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Le donne nell'Europa Moderna Weisner Hanks, Dispense di Storia Sociale

Riassunto del manuale "Le donne dell'Europa Moderna", edizione più recente (2018 credo) comprensiva di ultimo capitolo sulle donne e colonizzazione. E' lungo ma dettagliatissimo

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 04/02/2023

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Scarica Le donne nell'Europa Moderna Weisner Hanks e più Dispense in PDF di Storia Sociale solo su Docsity! LE DONNE NELL’EUROPA MODERNA Mary Weisner Hanks Il pensiero maschile sulla donna e le leggi che la riguardano. I discorsi degli uomini, soprattutto colti, sulle donne sono numerosissimi e compaiono in opere di ogni genere, costituendo una fonte accessibile per gli studiosi. Essi hanno però anche determinato il pensiero sulle donne nelle epoche successive e hanno fornito i presupposti per le leggi intese a regolamentare i comportamenti. Molti di questi infatti sono a lungo stati intesi come verità rivelate, soprattutto nei casi in cui le norme che ne derivano costringono le donne ad agire in conformità al pensiero maschile. La rappresentazione della donna in occidente è stata ereditata principalmente dalla religione ebraico- cristiana e dalla filosofia classica, ed in sostanza connota la donna come inferiore all’uomo e fornisce esempi della sua imperfezione. Il rinnovamento del Rinascimento a partire da Cinquecento ha comportato l’aumento del dibattito sulla “questione femminile”, e sostanzialmente aumentato le voci dei detrattori delle donne che potevano avvalersi di nuovi argomenti, tratti dalle scienze naturali, per denigrarle. Nell’Europa premoderna spicca la rappresentazione della donna derivata dal cristianesimo. Nella Genesi le creazioni di Eva sono due, ma quella comunemente più accettata e diffusa è quella che vede nascere Eva dalla costola di Adamo. Nel Medioevo e nella prima età moderna Eva rappresenta il primo peccato: cede alla tentazione del serpente e costringe Adamo a sua volta a mangiare la mela, disubbidendo a Dio. I commentatori cristiani per la maggior parte scelsero di rappresentare Eva come fonte del male e del peccato nel mondo. I commenti alle scritture ebraiche ponevano dunque la donna sotto una luce negativa: ritualmente impure per 15 giorni al mese e anche dopo il parto, per 40 o 80 giorni a differenza del sesso del bambino. La donna ideale era obbediente e rispettosa, anche pronta ad esercitare un ruolo attivo come Giuditta e Giaele, ma sempre e comunque per ritornare alla tranquillità della vita domestica. Oltre ad Eva inoltre vi erano numerosi altri esempi negativi femminili: Dalila, Rebecca, la Moglie di Lot trasformata in statua per aver disobbedito a Dio e al marito. L’immagine della donna nel cristianesimo eredita una maggiore clemenza poiché Gesù Cristo incluse le donne nella sua predicazioni, accogliendole fra i fedeli e sostenendo che potessero accede, come gli uomini, alla vita eterna. Peccato che dopo la sua morte si sia teso verso una esclusione delle donne: il Nuovo Testamento enfatizza il ruolo dei dodici apostoli, tutti maschi, relativizzando quello delle discepole, come Maria Maddalena. Inizialmente le donne inoltre ricoprivano ruoli attivi, si dedicavano all’apostolato ed a funzioni sacerdotali. Molte di esse rifiutavano il matrimonio per dedicarsi ad una vita di carità. Alcuni uomini e donne scelsero di coniugare vita matrimoniale e verginità attraverso il “matrimonio bianco”. Le donne vennero progressivamente escluse quando la Chiesa cominciò ad organizzarsi gerarchicamente seguendo l’esempio dello Stato Romano. Il matrimonio bianco fu ufficialmente vietato, ma la verginità rimase una condizione spiritualmente superiore al matrimonio, cosa che comportò una maggiore denigrazione delle donne. Questo accanimento riguardava da un lato il bisogno dei Padri della Chiesa di combattere i loro impulsi sessuali, dall’altro quello di marginalizzare le donne che operavano all’interno della Chiesa stessa. Sant’Agostino -254-430-, sostenne che la colpa originaria di Adamo e Eva aveva generato anche il desiderio sessuale, una forza che non poteva essere domata solo con la volontà e la ragione. La chiesa cominciò a considerare peccaminoso anche il sesso matrimoniale. Agostino inoltre affermò la sottomissione della donna all’uomo, dal punto di vista fisico, intellettuale e morale. Il pensiero aristotelico, che fu il più influente dal XII secolo in poi, ebbe effetti deleteri per le donne. Aristotele le considerava infatti uomini malriusciti, frutto di errori del concepimento (genitori troppo vecchi o troppo giovani), la donna esauriva la sua funzione nella propria utilità per il maschio e dunque nella procreazione. Era un elemento importante all’interno della famiglia ma solo come generatrice di figli e non come compagna di Vita (Platone concorda, il vero amore può esistere solo fra uomini). Dal XII secolo i teologi scolastici cominciarono ad accorpare il pensiero aristotelico al primo cristianesimo realizzando un nuovo sistema filosofico. Tommaso d’Aquino giunse dunque alla conclusione che l’inferiorità della donna non era causata solo dal peccato di Eva, ma era intrinseca nella sua creazione. Anche nel processo riproduttivo il suo ruolo era minimo: era il seme dell’uomo ad infondere l’energia vitale, mentre la donna forniva solo la fredda materia al figlio. Contemporaneamente alla diffusione della scolastica prese piede anche il culto della Madonna, venerata per la sua condizione di vergine e di madre che costituiva ovviamente un esempio irraggiungibile per le donne. Rappresentando l’esatto opposto di Eva con la sua purezza ed al contempo maternità, creava la dicotomia “donna buona-donna cattiva”. Essendo però una creatura umana, Maria riuscì in ogni caso a fornire un modello di vita per le donne, rappresentando un’immagine femminile degna di venerazione. Spesso infatti veniva considerata non diversa da un elemento della trinità. Anche nella letteratura Basso Medievale emerge il punto di vista maschile sulla donna, con lo sviluppo dell’amor cortese. Qui la luce è più positiva, le figure femminili sono più virtuose ed oneste. La poesia lirica comunque assegna loro un ruolo totalmente passivo. Esistevano anche altri tipi di opere, come quelle di Andrea Cappellano, di carattere satirico, dove le donne erano subdole e pretenziose. Lo stesso atteggiamento viene ritrovato nelle ballate popolari dove la moglie bisbetica viene domata a suon di botte. Sul finire del XV secolo si avviò un vero e proprio dibattito, in parte volto a rispondere alla dilagante misoginia. Boccaccio ad esempio, nel 1380, scrisse il De Mulieribus claris, un elenco di donne virtuose esempi di lealtà, coraggio, onestà. Anche in questo caso però il carattere è ambiguo: le donne descritte hanno l’unico pregio di essere affini agli uomini. La prima donna ad inserirsi nel dibattito fu Christine de Pizan, interrogandosi sul perché della subordinazione femminile. Nella sua opera “Ciittà delle dame” del 1405, osservava che i detrattori delle donne erano tutti uomini e comunque in disaccordo fra loro; ammetteva che le donne erano realmente dipendenti dall’uomo in molti campi, ma a causa della loro subalternità economica e sociale, alla mancanza di educazione. Inoltre, concludeva che la maggiore difficoltà della vita delle donne comportava una loro maggiore vicinanza a Cristo, decretando la loro superiorità spirituale. Seguirono diversi lavori anche di famosi umanisti come Juan Louis Vives, Thomas Elyot ed Erasmo da Rotterdam, che affermavano l’uguaglianza spirituale della donna all’uomo ed il favore all’educazione femminile, senza però che sfiorasse la loro mente l’idea di un’uguaglianza giuridica o politica. Il “De nobilitate et pracellentia foeminei sexus…declamatio” di Cornelio Agrippa pubblicato nel 1529 forniva un elenco di donne virtuose e sosteneva la superiorità della donna, poiché ella era l’ultimo frutto della creazione e perché la più nobile delle donne era stata di gran lunga superiore al più nobile degli uomini. Dalla metà del XVI secolo crebbe ancora l’interesse popolare per la questione e si diffusero diversi testi di donne brillanti che confutavano le idee misogine tanto correnti, come ad esempio quello di Luana Terracina, che scrisse con lo pseudonimo di Moderata Fonte, “Il merito delle donne. Ove chiaramente si scuopre quanto siano elle degne e più perfette degli uomini” che sosteneva che se le donne avessero ricevuto pari educazione degli uomini li avrebbero chiaramente superati in superiorità morale. Ovviamente gli attacchi misogini non finirono né si ridussero, in Inghilterra proseguì questa botta e risposta con donne che scrivevano in loro stessa difesa con opere brillanti. Interessanti anche le ballate e i racconti popolari dove i difetti della donna venivano menzionati più che le sue virtù. Gran parte di queste ricalcano scherzi crudeli o sconci riguardo le botte o la violenza sessuale o prendono di mira il marito inetto incapace di controllare moglie e figli. Nella prima età moderna sono presenti anche rappresentazioni iconografiche che venivano appese nelle taverne e nelle case, che mostravano esempi di donne virtuose. Le brave donne erano spesso rappresentate attraverso la chiocciola e la tartaruga, animali silenziosi che non lasciano mai la casa. Altre immagini, satiriche, vedevano donne che picchiano il marito o nascondono l’amante. Il dibattito sulla natura femminile investì anche opere di lungo respiro come testi di diritto civile e naturale: Paracelso, medico ed alchimista, sostenne che le donne hanno una posizione speciale in quanto ultimo anello della catena della creazione e che il matrimonio fosse fondamentale per ambo i sessi. Giuristi come Jean Bodin invece sostennero i soliti difetti femminili: la sua inferiorità naturale all’uomo impediva che le si potessero affidare incarichi di potere. Possiamo tracciare a grandi linee alcune generali considerazioni sugli effetti del rinnovamento religioso sulla visione della donna. I riformatori protestanti non si allontanarono molto dagli scolastici medievali: la con sé una maggiore autonomia delle donne, che ebbero la facoltà di possedere terra ed apparire in giudizio -nubili e vedove-. Le restrizioni ai diritti delle donne dunque si attenuarono, ma a limitare il loro status giuridico rimase il matrimonio: il dovere di obbedire al marito infatti impediva loro di agire come soggetti autonomi. Spesso i beni o la terra che ricevevano in dote infatti venivano amministrati dal marito come se egli ne fosse il proprietario. In Inghilterra questo sistema giuridico non fu applicato, si tese a mantenere la common law, dove il precedente legale aveva un ruolo importantissimo. La common law si applicava anche alle definizioni di matrimonio: due giovani che convivevano e si presentavano come marito e moglie venivano considerati legalmente sposati anche prima della cerimonia ufficiale e della licenza. Questo fino al 1753 quando il governo li decretò fuori legge, escludendo i figli illegittimi dall’eredità dei genitori non sposati regolarmente. In questo sistema la donna sposata non era una persona giuridica ma veniva considerata totalmente sottomessa all’identità del marito. Il controllo dei marito sui beni della moglie poteva essere allentato con un contratto matrimoniale che le dava diritto alla proprietà della dote. Finchè vivo, il marito era responsabile dell’amministrazione, ma una volta morte questa tornava nelle mani della moglie o degli eredi. Oltretutto, alla morte del marito poteva essere garantita una quota dei suoi beni, circa un terzo o la metà del patrimonio, chiamato dovario. Esistevano nel basso medioevo altre vie per ottenere autonomia economica, in quanto il potere si accorse presto che la legislazione spesso non corrispondeva alle esigenze della realtà. Nel secoli XIV e XV infatti, nei codici cominciò ad apparire per le donne la possibilità, se conducevano un’attività economica, di dichiararsi non sposate per poter gestire questioni di natura legale, accordi commerciali, contrarre debiti. Molte donne amministravano personalmente la propria dote anche senza alcuna autorizzazione poiché i giudici erano spesso disposti ad assecondarle. Questo tipo di atteggiamento preoccupò i fautori del diritto giustinianeo, che considerava le donne non legalmente responsabili delle loro azioni a causa della loro imbecillità, ed arrivarono a raccomandare il ripristino della tutela di genere. Alle nubili adulte venne dunque, spesso, riaffidato un tutore legale. I diritti delle nubili continuarono ad essere minati per tutta l’età moderna, basti pensare che nel 1776 in Spagna si impose il pragmatico reale sul matrimonio che richiedeva il consenso del genitore per contrarre matrimonio. Anche il numero di donne che si rivolge al tribunale per difendersi si va riducendo, come segno che il tutoraggio maschile va crescendo. Inoltre, in questo periodo, si andò affermando la regola che, quando la donna riceveva la dote paterna fosse obbligata a rinunciare ad ogni altra pretesa sulla proprietà, cosa che consentiva alla famiglia di mantenere l’ereditarietà maschile. La diffusione del diritto romano ebbe dunque effetti doppiamente negativi sulla vita delle donne. L’incidenza penale fu minore perché qui era meno presente la differenzazione basata sul genere. In tutta Europa le donne venivano torturate e giustiziate come gli uomini, se autrici di crimini. Infine, uomini e donne dovevano sottostare ad un ulteriore sistema normativo: il codice d’onore, che per gli uomini riguardava in sostanza la rettitudine, competenza nel mestiere ed integrità, mentre per le donne aveva una connotazione puramente sessuale. Soprattutto le donne delle classi medie ed alte erano considerate incapaci di difendere da sole il proprio onore e costrette ad appoggiarsi ad un uomo. Da loro si pretendeva che interiorizzassero il senso dell’onore e del pudore, affidando ai congiunti maschi il compito di difenderle. Le leggi garantivano questa difesa, apparentemente proteggevano le donne ma, in realtà, tutelavano la responsabilità