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LE RAGAZZE DI ASMARA di Sabrina Marchetti - Riassunto, Schemi e mappe concettuali di Storia Contemporanea

Mio personale riassunto del libro in oggetto

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

Caricato il 16/04/2023

MartaCostigliolo
MartaCostigliolo 🇮🇹

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Scarica LE RAGAZZE DI ASMARA di Sabrina Marchetti - Riassunto e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! 1. Si parla molto oggi degli eritrei come dei giovani che sbarcano, in gran numero, sulle coste meridionali, ma, in realtà, è già dagli anni sessanta, con l'aumentare del conflitto con la vicina Etiopia, che sempre più persone arrivano dall'Eritrea in Italia. Allora come oggi, per la maggior parte di essi l'Italia è solo un punto di passaggio di un percorso con destinazioni più lontane. Ma non per tutti è stato così. Fra coloro che in Italia hanno invece deciso di fermarsi ci sono le donne arrivate da Asinara, negli anni '60 e '70, per lavorare come domestiche presso famiglie romane. Il libro nasce dai ricordi di queste donne, raccontandoci la storia della migrazione eritrea in Italia e l'esperienza di alcune fra le prime straniere impegnate in un lavoro che caratterizza tutt'oggi la migrazione femminile nel nostro paese. C'è un elemento, tuttavia, che distingue l'esperienza di queste donne da quella delle ucraine, filippine o peruviane che lavorano nelle case degli italiani: l'esistenza di un passato legame coloniale fra l'Italia e il proprio paese. Nelle memorie delle intervistate, la dimensione postcoloniale emerge come un aspetto fondamentale della propria identità, della propria esperienza lavorativa come domestiche e della propria relazione con l'Italia in quanto paese ex colonizzatore. Le ragazze di Asmara s'inserisce in un dibattito crescente, anche in Italia, circa la costruzione dell'identità di soggetti neri, migranti e (ex) colonizzati. 2. Il caso delle donne provenienti da una ex colonia che vanno a lavorare nel paese degli ex colonizzatori [è] qualcosa di unico, o almeno di molto diverso, rispetto al caso di altri gruppi. Parte da questo assunto Sabrina Marchetti nel suo libro “Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale”, applicandolo al caso esemplare delle donne eritree che negli anni ’60 e ’70 giunsero in Italia. Una storia poco conosciuta dagli italiani – almeno quanto il proprio passato coloniale nel Corno d’Africa – che il libro, attraverso i racconti e le voci delle protagoniste, recupera e rilegge all’interno della dimensione, ben più ampia, della globalizzazione del lavoro domestico e di cura, o meglio della delega quasi esclusiva che le società europee hanno fatto di questo lavoro alle donne straniere di origine immigrata. Nel caso della migrazione eritrea in Italia – e più in generale delle migrazioni dai paesi colonizzati ai paesi colonizzatori – l’applicazione di una prospettiva postcoloniale al regime culturale ed economico che regola l’inserimento dei migranti nelle società di emigrazione, permette di rintracciare una netta linea di continuità tra la colonizzazione e la globalizzazione, tra il posto riservato ai colonizzati nei loro paesi durante i regimi coloniali e il posto che si ritrovano ad occupare nei paesi europei quando vi arrivano da immigrati. Il libro rilegge l’immigrazione eritrea e le condizioni di vita – nonché i vissuti – delle immigrate eritree in Italia, in diretta continuità con il regime coloniale italiano e con la condizione di “domesticità” già in quel contesto riservata loro. Le ragazze che negli anni ’60 e ’70 da Asmara raggiunsero Roma, scelsero l’Italia e furono scelte dagli italiani proprio in virtù della precedente socializzazione alla cultura italiana e della forte prossimità sperimentata con gli italiani in Eritrea: durante la colonizzazione attuata dal Regno d’Italia sul finire