due generazioni di italiane: la prima divenuta adulta quando il fascismo salì al potere, la seconda giunta alla maturità all’apice della dittatura, sotto l’influenza dell’emergente cultura del consumo di massa. La prima generazione era composta dalle donne nate fra il 1900 ed il 1910, donne deluse dall’Italia liberale, disinibite dall’assenza degli uomini durante la guerra e spinte nell’atmosfera emancipazionista della società postbellica. Era la generazione delle gonne corte, i capelli a zazzera, i comportamenti sessuali liberi, le richieste di eguaglianza comuni a tute le società occidentali negli anni 20. La seconda generazione era la componente femminile della Gioventù del littorio, comprendeva ragazze nate subito dopo la Grande Guerra e negli anni ‘20. Non avevano conosciuto altro regime se non la dittatura fascista, ma in qualche misura erano tutte state toccate dalla cultura cosmopolita di massa proveniente da Hollywood. Questa generazione era totalmente inserita, sin dalla fanciullezza, nei sistemi del regime, che segnava a 14 anni il passaggio da piccole a giovani italiane, a 18 da giovani italiane a giovani fasciste, a 21 ai fasci femminili e alla piena associazione al partito, con speciali riti di passaggio. Negli anni 30, si poteva osservare un repertorio di atteggiamenti e di comportamenti considerati tipici delle ragazze moderne, che consideravano i lavori domestici noiosi se non fastidiosi, consideravano i figli faticosi, e pensavano fosse meglio limitarne il numero ad uno o due. Alla domanda ‘perché studiassero’, la maggioranza rispondevano ‘per ottenere una qualifica che servisse al lavoro’, non si aspettavano che il matrimonio potesse mantenerle. I passatempi preferiti erano il cinema, ma anche la ginnastica, lo sport, il ballo. Ovviamente c’erano differenze tra le moderne aree urbane e le aree rurali, dove la nuova concezione di adolescenza iniziava a penetrare appena: nei paesini sperduti di campagna le bambine cominciavano ad accudire i più piccini già a tre o quattro anni, e dopo la terza elementare smettevano di andare a scuola per aiutare nei campi o nei lavori domestici. Anche nell’Italia urbana, in realtà, la giovinezza era quasi completamente imperniata sulla vita familiare: le pressioni dei genitori, le convenzioni sociali e i condizionamenti economici precludevano ogni significativa estensione dell’indipendenza. È ormai noto come la società italiana di questo periodo fosse segnata da evidenti differenze di classe, anche nella sfera femminile: le diverse figure di adolescenti andavano dalle più emancipate (le ragazze lavoratrici di Milano) a quelle più all’antica, le provinciali cattoliche con trecce lunghe e calze spesse, che imparavano la disciplina nella Gioventù Cattolica. Le più ostentatamente moderne erano le ragazze aristocratiche della capitale, mentre le consumatrici più timide della cultura di massa erano le decine di migliaia di ragazze di campagna. Pur con tutte le differenze, nessun gruppo sociale era impermeabile ai conflitti generazionali che il cambiamento stava portando. Nelle famiglie operaie per esempio, le ragazze normalmente vivevano in casa dei genitori rispettando la loro autorità finché non mettevano su una casa propria. Nei ceti medio-alti i conflitti generazionali erano spesso dati dalle incertezze sulla possibilità di garantire lo status borghese ai figli nel periodo interbellico. In questi ceti molti conflitti riguardavano il matrimonio: il punto non era quando, ma SE le ragazze si sarebbero sposate. C’era poi il lavoro: necessità, vocazione o ripiego? Infine c’era la scuola: fino a che livello studiare, e a che scopo? Le ragazze si dimostravano ormai sempre più intenzionate a sperimentare nuovi comportamenti, ed i genitori tendevano a rispondere all’incertezza proponendo comportamenti conformisti. La famiglia borghese cresceva le figlie in maniera contraddittoria: le mandava a scuola, le incoraggiava al lavoro, alimentando le idee di indipendenza, ma nel contempo cercava di preservare molti aspetti dei vecchi modelli. Simili paure, avevano come risultato solamente quello di peggiorare l’insicurezza sulla capacità di controllo del proprio corpo, che derivava dalla mancanza di informazione sul controllo delle nascite. L’indipendenza femminile ed in particolare la libertà sessuale, apparivano tanto rischiose che il matrimonio diventava la logica ed inevitabile conclusione della strategia del corteggiamento. A sostegno della politica demografica, il regime abbassò l’età minima per il matrimonio delle donne da 15 a 14 anni, per gli uomini da 18 a 16, così come fu abbassata l’età che richiedeva il consenso dei genitori per sposarsi. I corteggiatori dovevano fare la loro proposta di matrimonio con i conti già fatti, gli ostacoli già sormontati ed il bilancio domestico già sistemato, il lavoro già distribuito ed il riposo futuro già preparato. Controllo dei giovani → La cultura