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Modelli di Intervento Pubblico per la Protezione Sociale, Schemi e mappe concettuali di Modelli di progettazione pedagogica e politiche educative

Le politiche sociali più importanti, tra cui le pensionistiche, sanitarie, del lavoro e di assistenza. Vengono presentati i tre modelli o modalità tipiche di intervento pubblico a fini di protezione sociale: regime socialdemocratico e bismarckiano. come i decisori politici in paesi bismarckiani hanno risposto alle domande relative alla copertura pensionistica, l'abbassamento dell'età pensionabile e il passaggio da sistemi di calcolo delle prestazioni di tipo contributivo a più generosi sistemi retributivi.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2017/2018

Caricato il 28/12/2018

Martina.Grv
Martina.Grv 🇮🇹

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Scarica Modelli di Intervento Pubblico per la Protezione Sociale e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Modelli di progettazione pedagogica e politiche educative solo su Docsity! LE POLITICHE SOCIALI. L’Italia in prospettiva comparata. (Maurizio Ferrara) Cap.1 L’analisi delle politiche sociali e del welfare state. L’analisi delle politiche pubbliche è lo studio di come, perché e con quali effetti i diversi sistemi politici perseguano certi corsi di azione per risolvere problemi di rilevanza collettiva. L’analisi delle politiche sociali è allora lo studio di un sottoinsieme di corsi di azione, volti a risolvere problemi e a raggiungere obiettivi di natura ‘sociale’: problemi e obiettivi che hanno a che fare, in senso lato, con il benessere dei cittadini. Le politiche sociali sono corsi di azione volti a definire le norme, gli standard e le regole in merito alla distribuzione di alcune risorse e opportunità considerate particolarmente rilevanti per le condizioni di vita e dunque meritevoli di essere in qualche modo “garantite” dall’autorità dello stato. Nelle contemporanee democrazie queste norme, standard e regole sono incorporate nella nozione di cittadinanza sociale, godere cioè anche di diritti sociali detti ‘diritti-spettanze’ che danno titolo a ottenere risorse che sorreggono le condizioni di vita. Inoltre, le politiche sociali sono corsi di azioni volti a organizzare concretamente la produzione e distribuzione di queste risorse e opportunità. Oltre alla nozione di “benessere” due altre nozioni hanno un ruolo importante per la caratterizzazione delle politiche sociali: “bisogno” e “rischio”. La nozione di bisogno indica la mancanza di qualcosa d’importante e al tempo stesso un oggetto, un bene mancante, necessario per rimediare alla mancanza. La nozione di rischio connota invece l’esposizione a determinare l’eventualità che possono accadere e che quando si verificano producono effetti negativi e generano dunque dei bisogni. Bisogni e rischi costituiscono “sfide” per le condizioni di vita degli individui a entrambi si può far fronte ricorrendo a risorse e opportunità connesse alla sfera del mercato, della famiglia e quella delle cosiddette associazioni intermedie. Le associazioni di categoria e del ‘terzo settore’, ossia le organizzazioni di ‘volontariato’ che operano senza fini di lucro. Le politiche sociali hanno come primo e fondamentale obiettivo quello di definire le norme, gli standard di valutazione e le regole in merito alla distribuzione di alcune risorse e opportunità fra i cittadini. Inoltre forniscono protezione sociale ai cittadini rispetto a panieri codificati di rischi e bisogni che riflettono le caratteristiche di una data società. Il quadrilatero costituito da stato, famiglia mercato (lavoro) e mondo associativo è a volte denominato il diamante del welfare. Le politiche sociali più importanti sono: le politiche pensionistiche, riguardanti essenzialmente il rischio della vecchiaia, in particolare la perdita di capacità lavorativa, e dunque di sicurezza economica, che caratterizza l’età anziana; le politiche sanitarie, riguardano il rischio di malattia e in particolare i bisogni sanitari a esso connessi; le politiche del lavoro, rispondono essenzialmente al rischio di restare disoccupati; le politiche di assistenza sociale, hanno per oggetto un ventaglio più sfumato di rischi e bisogni: dalla perdita dell’autosufficienza personale alla povertà economica, dalla difficoltà di accesso all’abitazione ai ‘carichi familiari’, ossia la presenza di persone deboli all’interno dell’unità domestica. L’inclusione sociale, ossia l’ancoramento di individui e famiglie al tessuto sociale che li circonda, assicurando loro risorse e opportunità. Nel dibattito politico e accademico l’insieme delle politiche sociali è spesso denotato con l’espressione di stato del benessere o welfare state. Il welfare state è un’insieme di politiche pubbliche che le scienze sociali hanno definito ‘processo di modernizzazione’. La modernizzazione è una sindrome evolutiva, è un macroprocesso di sviluppo o meglio di sviluppi interdipendenti, a tutt’oggi chiaramente riconoscibili e operanti, i quali sfidano le distribuzioni di volta in volta esistenti di risorse e opportunità fra i cittadini e dunque generano una domanda di (nuove) politiche sociali. Il secondo elemento connotativo della definizione precisa la natura sociale delle politiche del welfare state secondo 3 modalità idealtipiche che vanno sotto il nome di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale. Il terzo elemento focalizza l’attenzione su un elemento istituzionale particolarmente importante che caratterizza le politiche del welfare state: i diritti sociali. L’introduzione dei diritti sociali è stata un’innovazione di vasta portata nell’evoluzione dello stato moderno. . Assistenza, assicurazione e sicurezza sociale. La letteratura storico-comparata sulle politiche sociali ha individuato sin dagli anni ’50 tre diversi ‘modelli’ o modalità tipiche di intervento pubblico a fini di protezione sociale. 1. L’assistenza comprende tutti quegli interventi a carattere condizionale e spesso discrezionale, volti a rispondere in modo mirato a specifici bisogni individuali o a categorie circoscritte di bisognosi. L’avvento delle assicurazioni e della sicurezza sociale come nuovi strumenti di risposta ai rischi tipici della società industriale hanno ridotto l’utilità e il ruolo di forme d’intervento specifiche e mirate. L’assistenza è rimasta un settore cospicuo anche in seno ai welfare state maturi. In quasi tutti i paesi europei l’insufficienza di reddito in quanto tale dà titolo a qualche forma di ‘reddito minimo garantito’; si assume infatti che chi si trova al di sotto di certe soglie di reddito sia impossibilitato a far fronte autonomamente ai bisogni elementari della vita quotidiana. Date le sue caratteristiche, l’assistenza è una forma di protezione selettiva e residuale. 