dei maschi e della famiglia. In Spagna ad esempio se il promesso sposo di una donna moriva prima delle nozze, essa aveva diritto ad una parte della dote che la sostenesse in caso nessun altro uomo la volesse, cosa probabile visto che di solito era già stata deflorata con un bacio. Ciò sollevava il padre e i fratelli dal fardello di mantenerla. Il ciclo di vita della donna. Fin dall’antichità ci si è occupati di definire le fasi della vita dell’essere umano. Le ipotesi sono le più varie ma la più comune è che siano sette, come i pianeti conosciuti fino ad allora: infanzia, fanciullezza, adolescenza, giovinezza, età adulta, maturità, vecchiaia. Negli scritti e nelle rappresentazioni della fase della vita dell’uomo il passaggio è sostanzialmente segnalato attraverso gli strumenti del lavoro, che rappresenta il fulcro stesso dell’esistenza. Per quel che riguarda le donne invece, le fasi della vita si concentrano sulla sessualità. La donna attraversa le fasi di: vergine, moglie, madre, oppure di figlia, moglie, madre. Il cambiamento più significativo nella vita della donne era ovviamente il matrimonio. I primi studi sull’infanzia in età premoderna sono stati compiuti dalla metà del Novecento in poi e sostennero che non venisse considerata come fase della vita a sé stante, che le venisse dedicata poca attenzione. Questo quadro si è ridimensionato quando si sono potuti studiare documenti d’archivio che dimostravano il grande amore nutrito dai genitori nei confronti dei figli. Le famiglie preferivano mettere al mondo maschi, perché più protetti dalla legge, più utili per la stabilità economica della famiglia stessa e capaci di ottenere maggior prestigio sociale. Chiara conseguenza è che gli orfanotrofi di tutta Europa fossero maggiormente occupati da bambine femmine, con l’eccezione di Londra, che, per tutta l’età moderna, registra un maggior numero di maschi abbandonati dopo il primo mese di vita, probabilmente questa preferenza era dovuta all’idea che avessero più possibilità di sopravvivere. Per quel che riguarda l’infanticidio non abbiamo dati sufficienti, sembra che il fenomeno non fosse tanto sviluppato in una certa direzione per modificare il rapporto in percentuale fra i sessi. Alle femmine di ogni ceto si insegnava fin da subito la buona conduzione della casa e nelle campagne si aggiungevano i lavori agricoli. Era rarissimo che si insegnasse a leggere e scrivere. La prima mestruazione (menarca) era il segno più evidente del pieno sviluppo fisico della donna, ed avveniva, si presume, attorno ai 14 anni di età. Si pensava che il ciclo avesse un duplice scopo: nutrire il feto durante la gravidanza ed eliminare il sangue in eccesso, inoltre, vi era la convinzione che si trasformasse in latte dopo il parto. L’assenza delle mestruazioni era considerata molto pericolosa poiché si poteva creare un ammasso di sangue capace di risalire al cervello e surriscaldarlo. In ogni caso, il sangue mestruale era considerato misterioso e pericoloso. Nella tradizione ebraica la donna mestruata era impura e contaminata ogni cosa toccasse. La coppia doveva astenersi dai rapporti per i 7 giorni del ciclo ed i 7 successivi, e non prima che la donna avesse compiuto un bagno purificatore. Gli ortodossi non permettevano alla donna di entrare in chiesa, mentre i cattolici non erano così drastici. Si sconsigliava il coito durante il ciclo e nel Cinquecento si affermò sempre più la convinzione che conducesse alla nascita di figli malformati o lebbrosi. Abbiamo pochissime testimonianze di donne sul loro vissuto sessuale, una è quella di Isabella de Moerloose che chiese al marito di dormire separati perché lui era indispettito dal tanfo del suo mestruo. Vesalio, anatomista, rappresentava l’utero come un pene capovolto. L’opinione che l’apparato della donna fosse uguale a quello dell’uomo sopravvisse anche alla scoperta della clitoride da parte degli scienziati rinascimentali, che assunsero semplicemente che la donna possedeva due organi simili al pene. L’anatomia femminile, a lungo, non ricevette una propria nominazione. Il sistema riproduttivo della donna, visto che era interno, era anche più misterioso nonostante i lavori sempre più avanzati dei medici dell’età moderna, come ad esempio Aristotele’s Masterpiece del 1684. Una delle nozioni qui contenute riguardava la necessità dell’orgasmo di entrambi i partner nel concepimento: solo con il piacere la donna poteva secernere il seme femminile (un’altra visione estrapolata dall’esperienza maschile). Una rappresentazione negativa della sessualità femminile era supportata dalla religione. I cattolici occidentali tenevano un atteggiamento ambivalente riguardo il sesso: la verginità e la castità erano due condizioni predilette ed imposte ai ministri di Dio, ma il corpo, creazione divina, non poteva essere solo ed esclusivamente osteggiato. La dottrina cattolica ammetteva il coito matrimoniale stabilendo regole severe, proibendolo la domenica, durante le feste, e nelle posizioni che invertivano l’ordine naturale -uomo sopra donna sotto-. Gli sposi erano però obbligati a soddisfare il debito coniugale, a volte anche facendo strappi alla regola: era meglio giacere con la moglie mestruata o incinta piuttosto che con la meretrice. I protestanti invece cambiarono questa visione, attribuendo al matrimonio una condizione preferibile rispetto al celibato, dove l’amplesso assumeva un’importanza fondamentale, sia per la procreazione che per l’affetto reciproco. Entrambi i coniugi ne beneficiavano e soprattutto le donne, per la cui salute era fondamentale. Il sesso era anche un tema importante nella letteratura popolare dove si esprimeva spesso il timore di una sessualità femminile senza freni, e dove la donna veniva descritta secondo i classici stereotipi. Anche la pornografia cominciava a diffondersi, spesso con materiale ben esplicito ed illustrato che esponeva la varietà delle posizioni sessuali o dei servizi offerti dalle prostitute. Se esaminiamo i verbali dei tribunali riusciamo a cogliere quali fossero i crimini più diffusi. Le donne venivano sostanzialmente giudicate per questioni morali, fra le quali la più diffusa era il rapporto prematrimoniale: fornicazione. In Inghilterra la percentuale delle donne che arrivava già gravida al matrimonio andò crescendo: da un terzo nel Cinquecento al 50% nel Settecento. Questo era dovuto al fatto che il rituale del matrimonio prevedesse molte e lunghe fasi: quando i coniugi erano fidanzati potevano legittimamente accoppiarsi anche prima della cerimonia ufficiale. Inoltre, per le nubili era difficilissimo sottrarsi ai rapporti carnali, basta pensare che la maggior parte di esse lavoravano come serve o domestiche di cui i padroni si approfittavano spesso. Quando una nubile temeva di essere incinta aveva diverse possibilità: se era minorenne il padre poteva intentare causa contro il padre per ottenere un risarcimento, la donna poteva sennò rivolgersi al tribunale per convincere l’uomo a sposarla, nel caso riuscisse a dimostrare che era stata fatta una promessa di matrimonio. La soluzione più comune, comunque, erano le nozze. Quando queste non erano possibili si poteva costringere il padre a mantenere il bambino per un tot di anni. La donna poteva inoltre presentare denuncia di stupro, ma doveva provare di aver urlato e tentato di respingere l’aggressore, inoltre, la gravidanza poteva essere considerata un segno di consenso (per la teoria dell’orgasmo che dicevamo prima), anche se non tutti i giuristi concordavano sulla questione. Lo stupro era uno dei reati considerati più gravi anche se veniva sostanzialmente punito con il pagamento di un’ammenda, o, in alternativa, con il matrimonio con la vittima spesso richiesto dalla stessa. Infine, le donne potevano tentare di abortire, trasportando oggetti pesanti, premendo sulla pancia con strette fasciature ecc.. I manuali di medicina e gli erbari contenevano una gran quantità di rimedi che stimolassero il ritorno delle mestruazioni e di cui spesso le donne si avvalevano per abortire, che però non sempre funzionavano. Alcune delle erbe indicate provocavano davvero contrazioni uterine, come la cornuta, la ruta e la sabina, ma erano al contempo velenose se non dosate correttamente e le donne raramente possedevano queste competenze. In età premoderna le sanzioni per aver provocato o tentato l’aborto si intensificarono, nel Sacro Romano Impero venne istituita la pena capitale per la soppressione di un feto vivo nel 1532. I casi di aborto rimanevano comunque difficili da scoprire e venivano fuori soprattutto durante i processi per infanticidio, quando si provava che la madre avesse tentato di interrompere la gravidanza prima del parto. Nella maggior parte dei casi le donne si rassegnavano a tenere i bambini anche se non riuscivano a sposarsi, situazione che peggiorava notevolmente la loro vita. In Scozia ad esempio dovevano sottoporsi ad un rituale pubblico e umiliante per essere riabilitate e purificate. Per molte si trattava di una vera disgrazia soprattutto se il padre del bambino era sposato o un parente, poiché in quel caso erano colpevoli anche di incesto. Spesso tacevano l’identità del padre o venivano licenziate, trovandosi in situazioni terribili in quanto, spesso, le autorità impedivano l’assunzione a lavoro di donne disonorate. Alcune partorivano di nascosto e poi portavano il piccolo negli ospizi o lo sopprimevano. Anche in questo caso, i casi per infanticidio prima del Cinquecento non sono molti, poiché era difficilissimo stabilire se la morte fosse avvenuta prima o dopo il parto, se per cause naturali o meno. In età moderna invece la severità si inasprì e l’infanticidio cominciò ad essere punito con la pena di morte. Pensiamo che in Francia nel 1556 le donne erano costrette a denunciare la gravidanza e la morte del bambino prima del battesimo, era prevista la pena di morte per coloro che nascondevano la gestazione e il parto. Le levatrici erano figure fondamentali incaricate di far rispettare la legge, dovevano scovare l’identità del padre chiedendola alla madre durante i dolori del parto. Altri crimini di cui venivano accusate le donne erano atteggiamenti considerati indecenti, per i quali potevano essere rinchiuse in istituti di riabilitazione per prostitute o “donne perdute” messi in piedi da istituti religiosi o municipali. Queste strutture erano spesso dedicate a Maria Maddalena e potevano esservi accolte anche le donne sole senza parenti marchi che rischiavano di finire sulla cattiva strada. Molti degli statuti di questi specificano però che sono ammesse solo le donne belle in quanto le brutte erano fuori pericolo. Potevano essere accolte anche donne minacciate o maltrattate, vedove bisognose, femmine a cui poteva essere insegnato un mestiere ed offerta la possibilità di mettere da parte i soldi per la dote. Erano luoghi simili a conventi dove la giornata era la pancia e la donna poteva sentirlo: da quel momento il feto veniva considerato vivo e l’aborto considerato omicidio. Nel 500 comparvero i primi manuali per levatrici, utili per dare assistenza al parto e che indicavano le precauzioni da prendere per la gestante, come mangiare cibi nutrienti ma non indigesti, fare movimento, non trasportare oggetti pesanti, astenersi dal sesso a dai salassi. Soprattutto, si temevano gli effetti delle fantasie della donna sul bambino che potevano essere gravi: il labbro leporino ad esempio era dovuto alla paura della lepre. Le malformazioni in generale erano dovute a complicanze nella gravidanza o a visioni che avevano impressionato la gestante. Al momento del parto la donna chiamava le vicine e cominciava i preparativi, era una cosa seria considerato che la maggior parte delle accuse di stregonerie riguardano maledizioni lanciate perché non invitate al parto. Nelle aree rurali il ruolo della levatrice era ricoperto dalla donna con più esperienza, era quella che veniva nominata al parroco per ottenere la licenza necessaria. Il parto fu una questione prettamente femminile fino al Seicento, quando i medici cominciarono a provare interesse per l’ostetricia e si affermò la moda, fra gli aristocratici, degli ostetrici maschi. In un primo momento non vi era differenza con le levatrici poiché la formazione era la stessa, ma col passare del tempo gli uomini poterono acquisire più nozioni grazie alle lezioni di dissezione e di anatomia vietate alle donne. Si diffusero molto anche in Inghilterra, soprattutto dopo l’invenzione del forcipe da parte dei fratello Chamblains, che consentiva di afferrare la testa del bambino per estrarlo. La maggior preparazione convinse le classi agiate a rivolgersi ai medici maschi mentre nelle campagne continuò ad essere considerato riprovevole che un uomo toccasse una partoriente. Quando iniziava il travaglio si trasformava la stanza in una stanza del parto, si preparava il vin brulè e si predisponevano oggetti funzionali ad accorciare la lunghezza del parto come erbe o santini. Le tecniche erano innumerevoli, alcune stavano sedute su una sedia ostetrica, altre a letto, altre fra le braccia di un’altra donna. Se il feto era podalico i problemi non erano molti, ma aumentavano se era in una posizione anomala. La levatrice che interveniva solo in caso di bisogno, in questi casi cercava il sistema migliore per girarlo ed estrarlo, di solito afferrandolo per i piedi e collocandolo in posizione podalica. Era un momento denso di significati ma anche pericoloso e le donne lo sapevano, c’era l’eventualità di perdere la vita. In molte regioni attorno alle puerpere vi erano una gran quantità di tabù religiosi potentissimi. In Russia ad esempio la puerpera era considerata impura e immonda, le era vietato mangiare in compagnia di altri e spesso il battesimo veniva procrastinato in modo che il figlio immondo potesse ricevere latte immondo dall’immonda donna. La puerpera cattolica non poteva allontanarsi dalla casa e presenziare al battesimo, al quale invece era sempre presente la levatrice. Tendenzialmente i figli venivano allattati non oltre i due anni e le donne che non avevano latte li affidavano a delle balie. Questa pratica fu molto criticata