di massa dunque, era divenuta a tutti gli effetti un terzo canale di controllo dei giovani, un nuovo contendente che si pose fra Stato e Chiesa inasprendo il conflitto. La Chiesa aveva come strumento di controllo dei giovani l’Azione cattolica, la quale si articolò nel tempo in vari sottocomponenti, come per esempio la Gioventù femminile cattolica italiana. Questa forza interferiva con la volontà del fascismo di educare la gioventù italiana, motivo per cui dal 1926 il regime si diede ad organizzare i propri organi giovanili con più sistematicità, unificando vecchi e nuovi gruppi sotto l’Opera nazionale Balilla (ONB). In particolare, due organizzazioni di ragazze crescevano sotto gli auspici dei fasci femminili: - Le Piccole Italiane (8-13 anni); - Le Giovani Italiane (14-18 anni) Dal 1929 anche queste due organizzazioni femminili furono poste sotto il controllo dell’ONB. L’ONB, oltre a tutta una gamma di esercizi di preparazione fisica semimilitare che rappresentavano il suo scopo primario, forniva tutta una gamma di servizi sociali ed educativi che non erano in precedenza offerti dal sistema scolastico: dalla ginnastica allo sport, dai libri scolastici ai grembiuli. Nel 1937, poi, l’ONB fu riconsolidata sotto il Partito fascista come GIL, Gioventù italiana del littorio. I conflitti tra Chiesa e Stato si inasprirono dopo la legge del 1926 che assegnava all’ONB il monopolio dell’educazione dei giovani. Nonostante ciò, il cattolicesimo riuscì a mantenere viva l’influenza sulla gioventù femminile, tanto che la Gioventù femminile cattolica crebbe e prosperò. La vita moderna influenzava in modo particolarmente pericoloso le donne, quindi i maggiori sforzi andavano rivolti alla loro salvaguardia. La politica cattolica era particolarmente preoccupata del cinema, “l’attrattiva delle attrattive” e di come esso poteva influenzare negativamente il pubblico femminile. Per contrastare l’influenza del cinema, fonte di idee peccaminose per le donne, la Gioventù femminile cattolica proponeva biografie di sante, come se prendendo spunto dalle loro vite le ragazze potessero incamminarsi sulla retta via. Per prevenire i pericoli, le donne venivano ammonite a non suscitare il desiderio maschile con atteggiamenti civettuoli. Nei circoli illuminati del cattolicesimo era diffusa la convinzione che le istituzioni dello Stato fossero incapaci di garantire un sistema di valori e di educazione alle ragazze, per cui si spingeva per inserirle nelle scuole parrocchiali che erano, per la maggior parte, dirette con la rigidità tipica dell’insegnamento cattolico. Formare le donne del domani → perché si può dire che il fascismo ebbe un atteggiamento contraddittorio nei confronti delle donne? → tutto nasce dalla concezione dualistica del ruolo femminile propria del fascismo: come riproduttrici della nascita, le donne dovevano incarnare i ruoli tradizionali (madri e mogli), essere stoiche, silenziose e sempre disponibili; come cittadine e patriote dovevano invece essere moderne, cioè combattive, presenti sulla scena pubblica e pronte alla chiamata. Questa contraddittorietà del fascismo era evidente anche negli atteggiamenti verso le adolescenti da formare: il regime così come la Chiesa voleva contrastare le tendenze all’emancipazione del periodo interbellico, ma al contempo sfruttava ed ostacolava il desiderio di modernità. Le istituzioni fasciste fornivano messaggi contrastanti a tutti i livelli: le organizzazioni femminili insistevano sulle virtù della domesticità, ma coinvolgendo le ragazze in attività fuori della casa, e nell’interesse del partito, del duce, della nazione, minavano l’autorità dei genitori. Le ragazze erano dunque sempre soggette a due spinte opposte. I gerarchi fascisti, poi, portavano la contraddizione in sé stessi: sostenevano che le donne non avessero capacità intellettuali sufficienti a produrre sintesi che erano il segno distintivo della vera cultura, ma nel contempo volevano che le figlie fossero istruite. Erano donnaioli, ma volevano che le figlie fossero caste e ligie. La discriminazione di genere nella scuola → Carta della scuola del 1939 → sosteneva che le donne dovessero avere un’educazione separata, adatta al ruolo primario di madri. La contraddittorietà e la misoginia della dittatura si manifestarono con particolare evidenza nelle scelte riguardanti l’istruzione femminile. Lo Stato liberale non aveva una propria politica in proposito, ma alla base del sistema scolastico vi era la legge Casati del 1859 che non aveva proibito l’istruzione in scuole miste, né aveva creato un sistema post- elementare distinto per le donne. Di conseguenza, le ragazze cominciarono ad essere presenti in ogni ordine di scuola, e le prime donne uscirono laureate dalle università nel 1877. All’epoca della Grande Guerra, la presenza femminile nel sistema scolastico italiano aveva 3 caratteristiche salienti: 1) Le donne si iscrivevano all’università, anche