2. L’espressione assicurazione sociale connota un tipo di intervento pubblico nettamente diverso dall’assistenza: un tipo imperniato sull’erogazione di prestazioni semistandardizzate in forma tendenzialmente automatica e imparziale, sulla base di precisi diritti/ doveri individuali. Nei welfare state maturi vi sono tipicamente più schemi, volti a rispondere a un catalogo standard di rischi: principalmente vecchiaia, morte del capofamiglia, invalidità, malattia, infortuni, disoccupazione e maternità. L’assicurazione sociale obbligatoria aveva una impostazione di tipo prevalentemente atturiale. Quando subiva uno dei danni subiti il lavoratore riceveva una prestazione commisurata ai contributi versati. I nuovi schemi assicurativi pubblici avevano due principali tratti di grande originalità in confronto alle precedenti forme di assicurazione privata e volontaria. • Il principio dell’obbligatorietà; mirava non solo a contrastare comportamenti di irresponsabilità e ‘imprevidenza’ individuale, ma anche ripartire i rischi all’interno di platee di lavoratori ampie, prevedibili e relativamente stabili nel tempo, mantenendo così relativamente bassi gli importi contributivi e impedendo quei fenomeni di ‘scrematura’ tipici del settore assicurativo privato e volontario. • Anche il passaggio dai premi, principale strumento di finanziamento delle assicurazioni private, ai contributi sociali comportò notevoli vantaggi economici. Il contributo sociale è invece una fonte di finanziamento che prescinde dai profili di rischio individuali. L’assicurazione sociale potuto coprire rischi particolarmente difficili come la disoccupazione, essa ha consentito di attivare flussi redistributivi non solo in direzione ‘orizzontale’ ma anche in direzione verticale, quando una lavoratrice è in congedo di maternità non deve versare i contributi pensionistici, ma questi le vengono comunque riconosciuti ‘figurativamente’, a carico dello stato. L’introduzione dell’assicurazione sociale obbligatoria ha enormemente accresciuto le capacità dello stato di incidere sulle condizioni di vita dei cittadini, redistribuendo risorse e opportunità in base a vari criteri di equità. L’espressione ‘ assicurazione sociale’ resta prevalentemente associata all’idea di un’esplicita e diretta partecipazione contributiva a qualche schema obbligatorio, in base allo status occupazionale: il titolo fondamentale per la fruizione dei benefici da parte degli assicurati, all’occorrenza di uno dei rischi standard. 3. L’espressione sicurezza sociale, la terza modalità idealtipica attraverso cui il welfare state fornisce protezione ai cittadini, ha una connotazione meno univoca rispetto all’assistenza e all’assicurazione sociale. .UNA PANORAMICA STORICA. Due modelli. Il criterio di distinzione fra questi due modelli è il ‘formato di copertura’: ossia le regole di accesso e affiliazione ai principali schemi di protezione sociale, in particolare quelli pensionistici e quelli sanitari: nel modello universalistico gli schemi di protezione sociale coprono tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro posizione lavorativa; nel modello occupazionale gli schemi di protezione sociale sono rivolti ai lavoratori. I modelli universalistici hanno creato un unico grande bacino di solidarietà e redistribuzione. I modelli occupazionali hanno invece assecondato le tradizionali demarcazioni tra settori produttivi e gerarchie occupazionali, frammentando la comunità politica in tante diverse collettività redistributive. I tre regimi. Durante la fase dell’espansione, il welfare state europeo è passato attraverso una giuntura evolutiva, nella quale sono diventate rilevanti le dimensioni del quanto e del come oltre a quella del chi. Secondo lo studioso Esping-Andersen durante il lungo periodo espansivo del “capitalismo keynesiano” si sono consolidati tre diversi regimi di welfare: quello liberale, quello conservatore-corporativo e quello socialdemocratico. Con l’espressione regime di welfare, Andersen fa riferimento non solo al contenuto delle politiche sociali dello stato, ma all’intero sistema di interrelazioni fra queste ed il mercato del lavoro, da un lato, e la famiglia dall’altro. Anche se i tre regimi vengono definiti in base alla triade stato/mercato del lavoro/famiglia, l’attenzione nei confronti di quest’ultima sfera è discussa da Esping-Andersen prevalentemente in riferimento al regime corporativo-conservatore. Secondo Esping-Andersen i tre regimi di welfare erano così divisi: -regime liberale; destinato principalmente ai bisognosi, lavoratori a basso reddito, poveri, incoraggiando il ricorso al mercato sia in modo attivo che in modo passivo. - regime conservatore-corporativo: destinato principalmente ai lavoratori adulti maschi (capofamiglia), enfasi sulla sussidiarietà degli interventi pubblici dove lo stato interviene solo nella misura in cui i bisogni non trovano risposta a livello individuale, familiare o di associazioni intermedie. - regime socialdemocratico; predominanza di schemi universalistici di sicurezza sociale con gli altri standard di prestazione, destinato a tutti i cittadini; un welfare state che mira a marginalizzare l’importanza del mercato come fonte di risposta ai bisogni e ai rischi sociali. La quarta Europa sociale: il welfare dell’Europa meridionale. Altri paesi dell’Europa meridionale identificano una “famiglia” o un regime distinto con riferimento, a tale area. Nelle prime due fasi del loro sviluppo, questi paesi hanno seguito la via bismarkiana, introducendo una plurarità di schemi assicurativi occupazionali in campo sia pensionistico sia sanitario. Nell’Europa meridionale il periodo della grande espansione ha creato un sistema di protezione dualistico e polarizzato, con picchi di elevata generosità per alcune categorie e vere e proprie lacune di protezione per altre categorie. Il modello della solidarietà familiari e parentali, fondato sull’assunto che il sistema familiare funzioni in base all’esistenza di forti relazioni intergenerazionali e di parentela lungo tutto l’arco della vita. Il regime del’Europa meridionale è caratterizzato da livelli fortemente sbilanciati di demercificazione: moltissimo ad alcuni, pochissimo o nulla ad altri. A seguito delle lunghe parentesi autoritarie, i welfare state sud europei sono a lungo rimasti caratterizzati da un basso grado di statualità. Sotto i regimi dei cosiddetto “socialismo reale”, fra gli anni ’50 e gli anni ’60, il ruolo e la natura delle assicurazioni occupazionali furono depotenziati, le imprese di stato divennero i principali erogatori di prestazioni e servizi per i propri dipendenti e furono creati sistemi sanitari e d’istruzione a raggio universale, anche se di scadente standard. Le donne erano incluse al pari degli uomini nell’economia di stato, ma le loro condizioni erano ben lungi da quelle dei paesi nordici. Il welfare comunista fu caratterizzato da un mix di universalismo e particolarismo; il motore del modello capitalistico iniziò a funzionare a pieno regime seppure con frequenti turbolenze, le economie di quest’area hanno ormai imboccato la strada della crescita e dunque dell’aumento del reddito e del tenore di vita della popolazione. Il rapido sviluppo economico di altre regioni del mondo e le dinamiche di globalizzazione hanno d’altra parte acceso un nuovo dibattito, in cui il modello sociale europeo viene posto a contrasto con quello americano, da un lato e quello asiatico dall’alto lato. Il concetto di modello sociale è ovviamente apparentato a quello di politiche sociali e di welfare state: ma ha una connotazione più ampia che ricomprende anche altre sfere politiche e