dell’Ottocento; durante il fascismo, che tra gli anni ’20 e ‘30 vi attuò una politica di segregazione lungo linee “razziali” e sessuali; infine, durante il periodo del neocolonialismo, che tra il 1945 e il 1975 vide moltiplicarsi le occasioni di scambio e contaminazione tra la cultura italiana e la cultura eritrea, sia nei luoghi pubblici che nelle abitazioni private, ma che non per questo modificò l’ordine gerarchico vigente tra le due culture. Sempre, in ciascuna fase, alle donne eritree fu assegnato il compito di occuparsi dei servizi domestici destinati alla popolazione italiana, in base a una divisione del lavoro fondata sulle differenze di genere e di “razza”. Parallelamente, l’istituto del “madamato” inaugurato dal colonialismo italiano in Eritrea sul finire dell’Ottocento, ossia il concubinato tra uomini italiani e donne eritree (che il fascismo nel 1937, con l’introduzione delle leggi razziali, proibì e perseguì penalmente, causando il disconoscimento dei figli nati da quelle relazioni e l’abbandono di molte donne), generò anche rapporti di parentela che contribuirono ad accrescere le occasioni di familiarità e vicinanza tra gli eritrei e gli italiani.   È in virtù di questo passato che, nel momento in cui in Italia iniziò a svilupparsi una domanda di lavoro domestico retribuito, non solo l’Italia considerò quasi naturale richiamare forza lavoro dall’Eritrea piuttosto che da altri paesi, ma le stesse donne eritree si pensarono come le più adatte a svolgere quel lavoro. La convinzione di essere le più “brave” nell’interpretare i desideri e i gusti degli italiani, di possedere cioè quel “capitale culturale”, al contempo “femminile” e “postcoloniale”, necessario per svolgere bene e meglio di altre il lavoro domestico e di cura in Italia, ritorna frequentemente nei racconti delle intervistate, come una sorta di tattica narrativa utile a conferire maggiore dignità e valore al ruolo ricoperto nelle famiglie italiane. Un capitale, dunque, che al momento della migrazione hanno saputo strategicamente sfruttare per essere scelte, che nella ricostruzione della propria storia permette loro di elaborarne una valutazione tutto sommato positiva, ma che al momento dell’arrivo in Italia hanno scoperto non essere riconosciuto dagli italiani. In molte, ricordano la delusione e il sentimento di disambientamento provato quando, giunte in Italia piene di aspettative, si sono dovute confrontare con l’indifferenza da parte degli italiani, il non riconoscimento degli studi svolti in Eritrea – spesso proprio presso scuole italiane –, in alcuni casi addirittura la vergogna e l’imbarazzo da parte di quegli stessi italiani con cui in Eritrea avevano condiviso tanti momenti di vita in comune. Di fatto, quello che scoprono ma non dicono, è che il loro trasferimento dall’Eritrea all’Italia non è che il passaggio da una colonia fuori confine a una nuova colonia interna, da una “periferia coloniale” a una “metropoli postcoloniale”. Persino lo spazio domestico e l’architettura delle case in cui le donne eritree vanno a vivere e a lavorare, sembrano essere stati pensati per riprodurre continuamente il confine tra le famiglie italiane e le domestiche eritree e, per estensione, tra bianchi e neri, tra colonizzatori e colonizzati. Quel capitale culturale acquisito dalle donne durante il colonialismo e da esse rivendicato come valore aggiunto con cui candidarsi all’ingresso e alla vita in Italia, è stato anche la loro gabbia, relegandole per anni allo stesso lavoro e allo stesso posto nella scala sociale. I profili delle protagoniste del libro – oggi ormai anziane – descrivono donne che lavorano ancora adesso come domestiche (o che hanno smesso di farlo da poco) e che nella gran parte dei ovvero docili, diligenti e brave a eseguire gli ordini “senza dire niente” (come spiega una di loro, Anna), dunque perfette per essere inserite in un contesto di domesticazione. E se, come