dai moralisti dei Settecento che la conservavano come una forma d’insensibilità delle donne aristocratiche o borghesi, ma in realtà spesso era una decisione sofferta e dovuta all’impossibilità di conciliare l’allattamento con i doveri famigliari. Infatti alle donne si richiedeva di avere molti figli ed al contempo soddisfare il debito coniugale, così era spesso il marito che affidava ad una balia il neonato. La ricerca era una cosa seria, venivano ricercate alcune caratteristiche psicologiche e morali. Dopo la riforma le madri cattoliche dubitavano delle balie protestanti e viceversa. La balia assicurava di astenersi dai rapporti sessuali per il periodo dell’allattamento. Molti bambini purtroppo morivano, anche a causa del fatto che spesso le donne non avevano abbastanza latte per tutti i neonati di cui si facevano carico, tant’è che dovevano spesso affidare il proprio neonato a donne ancor più povere di loro. Altre volte la balia si affezionava ai bambini e li lasciava malvolentieri, tant’è che spesso finiva impiegata come governante nelle case dei padroni. Secondo alcuni studi questa pratica avrebbe comportato nei maschi adulti difficoltà nei rapporti con le donne, a causa della presenza di balie diverse e dell’assenza della madre biologica. Nel Settecento le aristocratiche cominciarono a rivendicare il diritto di allattare i propri figli. è chiaro che molte donne amassero profondamente i loro bambini e soffrissero enormemente quando dovevano staccarsi da loro. Alcune cadevano in depressione dopo la morte di un figlio, giungendo addirittura al suicidio. Ai giorni nostri vedovanza e vecchiaia sono associate ma in età moderna non era così. Le donne potevano divenire vedove in ogni momento della vita, ed era un evento che modificava in modo influente il loro status sociale. La morte del coniuge comportava spesso difficoltà di sostentamento per la donna che solitamente tornava a vivere con la famiglia d’origine. In molte regioni europee diventava capofamiglia facendosi carico dell’attività lavorativa del marito e della sopravvivenza dei figli, ma nella maggior parte dei casi significava un peggioramento della situazione economica. La rappresentazione della vedova in età moderna è sostanzialmente negativa: la brutta vecchiaccia oppure una donna dalla libido frenetica. Per alcune -poche- donne la vedovanza comportava opportunità finanziarie perché rientravano in possesso della propria dote che potevano decidere come investire, per far sposare le figlie o sostenere la carriera politica dei figli maschi. Le seconde nozze erano un’altra valida alternativa, anche se potevano comportare delle difficoltà e risultare inopportune, soprattutto per i figli del primo matrimonio che rischiavano di rimanere in difficoltà economiche. I maschi si risposavano più spesso delle femmine. Nel Seicento si stima che il 50% degli uomini si risposasse e solo il 20% delle donne. L’ultima fase della vita coincideva piuttosto con la menopausa che arrivava verso i quarant’anni. Quando tutti i figli lasciavano la casa le donne anziane cercavano di vivere il più a lungo possibile per proprio conto. Secondo i recenti studi, i figli tendevano ad assumere domestiche per occuparsi dei genitori anziani piuttosto che tenerli con sé nella loro casa, soluzione che veniva prevalentemente applicata in campagna e fra gli strati sociali più bassi. Inoltre, un gran numero di donne anziane si affidava all’assistenza sociale perché spesso i figli pur vivendo in zona non si occupavano del loro mantenimento. Quando i figli non accoglievano le madri anziane, queste spesso andavano a vivere con altre donne e usufruivano dell’assistenza pubblica. Era opinione comune che dopo la menopausa l’appetito sessuale si facesse più intenso e che spesso le donne mature per sedarlo ricorressero ad amplessi col diavolo. Erano considerate pericolose, capaci di far perdere il latte alle madri e far ammalare animali. Ciò di cui principalmente si lamentavano era però, piuttosto, i dolori e i malanni della vecchiaia. Ad esempio Alessandra Strozzi si considerava già vecchia a 42 anni lamentando i suoi dolori causati da frequenti gravidanze e malattie. Il ruolo economico delle donne. Qualsiasi sia il periodo che stiamo analizzando quando si parla di sfera produttiva bisogna sempre tenere in analisi anche ciò che riguarda la sfera riproduttiva, che tiene conto non solo della procreazione ma della cura di tutti i membri della famiglia. Questo è vero soprattutto quando si studia l’età premoderna, dove anche il lavoro produttivo avveniva fra le mura domestiche. Gli uomini e le donne svolgevano mansioni simili, ma il loro rapporto con il lavoro era molto diverso. Per gli uomini, il percorso professionale era influenzato dall’età e dal ceto per la maggior parte, mentre per le donne gli elementi più importanti riguardavano lo status sociale e dunque il matrimonio e la maternità. Le donne inoltre cambiavano lavoro più spesso degli uomini e ciò rendeva loro più difficile identificarsi con una professione. Raramente in età premoderna le donne ricevevano una formazione tecnica, nonostante fosse il periodo in cui i mestieri andavano sempre più professionalizzandosi. Se nel Medio Evo donne e uomini che curavano la gente venivano chiamati “medici”, dal Cinquecento il titolo veniva attribuito solo agli uomini che avevano studiato la materia all’università, anche se le donne continuavano a curare. Questo fenomeno ebbe come conseguenza che il medico laureato richiedesse compensi ben più alti e guadagnava in un anno 10 volte di più che una praticante. Anche la religione osteggiava l’identificazione delle donne con il lavoro. Per il protestantesimo infatti ogni uomo aveva una vocazione, ovvero, era chiamato da Dio a svolgere un’attività e per la sua fatica era benedetto, ma l’unica attività possibile per le donne era quella di mogli e madri. Le leggi secolari andavano nella stessa direzione: se una donna confezionava vestiti in casa la sua attività veniva catalogata come “conduzione domestica” ma se la stessa identica cosa la faceva un uomo si considerava una attività produttiva. Durante la prima età moderna il genere divenne anche cruciale nella qualificazione di certi lavori: le donne venivano considerate inadatte per alcuni mestieri come la lavorazione del vetro poiché dotate di scarsa minuzia e manualità, oppure, al contrario, gli uomini le sostituirono in attività che erano sempre state appannaggio femminile come confezionare calze a causa dell’introduzione dei telai per maglieria che venivano considerati troppo complessi da usare per le donne, estromesse dalla produzione. Esse erano costrette a confezionare le maglie a mano e venderle a prezzo ben più basso di quelle prodotte dagli uomini. Inoltre il lavoro femminile era sempre retribuito meno di quello maschile a causa dell’idea che tutte le donne fossero “sposate” o “sposabili”. Nel secondo caso dovendo provvedere solo a sé stesse venivano pagate meno, mentre nel primo caso si pensava che dovessero solo fornire ausilio al marito che portava in casa la maggior parte del denaro. Le vedove, le nubili o le sposate con mariti non in grado di lavorare non venivano prese in considerazione in questo ragionamento. Nella prima età moderna la maggior parte della gente continuava a vivere in campagna, e uomini e donne si dividevano le mansioni in base a diversi fattori: gli uomini si occupavano di mansioni in cui era richiesta più forza fisica, mentre le donne di quelle in cui non ci si allontanava troppo da casa, così che potessero badare ai figli. Inoltre le credenze religiose o popolari influenzavano la divisione dei compiti: in Norvegia ad esempio si credeva che i cereali dovessero essere seminati dalle donne per assicurare un raccolto più abbondante. Nelle campagne quando uno dei coniugi moriva le seconde nozze erano non solo più frequenti ma anche più veloci, in quanto era molto complesso sopravvivere da soli e non contrarre matrimonio significava doversi trasferire in città. Le contadine si occupavano della casa, del bestiame e della lavorazione dei suoi prodotti come i latticini, la birra, il pane. Nei periodi di raccolto lavoravano nei campi. Nello Yorkshire ad esempio durante il XVII secolo si stima che il lavoro femminile coprisse il 38% della raccolta intera. Nelle aree in cui i maschi adulti si assentavano per lavori stagionali, ad esempio in Norvegia quando partivano per la pesca, il lavoro dei campi era completamente affidato alle donne. Alcuni studi dimostrano che nel Settecento in Europa centrale si verificò una femminilizzazione dell’agricoltura: anche le mogli di artigiani presero a coltivare orti e piccoli appezzamenti per integrare la rendita insufficiente del marito. Nell’Europa premoderna molte famiglie producevano sia per il mercato interno che per l’esportazione e le donne si occupavano di produrre soprattutto vino, formaggio, sapone, che andavano poi a vendere al mercato spesso insieme alle noci e alle erbe raccolte. Frequentemente vendevano le loro stesse braccia, quando era l’unico mezzo per sopravvivere, si facevano assumere da proprietari terrieri ma ricevevano un salario inferiore a quello degli uomini. Nel sud della Germania nel 1550, i maschi avevano diritto a zuppa e vino a colazione, verdura birra e carne a pranzo e verdura e vino la sera, mentre alle donne veniva data zuppa e verdura al mattino, latte e pane a pranzo e niente la sera. Le paghe erano sotto il livello di sussistenza. La crisi inflazionistica del XVI secolo incise soprattutto sulle derrate alimentari, mentre a causa delle innovazioni tecnologiche si richiedeva meno mano d’opera, cosa che costrinse molti contadini senza terra a spostarsi di regione in regione per lavorare. Le grandi città in questo periodo presero spesso provvedimenti contro i vagabondi, espellendoli, e vietarono ai forestieri di entrare nelle mura a causa del cambiamento del pensiero religioso: chi chiedeva l’elemosina non era più un importante soggetto a cui fare la carità cristiana ma solo un pericoloso elemento di disturbo pubblico. Le donne che venivano da fuori vennero spesso ammassate insieme alle prostitute e alle poverette in appositi ricoveri dove avrebbero potuto imparare un mestiere, come l’Ospizio della Presentazione di Grenoble. Nei centri rurali inoltre vi erano molte donne assunte come domestiche: Anna Kussmaul stima che nelle fattorie inglesi la presenza femminile fosse superiore a quella maschile fra i domestici. La durata del rapporto di lavoro era sancita a voce e suggellata con una quota di denaro che veniva lasciata alla ragazza una volta che lasciava la casa o scadeva il termine del suo contratto (spesso un anno). Le giovani dovevano coltivare i campi, badare al bestiame e alla casa in cambio di vitto, alloggio ed un salario annuo. In alcune zone dell’Est Europa come la Moscovia, erano costrette a vendersi come schiave. Fin dal XIV secolo in molte zone d’Europa l’agricoltura si specializzò: molte zone vinicole al momento della vendemmia richiedevano una gran quantità di mano d’opera che spesso arrivava dalla città, così come la sericoltura, dove erano occupate le donne poiché i salari erano tanto bassi che gli uomini non li accettavano. Anche le più povere però non lo facevano a lungo a causa dei problemi alla vista che causava maneggiare un filo tanto sottile in poca luce. sostanzialmente si alternarono periodi di tolleranza e di repressione, ma le città italiane si mostrarono particolarmente aperte, convinte che i bordelli fossero fonte di grandi entrate municipali (Firenze e Venezia soprattutto). Nel 1559 ad esempio a Firenze le prostitute dovevano pagare una tassa proporzionale al loro guadagno che serviva a finanziare un istituto dove avrebbero potuto risiedere una volta ritirate dal lavoro. Nell’800 la prostituzione fu legalizzata nuovamente in quasi tutta europa: in Francia ad esempio si concesse alle prostitute di esercitare a patto che fossero schedate e si sottoponessero a periodici controlli sanitari. Un fenomeno tipico del Cinquecento fu quello della cortigianeria, dove donne colte e benestanti fornivano servizi amorosi ed erotici a uomini di prestigio riuscendo ad occupare ruoli importanti in società, ma anche nel corso degli altri secoli furono molte le donne che conquistarono il proprio prestigio grazie a relazioni con nobili, intellettuali o sovrani. Le prostitute erano ovviamente di più in tempi di guerra e carestia e spesso si associavano alla malavita. In periodi di grave crisi ad esempio alcune si facevano arrestare per spedire a casa il denaro guadagnato con il lavoro in carcere, altre invece si davano ai piccoli o grandi furti. Nel Cinquecento il principale strumento di organizzazione della produzione erano le corporazioni di mestiere che si occupavano della lavorazione e distribuzione di moltissime merci. In città come Parigi o Ruen esistevano corporazioni femminili ma, per la maggior parte, erano compagnie di soli uomini. Si entrava a farne parte in età puberale attraverso l’apprendistato che consentiva al lavorante di viaggiare e apprendere il mestiere dai maestri, raggiunta la maturità questi si sposavano ed aprivano bottega, continuando la loro attività per tutta la vita. I maestri artigiani venivano iscritti formalmente nei registri della corporazione e potevano entrare a far parte del consiglio che la dirigeva. Le donne potevano entrare a farne parte per vie traverse, ad esempio se erano mogli che proseguivano l’attività del marito alla sua morte o se erano figlie a cui era stato insegnato il lavoro. Talvolta alcune venivano assunte a cottimo ed accettate come apprendiste, nel corso del Medioevo. In età moderna le cose cambiarono, in primo luogo si pose un limite di tempo alla vedova che perseguiva l’attività del defunto marito, inoltre, si stabilì il divieto di affidare alle domestiche qualsiasi funzione riproduttiva ed infine fu anche posto limite alle figlie che potevano essere impiegate in bottega. L’esempio degli orologiai di Ginevra è estremo, poiché fu sancito il divieto di insegnare alle figlie e alla moglie la loro arte. Le donne non erano in grado di difendere il loro