istituzionali. .Il welfare state italiano. La particolarità italiana sta nella composizione interna della spesa; le funzioni famiglia, disoccupazioni e abitazioni ed esclusioni sociali, appaiono sottodimensionate, si registra quindi una distorsione funzionale oltre a quella di natura distributiva. Si parla quindi di una doppia distorsione che caratterizza il modello italiano di welfare state. Le due distorsioni del modello hanno attivato una serie di circoli viziosi che hanno teso a rafforzare lo status quo e a ostacolare il cambiamento istituzionale. Il familismo all’italiana ha provocato conseguenze negative contemporaneamente sul piano economico, sociale e politico. Cap.2 La politica pensionistica. .Rischi sociali e pensioni. Il concetto di pensione individua quella prestazione pecuniaria vitalizia prevista a fronte di rischi di vecchiaia e invalidità nonché in relazione al grado di parentela con un assicurato o un pensionato defunto (rischio si premorienza). Le pensioni che spettano in relazione al grado di parentela con un assicurato nel caso di premorienza dello stesso sono essenzialmente di due tipi: 1.se l’assicurato che ha raggiunto i requisiti minimi per il pensionamento muore prima di essersi ritirato dal lavoro, il coniuge ha diritto a percepire una pensione indiretta. 2.la pensione di reversibilità spetta invece ai medesimi soggetti nel caso in cui il decesso avvenga dopo il pensionamento dell’assicurato. Anche nel caso dell’individualità si prevedono due tipi di prestazioni: -la pensione d’invalidità previdenziale, corrisposta ai lavoratori assicurati a fronte della perdita della capacità, parziale o totale, di lavoro a seguito di un evento invalidante; - la pensione di invalidità civile, prestazione prettamente assistenziale rivolta agli invalidi civili. La spesa per le pensioni di vecchiaia è molto più elevata di quella per le pensioni d’invalidità. Politica pensionistica e sistema pensionistico. Con l’espressione politica pensionistica facciamo riferimento a quelle azioni attraverso cui viene tutelata la vecchiaia. L’obiettivo specifico della politica pensionistica, consiste nel garantire agli individui anziani un reddito vitalizio nella fase della vita nella quale è precluso ai più l’accesso a un’attività retribuita. Un sistema pensionistico per la tutela della vecchiaia è perciò costituito da quell’insieme di regole e istituzioni preposte a erogare prestazioni vitalizie in denaro a coloro che hanno terminato la carriera lavorativa, garantendo agli stessi la sicurezza economica anche nel periodo di quiescenza. Le prestazioni a tutela della vecchiaia. Le pensioni previdenziali di vecchiaia e di anzianità sono rivolte ai lavoratori e hanno natura previdenziale in quanto mirano al mantenimento del reddito nella fase di quiescenza, attraverso il collegamento con la retribuzione precedente del lavoratore ovvero con i contributi versati. Esse si distinguono per le differenti condizioni di accesso. Pensione previdenziale di vecchiaia, spetta al lavoratore al superamento di una certa soglia di età (età pensionabile). Il raggiungimento di una soglia di età anagrafica non è invece richiesto per accedere alla pensione previdenziale di anzianità per la quale è necessario soltanto un versamento contributivo per un numero prestabilito di anni. La pensione sociale individua invece quei trattamenti, con finalità assistenziale allo scopo di garantire un livello minimo di reddito a quegli individui che, superata una certa soglia i età anagrafica, non hanno versato contributi a fini pensionistici ovvero non dispongono di requisiti contributivi sufficienti per aver diritto ad una pensione di vecchiaia. Nelle nazioni nordiche si individua la pensione di base, che non mira a tutelare i lavoratori né gli anziani in condizioni di bisogno, ma garantisce un livello minino di reddito a tutti i cittadini anziani. Finanziamento, gestione delle risorse, calcolo delle prestazioni. Le prestazioni pensionistiche sono finanziate in modi differenti: finanziamento fiscale e finanziamento contributivo. Il primo è generalmente associato alla pensione sociale e a quella di base, mentre il finanziamento tramite contributi è utilizzato per le pensioni previdenziali di vecchiaia e anzianità. Nel sistema a capitalizzazione, i contributi versati sono accumulati in conti individuali, investiti sui mercati finanziari e sono poi convertiti in rendita al momento del pensionamento. Al contrario, in un sistema a ripartizione i lavoratori versano i contributi a un determinato tempo e questi vengono immediatamente utilizzati per i pagamenti delle prestazioni ai pensionati; i lavoratori ottengono però il diritto a ricevere una pensione quando si ritireranno dall’attività. Le risorse economiche per la tutela della vecchiaia devono poi essere convertite in prestazioni, esistono tre metodi per definire i trattamenti pensionistici. Nel primo il valore delle prestazioni è indipendente dal precedente reddito da lavoro e dai contributi eventualmente versati: le pensioni sono infatti a somma fissa . È il caso della pensione sociale e della pensione di base. Il secondo metodo prevede uno stretto collegamento delle prestazioni pensionistiche con la precedente retribuzione da lavoro. In un sistema retributivo le pensioni sono infatti calcolate in percentuale. Nel terzo sistema detto contributivo, l’importo della pensione viene calcolato sulla somma dei contributi effettivamente versati e dipende da un ulteriore parametro che consente la rivalutazione degli stessi contributi. Nel sistema contributivo le prestazioni sono in ultima analisi collegate al reddito da lavoro, i contributi sono calcolati in percentuale sul reddito. I due metodi di calcolo delle prestazioni possono combinarsi generando quattro modelli di schemi previdenziali: due a ripartizione, il sistema retributivo e il sistema contributivo, e due a capitalizzazione, denominati a prestazione definita e a contribuzione definita. I pilastri pensionistici. Nella maggior parte degli stati europei la protezione della vecchiaia è comunque ancora primariamente affidata a schemi pubblici, che rappresentano il cosiddetto primo pilastro pensionistico. Si distinguono gli schemi di ‘assicurazione obbligatoria’, in genere finanziati tramite contributi e gestiti a ripartizione, dagli schemi ‘assistenziali’ e di ‘sicurezza sociale’ finanziati dalla fiscalità generale. Agli schemi pubblici si affiancano gli schemi complementari privati dal secondo pilastro caratterizzati da copertura occupazionale, adesione volontaria ma in alcuni casi obbligatori per via contrattuale. A capitalizzazione sono gestite anche le forme pensionistiche di terzo pilastro, ad adesione sempre volontaria e individuale, istituita da banche, assicurazioni, società di gestione del risparmio. I modelli originari di tutela della vecchiaia. Nel dibattito internazionale due modelli: modello bismarckiano e modello beveridgeano Il modello bismarckiano ha come obiettivo il mantenimento del tenore di vita dei lavoratori durante la fase di quiescenza: le prestazioni sono pertanto collegate al precedente reddito da lavoro finanziate tramite il versamento di contributi da parte della popolazione occupata. Il modello beveridgeano assume come figura