se erano solo il 6% degli studenti 2) Le donne erano una presenza assolutamente dominante nel corpo insegnante elementare 3) Le donne acquisivano la stessa istruzione degli uomini Era inevitabile, con queste premesse, che la posizione delle donne nel sistema scolastico italiano fosse presa di mira nell’ambito di un più vasto attacco alla scuola italiana. Nel dopoguerra, le critiche ai punti deboli dell’educazione pubblica diventarono tanto feroci che la riforma della scuola venne collocata tra i primi punti del programma di Mussolini dopo la presa del potere del 1922. Giovanni Gentile, ministro dell’Educazione nazionale tra il 1922 ed il 1924, ebbe il compito di ridisegnare il sistema. Si prefisse 2 scopi: 1 – inculcare nei giovani l’ideologia dello Stato fascista 2 – selezionare e promuovere solo l’élite, in modo da non sovraccaricare il mercato del lavoro intellettuale Le innovazioni più significative furono:  limitazione delle iscrizioni al liceo-ginnasio, unica scuola che dava accesso all’università + abolizione dei corsi supplementari che consentivano agli studenti provenienti da altri istituti di iscriversi a facoltà universitarie;  le scuole per maestri furono ridotte da 153 a 87; le scuole tecniche furono abolite e sostituite con le cosiddette ‘complementari’ che non consentivano sbocchi ai corsi superiori  per le ragazze c’era la possibilità del neoistituito liceo femminile. Potevano frequentare l’istituto magistrale o l’istituto tecnico, o finire in una scuola complementare. Lo scopo basilare della riforma Gentile era frapporre impedimenti alle lunghe carriere scolastiche: ostacolando le ambizioni della piccola borghesia, Gentile voleva convertire gli aspiranti alla promozione sociale e all’impiego nello Stato in lavoratori, artigiani e contadini passabilmente istruiti. Ma soprattutto, questa riforma era dichiaratamente antifemminile: per Gentile le donne appartenevano a un pianeta diverso ed inferiore, per essere rispettate dovevano accettare e non negare la propria diversità. La filosofia di Gentile negava inevitabilmente alle donne qualsiasi capacità come educatrici: le figure capaci di educare dovevano essere uomini, sopratutto nelle discipline ritenute più adatte alla formazione delle élite: filosofia, lettere e storia. Alle donne, dunque, sulla scia della drastica riduzione del numero di istituti magistrali, fu impedito l’insegnamento di alcune materie: il regio decreto del 9 dicembre 1926 escludeva le donne dai concorsi per le cattedre di lettere, latino, greco, storia e filosofia nei licei classici e scientifici, oltre che dall’insegnamento di italiano e storia negli istituti tecnici. Una legge del 1928 impedì che venissero nominate presidi delle scuole medie, un’altra del 1940 estese questa esclusione agli istituti tecnici. In secondo luogo, la filosofia gentiliana ispirò la creazione di una nuova scuola solo per ragazze, il liceo femminile. Destinato alle giovani di buona famiglia, offriva un’infarinatura di materie umanistiche, incluso il latino, di arti e di attività adatte alle ‘signorine’. I corsi complementari destinati alle donne erano 3: uno base di avviamento professionale, un secondo di specializzazione detto di ‘preparazione professionale’, ed un terzo chiamato ‘formazione del personale insegnante e direttivo di laboratorio’. Le scuole commerciali, invece, offrivano solo quel tanto di pratica in dattilografia, stenografia, lingue straniere, che serviva a scaricare delle diplomate istruite a metà su un mercato già saturo di lavoratori d’ufficio. Sebbene il regime non avesse intenzione di rendere più aperto il sistema scolastico, vari fattori come le pressioni delle famiglie e le difficili condizioni del mercato del lavoro negli anni ‘30 portarono ad un aumento della scolarità femminile. Le iscrizioni femminili aumentarono a tutti i livelli, elementari, medie, liceo, università. Tuttavia, le discriminazioni che colpivano le ragazze nell’educazione erano evidenti: ad ogni momento di passaggio, insegnanti e genitori avanzavano considerazioni che le disincentivassero dal proseguire. Per la maggior parte dei bambini di campagna, soprattutto per le bambine, la scuola finiva con la terza elementare. In città, probabilmente si arrivava alla quinta. Il liceo/ginnasio era invece la scuola ‘chic’ che raccoglieva l’élite, mentre il ceto medio si divideva tra istituto tecnico e magistrale. Alcune ragazze di ceto medio proseguivano poi con la facoltà di Magistero, per sperare in una sistemazione nella scuola secondaria. All’interno di questo sistema, dunque, le donne imboccavano corsi di studi obbligati e ristretti. Date le possibilità occupazionali molto limitate, una ragazza non riceveva grandi incoraggiamenti a terminare gli studi, ed il tasso di abbandono era molto alto: in media solo un terzo delle studentesse iscritte all’università giungeva alla laurea. Le discriminazioni del sistema scolastico