diritto al lavoro in quanto non erano ovviamente rappresentate nelle corporazioni, in quanto non potevano entrare negli organismi direttivi. Nonostante ciò vi erano donne che chiedevano di lavorare, come le tessitrici di Bologna che si rivolsero al potere pubblico in gruppo, dimostrando di essere in grado di organizzarsi. Il motivo della loro progressiva estromissione dalle corporazioni è stato cercato nella competitività fra attività rurale ed urbana, nella qualità dei prodotti, ma la realtà sta nel fatto che la principale motivazione fu l’onore. Jean Quataret afferma che quando si affermò il lavoro a domicilio che cominciò a minacciare il mercato delle corporazioni, queste svalutarono i prodotti dell’idustria. Inoltre, visto che il lavoro a domicilio era di pertinenza femminile ogni attività delle donne venne considerata domestica, e di conseguenza fu disonorevole assumerle nelle botteghe. Altra motivazione fu il cameratismo maschile. L’attività corporativa fu vista sempre come arte colta, e gli uomini che ne facevano parte partecipavano a riti e celebrazioni che rafforzassero il loro vincolo di solidarietà. Nel Quattrocento l’accesso all’arte venne limitato ai figli dei maestri o a chi sposava una figlia di maestro e le nuove associazioni aumentarono, operando spesso in segreto e sottoponendo gli adepti a riti di iniziazione. Erano gruppi di soli uomini ferreamente contrari al lavoro femminile, tanto da prendere d’assalto nel 1794 a Berlino un’industria tessile, sfasciando i telai e trascinando fuori le operaie. Vi è poi una motivazione di ordine sociale che allontanò le donne dalla casa, e fu la rispettabilità borghese. Nel 6-700 crebbe il numero dei professionisti, uomini con mogli totalmente estranee alla loro occupazione che si occupavano solo della casa. I maestri artigiani più facoltosi cominciarono a pensare che mogli e figlie non dovessero accedere alla bottega, ed al contempo, queste si dedicarono molto di più ad alcuni simboli di status che le allontanarono dall’attività produttiva, come cucinare cibi pregiati, dedicarsi all’arredamento raffinato e ad abiti più eleganti. Si continuava però a credere che fosse importante che i maestri si sposassero, in quanto essere marito garantiva più serietà in quanto membro della comunità. L’esclusione delle donne non era assoluta, ad esempio, Luigi XIV e Colbert istituirono un’associazione di sarte parigine sostenendo che quello fosse l’unico modo per guadagnarsi da vivere onestamente. Oppure, quando si diffuse la moda del mantua un abito composto di due pezzi, corsetto e gonna, essendo una novità le corporazioni non ne possedevano il monopolio, cosa che spinse le donne a confezionarne molti nonostante l’accanita resistenza dei sarti maschi. In Inghilterra essi lanciarono addirittura una campagna rivolta al parlamento che impedisse alle donne di confezionare il mantua, ma non ebbe successo. La grandi compagnie commerciali italiane che vengono considerate pioniere del mercantilismo mercantile, come quella dei Medici o dei Datini, erano imprese famigliari in cui spesso le donne investivano denaro ereditato o acquisito con il matrimonio. Le più intraprendenti erano sovente vedove che cercavano di accrescere l’ereditò per i figli. La presenza di donne in questo tipo di società mercantili non era così rara, in Germania nel Cinquecento ne comparivano 39 nella compagnia di Ravesburg. Alcune di queste investivano la propria dote o quote ricevute in eredità, mentre altre vendevano e compravano azioni, anche se non avevano la facoltà di occuparsi direttamente del commercio in terre lontane a causa degli impegni famigliari e del fatto che le donne che viaggiavano da sole erano considerate in cattiva luce. Alcune riuscirono ad accumulare vere e proprie fortune, come Elisabetta Baulacre che trasformò la merceria del marito in una grande azienda di tessuti e filati d’oro, oppure ancora Glickl bas Judah Leib che alla morte del marito eredità un’attività indebitata ma riuscì a trasformarla in un’impresa fiorente. Fu facilitata in questo dal fatto di essere ebrea, poiché recandosi personalmente alle fiere ed ai mercati poteva appoggiarsi ad una rete di amici ebrei pronti ad ospitarla, non potendo alloggiare nelle locande cristiane. Glickl ci ha lasciato un libro particolare in cui racconta della sua esperienza lavorativa. Dopo aver accumulato un ingente capitale essa si sposò a 54 anni e trasferì i suoi averi al nuovo marito, che li dilapidò in poco tempo. Ciò dimostra che una donna non poteva affidarsi solo alla sua determinazione ma doveva fare i conti con la competenza degli uomini di famiglia. Un’altra limitazione che le donne possedevano era la quantità di capitali che potevano investire, certo, c’era la propria dote ma in molti paesi fu ridotta progressivamente la loro libertà di investimento che rischiava di compromettere l’eredità dei figli, senza contare che, dal momento in cui era stato inserito ed esteso quasi universalmente il diritto di primogenitura le donne non avevano più diritto all’eredità della terra e dei beni immobili, ma solo di quelli mobili su cui detenevano margine di azione. In molti paesi anche la facoltà di far testamento era limitata da norme che tutelavano l’eredità dei figli, e molte donne sposate dovevano necessariamente avere l’autorizzazione del marito per fare testamento. Fu anche limitata in molte regioni la quantità di denaro o beni che le donne potevano donare alle istituzioni religiose, poiché queste erano molto più generose degli uomini nelle elargizioni. Lo sviluppo della produzione e del commercio comportò inoltre la diffusione di nuovi beni di consumo anche a buon mercato. In Inghilterra l’esempio più lampante è quello del te che entrò nella quotidianità di uomini e donne, che lo preparavano e lo consumavano tutti i giorni, acquistando la propria teiera. Anche le donne non benestanti spesso spendevano il loro denaro in beni di consumo frivoli, mentre le borghesi lo facevano in vestiti, cappelli pregiati, oggetti di arredamento. Questo atteggiamento fu molto criticato dai moralisti e alcune leggi vietarono i servitori di accessoriarsi con beni di lusso, ma fu tutto inutile perché il lusso veniva considerato una virtù piuttosto che un difetto. Le donne dunque non furono mai escluse completamente dalla dimensione produttiva, ed anzi giocarono un ruolo fondamentale. Secondo uno studio sul lavoro a Londra nel 700, il 72% delle donne era impiegata in un lavoro fuori casa. Le ragioni della crescita economica pazzesca dell’età moderna sono numerose e fra queste anche la rivoluzione industriosa, ovvero l’atteggiamento sempre più diffuso della popolazione ad aumentare il tempo dedicato al lavoro rispetto a quello libero. Istruzione e cultura. Una delle richieste più pressanti del XIX e XX secolo dai fautori dei diritti delle donne fu l’accesso all’istruzione. Questi sostenevano che attraverso l’educazione le donne potessero divenire cittadine consapevoli ed esercitare mestieri utili alla collettività. L’educazione delle donne era un tema dibattuto da secoli, ma dobbiamo sempre tenere a mente che per le donne la cultura, la scienza, la teologia, la storia erano funzionali al completamento della propria personalità o a diventare una cristiana migliore e non aveva nulla a che vedere con aspirazioni politico-professionali. Lo sosteneva Anna Maria Van Shurman la donna più colta d’Europa, che lo studio delle lette non avrebbe interferito nei pubblici affari. Molti sostenevano che l’educazione femminile non sarebbe mai stata adeguata a causa della mancanza di istituti e scuole specifiche, infatti, le donne educate lo erano da istruttori privati di cui dovevano accontentarsi. Le opportunità educative per gli uomini erano andate crescendo nel corso del Cinquecento, con la diffusione della stampa l’apprendistato poteva essere sostituito dallo studio di manuali, e dunque anche gli artigiani avevano compreso l’importanza di insegnare a leggere ai propri figli. Inoltre, per favorire la lettura della Bibbia i protestanti avevano promosso l’apertura di molte scuole, ma l’ipotesi che le donne condividessero l’educazione veniva ancora considerata insensata se non dannosa. La veemenza con cui si osteggiava l’istruzione femminile fa pensare che fosse diffusissima la convinzione che, se le donne si fossero appropriate del sapere lo avrebbero utilizzato per sovvertire l’ordine nel mondo e soprattutto, la loro posizione. La maggioranza delle donne europee dunque non aveva la possibilità di imparare a leggere e scrivere, e quando accadeva erano i genitori ad impartire qualche nozione, fungendo da primi insegnanti. Era un’abitudine che raccomandavano anche i riformatori protestanti. In molte città vi erano alcune donne che tenevano scuole improvvisate dove insegnavano ai bambini a leggere versetti della bibbia e recitarli, ma quando ottenevano discreti successi le autorità delle scuole pubbliche si rivolgevano spesso al potere lamentando che l’attività rubava loro scolari. Nelle regioni protestanti la lettura divenne parte integrante dell’educazione religiosa, tant’è che anche le autorità civile promossero l’apertura di scuole primarie per bambine. Nel Cinquecento ad esempio quaranta chiese protestanti tedesche si fecero promotrici di istituti femminili, e nel Seicento se ne contava un discreto numero nella Germania sud-occidentale, purtroppo andate tutte distrutte con la guerra dei 30 anni. I nuovi istituti comunque fornivano una misera preparazione culturale, concentrandosi sugli insegnamenti religiosi e sul leggere e scrivere. L’istruzione femminile riguardava l’educazione al catechismo, alla cura della casa, al silenzio e all’obbedienza, infatti le scuole impartivano spesso anche lezioni di cucito ed economia domestica. Nelle campagne il numero di maschi e femmine che andavano a scuola era molto più egualitario, ma nella sua totalità l’istruzione era molto più presente in città. Le materie erano però uguali e le femmine erano educate come i propri fratelli. Nel XVI secolo gli istituti femminili nelle regioni cattoliche non erano molti, ma in Italia e Spagna c’erano scuole di catechismo non ufficiali dove i bambini imparavano a leggere, peccato che l’attività fosse presente due ore la domenica e nei giorni di festa, quindi i risultati erano scarsissimi. Gli istituti aumentarono nelle regioni cattoliche nel Seicento, quando si diffusero ordini monastici come le Orsoline che aprirono nuovi pensionati: anche qui ovviamente si privilegiava l’insegnamento dei valori morali cattolici. La maggioranza delle fanciulle rimaneva esclusa da questi ridotti progetti educativi, come dimostra lo studio fatto per la fine del Settecento nel Sud della Francia, che vede presente un’istruzione minima per due terzi dei maschi ma solo di una femmina su 50. Inoltre, molte bambine imparavano a leggere ma non a scrivere, intanto perché scrivere richiedeva una spesa per il materiale da parte dei genitori, e poi anche perché leggere era un’attività che si conformava al modello femminile richiesto, attraverso cui le donne potevano conoscere esempi biblici o virtuosi di donne da cui trarre modelli, mentre con la scrittura e l’espressione di sé, potevano divenire pericolose. Nel Quattrocento la diffusione della stampa aveva molto ridotto il prezzo dei libri, ma fino al Settecento questi non rimasero accessibili al ceto medio. Dagli inventari e i testamenti, emerge che le donne fossero più interessate alla lettura devozionale rispetto a quella dottrinale. Nel corso del Settecento aumentò anche la letteratura profana che diede alle donne la possibilità di interessarsi a vari argomenti, dai consigli pratici di cucina e miscela delle erbe, a racconti di viaggi, romanzi cavallereschi, traduzioni di classici, senza contare alla metà del secolo la diffusione di giornali e riviste. Già nel Cinquecento però esistevano pubblicazioni pensate per il pubblico femminile, soprattutto a soggetto religioso e soprattutto scritti da autori protestanti per le proprie figlie, come denotano le frasi corte ed assertive e il tono meno lugubre del indebolendo l’etica militare e lavorativa. Queste nuove istituzioni contribuirono anche alla diffusione delle idee illuministe. Le dame di corte che usarono la loro influenza per favorire la carriera di artisti e scrittori furono molte ed il loro mecenatismo non fu una novità dell’età moderna. Molti mecenati erano esigenti, imponevano lo stile e lavori ben precisi per poi modificarli in corso d’opera, ma il mecenatismo, anche femminile, fu un fenomeno fondamentale per lo sviluppo della letteratura. Le regine e le dame di corte si circondavano di musicisti, compositori, artisti, e nel Seicento anche di scienziati e filosofi. Sofia Carlotta di Prussia fondò l’accademia delle scienze di Berlino e vi pose a dirigerla Gotfried Leibnz, mentre Anna Maria Luisa de’ Medici non potendo conservare il trono a causa del suo sesso, lo cedette ai Lorena a patto di una clausola che proibiva l’esportazione da Firenze del patrimonio artistico di proprietà dei Medici, che doveva rimanere a disposizione del pubblico. Vi erano differenze fra il mecenatismo maschile e femminile? È difficile dirlo in realtà ma sembra che le donne, non implicate direttamente nelle funzioni di governo, potessero fornire protezione anche ad artisti o esponenti considerati più controversi e malvisti. Donne e produzione artistica. Nel Medioevo la cultura era sostanziale appannaggio della Chiesa: i soggetti erano d’ispirazione religiosa, i testi letterari scritti da chierici ecc.. Con il Rinascimento si diffuse a macchia d’olio l’interesse per tematiche profane. Inoltre, prima dell’età moderna, scrittori, compositori, pittori venivano considerati alla stregua di artigiani e ricevevano compensi simili, è solo con il Rinascimento che cominciarono a firmare le loro opere grazie ad una grande rivalutazione del genio creativo. Questa tendenza andò aumentando anche grazie all’influenza di Giorgio Vasari e lentamente pittura, architettura e scultura vennero considerate arti maggiori, mentre le altre “minori”, e in parallelo, solo il poema e la poesia vennero definite “letteratura” a discapito degli altri generi. Nel corso della prima età moderna inoltre si diffusero diverse scuole ed accademie, anche finanziate da principi e sovrani, che comunque si circondavano si artisti, pittori, scultori, ma da cui le donne erano escluse per regolamento o consuetudine. Gli intellettuali europei si domandavano infatti se le donne possedessero il talento creativo e la razionalità necessaria per la speculazione filosofica e il lavoro artistico. La produzione artistica delle donne non veniva considerata frutto della loro creatività, ma più che altro della capacità di osservazione o di mettere in atto gli insegnamenti del loro maestro, sostanzialmente artigianato. Il pregiudizio inoltre che le arti si dividessero in “maggiori” e “minori” portò alla svalutazione di alcune forme espressive create dalle donne che non vennero mai considerate arte, come i ritratti su avorio di Rosalba Carriera oppure i collage di Mary Delany. Un esempio importante si svalutazione del valore di un’arte fu quello riguardante il cucito, di cui nel medioevo si occupavano sia uomini che donne riuniti in corporazioni, ma in età moderna venne identificato come una mansione femminile e dunque svalutato. Si pensava che fosse un’attività adatta alle giovani borghesi che stimolasse la cura del dettaglio e l’attaccamento alla famiglia. Ma in realtà le donne che cucivano si curavano della prospettiva, la proporzione, la gradazione dei colori e riprendevano temi antichi esattamente come i moderni pittori. Neanche le donne la consideravano arte e non firmavano il loro lavoro. La scelta dei soggetti dipendeva dal periodo e dallo status sociale dell’autrice: nel cinquecento, nelle regioni protestanti, venivano ritratte soprattutto coppie bibliche con versetti che dichiaravano la sottomissione femminile, nel Seicento invece si rappresentavano soggetti femminili coinvolti in eroiche imprese, che probabilmente rispecchiavano il dibattito vigente sui ruoli sessuali e sugli equilibri di potere fra i sessi, mentre nel Settecento si prediligevano scene ambientate fra le mura domestiche. Vi erano anche donne che non accettavano che la pittura fosse appannaggio degli uomini. Il percorso professionale delle pittrici presenta alcuni elementi ricorrenti: erano spesso figlie o mogli di pittori, come Caterina Van Hamessen, o al massimo di nobili. Solitamente erano le primogenite o non avevano fratelli, cosi che il padre si potesse concentrare sulla loro carriera. La loro produzione inoltre si riduceva dopo il matrimonio oppure cessava del tutto. Alle donne era proibito lo studio del nudo maschile, fondamentale per realizzare le figure delle grandi composizioni storiche che andavano per la maggiore all’epoca, così si limitavano a riprodurre ritratti o scene di nature morte, considerate dalle Accademie di valore nettamente inferiore. Inoltre, non avevano accesso all’affresco in quanto comportava il lavoro in un ambiente pubblico, che non era considerato adatto ad una donna. Il numero delle pittrici risulta in crescita nella prima età moderna, ma questo solo perché si registravano con maggior perizia i nomi dei vari autori, non perché il fenomeno sia in aumento. Un esempio è quello di Sofonisba Anguissola che fu pittrice alla corte di Filippo II di Spagna, col ruolo di ritrattista, oppure quello di Lavinia Fontana. Nel Seicento era più facile per le artiste trovare lavoro in Italia che in Francia, dove la maggior parte delle commissioni erano da parte del re, che si rivolgeva quasi esclusivamente ad artisti dell’Accademia Reale. Inoltre, le donne erano limitate anche nel viaggiare per incontrare committenti, visto che se viaggiavano da sole venivano tendenzialmente scambiate per donne di malaffare. Un’importante condizione per il loro successo era il favore del pubblico ed in questo erano le Olandesi ad essere avvantaggiate, perché il pubblico di quelle regioni tendeva ad apprezzare molto nature morte e quadri di fiori, come quelli di Clara Peeters e Rachel Ruysch. Nel settecento inoltre divennero molto popolari i ritratti a pastello, e furono questi che attribuirono grande fama a Rosalba Carriera che, dopo quelli di avorio diventò vera padrona della nuova tecnica. È dunque chiaro che il sesso femminile influenzasse le artiste nello stile e nei materiali usati, ma come influenzava invece il modo di presentare i soggetti? è difficile rispondere a questa domanda perché spesso la critica artistica del tempo utilizzava il termine “femminile” nel senso di fragile, decorativo, intimo, e meno pregiato. Le critiche d’arte femministe si sono poste la domanda analizzando soprattutto i lavori di Judith Leyster e Artemisia Gentileschi, probabilmente le due pittrici donne più rinomate dell’epoca. I lavori della Leyster sono esemplari per superare l’argomento che vede nei dipinti delle donne tratti marcatamente “femminili”, date le sue scene cupe e dai tratti maschili, tanto che i suoi lavori sono stati per anni scambiati per quelli di Franz Hals. “La proposta” è probabilmente quello più famoso, che vede una donna intenta a cucire ed un uomo che, toccandole il braccio, le allunga sul tavolo qualche moneta, è molto diverso dai quadri di donne frivole o prostitute che venivano realizzati in quel tempo. Artemisia Gentileschi è stata presa in considerazione anche in virtù dell’essere stata violentata da uno dei suoi maestri, motivo al quale si è attribuita la raffigurazione di donne robuste intente a compiere atti violenti contro gli uomini, come il famosissimo quadro di Giuditta che taglia la testa ad Oloferne. Inoltre nelle sue opere si riscontra un’energia Caravaggesca molto interessante. In una lettera indirizzata ai suoi committenti, Artemisia dimostra di essere a conoscenza dei limiti imposti ad una pittrice, ma dichiara semplicemente di aver scelto di ignorarli. Vi sono molte analogie fra le carriere delle pittrici e quelle delle compositrici o musiciste. Alla maggior parte delle fanciulle di famiglie medio-alto borghesi veniva insegnato lo studio della musica ma non era affatto consentito esibirsi in pubblico, al massimo per la famiglia o per la cerchia semipubblica che la famiglia frequentava. Anche in questo caso risulta che abbandonassero la musica dopo il matrimonio. È ben difficile stabilire quale fosse il ruolo femminile nella creazione di ballate o canzoni popolari perché la musica del volgo non fu mai scritta, molti elementi però fanno pensare che le donne fossero autrici di questa dato che si tratta di canzoni che accompagnavano i tradizionali lavori femminili come il filare o la cura dei figli. Anche il tema di molte di queste sembra indicare autori femminili: la rappresentazione più nel carattere che nell’aspetto delle donne, la reciprocità piuttosto che il dominio nei rapporti, l’esposizione delle gioie e dei dolori della maternità. In età Rinascimentale si sviluppò un tipo di musica molto più elaborato appannaggio sostanzialmente maschile. In Seguito nelle corti del Nord-Italia le damigelle vennero talvolta accolte a palazzo per le loro capacità vocali, come ad esempio nel 1580 quando il Duca di Ferrara creò un gruppo femminile di cantanti, il concerto di donna, poi imitato da altri principi italiani. Molte musiciste erano figlie d’arte, come ad esempio Francesca Caccini la più famosa compositrice del XVII secolo, pagata alla corte de Medici e Barbara Strozzi che tenne un salotto musicale a Venezia. La loro produzione toccava un numero di generi limitato, Strozzi ad esempio formulava soprattutto piccole composizioni musicali ad uso privato sul tema dell’amore non corrisposto. Fu accusata di cortigianeria ma era un’insinuazione che colpiva molte musiciste. Nel Settecento la musica femminile cominciò ad essere pubblicata e nei primi anni dell’Ottocento il range di temi possibili si allargò. Anche i monasteri offrivano la possibilità alle donne di comporre e fare musica, sia religiosa che profana. Gli Ospedali grandi non erano propriamente conventi ma qui le ragazze facevano voto di cantare per 10 anni dopo aver terminato gli studi e quindi li lasciavano sovente non prima dei trent’anni. Dopo il Concilio di Trento però, nel 1563, la Chiesa proibì agli Ospedali veneziani e ai monasteri femminili di tenere concerti e di suonare qualsiasi strumento che non fosse l’organo, inoltre, nel 1686, Innocenzo XI estese il divieto a tutte le donne di ricevere un’educazione musicale, pensando che fosse inadatta allo sviluppo della modestia, anche se non fu certo applicata ovunque. Molte cantanti raggiunsero la celebrità poiché erano attrici d’opera o teatrali. Dalla metà del Seicento cominciarono ad assegnare i ruoli femminili alle donne invece che ai castrati, tranne che nel dramma religioso ed in Inghilterra, fino al 1660 (the stage beauty). Alcune donne si posero a capo della loro compagnia di attori girovaghi, come ad esempio Madeleine Bejart o la tedesca Caroline Neuber. La maggior parte delle ballerine e delle cantanti d’opera venivano considerate donne disoneste ma riuscivano a sostentarsi attraverso le relazioni con uomini ricchi. Per quel che riguarda le scrittrici dobbiamo sempre tenere a mente che il genere epistolare che noi consideriamo privato, in età moderna non lo era affatto. Le informazioni potevano essere tranquillamente politiche e fatte appositamente circolare, cosa che spiega perché gran parte della corrispondenza che possediamo -d’èlite ovviamente- sia curata nello stile e nella forma. Le donne inoltre che non potevano prendere parola pubblicamente utilizzavano la lettera per esprimere le loro capacità di scrittura e sviluppare uno stile letterario, basti pensare alle numerosissime lettere di Madame de Sevigne considerate fondamentali precorritrici per il genere del romanzo. Infatti i primi romanzi ebbero forma epistolare e si diffusero nel settecento anche grazie al contributo di molte donne. Solitamente l’intervento delle donne riguardo questioni di interesse pubblico era associato con il disonore, la donna dalla lingua lunga era considerata libertina, per questo nelle prefazioni alle loro opere o nelle loro lettere moltissime autrici tendevano a specificare che la loro volontà non fosse quella di pubblicare l’opera, ma che ciò era causato da una forza maggiore: il sostegno di Dio, il senso del dovere e via dicendo. Kathirne Philips ad esempio scrisse “mai nella vita scrissi un rigo con l’intenzione che fosse dato alle stampe”. Ma questo continuo discolparsi era un modo per sottrarsi al biasimo o piuttosto per spianare la via alla pubblicazione? Molte inoltre si scusavano per la loro incompetenza nello scrivere, biasimando di essere nate donne e di non poter raggiungere i livelli dell’opposto sesso. Nel Settecento le giustificazioni si fecero più rare, ma non scomparvero. Vi erano altri modi per dare alle stampe i propri lavori, come pubblicarli anonimamente, pur senza nascondere la propria identità. Molte autrici ad esempio di occuparono di illustri traduzioni, modificando però il contenuto dell’opera inserendovi le proprie considerazioni personali, come Mary Sidney che pubblicò solo traduzioni ma le modificò a tal punto che vengono considerate autografe. Dobbiamo sempre tenere a mente che i libri scritti da donne costituiscono una porzione minima del materiale edito, circa l’1-2% in Inghilterra fra il 1640-1700. Ad impedire la pubblicazione erano anche ragioni economiche, non tutte avevano i soldi necessari a procedere ed erano costrette a trovare un finanziatore o accordarsi con lo stampatore, che vendesse abbastanza copie per ripagare l’investimento. Non è un caso che la maggior parte delle opere pubblicate siano di donne aristocratiche. L’argomento principale era il tema religioso. La Riforma aveva sostenuto la pubblicazione di opere polemiche, ma molte prediligevano forme adatte alle donne come la preghiera, la meditazione, componimenti poetici, tutti scritti solitamente caratterizzati da una visione tradizionale del femminile che non mettevano in discussione le autorità religiose. Talvolta erano anche insoliti, come quello di Anna von Medum del 1646 che incitava gli ebrei a convertirsi al cristianesimo. La poesia era poi il genere prediletto per i soggetti profani, anche se le poetesse si cimentavano in ambo i generi. Quasi tutte inoltre, anche se non affrontavano argomenti religiosi, infilavano ovunque precetti morali ed allusioni all’amore divino. Nacquero addirittura alcune Accademie letterarie femminili, come l’Academie des Loyales, circoli che incoraggiavano gli scambi epistolari, lo studio, la scrittura, ma che oppositori del protestantesimo. In Russia, dov’era praticata la religione ortodossa, esistevano pochissimi conventi di clausura spesso mete di pellegrinaggi. Erano composti principalmente da vedove che per conservare il proprio patrimonio avevano scelto di prendere i voti, e le supeiore delle abbazie elette dalle suore erano assai potenti. Infatti, continuarono a funzionare per tutto il Settecento come nei secoli precedenti. Nel Basso Medioevo esistevano anche donne che vivevano in comunità meno organizzate dei monasteri, in confraternite semi-religiose dove si mantenevano con lavori come la tessitura e non prendevano i voti. È il caso delle beghine che vennero presto considerate sospette dalle istituzioni perché non sottomesse all’autorità maschile né a quella dei voti solenni. La campagna per impedire alle donne di scegliere forme di vita associativa fu accanita, ma frequentemente queste continuarono ad associarsi vivendo sotto forme coabitative. Durante l’alto Medioevo la santità era riservata alle vergini, ma col passare del tempo comparvero anche sante sposate e madri, alcune che convincevano i mariti a vivere in castità, altre che li abbandonavano. Il cristianesimo del basso medioevo forniva inoltre ai credenti un sacco di modi per avvicinarsi al Regio dei cieli, come il pellegrinaggio, le offerte, i ceri ecc.. Il culto di maria era diffusissimo e la sua rappresentazione diffusa spesso faceva sì che il popolo pensasse che fosse una figura della trinità, mentre i santi finivano per avere le stesse funzioni degli dei minori per i pagani greci e romani. In