di riferimento il cittadino anziano, in condizioni di bisogno nella fase originaria del welfare, tutti i cittadini oltre una certa soglia d’età dopo il pericolo d’espansione della protezione sociale. L’obiettivo degli schemi che si ispirano a questo modello è la prevenzione della povertà tra le persone in età avanzata attraverso l’erogazione di prestazioni a somma fissa. L’Italia rientra in questo gruppo di paesi con l’istruzione di uno schema obbligatorio per la tutela di vecchiaia e invalidità rivolto ai lavoratori dipendenti del settore privato. L’assicurazione pensionistica fondata sul modello occupazionale costituisce inoltre un’importante eredità istituzionale in quei territori che erano appartenuti all’Impero germanico, pertanto si diffonde nei paesi dell’Europa centro-orientale. La tutela della vecchiaia nella fase espansiva. I sistemi pensionistici si fondano quasi esclusivamente su schemi pubblici. La politica pensionistica a carattere distributivo diviene uno strumento di fondamentale importanza nella competizione democratica tra le varie forze politiche. L’irrobustimento della tutela nella fase espansiva avviene lungo tre fondamentali direttrici di sviluppo: 1.individuazione di nuovi metodi di finanziamento e di nuove modalità di gestione delle risorse; 2.rafforzamento della protezione di base; 3.introduzione di nuove prestazioni e/o incremento della generosità degli schemi esistenti. È proprio il ceto medio ad avanzare richieste per l’introduzione di nuove prestazioni pensionistiche e/o per una maggiore generosità di quelle esistenti. Nei paesi bismarckiani i decisori politici rispondono a tali domande con a)l’astensione della copertura pensionistica tramite l’istituzione di nuovi schemi volti a proteggere via via tutte le categorie di lavoratori non ancora assicurate; b)l’abbassamento dell’età Accanto agli interventi sottrattivi troviamo l’adozione di riforme strutturali volte a modificare l’architettura complessiva del sistema pensionistico con lo spostamento di parte della spesa per la tutela della vecchiaia su schemi a capitalizzazione. Le riforme strutturali sono generalmente di difficile implementazione nei paesi con sistemi a ripartizione estesi e maturi per via del cosiddetto problema del doppio pagamento. Si fa riferimento al fatto che durante la transizione da un sistema a ripartizione a uno a capitalizzazione, le generazioni attive dovrebbero pagare due volte, devono infatti continuare a finanziare il sistema a ripartizione per garantire il pagamento delle prestazioni in essere, dall’altro dovrebbero versare i contributi nei fondi a capitalizzazione per costruirsi la loro pensione futura. Gli anni Ottanta: la ‘questione previdenziale’ in Italia1. All’inizio degli anni Ottanta il sistema pensionistico italiano presentava una chiara configurazione monopilastro incentrata su un sistema pubblico a due livelli: -il primo volto a contrastare la povertà, -il secondo composto da schemi a ripartizione con prestazioni collegate al reddito. La frammentazione del sistema era però ben più elevata per effetto dei provvedimenti adottati nella fase espansiva in risposta alle pressioni ‘microcorporative’ delle varie categorie professionali, che hanno condotto a quello che è stato definito ‘il labirinto delle pensioni’: un sistema pensionistico pubblico caratterizzato da una selva di schemi per le diverse categorie professionali con regole differenti rispetto a contributi, condizioni di eleggibilità e calcolo delle prestazioni. Circa le cause esogene l’Italia ha dovuto fronteggiare dinamiche sfavorevoli generalmente più accentuate rispetto agli altri paesi europei. Il settore pensionistico mostra già alla fine degli anni Settanta alcune criticità sia sul fronte della sostenibilità finanziaria che dell’equità distributiva. A tali criticità si accompagnano l’assoluta inconsistenza dei pilastri complementari a capitalizzazione e la peculiarità rappresenta dall’esistenza di prestazioni obbligatorie di fine servizio per i dipendenti privati il trattamento di rapporto TFR e, pubblici, indennità di buonuscita. TFR: Trattamento di fine rapporto è una prestazione di fine servizio che le imprese devono obbligatoriamente corrispondere ai propri dipendenti in ogni caso di risoluzione di fine rapporto di lavoro, pensionamento, cambio di occupazione e licenziamento; è finanziato da contributi sociali e nella sostanza opera come uno schema previdenziale a prestazione definita per i dipendenti del settore privato; non può essere però considerato una prestazione pensionistica. Tra gli interventi espansivi vanno menzionati l’abolizione del ‘tetto’ sulla retribuzione pensionabile e soprattutto la legge numero 233/1990 che estende il metodo retributivo alle tre grandi categorie di lavoratori autonomi assicurati presso l’INPS. Il metodo retributivo viene applicato ai lavoratori autonomi senza adeguare il livello del prelievo contributivo per tali categorie, che è circa la metà di quello richiesto ai dipendenti del settore privato. Riforme sottrattive e transizione a un sistema pensionistico multipilastro. Il periodo 1992/2012 ha fatto registrare una serie di incisive riforme caratterizzate da misure sottrattive sul pilastro pubblico e interventi a carattere regolativo volti ad avviare la transizione a un sistema multipilastro. La fase dell’emergenza: le riforme nel nome del risanamento e dell’Europa. Il periodo si apre con i primi due provvedimenti del governo Amato nel 1992-1993 per poi proseguire con la cruciale riforma Dini del 1995 e l’aggiustamento del governo Prodi nel 1997. Questa serie di interventi sottrattivi è riuscita a riportare sul sentiero della sostenibilità economica e dell’equilibrio finanziario gli schemi pensionistici pubblici e ad armonizzare le regole tra le varie categorie di lavoratori, ma ha anche trasformato l’architettura complessiva del sistema previdenziale. Gli interventi parametrici sugli schemi pubblici hanno spesso previsto lunghi periodi di transizione per l’applicazione delle nuove regole, diluendo nel tempo gli effetti delle riforme e scaricando i costi sulle generazioni più giovani. Crisi multidimensionale e riforma Amato del 1992/1993. La riforma pensionistica adottata dal governo Amato, con vari provvedimenti normativi tra la seconda metà del 1992 e i primi mesi del 1993, si colloca nel quadro della grave crisi economico-finanziaria e politico-istituzionale che attraversava l’Italia. Amato costituisce un governo ‘tecnico’ sostenuto da una coalizione quadripartitica e accetta la rischiosa sfida di intraprendere il processo di ‘risanamento’ della finanza pubblica. In ragione della peculiare distorsione funzionale del welfare state italiano, con le pensioni che assorbono circa i 2/3 della spesa sociale pubblica, la riforma previdenziale è centrata nel programma di governo. Il processo di riforma si completa in 3 tappe: l’approvazione della legge che delega il governo a ristrutturare per decreto l’assetto della previdenza (l.n.421/1992) e il d.lgs.n.503, emanato dal governo nel dicembre 1992, prevede una serie di misure parametriche sottrattive sul pilastro pubblico volte a: -migliorare la sostenibilità economico-finanziaria, - avviare una prima armonizzazione normativa e