italiano ostacolavano le donne, e le diseguaglianze del sistema sociale permettevano solo ad una ristretta élite di ragazze particolarmente dotate, studiose e di buona famiglia di raggiungere la vetta. Per la maggior parte dei bambini, il primo contatto col regime arrivava con la scuola. Una scuola quella fascista in cui, a metà degli anni ‘30, gli insegnanti fedeli alle tendenze socialiste erano stati costretti alla pensione, e tanto ai vecchi che ai nuovi docenti era stato imposto il giuramento di fedeltà al regime. Nelle classi c’erano altoparlanti che bombardavano i giovani di frasi tratte dai discorsi di Mussolini. fatti discriminavano le donne. In seguito operò apertamente, attraverso norme legislative finalizzate all’espulsione della manodopera femminile dal mercato del lavoro. Il corporativismo, negativo per tutti i lavoratori, fu particolarmente dannoso per le lavoratrici, alle quali impedì di essere adeguatamente rappresentate. Essendo un sistema fatto di un enorme apparato burocratico e di complicati giochi di potere, si rivelava disarmante per qualsiasi gruppo marginale o scarsamente coeso, dunque in particolare per le donne. Le lavoratrici erano nelle mani dei sindacalisti maschi, la cui attenzione era nel migliore dei casi contraddittoria. I sindacalisti fascisti difendevano gli interessi delle donne, ma solo nella misura necessaria a difendere il proprio potere: se i salari delle donne diminuivano eccessivamente, gli imprenditori potevano essere tentati di assumere donne al posto degli uomini. Il modo migliore per prevenire la competizione tra uomini e donne era di richiedere uno speciale trattamento per le lavoratrici. Con il consolidamento del sistema corporativo, la legislazione protettiva aprì una seconda fase nella definizione del lavoro femminile, che diventava qualcosa di sostanzialmente differente da quello maschile. Le nuove norme, introdotte in forma definitiva nel 1934, avevano due finalità: salvaguardare il lavoro dei minori di ambo i sessi e proteggere le madri lavoratrici. Maternità → per quanto riguarda le madri lavoratrici, la legge del 22 Marzo 1934 superò tutte le precedenti misure, accrescendo i sussidi ed estendendo la protezione. Alle donne toccavano due mesi di aspettativa retribuita e obbligatoria, uno prima e uno dopo il parto. Se volevano prendersi un congedo più lungo e non pagato, avevano comunque diritto al mantenimento del posto di lavoro fino a 6 settimane dopo la nascita o 3 mesi per le impiegate. L’assicurazione copriva un altro mese in caso di malattia connessa al parto. Le fabbriche che contavano più di 50 donne dovevano allestire una stanza apposita per l’allattamento, per il quale erano concesse pause sul lavoro fino al compimento del primo anno del bambino. In più: - somma di 150 lire come premio per la nascita - sussidi di mancato lavoro, fino ad un ammontare complessivo di circa 400 lire (= circa 2 mesi di salario medio). Esclusione delle donne dal mercato del lavoro → Tutto ciò era assolutamente nuovo e considerato apprezzabile, era una legislazione che finalmente considerava la gravidanza come una disoccupazione INVOLONTARIA e non come una disabilità o malattia. Tuttavia, tali misure a tutela delle lavoratrici diventavano in realtà una sorta di ‘protezione discriminatoria’: scoraggiavano gli imprenditori ad assumere le donne, ed incoraggiavano queste ultime a lasciare il lavoro mentre i figli erano piccoli. Sempre nel 1934, inoltre, furono introdotte norme intese ad espellere le donne dal mercato del lavoro. Già in precedenza con l’articolo 7 della Legge Sacchi (1919), erano state escluse le donne da quelle posizioni lavorative che implicavano l’esercizio dell’autorità giudiziaria, dei diritti e del potere politico, e dalla difesa militare dello Stato. Non solo: nella riforma del sistema scolastico, i legislatori fascisti avevano stabilito che alle donne mancava il prerequisito di una visione virile della vita, necessario per dirigere le scuole superiori e per insegnare alcune materie chiave come storia, filosofia, italiano, latino, greco. Le donne furono pertanto escluse, con due Regi decreti (1923 e 1926), dai concorsi per l’insegnamento nelle classi quarte e quinte degli istituti tecnici e nelle classi del liceo, nonché dai posti di preside. La contraddittorietà del fascismo, dunque, raggiunse ancora una volta l’apice nei confronti delle donne: le voleva fuori dal mercato del lavoro, cercando di assicurare l’occupazione dei capifamiglia, ma nell’interesse della razza puntava a tutelare quelle che lavoravano. La donna contadina → lavoratrice o casalinga? Negli anni ‘30, l’agricoltura occupava ancora la maggior parte delle donne attive. L’esodo dalle zone rurali, tuttavia, raggiungeva proporzioni sorprendenti. Le milioni di donne che ancora vivevano in campagna si potevano suddividere fra massaie, lavoratrici dipendenti, coadiuvanti (nella piccola azienda del