questo contesto le storie di donne pie si diffusero moltissimo e fra queste spiccava Anna, la madre di maria che divenne sempre più importante nella pietà popolare. Vi erano molte differenze tra la vita religiosa maschile e quella femminile, a partire dal fatto che nessuna laica avrebbe mai potuto intervenire su questioni specifiche della Chiesa istituzionale, mentre invece vi erano già nel Cinquecento in molti paesi, consigli comunali e funzionari laici che esercitavano un peso notevole su di essa. Le donne preferivano occuparsi di beneficienza, fornendo cibo ai mendicanti o assistendo i malati, inoltre, a loro erano affidati una serie di atti religiosi esclusivamente femminili, come la benedizione delle puerpere dopo il parto. Gli esponenti della riforma protestante concordavano sull’inutilità di fatto delle opere religiose: la salvezza dipendeva unicamente da Dio che predestinava gli umani ancor prima della nascita. I protestanti reinterpretarono fortemente i personaggi femminili della religione: Maria smise di essere una figura capace di intercedere con Gesù per la salvezza dell’uomo e diventò simbolo della pia sottomissione al volere di Dio, la sua obbedienza veniva ripresa nei manuali per le famiglie come esempio per le mogli devote ai propri mariti. Come sappiamo le donne non potevano pronunciare sermoni o dare alle stampe opere religiose a causa dell’affermazione paolina -le donne devono tacere in chiesa- secondo cui non potevano né insegnare né predicare. Alcune però lo fecero ugualmente, come Argula von Grubach che pubblicò otto scritti fra il 1523 e il 24 uno dei quali in difesa di un accusato di tendenze luterane, sostenendo che l’ingiunzione di Paolo andava ignorata. Come lei, anche Marie Dantière, ex badessa che aveva lasciato il monastero per appoggiare i protestanti di Ginevra, l’affermava, come si può vedere da una lettera indirizzata a Margherita di Navarra. Le due donne furono ridotte al silenzio, Argula fu costretta dal marito a smettere di scrivere mentre gli opuscoli di Marie furono requisiti dalle stesse autorità religiose che lei difendeva. Quando le chiese riformate si assestarono, infatti, cessò quasi del tutto la produzione femminile di polemiche. Le iniziative delle donne non erano ben viste dalle autorità religiose protestanti, molte città proibirono addirittura che si riunissero per discutere di questioni di fede, come afferma il provvedimento inglese del 1543 che vieta alle donne non nobili o della gentry di leggere la Bibbia. Seppur i predicatori infatti non facessero distinzioni di classe quando parlavano alle donne, in realtà avevano ben chiara l’influenza delle aristocratiche e facevano di tutto per portarle dalla propria parte. Sforzi ricompensati dalle azioni di donne come Margherita di Navarra che protesse alcuni calvinisti alla corte di Francia, oppure dalla restaurazione progressiva della fede protestante attuata da Elisabetta I dopo il regno di Maria Tudor. Le donne preferivano praticare la carità in situazioni private ma esistevano signore protestanti che sovvenzionavano ospizi, come ad Amsterdam dove le donne che si prendevano cura delle vedova assumevano il nome di diaconessa -anche se ovviamente non ricoprivano il ruolo istituzionale maschile omonimo-. Tutte la attività religiose delle donne erano apprezzate dal protestanti solo a patto che i coniugi fossero della stessa confessione. In caso contrario si esortava la moglie ad obbedire al consorte. I puritani sollecitavano le mogli ad agire come missionarie domestiche, impegnandosi nella conversione dei figli e della servitù. Se in un primo momento i matrimoni misti erano sostanzialmente accettati, già nel Seicento la tolleranza si era fatta molto minore, infatti i matrimoni misti erano proibiti quasi ovunque. Nel 1697 ad esempio gli Statuti di Kilkenny prevedevano che tutte le protestanti che prendevano un marito cattolico avrebbero perso il loro patrimonio in favore del parente maschio protestante più vicino, a meno che il marito non avesse sottoscritto il giuramento di successione ai reali Inglesi che governavano l’Irlanda. Inizialmente anche le mogli dei pastori vissero una brutta situazione perché venivano considerate alla stregua delle concubine dei preti. Per farsi accettare con più facilità, decisero di incarnare il modello di obbedienza coniugale e carità cristiana. Inoltre, solitamente le concubine appartenevano ad una classe sociale inferiore a quella degli ecclesiastici, mentre in questo caso essi non avevano tanti problemi a trovare spose dello stesso rango sociale. Le donne che si trovavano in una situazione ancor più delicata furono le mogli dei vescovi inglesi, che nel periodo di regno di Maria Tudor vennero spesso cacciate in esilio o ripudiate dai mariti, e con il ristabilimento della chiesa anglicana con Elisabetta I non fu comunque approvata ufficialmente l’unione coniugale! La vocazione di alcune donne a volte non poteva essere limitata al ruolo di moglie e madre, poiché esse sentivano la necessità di darsi alla predicazione. È il caso di Anne Askew, che nel 1546 fu catturata e condannata a morte, uno dei pochi esempi di martiri facenti parte della borghesia. Molte delle donne giustiziate per motivi religiosi facevano parte del movimento anabattista, un gruppo di cristiani radicali che attribuiva valore alla rivelazione e all’esperienza spirituale. Per alcuni di loro era lecito abbandonare il coniuge miscredente ma se lo faceva una donna doveva immediatamente risposarsi. Nel 1534 conquistarono la città di Munster e tentarono di instaurare una comunità ideale dove vigeva la poligamia. Nei verbali dei loro interrogatori carpiamo informazioni sulla cultura religiosa e sul fatto che molte di queste donne erano in grado di discutere complicati concetti teologici pur essendo sostanzialmente analfabete. Gli interrogatori e le punizioni delle anabattiste possono essere paragonati con quelle per le accuse di stregoneria: le donne venivano denudate e sottoposte a tortura dove si richiedeva di fare il nome dei loro complici. Dobbiamo ricordare che la Riforma disapprovava molti degli elementi rituali del cattolicesimo che fornivano alle donne un ruolo importante, come i rituali dei battesimi, matrimoni, funerali, per cui furono emanate leggi suntuarie per ridurne la solennità. Furono inoltre vietate le confraternite laiche che fornivano sostegno spirituale e materiale alle donne che ne facevano parte. L’abolizione del celibato ecclesiastico colpì soprattutto le suore di clausura oltre che quelle che appartenevano ad associazioni semireligiose, perché uno dei primi provvedimenti protestanti fu la chiusura dei conventi. In Inghilterra e Irlanda gli istituti ecclesiastici passarono sotto il controllo della Corona, che attribuì alle donne che li abitavano miseri sussidi pe trovarsi un marito e tornare a vivere in famiglia. Alcune famiglie aristocratiche pur abbracciando la nuova confessione non se la sentirono di smettere di patrocinare i monasteri, come i regnanti svedesi che ritennero inopportuno negli anni venti del 500 chiudere il convento di Vadstena. La loro tolleranza si attenuò alla fine del secolo quando le monache furono cacciate. La rinnovata spiritualità di questi conventi ne fece gli obbiettori più accaniti della riforma. La determinazione delle suore non aveva solo motivazioni religiose, ma anche economico-sociali, infatti nella riforma protestante non avrebbero ricoperto alcun incarico e il passaggio a mogli dei pastori rappresentava di fatto una degradazione dello status. Alcuni conventi riuscirono a rimanere in vita accettando tutto della riforma tranne che il rifiuto della vita monastica, come ad esempio fece la superiora Anna Stolberg, dell’abbazia di Quedlinburg. Essa impose a tutti i religiosi di prestare giuramento alla confessio augustana di Lutero e trasformò la sua casa in una scuola elementare mista: per anni ricevette i sussidi dell’imperatore e del papa, che non poteva negare supporto a quello che, nei fatti, era ancora un convento. La risposta cattolica alla riforma si articola in due aspetti diversi: la Controriforma, ovvero un’attiva crociata che intendeva restaurare il cattolicesimo nei territori perduti, e la Riforma cattolica che intendeva correggere gli eccessi e i problemi che affliggevano la comunità cristiana. La Controriforma ebbe una connotazione puramente maschile e questa caratteristica fu uno degli aspetti urgenti della riforma ecclesiastica: l’imposizione della clausura alle religiose. Questa era stata adottata nel Trecento per combattere le beghine e nel Quattrocento per imporre maggior disciplina, ma in questo periodo il problema si fece più pressante perché molte religiose si sentirono chiamate a combattere contro la Riforma protestante. A Brescia, Angela Merici fondò la Compagna di Sant’Orsola, composta da vergini e vedove, che si occupava di assistere poveri, malati, orfani e vittime di guerra e si manteneva attraverso lavori di tessitura. Nel 1535 ottenne il riconoscimento del pontefice. Anche le laiche fondarono analoghe congregazioni, come la spagnola Isabel Roser nel 1541, che tentò di ottenere il riconoscimento di un ordine di religiose sotto il modello della Compagnia di Gesù. Il Concilio di Trento che si riunì fra il 1545 e il 1563 riaffermò la vita monastica per tutte le suore, anche se le sue applicazioni non furono immediate. Da un lato le donne le osteggiavano e cercavano di sfuggire al divieto: le seguaci di Isabel Roser erano ancora attive nel 1630, dimostrato da una bolla di Urbano VIII che dichiara la soppressione dell’ordine. Dall’altro gli stessi uomini di Chiesa erano convinti del valore dell’attività svolte da queste congregazioni, come ad esempio l’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo che introdusse la Compagnia di Sant’Orsola nella propria diocesi prescrivendole la vita comunitaria e non la clausura. Le orsoline si diffusero in tutta Italia raccogliendo il favore delle famiglie aristocratiche poiché si dedicavano all’educazione delle bambine. Comunque, in Francia e Italia furono gradualmente imposte la vita claustrale, il voto perpetuo, l’obbedienza al vescovo, limitando fortemente la libertà di spostamento delle religiose nonché la loro capacità di comunicazione. Un’eccezione era costituita dall’Inghilterra protestante dove alcune donne furono autorizzate a recarvisi per svolgere l’apostolato, come Luisa de Carvajal y Mendoza che andò a Londra ad incitare pubblicamente la conversione al cattolicesimo. Paolo V, papa nel 1605, dimostrò una certa apertura nei confronti delle iniziative delle donne, approvando infatti provvisoriamente, l’istituto della Beata Vergine di Marty Ward. Anche la Ward organizzò la sua compagnia su modello gesuitico, dedicandosi al soccorso ai poveri e agli infermi, ma i suoi successi infastidirono le autorità ecclesiastiche che spinsero per interrompere la sua attività missionaria. La Ward a questo punto intraprese una nuova strada, le sue affiliate aprirono scuole in molte città d’Europa, gratuite, per alfabetizzare giovani di ambi i sessi, viaggiavano e si mantenevano in contatto con le autorità civili. La Ward era consapevole dell’inusualità del proprio progetto. Tanta popolarità infatti risultò inaccettabile alle autorità ecclesiastiche, che promulgarono una bolla contro le sue scuole ed arrivarono ad imprigionarla a Monaco. L’esclusione delle donne dalla lotta alla Riforma risulta anche dal numero basso delle santificate in quel periodo. Alcune donne raggiunsero la santità attraverso il misticismo, come Teresa d’Avila. Questa prese i voti a vent’anni e ne trascorse altri 25 in convento dove sperimentò un intenso tormento interiore che la fece giungere alla percezione della presenza di Dio mediante l’esperienza mistica. Fu spinta a scrivere della sua esperienza dai suoi confessori e, dopo un primo momento di riluttanza, sviluppò una passione per la scrittura, pubblicando i suoi lavori. Presentava figure femminili stereotipate mettendo in luce l’inferiorità della donna, ma al contempo decise di intraprendere un ruolo attivo nella società lamentandosi delle restrizioni imposte al suo sesso. Divenne, a 52 anni, la creatrice della riforma del Carmelo, attraversando tutta la spagna e fondando nuove case, scrivendo meditazioni ed istruzioni per gli amministratori dei conventi. Ovviamente furono in molti ad indispettirsi, ma riscosse anche nelle autorità ecclesiastiche più simpatie che dissensi, poiché al contrario della Ward non pretendeva che le donne potessero ricoprire cariche istituzionali fuori dai conventi. Al processo di canonizzazione essa fu presentata come modello tradizionale di donna mistica e riformatrice che assunse ruolo pubblico solo sotto indicazione dei suoi confessori. Comunque, l’isolamento forzato dei monasteri, dovuto anche all’inasprimento della sorveglianza sull’istituto della confessione, che preoccupava i riformisti a causa della possibilità che l’intimità spirituale si trasformasse in intimità sessuale, portò alla diminuzione progressiva delle donazioni e di conseguenza, al indossavano gli abiti tradizionali -non come gli uomini che vestivano da cristiani- e nascondevano gli amuleti scritti in arabo. È chiaro comunque che, nella prima età moderna, le tre religioni monoteiste accentuarono il carattere domestico della religiosità femminile. Stregoneria. Nel XVI e XVII secolo, si sa, gli europei davano la caccia alle streghe. Gli studiosi più in voga all’epoca sostenevano che il fiorire della stregoneria fosse sintomo della vicinanza dell’Apocalisse: il diavolo si agitava perché sapeva che la fine era vicina. Nel XVIII secolo queste spiegazione venne ribaltata e gli Illuministi sostennero che le vere forze oscure fossero proprio quelle istituzioni retrograde che avevano perseguitato le streghe: la caccia alle streghe divenne l’esempio più estremo dell’irrazionalità della religione, soprattutto cattolica, e della sua inquisizione. In realtà, gli studi recenti, scavando fra le carte dei processi e degli scritti di chi era coinvolto nella persecuzione, sono giunti alla conclusione che la maggior parte delle nozioni che si