di trattamento tra le diverse categorie professionali, specialmente tra dipendenti pubblici e privati. Nell’ottica di spostare parte della spesa pensionistica sul settore privato e integrare le future pensioni pubbliche ridotte nell’importo della riforma appena approvata, il governo Amato definisce con il d.lgs.n. 124/1993 il primo framework regolativo per lo sviluppo dei pilastri complementari in Italia. Le scelte iniziali dell’esecutivo prevedono che si possano costituire forme pensionistiche complementari esclusivamente a capitalizzazione, che erogano soltanto prestazioni a contribuzione definita. In Italia viene infatti lanciata in condizioni avverse la maturità e la crisi finanziaria del sistema pensionistico pubblico rendono particolarmente acuto il problema del doppio pagamento. Il governo Amato decide di introdurre la possibilità di utilizzare il TFR per finanziare fondi complementari con adesione sempre volontaria ed individuale. Le parti sociali acconsentono a trasferire, in forma volontaria, il TFR ai fondi di capitalizzazione purchè sia previsto un quadro regolativo di favore per le forme complementari occupazionali di secondo pilastro, con riferimento ad agevolazioni fiscali. Il decreto delinea infatti due diversi tipi di fondi complementari: i fondi pensione ‘chiusi’ ed i fondi pensione ‘aperti’. La riforma Amato ha costituito una tappa decisiva del processo di riforma delle pensioni in Italia perché si è trattato del primo provvedimento effettivamente sottrattivo sul pilastro pubblico, ha introdotto il primo quadro regolativo per la previdenza complementare a capitalizzazione che, avrebbe determinato, negli anni successivi, uno sdoppiamento su due diversi circuiti decisionali. Silvio Berlusconi sale al governo, il ‘pacchetto previdenziale’ mira al contenimento dei costi e al prolungamento dell’attività lavorativa nel breve periodo ed è imperniato su tre provvedimenti principali: 1.penalizzazione in caso di pensionamento per anzianità pari al 3% per ogni anno di anticipo rispetto all’età pensionabile; 2.riduzione dell’aliquota di rendimento per i lavoratori con più di 15 anni di contributi; 3.nuovo meccanismo d’indicizzazione delle pensioni all’inflazione programmata. La palla della riforma previdenziale passa nelle mani di Dini; la logica di funzionamento del primo pilastro viene completamente modificata con il passaggio a un sistema di tipo contributivo. Il pilastro pubblico rimane a ripartizione, ma il metodo contributivo presuppone la definizione di un determinato livello di contribuzione sulla base della quale vengono calcolate le prestazioni pensionistiche che possono variare secondo alcuni parametri. Il nuovo metodo consente: il superamento delle iniquità distributive, il contenimento dei costi. Il sistema contributivo permette, nel medio-lungo periodo, un deciso contenimento della spesa tramite la drastica riduzione delle prestazioni pensionistiche. Due gli elementi volti a favorire il prolungamento dell’attività lavorativa: 1.gli incentivi a differire il pensionamento impliciti nel sistema contributivo, per via del valore crescente dei coefficienti di trasformazione in relazione all’età effettiva di quiescenza; 2. l’innalzamento del requisito contributivo per l’accesso alle pensioni di anzianità. La riforma prevede la sostituzione della pensione sociale e dell’integrazione al minimo con una nuova prestazione, l’assegno sociale per tutti i cittadini sopra i 65 anni e al di sotto di una certa soglia di reddito. La riforma Dini ha dunque trasformato tutti i tratti fondamentali del primo pilastro pensionistico, modificandone la logica di funzionamento per quanto concerne il calcolo delle prestazioni, rafforzandone le fondamenta finanziarie e riducendo fortemente le iniquità intergenerazionali e intercategoriali. Sul piano dell’equità intergenerazionale la riforma è stata decisamente meno ‘virtuosa’, producendo una frattura tra diverse coorti di lavoratori specie per l’esenzione dei lavoratori più anziani del nuovo metodo contributivo. Le riforme Amato e Dini hanno rappresentato grandi passi avanti rispetto alle eredità istituzionali del passato. La riforma Prodi viene licenziata dal parlamento con la legge finanziaria, l.n.449/1997. Tra i provvedimenti non figura la proposta più incisiva della commissione riguardante l’accelerazione dell’entrata a regime del sistema contributivo. Accanto ad alcune misure temporanee vengono previsti interventi parametrici diretti a rendere più stringenti le condizioni di accesso al pensionamento d’anzianità per i dipendenti privati, per i dipendenti pubblici, imponendo anche a questi ultimi il requisito contributivo di 35 anni in connessione con i determinati requisiti anagrafici, e per gli autonomi. Il d.lgs. n. 47/2000 rappresenta una tappa importante per la previdenza complementare, ancora in fase di decollo a fine anni Novanta. Inoltre la norma incide sul modello di previdenza complementare tramite due diversi interventi: 1.l’ampliamento dell’offerta nel terzo pilastro, con l’introduzione dei cosiddetti PIP, forme pensionistiche individuali attuate mediante polizze di assicurazione; 2.l’estensione delle agevolazioni fiscali a tutte le forme pensionistiche complementari, compresi i fondi pensioni aperti e gli stessi PIP. Il provvedimento è di fondamentale importanza perché contribuisce ad alterare in modo sostanziale l’originario impianto della previdenza complementare; in secondo luogo il decreto incrementa in modo consistente le risorse destinate alla previdenza complementare, con la definizione di un trattamento fiscale decisamente più favorevole e quindi più efficace nel sostenere lo sviluppo dei pilastri a capitalizzazione. Alternanza della politica e nuove riforme pensionistiche negli anni 2000. La valutazione delle riforme: le commissioni Brambilla e Cazzola. Si può affermare che le riforme degli anni Novanta hanno evitato il collasso del sistema agendo su due versanti: 1.sostenibilità finanziaria e contenimento dei costi; 2.armonizzazione normativa ed equità intragenerazionale. La commissione Brambilla sottolinea che nonostante il rallentamento della spesa pensionistica, il deficit delle gestioni obbligatorie si mantiene su livelli elevati. I dati elaborati dalla commissione Cazzola invece mostrano come il tasso di sostituzione, che esprime il rapporto percentuale tra la pensione lorda al momento del pensionamento e l’ultima retribuzione lorda percepita, rimanga sostanzialmente invariato. La commissione Cazzola suggerisce quindi due strategie per compensare la diminuzione del tasso di sostituzione e garantire pensioni di livello adeguato anche in futuro: il prolungamento dell’attività lavorativa e l’integrazione delle pensioni pubbliche con prestazioni complementari erogate dai fondi di secondo e terzo pilastro a capitalizzazione. La commissione mette tra l’altro in evidenza che il quadro della previdenza complementare è variegato, individuando anche i fattori che hanno di fatto precluso l’accesso alla previdenza complementare alla maggior parte dei lavoratori. Inoltre si registra una buona capacità di attrazione dei fondi negoziali nelle grandi imprese rispetto alle piccole aziende nelle quali la previdenza complementare occupazionale