marito), proprietarie. Le donne contadine, indipendentemente da come il censimento le classificava, lavoravano davvero molto: erano contemporaneamente artigiane, persone di servizio, allevatrici di animali, contadine nei lavori stagionali. Le condizioni di vita e lavoro di questo tipo erano pesanti, e lo diventarono ancora di più con l’aggravarsi delle pressioni sulle famiglie. La distanza tra le condizioni di vita della città e della campagna, al contempo, era sempre più evidente, soprattutto per quanto riguardava le abitazioni, il modo di vestire, l’istruzione ed il tempo libero. Le donne che svolgevano questo tipo di vita, soprattutto la figura della mondina, erano considerate quasi una macchia per il regime. Non era visto di buon grado che le donne lavorassero nell’acqua melmosa fino alle ginocchia, con le gonne tirate su alla cintola, abbandonando i figli ed andando incontro ad aborti spontanei per via delle lunghe ore di lavoro nell’acqua. La maggioranza delle mondine era giovane e non sposata, decisa e disinibita, al pari della ‘commessa sexy’ in città, dunque questa figura diventava nota per la sua sessualità sfacciata. La politica ruralista del regime, trovò sorde proprio le campagne: il quadro idilliaco della vita in campagna che il fascismo dipingeva, era più che mai lontano dal reale. Inoltre, i vantaggi dell’andarsene in città erano evidenti: in città c’era disoccupazione, ma si poteva ottenere il sussidio, o ricorrere alla carità, alle mense dei poveri allestite dal regime o all’ONMI. Lavoro di fabbrica: gioie e dolori → spesso, le donne di campagna sognavano di trovare lavoro in fabbrica, ma il loro sogno restava per lo più irrealizzato. Molte donne in cerca del lavoro in città dovettero accontentarsi di occupazioni saltuarie nelle attività a domicilio e nei servizi domestici. Le lavoratrici urbane, in epoca fascista, potevano classificarsi in 2 categorie: - regolari, godevano di previdenza sociale - non regolari, dunque non protette Rispetto al passato, nella seconda metà degli anni ‘30 la sicurezza sociale era relativamente estesa: - pensione - congedo per malattia - assicurazione contro la disoccupazione - assegni familiari se erano capofamiglia - diritto ad un mese di assenza dal lavoro prima del parto e fino a 6 mesi dopo la nascita, con pause sul lavoro per l’allattamento. Il fatto che le operaie fossero protette, non voleva dire che stessero bene: tante erano le contraddizioni e i dilemmi che affrontava la lavoratrice italiana. I bassi salari, la legislazione protettiva, la propaganda pro- familista, incoraggiavano le donne sposate a lasciare il lavoro alla nascita dei figli. Molte non rientravano al proprio posto di lavoro dopo il parto, perdendo i diritti alla pensione e alle altre forme di previdenza. Un altro settore in cui diverse donne lavoravano era quello dei servizi domestici/privati, che a differenza del lavoro di fabbrica implicava rapporti di natura personale, quasi feudale: le famiglie reclutavano i domestici nelle zone rurali, non di rado nei paesi dove i signori avevano proprietà e trascorrevano le vacanze. Se il rapporto non si interrompeva, poteva durare anche una vita. In teoria le lavoratrici domestiche erano assicurate contro l’invalidità, la vecchiaia e la diffusa tubercolosi, ma in pratica poche godevano effettivamente di questi servizi in quanto dovevano pagare 5 lire al mese di contributi per 5 anni, prima di maturare il servizio alle prestazioni. Inoltre, la legge le escludeva dalla protezione per la maternità, dai sussidi di disoccupazione, dagli assegni familiari. Per le donne, lavorare significava acquisire una personalità propria, avere una propria indipendenza, e il matrimonio non era affatto desiderato se significava perdita di questa indipendenza per la quale la ragazza media tanto si sacrificava, soffrendo di affaticamento cronico, cicli mestruali irregolari e scoliosi. Nell’area del lavoro non manuale, ossia nel lavoro d’ufficio, aumentavano considerevolmente i posti lavoro ricoperti da giovani donne: impiegate, steno-dattilografe, commesse. Si trattava di posti ambiti, perché il lavoro che offrivano era pulito e meno faticoso di quello di fabbrica, e comportava uno status sociale più elevato e via via meglio pagato. Ma, anche qui, l’immagine della donna veniva sminuita: mentre il ‘lavoratore intellettuale’ maschio fu un ruolo esaltato sotto il fascismo, la lavoratrice donna era vista come ‘l’eroina dei tempi moderni’, la segretaria sexy, formata in scuole per segretarie d’azienda che sfornavano aspiranti dalla scarsa preparazione. Posizioni lavorative → alcune posizioni di lavoro (notaio, dentista, avvocato, architetto, medico, scrittrice/giornalista…) erano ancora scarsamente ricoperte da donne. Le donne superavano gli uomini solo tra gli addetti alle biblioteche, gli infermieri, gli assistenti sociali e gli insegnanti. Gli ostacoli alla donna professionista erano tanti, una