Anna, pur non sapendo parlare perfettamente la lingua, sapevano stirare e alzare i letti, gli italiani “cosa potevano volere di più”? Così “le ragazze di Asmara” (così le definisce Anna, e così Marchetti decide di intitolare il suo studio) si erano dovute accontentare di ereditare un posto scomodo che ormai nessuna italiana era più disposta a prendere, accettando di vivere in stanze minuscole e di sorbirsi tutte le fatiche che prima spettavano ad altre donne. Ed era successo proprio così a quelle intervistate da Marchetti, a quelle cioè che avevano scelto di restare a Roma dopo aver svolto il lavoro di domestiche per tutta la vita. Quando una giovane Sabrina aveva chiesto loro di poterle intervistare, si erano tutte mostrate molto affettuose e disponibili nei suoi confronti, accettando ben volentieri di raccontare le loro storie: che di storie da raccontare ne avevano a dozzine loro! Come quella volta che Zufan era stata “prestata” per una cena importante a un’amica della sua padrona “che non aveva un’eritrea”, proprio come fosse un oggetto. O quella volta in cui Anna aveva mandato tutti al diavolo ed era stata tutto il pomeriggio nella sua stanza dopo aver passato la mattina a pulire tutta la casa ed essere impazzita a cucinare il pranzo per i padroni e i loro ospiti: altro che vacanza, quando i padroni la portavano nella casa al mare era il periodo peggiore dell’anno! Una storia diversa è invece quella delle surinamesi: esse erano giunte in Olanda per restarci, avevano iniziato a lavorare come badanti (delle persone anziane, ma anche dei bambini e della casa), un lavoro che prima di allora lì non esisteva, ma la maggior parte di loro aveva poi svolto altri lavori, e alcune avevano perfino iniziato a studiare. Durante le interviste però, nessuna surinamese si è mai autodefinita badante, preferendo utilizzare il termine olandese che noi potremmo tradurre con “assistente domiciliare”, ritenuto più nobile e dignitoso. Inoltre, raccontando del loro lavoro, dicevano di averlo fatto perché “le olandesi non ne erano in grado” e “altrimenti la casa andrebbe in rovina!”. Quello che potrà sembrare un dettaglio superficiale rivela invece la principale differenza tra le surinamesi e le eritree: le prime avevano infatti imparato l’olandese ascoltando la radio, erano dunque più istruite e questo aveva permesso loro di acquisire una più alta consapevolezza di sé e del loro valore. Erano diventate coscienti delle discriminazioni e dei pregiudizi nei loro confronti, del diverso trattamento che ricevevano e soprattutto di quello che avevano ricevuto quando lavoravano nelle famiglie olandesi. Per questo motivo molte di loro si erano rifiutate di parlare con Sabrina e la sua assistente olandese: “davvero vuoi che ti racconti cosa mi ha fatto tua nonna? No, non lo vuoi sapere, te lo dico io”. E quelle poche che si erano prestate non erano certo state gentili come le eritree, che al contrario vedevano Sabrina come l’“italiana buona”. A prescindere dalle differenze nel vissuto di queste donne, ci sono però dei punti in comune su cui Marchetti focalizza la sua riflessione: la tendenza all’etnicizzazione delle qualità necessarie a fare un certo tipo di lavoro, le dicotomie tra ricco e povero, nero e bianco, padrone e servo; e ancora l’infantilizzazione e indottrinazione del soggetto coloniale, o la commercializzazione del lavoro delle donne migranti, che oltre a diventare una merce si porta dietro tutto il peso degli stereotipi determinati dal passato coloniale. Ma soprattutto emerge ancora una volta la questione del genere come aspetto che influenza la sfera del lavoro, per esempio nel decidere quali lavori sono adatti alle donne, e in particolare alle donne migranti, che oltre alle discriminazione di genere subiscono anche quelle razziali. In conclusione al suo studio, Marchetti propone dunque un’analisi della colonialità del lavoro domestico che opera su