stenta a farsi strada. Le riforme nella fase dell’alternanza bipolare: da Berlusconi a Prodi. A cavallo del millennio si iniziano a raccogliere i primi frutti del risanamento finanziario, con modesti livelli di deficit in rapporto al PIL e una lenta diminuzione del debito pubblico. Sul fronte politico la grande novità è che l’Italia sembra avviata verso una democrazia dell’alternanza di tipo maggioritario, caratterizzata da un sistema partitico ancora frammentato e tuttavia strutturato secondo una chiara configurazione bipolare. La principale dinamica competitiva coinvolge due coalizioni: centro-destra e centro-sinistra. Tale dinamica competitiva si rifletterà nell’arena pensionistica, traducendosi in provvedimenti di riforma anche contraddittori, che includono talvolta misure espansive accanto a quelle sottrattrice. Il piano di riforma introduce un profondo mutamento istituzionale del sistema previdenziale italiano attraverso una ridefinizione dei pesi e della rilevanza relativa, dei diversi pilastri pensionistici. Le misure cruciali sono due: la riduzione del prelievo contributivo nel primo pilastro per i nuovi assunti e il trasferimento obbligatorio del TFR maturando ai fondi pensione. La legge delega numero 243/2004 mantiene soltanto alcune delle misure previste dal disegno di legge originario pur contenendo provvedimenti rivolti sia alla previdenza obbligatoria, sia a quella complementare. Per il primo pilastro la cosiddetta riforma Maroni-Tremonti è in definitiva e prevede alcuni aggiustamenti parametrici finalizzati a prolungare la permanenza nel mercato del lavoro degli occupati più anziani attraverso una serie di misure differenti in diversi periodi. Reintrodotta l’età di pensionamento fissa e differenziata per sesso prevista dalla riforma Amato, 65 anni per gli uomini e 60 per le donne. Gli anni di contribuzione necessari per accedere alle prestazioni rimangono 5. Per quanto concerne la previdenza complementare, il governo approva definitivamente il testo unico che innova la disciplina di settore. Come già previsto l’originario trasferimento obbligatorio del TFR ai fondi pensione è convertito in un più morbido meccanismo di silenzio-assenso. Il testo del decreto si fonda su un compromesso, il d.lgs contiene infatti interventi finalizzati a favorire la concorrenza tra le varie forme pensionistiche integrative attraverso un’armonizzazione della disciplina per i fondi pensione chiusi e aperti e per i PIP. Viene stabilito che i lavoratori possano decidere di versare il TFR ai fondi pensione negoziali, a quelli aperti ovvero ai PIP e che la posizione individuale possa essere trasferita da una forma integrativa all’altra dopo soli 2 anni di iscrizione, rendendo così più agevole la portabilità dei contributi. La riforma del centro-sinistra con il ministro Damiano invece, interviene sugli schemi di previdenza obbligatoria mirando, nel quadro della competizione bipolare tra centro-destra e centro-sinistra, a modificare alcune misure giudicate inique della riforma Maroni-Tremonti. La riforma prevede l’irrobustimento della tutela per i parasubordinati con l’aumento delle aliquote di finanziamento nella gestione separata INPS, avvicinandole a quelle vigenti per i dipendenti pubblici e privati. Inoltre accanto a tali elementi espansivi la forniscono, in base a stringenti requisiti di reddito e patrimonio, un ‘reddito garantito’ a chi si trova in condizioni di indigenza. L’Italia rappresenta un’eccezione rilevante dal momento che non sono stati istituiti schemi generali assistenziali di secondo e terzo livello. 1. Il livello di ‘generosità’ della prestazione è definito dal suo importo e dalla durata di erogazione. Il rapporto fra l’ammontare dell’indennità di disoccupazione e la retribuzione precedentemente percepita individua il cosiddetto ‘tasso di sostituzione’ che rappresenta una delle misure della generosità economica delle prestazioni di disoccupazione. 2. Il finanziamento delle indennità di disoccupazione, deriva di norma da contributi versati dai lavoratori e dai datori di lavoro con una percentuale di contribuzione a carico dell’una e/o dell’altra parte che cambia da paese a paese. 3. I requisiti di accesso, ovvero le condizioni che determinano la possibile fruizione delle indennità di disoccupazione: -l’evento assicurato, deve essere involontario, vale a dire determinato da unna decisione del datore di lavoro e non già del lavoratore; -il lavoratore deve soddisfare specifici requisiti contributivi, ovvero il versamento di un ammontare minimo di contributi, e talvolta anche di anzianità assicurativa , ovvero un periodo minimo di iscrizione a una determinata cassa assicurativa. Nel terzo sottogruppo possiamo distinguere cinque principali tipi di intervento: 1.sussidi all’occupazione, 2.la creazione diretta e temporanea di posti di lavoro, 3.la formazione professionale, 4.il sostegno finanziario e servizi per la nuova imprenditorialità, 5.i servizi per l’orientamento e il collocamento lavorativo. Le politiche proattive s’indirizzano verso l’offerta di servizi mirati di collocamento e di assistenza intensiva ai disoccupati di lungo periodo e alle categorie più a rischio. Viene formulata la riforma dei servizi per l’impiego (SPI); i principali cambiamenti riguardano 4 aspetti: 1.il decentramento o devoluzione delle funzioni di collocamento della manodopera e di assistenza dei disoccupati, 2.il rafforzamento della collaborazione tra agenzie pubbliche e private del lavoro, fino alla parziale o totale esternalizzazione di alcuni compiti, in passato svolti esclusivamente dell’operatore pubblico; 3.lo sviluppo e l’offerta di modalità di assistenza individualizzata, in alcuni casi intensiva, delle persone in cerca di occupazione; 4.il coinvolgimento degli SPI nell’attività di sorveglianza dei beneficiari di indennità di disoccupazione, anche attraverso lo sviluppo di un maggior raccordo operativo, se non in alcuni casi di fusione, tra gli SPI e le amministrazioni preposte all’erogazione di prestazioni monetarie. Le politiche del lavoro costituiscono un insieme composito, di misure che rispondono a obiettivi diversi. l’interazione fra i tre sottogruppi che abbiamo presentato da vita a un sistema o modello di politica del lavoro, che varia da paese a paese a seconde delle caratteristiche dei singoli interventi e dei legami tra i sottogruppi medesimi. La nascita e il consolidamento del modello originario. Il modello di politica di lavoro italiano presenta alcune caratteristiche peculiari che lo distinguono rispetto all’esperienza degli altri paesi europei. Tale modello poggia su 3 gambe principali: -una legislazione sui rapporti di lavoro di stampo garantista, volta alla tutela dell’occupazione a tempo pieno e indeterminato attraverso norme che sanzionano il licenziamento illegittimo e vietano il ricorso a forme contrattuali atipiche; - sistema di ammortizzatori sociali, incentrato sul pilastro assicurativo. Quest’ultimo presenta distorsioni distributive dal momento che offre un elevato livello di tutela solo ad alcune categorie di lavoratori (i garantiti). Allo stesso tempo numerose persone continuano a fruire di un livello molto basso di tutela (i semigarantiti) o restano del tutto esclusi dall’accesso