ragazza doveva essere ben convinta della sua vocazione per continuare nei suoi studi dopo che il duce, in una nota intervista, aveva giudicato la scarsa presenza della donna nel campo come un ‘simbolo del suo destino’: un destino fatto di subalternità. Il crescente bellicismo dello Stato fascista nel corso degli anni ‘30, favorì anche un significativo aumento delle donne nelle cosiddette attività di cura, come assistenza infermieristica e sociale, oltre che l’ormai consolidato insegnamento. L’insegnamento → Come prima del fascismo, lo sbocco lavorativo principale per le donne laureate e diplomate rimase l’insegnamento: la dittatura sostenne appieno la comune convinzione che il ‘gentil sesso’ eccellesse nelle posizioni di educatrice, simili a quelle di madre, dunque nelle scuole dei bimbi, nella vita delle famiglie, nelle corsie degli ospedali. Al contempo, però, la dittatura voleva che la gioventù maschile fosse educata da uomini. Nel sistema scolastico fascista, le redini toccavano agli uomini. Alle professoresse era sbarrato l’accesso alla presidenza, per la convinzione secondo cui era ‘meglio un uomo mediocre al posto di comando che una donna colta’. Nel corpo insegnante erano di gran lunga più numerose le donne a possedere la laurea, gli uomini le superavano per 1362 contro 480 (parecchio più del doppio) nei posti di direttore delle scuole. Gli insegnanti furono obbligati ad iscriversi all’Associazione fascista della scuola e a prestarsi come istruttori dei gruppi giovanili fascisti, pena la rinuncia alle promozioni. Le donne, comunque, non smettevano di credere che l’insegnamento fosse per loro una vocazione, adatta alle loro qualità innate. La maggioranza delle professioniste sembrava credere che la loro non fosse una carriera bensì una vocazione, amavano considerarsi donne ‘colte’ ed intellettuali, definizioni che si ispiravano ad una fiducia interiore nella loro superiorità nei confronti degli uomini. Volevano superare la dicotomia imposta dalla società per la quale maternità e lavoro non erano conciliabili, e l’idea che la donna, sebbene utile negli ospedali, negli uffici, eccetera, fosse davvero indispensabile solo nella casa. Moda → la terza ‘battaglia’ estetica del fascismo, dopo la bellezza e lo sport, si concentrò sui modelli di abbigliamento nazionale. Nel 1930 la moda iniziò a cambiare spesso, influenzata da film, manifesti pubblicitari e riviste. Mentre prima gli italiani vestivano secondo la classe sociale, ora gli sili valicavano i confini di classe, tutti potevano guardare più in alto e anche all’estero, per imitare modelli di Parigi o di Hollywood. La propaganda, infatti, iniziò a rimproverare alle classi superiori la loro ‘esterofilia’: le donne dei ceti superiori erano sorde agli appelli patriottici, compravano ciò che pensavano stesse loro bene addosso, senza preoccuparsi se venisse dall’Italia o dall’estero. Nuova domesticità → la moderna cultura commerciale non cambiò solo la vita pubblica ma anche quella privata: il consumo di massa porterà donne e uomini ad una nuova cultura della domesticità. Le donne iniziano a inseguire il proprio ‘nido’ ideale, a sognare la loro ‘casetta’, che diviene quindi un’estensione del sé: anche lo stare a casa diventa una forma di coinvolgimento sociale. La ‘casetta’ moderna era come un circolo giovanile in cui venivano amici a tutte le ore del giorno, aveva la radio, il grammofono e tutte le altre modernità, ed era indispensabile al rito di passaggio all’età adulta. A perdere d’importanza nella vita sociale fu invece il salotto: i suoi tempi d’oro erano finiti, la vita sociale era diventata più commercializzata e specializzata. Cos’era cambiato quindi nel tempo libero delle donne? → le donne erano più libere di uscire rispetto a prima, la dittatura non poteva impedir loro l’accesso alla cultura di massa. Tuttavia, condizionava il grado di libertà con cui esse potevano usufruire di essa: per le donne, un conto era esercitare il proprio fascino tra le mura domestiche, altra cosa era esercitarlo nel salotto, nei raduni sociali pubblici o nelle strane. La libertà delle donne dunque era sottoposta a stretta vigilanza, e anche le ‘nuove libertà’ non erano mai vissute in modo completamente libero. 