tre diverse dimensioni: quella della società, che si occupa della relazione tra le donne migranti e l’Italia in quanto paese in cui sopravvivono rappresentazioni etnicizzate e di genere che derivano dal periodo coloniale; quella del soggetto, che studia la capacità di incorporare nella propria auto-narrazione queste rappresentazioni per dare senso alla propria esperienza e alle relazioni di potere che le determinano; e infine quella che cerca di indagare a fondo le origini degli spostamenti migratori per ricordare che la catena migratoria non è mai la risposta, e se si crea ci sono sempre dei motivi antecedenti da scoprire. Per concludere, dunque, vi invito a leggere Le ragazze di Asmara, con la speranza di mettere fine una volta per tutte al (post)colonialismo e ai suoi ingombranti strascichi! 4. Con gli Italiani non si poteva parlare ma si mangiava. Con gli Inglesi si poteva parlare ma non si mangiava. Con gli Etiopi non si poteva parlare e non poteva mangiare”. Con questa espressione popolare si sintetizza il XX secolo degli Eritrei. La nazione dell’Africa orientale vanta un lungo legame con l’Italia e, in senso, esteso con l’Occidente. Andando a ritroso nel tempo, fino a perdersi nella leggenda, va ricordato il mito della Regina di Saba, la quale, dopo avere incontrato il re Salomone, in Eritrea si fermò fondando una colonia ebraica. San Frumenzio nel IV secolo della cristianità vi trovò terreno fertile e preparato per la sua evangelizzazione. Il legame stretto, ancora oggi resistente, fra l’Italia e l’Eritrea, però, è dovuto al periodo coloniale. Si fa risalire al 1869 l’inizio della presenza coloniale italiana in Eritrea. Preparata dalla predicazione dei religiosi negli anni precedenti, a quella data l’Agenzia Rubattino acquistò la baia di Assab. A seguito di varie battaglie, poi, il Regno d’Italia sottrasse all’Impero d’Etiopia sempre più territorio, fino a penetrare nell’entroterra con il Trattato di Uccialli (1889). Lo stop all’espansione coloniale italiana nell’area pervenne nel 1892 con il pesante rovescio di Adua, prima sconfitta di un esercito europeo in terra d’Africa. La ripresa dell’aggressione colonialista coincise con il fascismo fino all’invasione e alla conquista dell’Etiopia con la conseguente condanna e l’embargo da parte della Società delle Nazioni a carico del Regno d’Italia. Il colonialismo italiano, bonariamente ma erroneamente definito “straccione” e dal volto buono, in realtà venne gestito militarmente come tutte le potenze coloniali europee. Gli Italiani occuparono tutti i gangli del potere economico e amministrativo, applicarono l’apartheid nei confronti degli indigeni, esclusero i bambini eritrei dalle scuole (fino al 1934, da quando poterono raggiungere la quarta elementare), si macchiarono di violazioni dei diritti umani, escludendo da gran parte di quelli civili la popolazione eritrea. Colpa assai grave degli occupanti fu l’introduzione dell’ostilità fra Eritrei e Etiopi, inedita fino a quel punto, arruolando forzatamente gli Eritrei come riservisti nel corpo degli Ascari, impiegati nella guerra coloniali contro l’Impero d’Etiopia e contro la resistenza libica. Fra le pratiche più disgustose va annoverato il madamato. Approfittando del fatto che il matrimonio, per antica consuetudine, fra gli Eritrei non era sancito da un atto formale, gli occupanti poterono approfittare anche sessualmente, oltre che servilmente, delle donne, ragazze e bambine eritree ridotte in condizioni di sostanziale concubinaggio. Quando il decreto regio n.880 del 1937 abolì il madamato, la condizione delle concubine e dei loro figli avuti dagli occupanti precipitò; divennero amanti, madri e figli vennero semplicemente ripudiati né alcun atto formale certificava legalmente il rapporto coniugale. Nel 1941 i Britannici “liberarono” militarmente l’Eritrea nella quale si erano insediati circa 50 mila italiani, soprattutto manodopera e