a qualsiasi sussidio al reddito (i non garantiti). - infine il sistema di monopolio pubblico del collocamento, a cui si accompagna uno scarso investimento di risorse per altre misure proattive. La legittimazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato non si traduceva ancora in un’espressa volontà di tutela della stabilità del rapporto di lavoro. La l.n. 230/1962 disciplina il contratto a tempo determinato. Su base di tale norma, il rapporto a tempo indeterminato è riconosciuto come la regola in materia di assunzione, mentre quello a tempo determinato rappresenta un’accezione ammessa solo nei casi espressamente indicati dalla legge. Con la l.b. 604/1966 viene disciplinato l’istituto del licenziamento individuale nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Viene inoltre riconosciuta una forma di tutela obbligatoria contro il licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice del lavoro. La legge n.604 riconosce inoltre la nullità del licenziamento discriminatorio. Il passo più significativo avviene però nel 1970 con l’adozione dello statuto dei lavoratori, un provvedimento che rappresentava una risposta alle tensioni sociali che in quell’anno avevano raggiunto il culmine con scioperi e manifestazioni. Lo statuto tocca molte materie tra cui: -diritti di libertà su luoghi di lavoro, -tutela del posto di lavoro, della salute e della professionalità, -la protezione delle libertà sindacali. Tra le norme dello statuto l’articolo 18 stabilisce uno specifico regime sanzionatorio in caso di licenziamento individuale privo di giusta causa o giustificato motivo. L’articolo 18 supera il sistema di tutela obbligatorio previsto dalle l.n. 604 configurando una vera e propria tutela reale della stabilità del rapporto di lavoro, il quale, a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento dovrà essere ricostruito come se non fosse mai stato interrotto. L’Italia interviene in anticipo rispetto agli altri paesi europei per quanto riguarda le politiche di previdenza sociale contro la disoccupazione involontaria. Il primo schema pubblico di assicurazione obbligatoria risale al 1919; il secondo schema riguarda l’istituto centrale del sistema di ammortizzatori sociali che è rappresentato dalla cassa integrazione guadagni (CIG), schema assicurativo volto a fornire un sostegno al reddito dei lavoratori dell’industria, in caso di sospensioni o riduzioni delle attività produttive per eventi di natura transitoria, al fine di preservare il loro posto di lavoro. Venne poi introdotta anche la cassa integrazione guadagni e gestione straordinaria rivolta ai lavoratori di imprese industriali. Il provvedimento più rilevante nell’ambito delle politiche proattive è l’istituzione del monopolio pubblico sul collocamento e un rigido sistema di procedure di avviamento al lavoro, entrambi disciplinati dalla l.n. 264/1949. Il collocamento viene definito come funzione pubblica esercitata dallo stato in regime di monopolio. La legge n.264/1949 stabilisce che l’avviamento al lavoro debba avvenire di norma attraverso il canale della cosiddetta richiesta o chiamata numerica, che provvede a selezionare le persone da avviare al lavoro sulla base di un’apposita graduatoria (lista di collocamento) in cui i disoccupati devono obbligatoriamente iscriversi. I lavoratori già occupati possono invece essere assunti per passaggio diretto da azienda ad azienda, infine solo in alcuni casi definiti dalla legge è prevista la richiesta o chiamata nominativa che consente al datore di lavoro di selezionare direttamente il personale che intende assumere. Sul fronte degli uffici di collocamento gli sforzi appaiono limitati, vengono avviati numerosi cantieri di lavoro volti ad impiegare i disoccupati nella manutenzione delle strade, coinvolgerli in corsi di formazione a fronte di percepire un sussidio economico. Un altro provvedimento riguarda l’apprendistato, che prevede la possibilità di assumere i giovani a un salario più basso di quello contrattuale, per le qualifiche corrispondenti. Nella seconda metà degli anni Settanta viene adottata una specifica legislazione in materia di politica proattiva del lavoro. A tal proposito possiamo menzionare due provvedimenti: • Legge numero 285/1977 sull’occupazione giovanile, finalizzata all’insegnamento lavorativo dei giovani, in particolare nell’ambito del settore agricolo; • Il secondo provvedimento è rappresentato dalla legge quadro n.845/1978 sulla formazione professionale con la quale sono poste le basi per la creazione di un sistema pubblico di formazione. L’istituzione ed il consolidamento di un siffatto modello di politica del lavoro ha come conseguenza la nascita di dualismi istituzionali, cioè di disparità di trattamento delle persone in termini di diritti- spettanze riconosciuti a fronte di rischi e bisogni analoghi. Gli anni Ottanta: tra ristrutturazione industriale e deregolamentazione del mercato del lavoro. Il parziale adattamento del modello originario. Durante gli anni Ottanta vengono adottati alcuni provvedimenti che incidono sul modello originario di politica del lavoro. Tali riforme hanno un duplice obiettivo: contrastare la crescita dell’inflazione e l’aumento del tasso di disoccupazione. Con l’ingresso dell’Italia nel Sistema monetario europeo la strada della monetizzazione del debito pubblico, non appare più praticabile, mentre la lotta all’inflazione diventa un obiettivo prioritario. I governi italiani proseguono sulla strada delle politiche espansive, attraverso l’adozione di provvedimenti di nature distributiva, cioè caratterizzati da benefici concentrati su alcune categorie di lavoratori e costi diffusi che contribuiscono a fari lievitare in quegli anni il debito pubblico. La regolazione dei rapporti di lavoro. Gli anni Ottanta sono caratterizzati dall’avvio di un graduale processo di liberalizzazione dei rapporti di lavoro che segna il passaggio dal rigido garantismo dei decenni a un garantismo flessibile, realizzato sotto il controllo sindacale. Il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro viene portato avanti anche con l’adozione della l.n. 863/1984. Tale norma prevede l’introduzione di nuove forme contrattuali finalizzate a incrementare i livelli occupazionali, quali il contratto di lavoro a tempo parziale (detto part-time), contratto di solidarietà e il contratto di formazione e lavoro. Le misure di sostegno al reddito. Nel corso degli anni Ottanta vengono adottati interventi di natura espansiva volti ad ampliare in maniera selettiva la platea dei beneficiari. Le uniche due novità di rilievo in materia di ammortizzatori sociali riguardano l’istituto del prepensionamento e la revisione di alcuni aspetti relativi all’indennità ordinaria di disoccupazione. • Il prepensionamento è finalizzato a consentire a operai e impiegato di età superiore a 50 anni per le donne e 55 anni per gli uomini, con un’anzianità contributiva di almeno 15 anni, di godere del trattamento pensionistico. • La seconda novità riguarda l’indennità di disoccupazione, il trattamento economico erogato non è più corrisposto in misura forfettaria ma come quota percentuale del precedente reddito da lavoro. Un altro aspetto importante riguarda l’introduzione dell’indennità di