davano per scontate sulla stregoneria fossero false. Innanzitutto il periodo di maggior diffusione della persecuzione non fu il Medioevo, ma la piena età moderna (XVI-XVII secolo), i protestanti furono più attivi dei cattolici, e l’Inquisizione in realtà si dimostrò indulgente nei confronti delle accuse per stregoneria, determinando pochissime esecuzioni. La causa delle persecuzioni fu più di tutti la volontà dei governanti impegnati nella creazione dello stato nazione che spesso fomentavano la caccia alle streghe ed agli eretici (Giacomo I d’Inghilterra scrisse addirittura un trattato di demonologia). La stregoneria infine veniva considerata da tutti, intellettuali e popolani, come una parte del mondo e non una credenza isolata: era un aspetto centrale dell’epoca. Un fatto è che l’80% degli accusati per stregoneria fosse di sesso femminile. Durante il basso medioevo, filosofi e teologi definirono un nuovo assetto concettuale per caratterizzare la strega. Fino a quel momento la strega era colei che usava forze magiche per compiere atti malvagi (maleficia), ma da questo momento le si attribuì anche un bagaglio demonologico. I pensatori cristiani infatti si concentrarono sui rapporti delle streghe con il diavolo e sostennero che alla base della stregoneria vi fosse proprio il patto col diavolo. Le streghe erano dunque persone di cui il diavolo si serviva per realizzare i suoi scopi. Progressivamente l’idea satanica venne affinata: le streghe avevano rapporti sessuali col diavolo, si radunavano di notte nei sabba, parodie della messa, rubavano ostie e rapivano neonati, ed erano impegnate in una cospirazione di carattere internazionale contro il cristianesimo. La stregoneria assunse una dimensione spirituale e le streghe divennero come gli eretici nemici di Dio. Più recentemente gli storici si sono focalizzati sulle connessioni fra stregoneria e le altre idee che emersero in quel periodo, analizzando la demonologia come sistema intellettuale. Anche se i processi erano segreti, le esecuzioni avvenivano in pubblica piazza, come spettacoli a cui partecipavano folle importanti. La concezione popolare plasmava la demonologia: accuse a streghe che si intrufolavano in cantina e rubavano cibo e vino apparivano prima nelle denunce locali e poi nei trattati. I processi si attenuarono nel primo decennio dopo la Riforma protestante, ma ripresero con ancora più forza verso il 1560, quando cattolici e protestanti smisero di combattersi. Molti storici hanno sottolineato l’importanza di fattori economici e sociali. Le grandi cacce alle streghe avvennero infatti quando i regnanti dell’Europa occidentale erano intenti a consolidare il loro potere creando gli Stati-nazione. Con la Riforma, il cristianesimo si trasformò in una ideologia politica e i sovrani si sentirono in dovere di dimostrare la loro fede attraverso guerre di religione contro gli eretici nei loro territori. I processi di massa furono favoriti da alcune novità in campo giuridico-legale, come il passaggio dal sistema accusatorio a quello inquisitorio: nel primo caso la sospettata conosceva i delatori e le prove contro di lei, e veniva spesso rilasciata se non si riusciva a dimostrare la veridicità di queste prove, nel secondo invece era l’autorità giudiziaria ad avviare il procedimento e cercare le prove della colpevolezza attraverso la confessione. Questo secondo metodo incoraggiò l’utilizzo della tortura e di interrogatori infiniti, sviluppandosi soprattutto dove si era diffuso il diritto romano, che però prevedeva che l’accusato confessasse prima della condanna a morte. La tortura aveva inoltre la funzione di scoprire i complici della strega che si riteneva incapace di agire da sola. Le tre inquisizioni più famose, quella Spagnola, Portoghese ed Italiana, si dimostrarono però indulgenti nei confronti delle denunce per stregoneria: gli spagnoli condannarono a morte poche donne, i portoghesi solo una e i romani nessuna. Inoltre, visto che la maggioranza degli accusati apparteneva al ceto meno abbiente, era probabile che i fattori economici fossero importanti nell’accusa stessa. Un altro campo in cui gli studi hanno scavato è quello della medicina, poiché spesso venivano accusate di preparare pozioni magiche e unguenti.. sono stati studiati gli effetti di alcune erbe allucinogene come la belladonna che potevano indurre la fantasia di poter volare, ma questo poteva succedere anche mangiando cereali avariati. Insomma, nessuno di questi fattori e sufficiente a spiegare complessivamente la caccia alle streghe, ma tutti insieme offrono quantomeno un quadro complessivo del contesto in cui queste si svolse. Nell’Europa centro-occidentale sia gli studiosi che i popolani concordavano sul fatto che la maggior parte delle streghe fossero donne: esse avevano minore forza fisica e minori strumenti per incidere sulla realtà - economica e sociale- degli uomini ed erano perciò più inclini ad utilizzare il maleficio. Erano soprattutto nubili o vedove, dunque quelle non sottoposte alla tutela e sorveglianza maschile. Inoltre, la magia e il maleficio erano le uniche spiegazioni ad alcuni eventi che si verificavano in aree di competenza esclusivamente femminile: animali che morivano accuditi dalle donne, come i malati, o cibi che si deterioravano. Quando una donna si risposava, sovente era con un vedovo con prole e veniva sospettata di preferire i propri figli a quelli del nuovo marito, così, l’immagine della matrigna cattiva divenne ricorrente nella letteratura popolare. Infine la vecchiaia coronava lo stereotipo popolare della strega, spesso associata anche ad un animale -un cane soprattutto-. Questi stereotipi in realtà spesso proteggevano le donne in questione, poiché i vicini potevano procurarle cibo, vestiti o legna in cambio dei suoi presunti favori magici. Molte donne confessavano di essere streghe ancor prima che venisse minacciata la tortura, perché per anni avevano davvero praticato la magia ed erano convinte di possedere alcuni poteri. Per l’elite intellettuale il rapporto fra donne e stregoneria risaliva ad Aristotele, che considerava le donne come uomini difettosi e più soggette alle tentazioni del maligno. La stessa diffidenza era stata espressa anche da autori cristiani come Girolamo, Agostino e Tertulliano che vedevano le donne come ammalianti seduttrici prive di razionalità. Altro elemento fondamentale era la diffusa dicotomia ordine/disordine, mente/corpo, ragione/emozione, soggiacente al pensiero greco e cristiano, che associava la polarità positiva al maschile e quella negativa al femminile. Le streghe tendevano a sovvertire l’ordine. Il Malleus Maleficarum del 1486 è attribuito a due domenicani: Kramer e Sprenger -anche se sembra che il nome del secondo sia stato aggiunto solo per la sua influenza- e rappresenta l’apogeo di queste ideologie. Kramer sovrintese al processo e all’esecuzione di moltissimi gruppi di donne accusati di stregoneria in Germania , ma venne allontanato dalle autorità locali. Quello che Appare nuovo nell’opera è l’ossessione degli autori per i rapporti sessuali delle donne con il diavolo. Il piacere sfrenato delle donne le spingeva ad accoppiarsi con il demonio. La preoccupazione riguardava in realtà soprattutto gli uomini e gli effetti negativi che l’attività sessuale troppo intensa poteva avere. All’epoca si credeva infatti che sperma, materia cerebrale e midollo osseo fossero la stessa cosa e che, durante il sesso, la materia cerebrale scendesse lungo la spina dorsale verso il pene. Erano particolarmente pericolosi i rapporti con i succubi, demoni che assumevano forma umana e che cercavano di estrarre dall’uomo maggior quantità possibile di seme per poi accoppiarsi a loro volta con le donne ed utilizzarlo per ingravidarle. Il sesso col diavolo infatti non era piacevole poiché il suo pene era troppo duro e freddo, le streghe infatti si accoppiavano anche con i demoni e tra di loro. Questi rapporti lasciavano un segno sul corpo femminile, che poteva essere un terzo capezzolo o un punto insensibile al dolore. Le domande di prammatica poste alle streghe investirono un’area molto vasta e risposte simili portarono a credere plausibile l’ipotesi della cospirazione internazionale. La strega si contrapponeva non solo all’idea di donne virtuosa ma anche a quella di buona madre: se non era la matrigna cattiva allora spesso si impegnava per far del male ai bambini o ai neonati, interrompendo il flusso mestruale della madre o la produzione di latte, avvelenando il cibo dei piccoli. Inoltre rappresentava le caratteristiche negative della donna: testardaggine, libidine invece che castità, disobbedienza, polemica. La caccia alle streghe non fu solo diretta alle donne ma ad un tipo specifico di donne. Abbiamo centinaia di registrazioni di processi in base alle quali la storiografia contemporanea è riuscita a distinguere sostanzialmente fra due tipi di persecuzione: quella isolata o individuale, che iniziava a solitamente a causa di una denuncia per maleficia verso persone che corrispondevano allo stereotipo, e quelle per manifestazioni di isterismo collettivo. Le protagoniste della prima erano donne di oltre cinquant’anni, povere, spesso anche accusate per altri crimini. Ad esempio in Danimarca ad Elsinore, Doritte Nippers fu ritenuta colpevole di stregoneria anche se non confessò mai: era a capo di un’associazione di donne commercianti che si rifiutarono di sottostare all’ingiunzione del consiglio comunale di interrompere la loro attività (1571). Molte delle accuse erano legate a contrasti famigliari, problemi di proprietà o eredità, magari con i figliastri, oppure, si legavano a contesti femminili di conflitti fra donne che vivevano sotto lo stesso tetto, come serve e padrone, oppure vicine di casa. Spesso la paura o la volontà di approfittare della magia tenevano a bada i vicini per molto tempo. Quando la sospettata veniva presa e interrogata, la procedura era molto diversa da paese a paese. In Spagna, Portogallo e Italia i processi finivano spesso nelle mani dell’Inquisizione, che distingueva fra azioni di tipo magico e quelle in cui si sospettava l’intervento di forze demoniache: frequentemente se non si provava che l’accusata avesse adorato il diavolo o fatto ricorso ad oggetti sacri il caso veniva archiviato. Se invece veniva provata la colpevolezza, si preferiva alla pena di morte la pubblica umiliazione, come la fustigazione o la gogna. In Friuli ad esempio fra 1596 e 1670 furono accusate di stregoneria 131 persone ma nessuna condannata a morte. L’inquisizione fu più clemente dei tribunali secolari perché i giudici spesso consideravano donne e uomini accusati come vittime del diavolo. A nord delle Alpi e dei Pirenei l’accusa poteva anche essere rigettata se il tribunale non considerava valide le prove. In Inghilterra, Olanda, Scandinavia, il numero dei processi fu inferiore rispetto che ad altre regioni e quasi nulli furono gli episodi di isterismo collettivo. Le ragioni sono molte e una è che i giudici di questi tre paesi erano più scettici rispetto all’ipotesi della congiura internazionale: questo ebbe come conseguenza il minor ricorso alla tortura, utilizzata soprattutto per scoprire i complici. Inoltre, in Inghilterra e Danimarca a volte i processi venivano svolti con l’intervento di una giuria che comportava pene più miti. I paesi in cui il fenomeno assunte dimensioni maggiori furono soprattutto Il Sacro Romano Impero, la Svizzera e il sud della Francia, e specialmente le regioni in cui le signorie territoriali erano in conflitto fra loro e, dopo la Riforma, di religioni diverse. La persecuzione fu crudele soprattutto nell’Impero, in regioni come Trier, Mainz, Wuzburg, Bamberga, dove il potere religioso e civile era detenuto da vescovi che usavano la persecuzione per dimostrare la propria devozione nonché mantenere l’ordine. Questi spesso modernizzarono la burocrazia rendendola più efficiente: a Ellwangen più di 400 persone furono giustiziate per stregoneria fra 1611 e 1618. In queste regioni gli inquisitori si informavano con minuzia sui rapporti sessuali col demonio, le streghe venivano denudate per cercare sul corpo il marchio della strega e punzecchiate con un ago per capire dove non provassero dolore (difficile non pensare ad una forma di sadismo sessuale). Progressivamente la cerchia dei sospetti si allargava e la caccia diveniva su larga scala. Le più rilevanti avvennero in Germania e Francia nei decenni 1570-90, 1610-60. Quando il fenomeno assumeva proporzioni vaste si accusavano le streghe di provocare epidemie o carestie. Fu probabilmente l’abbattimento dello stereotipo a porre fine alla caccia alle streghe: le autorità e la comunità si resero conto che gli accusati di stregoneria non corrispondevano più al modello di strega, cosa che li spinse a pensare che la persecuzione non fosse più necessaria. La maggioranza dei giudici nel XVI-XVII secolo credeva ancora nella minaccia della stregoneria, ma esistevano anche alcuni scettici come Johan Wever e Reginald Scot, che si chiedevano se davvero le streghe potessero nuocere o fare patti col demonio, oppure Friedrich Spee che si domandava se la tortura avesse davvero estorto una confessione sincera. Le donne anziane che confessavano venivano spesso considerare malate di mente o in preda ad abbagli. Queste trasformazioni ebbero come conseguenza la richiesta di prove tangibili per comprovare l’accusa e un minor utilizzo della tortura, e successivamente, la diminuzione delle accuse. L’ultima esecuzione ufficiale per stregoneria in Inghilterra fu nel 1682, lo stesso anno in cui i processi vennero proibiti in Francia. Per il Sacro Romano Impero bisogna aspettare il 1775 anche se le accuse si fecero progressivamente più sporadiche. La domanda che ci Astell ad esempio, che sosteneva che il matrimonio fosse una delle cause della subordinazione femminile. Essa è stata definita femminista ed è tra le prima ad aver espresso ciò che noi oggi chiamiamo “consapevolezza di genere” ovvero coscienza del fatto che le donne condividevano alcune peculiarità non date dalla biologia o dalla natura ma da modelli sociali che, in quanto tali, potevano essere