piccoli imprenditori. Una parte scelse di restare in Eritrea anche dopo la perdita della colonia, trascorrendo un prospero periodo di eldorado, conclusosi negli anni Sessanta. Nel 1952, infatti, i Britannici avevano abbandonato l’Eritrea, unita per risoluzione delle Nazioni Unite in federazione con l’Etiopia. L’imperatore Etiope Hailé Selassié nel 1962 annetté l’Eritrea, causando la resistenza armata del popolo etiope. Caduto Selassié nel 1974 a seguito del colpo di stato militare del Derg, la lotta per l’indipendenza eritrea si trasformò in guerra aperta con tanto di battaglie e bombardamenti sulle città. Nel 1991 dopo immani sofferenze durante tre decenni l’Eritrea ottenne l’indipendenza. A partire dagli anni Sessanta fu significativa l’emigrazione degli Eritrei in Italia dove trovarono facilmente impiego nelle case come badanti, cuochi, domestici, bambinai, tuttofare, contestualmente all’ingresso in fabbrica di un numero sempre crescente di italiane. in questo contesto è stata studiata l’influenza della postcolonialità, il regime di dipendenza culturale instauratosi fra la popolazione ex colonizzata e gli ex colonizzatori. Il periodo di maggiore diffusione e influenza culturale andò dal 1945 al 1975 ovvero dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio della guerra dichiarata con l’Etiopia. In questo periodo gli Italiani rimasti in Eritrea formarono un élite molto ammirata che diffuse molto fortunati stereotipi avvaloranti le bellezze e le virtù dell’Italia, formando così un’idea del Bel Paese accresciuta dai dischi e dai del terziario ha fatto emergere specifici settori nei quali si mette in evidenza il “lavoro corporeo” ovvero un lavoro che mette in stretta connessione il corpo della lavoratrice con altri corpi (assistenza alle persone, baby sitter, colf, ecc) e che deve continuamente essere adeguato alle esigenze della persona con la quale si entra in contatto Questo concetto diventa particolarmente importante nel rapporto tra colonizzati e colonizzatori. I secondi hanno bisogno del lavoro dei primi, spesso direttamente nelle loro case, dove il loro lavoro serve quasi a mantenere la purezza della razza dei colonizzatori, messa a repentaglio dalla vicinanza con una razza “inferiore”, spesso dipinta con tratti negativi come brutta/sporca/disgustosa ma che per molti rappresenta anche una inconsapevole attrazione anche fisica, quasi fosse la scoperta del diverso che da un lato spaventa ma dall’altro attrae Il movimento femminista aveva preso di mira la casa, intesa come luogo di segregazione della donna che doveva ambire a palcoscenici differenti. Ma la casa era anche il contenitore di fenomeni sociali, sede di gerarchie, di centri di potere. Tra questi la relazione tra padrona di casa e lavoratrice domestica, che può essere intesa se si considera la casa non come uno spazio ma come un luogo dove avviene un contatto tra due culture e segnato da precisi luoghi di confine, dove le pratiche domestiche hanno protocolli precisi da seguire Nell’ambiente domestico si manifestano e si sviluppano anche, almeno per le donne bianche, specifiche caratteristiche che diventano poi parte integrante della loro personalità (ad es. la capacità di accudire bambini o la premura nei confronti del marito), opponendola a quello che invece manca a donne sempre bianche ma di classe sociale più elevata. In questo caso l’appartenenza ad una classe inferiore viene vista come motivo di orgoglio in quanto permette di sviluppare una superiorità rispetto ad altre donne. E’ lo sviluppo di una “tattica” che permette di costruirsi una propria resistenza soggettiva. E’ il capitale culturale femminile, che però rimane valido all’interno della persona stessa e non può essere visto e valorizzato all’esterno in quanto non consente un miglioramento della propria condizione sociale. L’utilizzo di queste tattiche è tipico delle lavoratrici domestiche delle migranti. Tutto