disoccupazione a requisiti ridotti rivolta alle persone cui l’accesso all’indennità a requisiti pieni è negato per l’insufficiente ammontare di contributi maturati. L’indennità a requisiti ridotti non offre comunque un sostegno economico al lavoratore disoccupato durante il periodo di ricerca di un nuovo impiego ma una vera e propria forma di risarcimento. L’indennità è infatti liquidata in un’unica soluzione, di norma l’anno successivo al verificarsi della disoccupazione, tendenzialmente al numero di giornate in cui si è effettivamente lavorato. Le politiche proattive. Anche sul fronte delle politiche proattive si registrano alcune novità; viene introdotto il contratto formazione di lavoro. Tale contratto rappresenta uno strumento per l’inserimento dei giovani di età compresa tra i 15 ed i 29 anni nel mercato del lavoro e può avere una durata massima di 24 mesi non rinnovabili. Sono istituite a livello locale le commissioni e sezioni circoscrizionali per l’impiego a cui è affidata l’attuazione delle politiche proattive, e le agenzie regionali per l’impiego con il compito di fornire supporto tecnico alle commissioni regionali per l’impiego. Alla ricerca di un nuovo modello di politica del lavoro. Le riforme degli anni Novanta. Fra gli aspetti che caratterizzano questo decennio vi è l’avvio della stagione della concentrazione, che vede parti sociali chiamate a confrontarsi coi governi sui temi del costo del lavoro, della competitività e della crescita dell’occupazione, e la formazione di governi tecnici composti da professori universitari o altri dirigenti non eletti in parlamento. Nelle elezioni politiche dell’aprile 1992 l’incarico di governato venne assegnato ad Amato. Un primo passo fondamentale è l’accordo definitivo per la cessazione del sistema della scala mobile che viene raggiunto il 31 luglio 1992 con il protocollo sulla politica dei redditi, la lotta all’inflazione e il costo del lavoro, siglato dal governo Amato con le parti sociali. L’esecutivo Amato resta in carica soltanto un anno, Carlo Azeglio Ciampi prosegue l’azione riformista, il 23 luglio viene sottoscritto un altro accordo Il Patto Ciampi che perfeziona ed integra i contenuti dell’intesa siglata da Amato con le parti sociali. E’ prevista una nuova articolazione degli assetti contrattuali sulla base di due livelli non ripetitivi e distinti per materia e vengono definite alcune linee guida per la predisposizione di una riforma organica del mercato del lavoro. Nella seconda metà degli anni Novanta, la stagione della concertazione prosegue con tre ulteriori accordi: sociale per l’impiego ASPI, che dovrebbe rappresentare l’unico schema di garanzia del reddito in caso di disoccupazione. La riforma Fornero intende favorire il ricordo dell’apprendistato che viene considerato come il canale prevalente di accesso al mercato del lavoro per i giovani. Come e perché è cambiata la politica del lavoro. Il modello originario di politica del lavoro che è emerso e si è consolidato nei primi trent’anni dell’Italia repubblicana è stato oggetto nei decenni successivi di importanti riforme. La regolazione dei rapporti di lavoro. All’inizio degli anni Novanta, l’Italia mostra un elevato grado di tutela dell’occupazione. Una rottura rispetto al modello garantista si realizza solo a partire dalla metà di questo decennio, con l’introduzione del lavoro interinale e il recepimento delle direttive europee sul part-time e il lavoro a tempo determinato. Tale processo di riforma presenta due caratteristiche di fondo: in primo luogo, si realizza, al margine del mercato del lavoro la riduzione del valore complessivo dell’indice EPL; in secondo luogo, la flessibizzazione del mercato del lavoro italiano ha finora operato di fatto in maniera selettiva, dal momento che interessa soprattutto le donne e i giovani. Le misure a sostegno del reddito. Il cambiamento del sistema degli ammortizzatori sociali che si realizza a partite dagli anni Ottanta non ha inciso in maniera significativa sulla sua struttura istituzionale che resta basata su schemi di natura assicurativa e una logica di tipo categoriale che va però ridimensionandosi. La prime direttrice riguarda la crescita della generosità delle indennità di disoccupazione, la seconda direttrice di cambiamento concerne il parziale e temporaneo assorbimento dei dualismi istituzionali, grazie all’ampliamento delle categorie ammesse al godimento delle misure economiche di sostegno al reddito di disoccupazione. La riforma Fornero in materia di ammortizzatori sociali sembra perseguire tre obiettivi: 1.la semplificazione del sistema esistente, 2.un’ulteriore crescita di generosità delle misure a sostegno del reddito in caso di disoccupazione; 3. l’ampliamento delle tutele garantite dal sistema degli ammortizzatori sociali. Per quanto riguarda invece la nuova ASPI l’astensione riguarda solo gli apprendisti e gli artisti. Le politiche proattive. A partire dalla metà degli anni Novanta, cresce in Italia la spesa per le politiche proattive del lavoro. La spesa per le misure di sostegno al reddito conosce una graduale riduzione. Si tratta di una riforma che interessa: 1.l’intera governance del sistema, 2.la liberalizzazione delle funzioni di mediazione del lavoro, 3.la ridefinizione della mission degli SPI. Negli ultimi vent’anni il modello di politica italiana del lavoro ha conosciuto un profondo cambiamento. Le diverse interpretazioni di tale cambiamento hanno posto l’attenzione su una pluralità di fattori che hanno permesso di superare le opposizioni alle riforme. Un primo fattore riguarda la presenza di pressione al cambiamento endogeno ed esogene rispetto al sistema politico ed economico italiano, un secondo fattore di cambiamento concerne la capacità decisionale del governo, ovvero la leadership dell’esecutivo del processo decisionale. La capacità decisionale del governo varia a seconda della fase politica in cui l’esecutivo si trova ad operare. Un ultimo fattore appare connesso a un’altra forma di apprendimento, di natura politica e riguarda l’attivazione di specifiche strategie volte al superamento delle resistenze di coloro che si oppongono alle riforme. Tra queste le strategie di evitamento del biasimo rivestono un ruolo importante, soprattutto quando le riforme da adottare comportano scelte impopolari, di redistribuzione delle risorse e delle tutele definite del vecchio quadro delle garanzie. Presente e futuro della politica del lavoro in Italia. Le riforme delle politiche italiane del lavoro, avviate negli ultimi 15 anni, hanno saputo fornire una risposta solo in minima parte adeguata alle sfide poste dal nuovo contesto economico e lavorativo. A tal fine è necessario proseguire e approfondire l’intervento di riforma su tre fonti: 1.occorre investire maggiormente sulle politiche educative e di formazione per lenire i rischi connessi all’emarginazione sociale; 2. occorre combinare gli schemi assicurativi di tutela del reddito con schemi di natura assistenziale; 3.occorre promuovere pratiche e misure di conciliazione delle molteplici attività in cui una persona può essere coinvolta al fine di incrementare l’occupazione, garantendo la sostenibilità del futuro welfare state.
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