8 – LA POLITICA DELLE DONNE IN UNA NUOVA CHIAVE Nel tentativo di riconciliare fascismo e femminismo, nasce nell’Italia degli anni ‘30 un femminismo che viene definito ‘latino’, ‘nazionale’ e ‘puro’: un femminismo che riconosce la necessità di subordinare le aspirazioni delle donne agli interessi dello Stato e del popolo italiano, e che sostiene comportamenti considerati peculiari alla femminilità italiana (ecco perché ‘latino’): la devozione alla famiglia, il rispetto per la razza, l’attaccamento alla tradizione. Cosa ci fosse di ‘femminista’ nel femminismo latino era decisamente una questione più problematica. Forse le femministe latine non sostenevano più la parità dei diritti in senso stretto, ma non avevano assolutamente rinunciato al miglioramento della condizione femminile nella società italiana. Combattevano per preservare una voce indipendente delle donne, ma ripudiavano l’impegno politico tradizionalmente inteso, sostenendo che le donne avrebbero esercitato meglio il proprio potere di persuasione attraverso l’innalzamento culturale o la filantropia. La loro ‘politica della cultura’ puntava a creare una cultura femminile diffusa a livello nazionale, che fosse autentica espressione della femminilità italiana, o meglio dell’élite femminile dell’Italia nuova. La loro ‘politica del sociale’ invece era finalizzata a sostenere l’obiettivo fascista dell’andare verso il popolo, e a dimostrare che le donne dei ceti più alti erano pronte al sacrificio per il bene della nazione. Il femminismo latino, dunque, era un tentativo di conciliare l’eredità emancipazionista del movimento delle donne italiane d’inizio secolo e la politica di massa del fascismo. Queste donne ridefinirono la posizione dei propri gruppi nei confronti dello Stato, prendendo le distanze dal movimento internazionale delle donne, con la speranza che il fascismo avrebbe permesso alle loro iniziative di sopravvivere e magari di prosperare. Condannarono il ‘vecchio’ femminismo’ per la sua incompatibilità con la vera natura della donna italiana, della famiglia, della nazione, della razza italiane. La dittatura, a sua volta, nel tentativo di guadagnare più consensi, fu costretta a riconoscere le tendenze storiche che dall’inizio del secolo avevano portato le donne fuori di casa e spinto molte di esse ad avanzare rivendicazioni per la parità dei diritti → nel 1935-36 vengono create le organizzazioni femminili del regime. Nel 1938 vengono messi fuorilegge i gruppi femministi borghesi sopravvissuti. Il femminismo latino dunque rappresentò chiaramente il discorso di un movimento politicamente subalterno, che si dibatteva nel tentativo di trovare un nuovo vocabolario politico per rapportarsi con il sistema politico dominante. La complessa storia dell’adeguamento del femminismo italiano al fascismo è collegata ad un processo di cancellazione della memoria del ‘femminismo storico’. Le italiane dovettero confrontarsi, negli anni ‘20, con una situazione politica, economica e culturale completamente nuova. Dovettero innanzitutto riorientare le finalità della propria azione, fino ad ora concentrata sul diritto di voto. Ma quali obiettivi porsi? Era una questione difficile in Italia più che in altri paesi, soprattutto perché l’aspirazione al voto era stata frustrata: per le donne che erano state attive nel movimento emancipazionista dei primi anni ‘20, la seconda metà del decennio fu un periodo deprimente, soprattutto a seguito della soppressione delle organizzazioni socialiste e comuniste, ridotte alla clandestinità. Non solo: la riforma del codice penale e quella del diritto di famiglia, iniziate nel 1926 da Alfredo Rocco, cancellarono ogni speranza di miglioramento dello status giuridico di donna. Le donne sapevano che le loro condizioni economiche e non solo erano in pericolo, e pur di non tornare alla marginalità accettarono di dar una revisione alle loro affiliazioni politiche: una lunga sopravvivenza, sotto il fascismo, richiedeva un servilismo manifesto o l’assunzione di un profilo molto basso. L’unico modo per avere almeno la speranza di sopravvivere era tagliare i ponti col passato emancipazionista. I reticoli femminili di ceto superiore vennero tollerati maggiormente fino alla fine degli anni ‘30, a essi furono risparmiate le retate, le chiusure e le confische che colpirono invece migliaia di circoli di lettura operai, di cooperative, di sedi sindacali. Altre associazioni femminili invece si adattarono con minor successo ai nuovi tempi. Femminismo cattolico e femminismo fascista → con il cambiamento dei tempi, il femminismo storico fu rapidamente sopravanzato da due nuovi movimenti: quello cattolico e quello fascista. Il principale movimento delle donne cattoliche prese il nome di Unione Femminile Cattolica Italiana (UFCI). Questo movimento crebbe costantemente per tutti gli anni ‘20, con il sostegno della Chiesa, che fu assolutamente più forte nel sostenere i talenti delle donne cattoliche rispetto al PNF verso le donne fasciste. Le organizzazioni delle donne cattoliche prosperarono sempre più, rappresentando una chiara alternativa ai fasci femminili ed esercitando un’enorme influenza sulla cultura politica delle donne. Negli anni ‘20, le associazioni cattoliche erano pronte a lanciare una vera e propria controriforma: per ricristianizzare l’Italia urbana, utilizzarono tutti gli armamentari della moderna cultura di massa (radio, cinema, stampa) come pure le tecniche della moderna psicologia comportamentale. Questi gruppi si dedicarono dunque alla riforma dei costumi e della cultura: le donne cattoliche furono in prima linea nelle battaglie