questo serve per rendere stabile il proprio ruolo all’interno della famiglia ove lavorano; anche se non permette di cambiare la loro condizione, permette loro di realizzarsi e poter alimentare una autostima fondamentale CAPITOLO 2 I primi italiani a raggiungere l’Eritrea furono missionari religiosi intorno alla fine del XIX secolo, subito prima che l’Eritrea diventasse un obiettivo commerciale con l’acquisizione della baia di Assab da parte della Compagnia Rubattino nel 1869. Da lì una progressiva conquista di territori che portò l’imperatore Menelik II a stipulare il trattato di Uccialli nel 1889 con il quale riconosceva il passaggio all’Italia di una parte di territori eritrei. Dopo l’avvento del fascismo nel 1922 la conquista dell’Eritrea divenne obiettivo principale del regime, dipingendo gli eritrei come superiori agli altri africani e quindi come popolazione primogenita in Africa. L’occupazione fu più civile che militare con una lenta penetrazione italiana in numerose attività commerciali sino ad occupare tutti i posti di vertice nella amministrazione del paese. L’Eritrea fu oggetto di uno sviluppo importante, con la costruzione di strade, ponti, ferrovie, potenziamento di porti, creazione nelle città di interi quartieri italiani, numerose chiese cattoliche, sviluppo della rete sanitaria con ospedali, sviluppo della agricoltura sugli altopiani, importante occupazione lavorativa per molti eritrei Asmara venne di fatto costruita tra il 1936 e il 1941 con uno stile tipicamente italiano ben riconoscibile ancora oggi. Contava circa 100.000 abitanti e oltre la metà erano italiani Questa occupazione apparentemente non violenta venne però accompagnata da provvedimenti di tipo segregazionista e razziale nei confronti della popolazione locale. Due furono i fenomeni principali : Il Madamato = una sorta di relazione concubina che portò molti uomini italiani regolarmente sposati ad avere relazioni anche continuative e durature con donne locali, formando una famiglia, facendo dei figli. Situazione accettata dalle stesse donne e dalla società eritrea. Questo sino al 1937 quando con le leggi razziali questo venne vietato, le donne e i figli abbandonati a loro stessi mettendoli in grande difficoltà. Per molto tempo bambini italo-eritrei ora adulti si sono battuti per vedere riconosciuta la loro paternità italiana Gli ascari = il contraltare maschile del madamato, dove la relazione non è ovviamente sentimentale ma militare. Formano buona parte delle truppe al servizio degli italiani che vengono impiegate nelle battaglie più dure, in territori che loro – al contrario degli italiani – ben conoscono. Il loro impiego contro gli etiopi rappresenta forse l’inizio della decennale guerra Etiopia-Eritrea, dopo il “tradimento” degli ascari nei confronti di una popolazione sino ad allora amica Le tappe successive furono :  1941 l’Eritrea passa in mano inglese con un protettorato che dura sino al 1952, quando viene consegnata all’Etiopia come paese federato e inizia l’esodo della comunità italiana  1962 Hailè Selassiè imperatore etiope occupa l’Eritrea dando il via alla guerra  1974 Colpo di stato in Etiopia con la detronizzazione di Selassiè e giunta militar del Derg al potere  1975-1977 Guerra, bombardamenti su Asmara, persecuzioni popolazione locale. Quasi tutta la comunità italiana in Eritrea viene rimpatriata con un ponte aereo  1977 Sale al potere in Etiopia Menghistu Hailè Mariam e inizia il periodo del Terrore Rosso  1991 Liberazione di Asmara da parte dei movimenti indipendentisti Molti italiani (circa 10.000) rimasero in Eritrea anche dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, e il periodo tra il 1945 e il 1974 è stato un periodo molto florido e ricco, dove moltissimi sono riusciti a conquistare posizioni di vertice in ambito economico, sociale e culturale. Nasce qui un rapporto con la popolazione che, confrontando la presenza italiana