cambiati, nonostante il peso della tradizione. Allargando la partecipazione politica ad ampi strati di popolazione maschile i governi parlamentari fecero del sesso un elemento fondamentale del potere politico. Quando la decisione di un parlamento interamente maschile diviene fattore decisivo per decidere chi deve governare, le donne persero anche il potere di influenzare la successione politica attraverso la maternità. Durante il governo della regina anna, nel 1702-14, che ebbe diciotto gravidanze ma neanche uno dei figli raggiunse l’età adulta, giravano opuscoli anonimi sui problemi creati dal fatto di dipendere dal corpo di una donna per avere continuità politica. John Locke nel suo trattato filosofico-politico “Due trattati di governo” mise in discussione questa idea, ponendo la proprietà e non la paternità alla base dell’autorità politica. Le idee di Locke attribuivano al ruolo politico delle donne maggiori possibilità. Le donne nubili o vedove che avevano delle proprietà possedevano anche il diritto di voto in alcune elezioni locali in certe regioni dell’Inghilterra e dell’America del Nord, anche se queste eccezioni non durarono a lungo. Locke inoltre definiva il matrimonio come un accordo volontario le cui condizioni dovevano essere definite fra i coniugi. Fintanto che si provvedeva ai figli, Locke non vedeva la necessità di seguire, nel matrimonio, i modelli tradizionali di autorità. Locke non tradusse mai le sue teorie in proposte di cambiamento. Anche il pensiero di Hobbes metteva in discussione l’idea classica, dato che nel Leviatano sosteneva che l’autorità maschile derivasse dal costume sociale e dal patto fra individui, ed inoltre, che l’autorità materna sui figli fosse assoluta, mentre quella paterna derivava dall’istituzione del potere pubblico da parte degli uomini. La partecipazione maschile alla cosa pubblica era sostanzialmente influenzata da fattori come il ceto sociale, il luogo di residenza, l’occupazione ecc.., che creavano gerarchie fra uomini stessi. Tutte queste gerarchie erano a loro volta modellate da nozioni di genere e, in particolare, da concetti di mascolinità. Gli uomini si sono infatti sempre preoccupati di definire cosa significasse essere uomo, insegnandolo ai bambini nell’infanzia e perpetrando quegli atteggiamenti nell’età adulta. L’età moderna, secondo alcuni studiosi, è un periodo che vede la mascolinità particolarmente in crisi. Durante la prima età moderna la rappresentazione della mascolinità era al centro dei discorso politico. Elisabetta non fu l’unica sovrana a comprendere che il popolo desiderasse vedere in lei attributi maschili, come il coraggio fisico, il vigore, la saggezza, il senso del dovere. Il problema principale della mascolinità riguardava l’esigenza di dimostrare la propria indipendenza, un concetto che è anche al centro degli scritti di Machiavelli, che descrive il peggiore dei principi come “effeminato”. La migliore dimostrazione di virilità era, per lui, la capacità di usare la ragione per trarre profitto da ogni situazione utilizzando tutti i mezzi necessari. La violenza era un aspetto importante e non solo per i principi e i regnanti, ma anche per i gruppi sociali maschili che non erano al governo. Le corporazioni di artigiani ad esempio cercavano di raggiungere i propri obbiettivi attraverso violente sommosse e scioperi, venivano spesso coinvolti in risse e faide. Inoltre, la violenza era un modo per disciplinare i subordinati e mettere alla prova gli uomini per verificare che riuscissero ad entrare nei modelli di mascolinità predefiniti. Per le corporazioni, un vero uomo doveva essere leale nei confronti dei compagni, offrire loro da bere, difenderli in combattimento, libero dai doveri politici e con l’esperienza del mondo e non sposato. Esistevano però modelli diversi di mascolinità: per i superiori degli artigiani come i capomastri e i membri delle classi medie, era invece fondamentale la responsabilità del potere politico (Jean Bodin sosteneva che uomo onesto = cittadino saggio) oltre che il ruolo di capofamiglia rispettato da tutti i membri della famiglia stessa. In alcune regioni o città chi non era sposato non partecipava alla vita pubblica allo stesso modo di chi lo era, essendo escluso ad esempio dai consigli cittadini. Erano le virtù secolari ad appartenere agli uomini mentre, le virtù spirituali erano spesso di competenza femminile. In molte città dunque si andavano a configurare due diverse mascolinità: quella degli artigiani e quella dei loro superiori. Nel XVIII secolo poi, in Inghilterra, gli intellettuali si preoccupavano dell’influenza francese sulla mascolinità inglese, delineando un nuovo modello di uomo, dall’abbigliamento poco appariscente, che mostrava poco le proprie emozioni e parlava poco. La costruzione di una mascolinità nazionale veniva contrapposta alle mascolinità di altre nazioni, che venivano tendenzialmente considerate effeminate, come nel caso francese (anche la lingua francese era considerata adatta solo alle donne). Se analizziamo tutti i rapporti di potere ci rendiamo conto che il genere è una categoria di fondamentale importanza. Il rispetto dei rapporti di potere fra uomini e donne era fondamento e simbolo sia del sistema politico che dell’intera società. Le donne non rientravano nell’ordine sociale perché non facevano parte di categorie demarcate come gli uomini, a meno che non appartenessero ad associazioni religiose o corporative. Alcune scrittrici femministe però ritenevano questo un dato positivo. Moderata Fonte e Lucrezia Marinelli ad esempio elaborarono modelli sociali egualitari, proponendo una società femminilizzata e basata sulla cooperazione, senza distinzioni di classe, che sarebbe stata più giusta di quella gerarchica e maschile in cui vivevano. Ma l’assenza di gerarchie terrorizzava i pensatori dell’epoca, basti pensare che all’Inizio del Seicento un gruppetto di donne Londinesi cominciò a girare abbigliandosi in mono mascolino, con capelli corti e gonne più corte, e Giacomo I ordinò immediatamente ai predicatori di condannare tale condotta, poiché si temeva che quel modo di vestirsi potesse mettere in discussione l’appartenenza sociale: non si poteva dire infatti se quelle donne fossero borghesi o aristocratiche. Nella letteratura colta e popolare vi sono migliaia di esempi di donne che prevalgono sugli uomini, mentre nelle carnevalate popolari vi sono sempre mogli prepotenti che maltrattano i mariti. A giudicare dagli atti giuridici, dal costume, dalle ricordanze delle famiglie, sembra che l’inversione dei ruoli di genere fosse considerata una cosa che, più di ogni altra, significava anche sovvertimento dell’ordine sociale. Il genere nel mondo coloniale. La vita delle donne europee in età moderna era condizionata da ciò che avveniva al di fuori dell’Europa, essendo un epoca di grandi interazioni globali. Già verso la metà del XVIII secolo le Americhe, l’Asia sud- orientale e le aree costiere dell’Africa erano governate da paesi europei. Anche se il numero degli immigrati europei era esiguo, le strutture famigliari europee, i sistemi giuridici, le pratiche e la fede religiosa si confrontarono con le tradizioni locali delle regioni coloniali. Se nel Medioevo la più grande rete commerciale era il bacino dell’Oceano Indiano e l’Europa sostanzialmente ne rimaneva ai margini, a partire dal XV secolo le cose cambiarono, quando i portoghesi cominciarono a circumnavigare l’Africa e fondare avamposti commerciali fortificati lungo le sue coste e nel Sud-est asiatico. Gli spagnoli conquistatori partirono poi verso le Americhe creando colonie nei Caraibi, in America centrale e in Sud America, nelle Filippine. Ovunque i missionari diffondevano il cristianesimo. Verso gli anni Ottanta del Settecento la Spagna e il Portogallo detenevano effettivamente il controllo di gran parte del sud America, possedimenti in America centrale e del Nord per gli spagnoli, mentre i portoghesi si spingevano verso le coste africane, a Goa e in India. L’impero francese nonostante il ridimensionamento causato dalla guerra dei Sette anni, comprendeva isole dei caraibi, alcune colonie nell’America del Sud. Gli olandesi occupavano le Indie orientali e possedevano una fiorente colonia in Sud Africa, mentre l’Impero Inglese, pur avendo perso i possedimenti in nord America con la guerra d’Indipendenza americana, si estendeva nelle Isole dei Caraibi, al Belize in America centrale, In India e in Australia con la prima colonia. I colonizzatori europei hanno sempre rappresentato la loro conquista in termini sessuali, descrivendosi come virili, potenti e mascolini, mentre le popolazioni risultavano femminilizzate, deboli e passive oppure iper-sessualizzate, possedute da istinti animali. Basti pensare che pensatori dome Hume e Adam Smith suddivisero le regioni del mondo in tre aree climatico-sessuali: torrido, temperato e frigido. Chi viveva nei climi torridi, come gli indigeni, possedeva una sessualità sfrenata e incontrollabile (gli europei la confermavano nei racconti anche nella descrizione degli abiti succinti degli indigeni), mentre ai climi temperati corrispondevano popolazioni dal comportamento mite, inclini al progresso e alla produttività. L’avventura coloniale comportava un grosso spostamento di persone, dove l’equilibrio fra uomini e donne non era mai uguale, con la conseguenza che i modelli tradizionali di matrimonio furono sconvolti e ne vennero creati di nuovi. Ovviamente la grande maggioranza di mercanti, conquistatori, missionari e schiavi in viaggio erano uomini. In molte parti del mondo emerse una cultura mestizio (meticcia) in cui si amalgamavano l’etnia, il modello famigliare, la lingue. Questi uomini spesso infatti si accoppiavano con donne indigene che fungevano da intermediarie fra le culture locali e quelle straniere, a volte ottenendo vantaggi per sé o i propri figli, ma a costo di enormi sofferenze, visto che spesso entravano in contatto con i coloni dopo essere state vendute o date in dono. In alcuni territori i coloni imparavano dalle donne del posto le idee e le pratiche delle popolazioni indigene. In Asia sud-orientale ad esempio, gli uomini europei si integrarono con antichi sistemi di matrimoni temporanei tramite i quali gli stranieri stabilivano alleanze con le famiglie locali. Una volta tornati in patria il matrimonio aveva fine. Alcune di queste donne si convertivano al cattolicesimo e spesso rivelavano una fede più fervente di quella dei propri mariti. Ad esempio, Arameopinchieue, figlia del capo indiano Rouensa della tribù Kaskaskia, rifiutò di sposare il marito che il padre aveva scelto per lei a meno che entrambi non avessero dato prova della loro devozione alla chiesa. I gesuiti e gli altri missionari si opposero inizialmente ai matrimoni misti, ma poco a poco finirono per accettarli a condizione che entrambi fossero cattolici. Verso il nuovo mondo vennero trasportati soprattutto schiavi maschi, mentre le donne facevano parte del commercio trans- sahariano o rimanevano in Africa occidentale. Questo rafforzò la poligamia già presente in Africa, dove i coloni le prendevano come seconde mogli, processo che portava maggior potere ai padroni-mariti che potevano così servirsi del loro lavoro e dei figli, Nelle regioni cattoliche la grande migrazione maschile comportò l’entrata in convento di molte donne che non avevano trovato marito -o che era partito- ed al contempo l’aumento vertiginoso delle doti, nelle zone protestanti invece le migrazioni si ripercossero sul modello del matrimonio tardivo, incrementandolo. Le donne europee, oltre al ruolo di produttrici e consumatrici, erano anche investitrici. Infatti le aristocratiche spesso investivano il proprio denaro in ditte commerciali come la compagnia Olandese o Britannica delle Indie Orientali in cambio di discreti profitti. I primi viaggi per costruire le colonie furono dunque appannaggio maschile, ma alcune donne erano presenti. Un gruppetto anche nel terzo viaggio di Colombo nel 1498, oppure, mogli e figlie dei conquistadores. Queste donne vengono solitamente definite come donne d’amore per sottolineare il loro ruolo sessuale, ma in realtà svolgevano mansioni domestiche come cucinare, lavare ecc.. Molte delle donne coinvolte nelle conquiste superarono i limiti dei ruoli di genere. Un Esempio incredibile è quello di Catalina da Erauso, donna basca della Spagna che, entrata in convento a 4 anni, ne scappò in adolescenza e si imbarcò su una nave diretta in Sud America vestita da uomo. Qui si dedicò ad attività puramente maschili, ingaggiando diverse risse in una delle quali uccise suo fratello. La sua identità fu svelata dopo l’arresto in questa occasione ed ella tornò in Europa, dove ricevette l’autorizzazione papale ad indossare abiti maschili. Dopo di che tornò in Messico e vi si stabilì. Le sue memorie non parlano molto della sua vita interiore quindi non conosciamo nulla sul suo orientamento sessuale, ma sappiamo che travestirsi da uomo forniva opportunità che le donne non possedevano. Inoltre erano in molti ad approfittare del lungo viaggio e della distanza per cambiare vita ed identità. è inverosimile che in mesi o anni di stretta convivenza a contatto con gli uomini essi non si fossero accorti del suo sesso, ma forse preferivano non informare i superiori perché condividevano con lei segreti simili. Quando le colonie divennero più strutturate, le autorità si occuparono immediatamente di regolare il comportamento individuale soprattutto per quel che riguarda il sesso e il matrimonio. SI tentò di separare le donne che si prostituivano dalle altre attraverso l’apertura di postriboli, come nel 1527 a Puerto Rico, per ordine della corona Spagnola. A partire dagli anni 30 del Cinquecento gli spagnoli proibirono l’emigrazione di donne nubili. In molte zone coloniali si promosse a grande spirito l’emigrazione dall’Europa di donne dalla retta attitudine morale, poiché le loro doti avrebbero facilitato gli investimenti nelle colonie. Le donne europee inoltre servivano da modello di comportamento per le indigene e le donne di sangue misto. La corona
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