contro la moda indecente, il lusso, il ballo, in nome della moralità nazionale. Mentre le donne fasciste mancavano di una propria organizzazione giovanile, le donne cattoliche gestivano un’intera schiera di gruppi, dalle ‘angiolette’ (0-4 anni) fino alle ‘effettive’ (16-35 anni). Le organizzazioni femminili riuscirono a darsi una composizione molto variegata, raggiungendo donne di ogni condizione, dalle casalinghe alle lavoratrici, fino alle professioniste borghesi. Il cattolicesimo in questo periodo sicuramente ebbe successo anche grazie ai legami di solidarietà che intesseva tra le donne. Nel 1931 i gruppi cattolici arrivarono a 250 mila associate, mentre i fasci femminili ne contavano 150 mila. Questa grande crescita delle organizzazioni cattoliche femminili testimoniava senza dubbio la cattolicizzazione della cultura civica italiana, e segnalava l’inversione di una lunga tendenza alla secolarizzazione avutasi sino a quel momento. Le frizioni tra la Chiesa e le strutture del PNF divennero quasi inevitabili nel momento in cui il regime cercò di fortificare le sue organizzazioni di massa. I gruppi femminili fascisti furono forse più appariscenti, ma l’identità cattolica costruita attorno alle associazioni della Chiesa fu ben più duratura. Fasci femminili (PNF) → la politica del fascismo verso le donne era, a differenza di quella cattolica, un’invenzione del tutto nuova, e l’organizzazione del movimento femminile fascista avanzò lentamente. Solo nel 1935-36 il PNF superò ogni remora nei confronti dei fasci femminili, a seguito della mobilitazione delle donne a sostegno della campagna d’Etiopia, riconoscendoli finalmente come una delle strutture del partito. Il primo passo significativo in direzione della trasformazione dei fasci femminili in un’organizzazione di massa fu compiuto nel 1929, quando Augusto Turati scelse il ‘Giornale della donna’ come organo ufficiale dei fasci femminili, iniziando a finanziarne la pubblicazione. Solo 6 anni più tardi però, il giornale fu posto sotto la direzione di un uomo del PNF e prese a diffondere ottuse direttive di partito. Nello stesso anno nacque il gruppo delle Giovani Fasciste (18-21 anni) allo scopo di coprire meglio le classi di età dei gruppi femminili, e tra il 1925 ed il 1942 cresceranno notevolmente, in generale, le aderenti alle diverse organizzazioni femminili fasciste (Piccole italiane, Giovani italiane, Giovani fasciste, Donne fasciste, Massaie rurali, Operaie e lavoranti a domicilio). Nonostante questo tentativo di dar maggior organizzazione ai gruppi femminili, però, la questione di fondo non fu mai risolta né affrontata sul piano teorico: rimaneva ignoto quale funzione politica le donne dovessero esercitare sotto il fascismo, le donne continuavano a non avere un ruolo ben definito nella società e le loro virtù erano ancora definite solo in negativo. Politica della cultura → la politica culturale del fascismo era molto più maschilista di quella di ogni precedente regime. Le donne, nel sistema di riforma della cultura proposto dal maggior filosofo del regime, Giovanni Gentile, potevano esercitare al massimo la funzione di educatrici dei bambini, ma era ovvio che spettasse loro un ruolo del tutto subalterno. Non era insolito che, escluse dalla politica, le donne si rifugiassero nelle attività culturali: in mancanza di potere politico, volevano esercitare la propria influenza attraverso quello culturale, per esempio puntando sul pubblico delle lettrici, in grande crescita nel periodo interbellico in cui si verificò una vera e propria femminilizzazione dell’editoria. Nella seconda età degli anni ‘20, così, scrivere romanzi era diventata la più importante manifestazione della nuova politica culturale femminile, e i romanzi femminili italiani erano popolati di eroine tristi. Non solo: una battaglia più concreta per definire una nuova cultura della donna si stava combattendo anche nei reticoli delle associazioni e dei circoli che ospitavano mostre, conferenze, biblioteche, concerti, nei quali le donne intellettuali si incontravano settimanalmente per ascoltare poesie, letture, conferenze e dibattiti. 1930 → nasce Alleanza muliebre culturale italiana, con una rete a livello nazionale, completamente nuova. Furono proprio quelli intorno al ‘30 gli anni di molte ‘prime’ per la cultura delle donne borghesi: la prima esposizione interamente dedicata all’opera delle donne (la Mostra femminile d’arte pura), le prime mostre provinciali e regionali delle pittrici e scultrici, la grande mostra delle colonie estive e dell’assistenza ai bambini. Non solo: uscirono anche i primi volumi della biografia nazionale dedicata alle donne, comprendenti le vite di madri illustri ma anche di figure come Cristina di Belgioioso, fondatrice del movimento di emancipazione delle donne in Italia, oppure le grandi sante come Santa Chiara, Santa Caterina
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