con quelle successive, tende a preferire la prima rispetto alle seconde. Il legame coloniale non si è mai spezzato, molte persone sono in contatto con gli italiani, assumendo una familiarità con usi costumi abitudini e rapporti che sarà poi alla base, specialmente per le donne, della migrazione CAPITOLO 3 La fase post bellica 1945-1975 è quella nella quale, in un clima di pace, si realizza al meglio l’incontro tra italiani ed eritrei. Asmara ne è il centro. Città costruita in stile italiano, con centri di socializzazione che ricalcano lo stile italiano (bar, cinema, teatri, ristoranti) era stata definita da Mussolini la “Seconda Roma” proprio a significare il ruolo che doveva avere tra l’Italia colonizzante e l’Eritrea colonizzata In questo ambiente avviene l’incontro tra le due culture, con molte donne eritree che svolgono il ruolo di domestica nelle case dei moltissimi italiani che sono rimasti (spesso legandosi a donne locali o in forma di concubinato o di vero matrimonio), e dove possono imparare a respirare il modo di pensare e di vivere italiano, che sarà poi alla base della loro emigrazione verso l’Italia L’Italia viene sempre presa a modello come un paese evoluto, moderno, civilizzato; ma la narrazione è sempre in forma subalterna. Sono gli italiani che raccontano dell’Italia agli eritrei con un senso di superiorità, quasi in forma didattica Molte di queste donne domestiche avevano figlie o figli che crescevano con loro nella casa presso la quale lavoravano, assorbendo in pieno l’italianità che in quella casa si respirava, sentendosi in gran parte italiani anche se l’Italia non la conoscevano, ma appariva come il paese meraviglioso che era descritto nei racconti che sentivano in casa Il rapporto italiani/eritrei anche al di fuori delle case era continuo. Era prassi comune incontrare italiani per strada e socializzare in un clima di pace e tranquillità. Moltissimi eritrei parlavano correntemente italiano In alcuni casi la vicinanza tra famiglie italiane ed eritree portava a momenti di condivisione di eventi come il rito del caffè pomeridiano (rigorosamente eritreo) ,in un cortile comune che diventava una sorta di zona di contatto culturale, al rientro a casa del capofamiglia italiano, nel quale il caffè diventava momento per perfezionare le rispettive lingue e scambiare considerazioni sull’Italia Nelle parole delle donne intervistate l’Italia e gli italiani sono sempre messi al primo posto ; il paese in quanto dipinto come il Belpaese, e le persone perché avevano raggiunto posizioni di vertice in molti ambiti accettate senza problemi dagli eritrei. Questa suddivisione di ruoli ottenuta in modo assolutamente pacifico e naturale ha fatto dire ad alcuni (Anthony King) che questo appare come una naturale segregazione tra i due gruppi, dove ognuno sa perfettamente quale sia il suo ruolo nella società e da un lato lo esercita e dall’altro lo accetta Non è quindi una condizione che possa fare immaginare una piena integrazione tra i due gruppi, piuttosto un confine che si è stabilito in maniera naturale comunque in base a parametri quali il colore della pelle, la condizione sociale, anche la religione. Nessuna delle donne ha parlato di una vera amicizia con coetanei italiani, piuttosto di una conoscenza e reciproco rispetto ma sempre nell’ambito di ruoli ben definiti Al contrario di altri casi di colonizzazione la scuola in Eritrea non ha svolto un ruolo di acculturazione per i locali, piuttosto una struttura sicura per i figli degli italiani che lì vivevano, e uno strumento di diffusione della cultura cattolica. Solo dopo la fine della guerra aumenta il numero di bambini eritrei che si iscrivono nelle varie scuole italiane presenti ad Asmara e nel resto del paese, o per trovare poi lavoro nelle aziende italiane presenti, o perché già cresciuti in case di italiani e quindi la scuola italiana diventava la naturale prosecuzione di quella esperienza. La scuola italiana era una replica perfetta di quella in Italia (i libri arrivano dall’Italia, i professori sono tutti italiani, si studia in italiano, la lingua locale si studia come lingua straniera, si canta l’inno italiano ogni mattina prima di entrare in classe) La scuola diventa una palestra nella quale i locali imparano ad assorbire la cultura italiana, e a sentirsi emotivamente sempre più vicini a quel popolo che resta comunque un popolo colonizzatore. Questa esperienza per molte sarà poi una frustrazione e una disillusione nel momento in cui, arrivate in Italia, si vedranno negato il riconoscimento di quella istruzione, il che lascerà come sola strada possibile quella del trovare lavoro come domestica sfruttando almeno la conoscenza della lingua italiana. L’assorbimento della cultura italiana avveniva anche tramite lo spettacolo come il cinema o le canzoni. I cantanti e gli attori italiani erano conosciutissimi. I film italiani avevano grande seguito e rappresentavano per molti l’occasione di frequentare uno spazio condiviso come il cinema. Le canzoni italiane facevano sognare un paese nuovo, meraviglioso, pieno d’amore. I circoli culturali erano sale da ballo frequentatissime. Questo ovviamente era molto più facile per chi viveva nelle case di italiani, dove film musica e riviste che arrivavano dall’Italia circolavano in gran numero In particolare poi per le ragazze il ruolo fondamentale delle riviste femminili o dei fotoromanzi, che permettevano di avere accesso ad un mondo femminile totalmente sconosciuto, dove si parlava di Italia ma anche di sessuologia o di libertà impensate per le eritree Era un processo diverso rispetto al tentativo di portare la culturale tipico del periodo coloniale bellico, dove l’esposizione della cultura italiana (ad esempio tramite film proiettati all’aperto anche in zone remote aveva uno scopo puramente propagandistico). Ora era un fenomeno più alla portata di tutti Tutto comunque in un rapporto che non era paritario, ma che vedeva la popolazione eritrea impegnata ad “assorbire” il più possibile della cultura portata dai “colonizzatori”, in due diversi piani che al più viaggiavano paralleli ma non si potevano veramente integrare. CAPITOLO 4 Nel 1975 esplode il conflitto con l’Etiopia e questo determina un improvviso peggioramento delle condizioni di vita in Eritrea portando molti giovani specialmente di buona istruzione a cercare immediatamente una via fuga verso l’Italia e poi altri paesi nei quali fosse possibile ottenere l’asilo politico che non si poteva richiedere in Italia, ma anche di donne dal livello di istruzioni medio- basso che raggiungono l’Italia spesso grazie all’aiuto degli italiani con i quali erano venute in contatto in Eritrea. E’ comunque uno shock che le porta a contatto con una realtà differente da quella che si erano immaginate, e le pone immediatamente in una condizione di inferiorità e marginalità. Chi in Eritrea aveva rapporti marginali con gli italiani non avverte grande differenza, ma chi era abituato a vivere in maniera più stretta la relazione avverte maggiormente una sensazione di straniamento, con il ripetersi di atteggiamenti di tipo “coloniale” da parte degli italiani con i quali vengono in contatto e la perdita del “capitale culturale” che invece in Eritrea potevano vantare. Gli stessi italiani conosciuti in Eritrea cambiano atteggiamento quando sono incontrati in Italia, quasi che l’essere adesso loro i padroni di casa rendesse necessario un mutato atteggiamento. Persino le stesse persone con le quali avevano condiviso il lungo viaggio dall’Eritrea all’Italia passando per il Sudan, e che durante il viaggio promettevano di essere punti di riferimento una volta in Italia, giunti a casa avevano totalmente cambiato atteggiamento, assumendo quasi toni “da elemosina” invece che di vera vicinanza e solidarietà
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