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Le Rivoluzioni del libro, di E. Eisenstein - riassunto complessivo molto dettagliato, Prove d'esame di Storia Antica

Riassunto dettagliato del saggio "le rivoluzioni del libro" di Elisabeth Eisenstein. Pagine totali: 58.

Tipologia: Prove d'esame

2017/2018

In vendita dal 31/12/2018

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Scarica Le Rivoluzioni del libro, di E. Eisenstein - riassunto complessivo molto dettagliato e più Prove d'esame in PDF di Storia Antica solo su Docsity! 1 Elizabeth L. Eisenstein Le rivoluzioni del libro L’invenzione della stampa e nascita dell’età moderna Parte prima L’affermazione della cultura tipografica in Occidente Prefazione Questo libro si concentra soprattutto sugli effetti della stampa sui documenti scritti e sulle idee di élite già colte. Oggi, la moda è quella della storia dal basso, che non trascura, cioè, il cosiddetto «inarticolato» (= le popolazioni presumibilmente dotate di linguaggio, ancorché analfabete) e che si sofferma su temi quali i cambiamenti demografici e climatici, la struttura familiare, l’educazione dei bambini, il delitto e le pene, le feste, i funerali e le sommosse per il cibo…; approcci sicuramente utili per correggere un vecchio squilibrio elitarista e per aggiungere nuove dimensioni di studio, ma non adatti a comprendere i propositi di questo libro. Ciò non significa che si ignorerà completamente il progresso dell’alfabetizzazione. Le nuove questioni poste dalle traduzioni e dalle divulgazioni nelle lingue locali ebbero ripercussioni significative sia all’interno che all’esterno del mondo della cultura. Tuttavia il libro si incentra in primo luogo non sulla diffusione dell’alfabetizzazione ma sui modi in cui la stampa alterò la comunicazione scritta all’interno della repubblica delle lettere. Il suo interesse primario è la sorte dell’«alta» cultura delle élite professionali che leggevano il latino. Inoltre, la Eisenstein ritiene di limitare la propria analisi a poche regioni dell’Europa occidentale, per cui, nel suo libro, l’espressione «cultura della stampa» è usata in un particolare senso occidentale provinciale: ad es. tralascia la possibile attinenza della stampa di Gutenberg con i precedenti sviluppi asiatici, cosi come esclude quelli successivi in Europa orientale, nel Vicino Oriente e nel Nuovo Mondo. La stessa autrice, nella Prefazione, spiega che, essendo possibile cogliere la differenza tra trasmissione per copiatura a mano e mediante stampa solo percorrendo mentalmente molti secoli, ha dovuto essere molto più elastica con i limiti cronologici che con quelli geografici, risalendo occasionalmente anche al Museo di Alessandria d’Egitto e alle prime pratiche cristiane; ha dovuto soffermarsi più di una volta su grafie medievali e sulle botteghe di cartolai; e ha dovuto guardare anche avanti, per osservare gli effetti dell’accumulazione e del cambiamento incrementale. E’ infine importante, per l’autrice, precisare che ella considera la stampa un fattore, non il fattore e tanto meno l’unico fattore di mutamento nell’Europa occidentale. Tale precisazione è ritenuta necessaria in quanto l’idea di analizzare gli effetti prodotti da un’innovazione particolare può destare il sospetto che si sia favorevoli a un’interpretazione monocausale o che si inclini al riduzionismo e al determinismo tecnologico. 2 In quanto uno dei fattori di mutamento, la stampa modificò i metodi di raccolta, sistemazione e recupero dei dati e le reti di comunicazione usate dalle comunità erudite di tutt’Europa. Merita, quindi, un’attenzione particolare perché ebbe effetti particolari. Il libro in questione si propone proprio di descrivere tali effetti e di suggerire come possono essere collegati ad altri sviluppi concomitanti. Questi “altri sviluppi” non possono – e non devono – essere ridotti a nient’altro che un cambiamento nelle comunicazioni: ciò sarebbe assurdo. Esprimendo insoddisfazione per gli schemi predominanti, la Einsenstein dà spazio a una dimensione finora trascurata del cambiamento storico: spiegare perché molte variabili, presenti da tempo, cominciarono a interagire in modi nuovi. *** Capitolo primo. La rivoluzione inavvertita Alla fine del ‘400, la riproduzione di materiali scritti cominciò a spostarsi dalle scrivanie dell’amanuense alla bottega dello stampatore. Un passaggio che rivoluzionò tutte le forme di cultura. Poiché gli storici solitamente studiano i cambiamenti più importanti e questo cambiamento trasformò le condizioni stesse del loro mestiere, ci si aspetterebbe che questa trasformazione riceva una certa attenzione dall’intera professione. Invece, non è così: il passaggio dalle scrivanie alle botteghe è stato degnato di scarsissima attenzione. Molti studi sugli sviluppi degli ultimi cinque secoli non fanno parola degli effetti dell’evoluzione della stampa sulla società. Esiste, certo, una letteratura ampia sulla storia della stampa e temi collegati, e, di recente, tre libri hanno sintetizzato i dati degli studi precedenti: così Rudolf Hirsch passa in rassegna i problemi collegati a «stampa, vendita, lettura» nel primo secolo dopo Gutenberg; Febvre e Martin coprono in maniera esauriente i primi tre secoli di stampa; ampiezza ancora maggiore ha il volume dell’inglese Steinberg. Tuttavia, i dati relativi alla storia della stampa restano sempre isolati e separati artificiosamente dal resto della letteratura storica. Molti storici riconoscono che, dopo l’invenzione della stampa, ci furono cambiamenti cruciali, ma sembrano tutti arrestarsi prima di raccontarci quali furono per l’esattezza. Steinberg, ad esempio, scrive che la stampa ha esercitato un’influenza importantissima su tutti gli avvenimenti politici, costituzionali, religiosi, economici, e su tutti i movimenti sociali, filosofici e letterari, tanto che nessuno di essi può essere compreso appieno se non si tiene conto di questa influenza»; nondimeno, quando autori come Steinberg parlano dell’impatto della stampa in ogni campo dell’attività umana non è affatto chiaro ciò che hanno in mente. Almeno in parte, sembrano indicare conseguenze indirette che devono essere dedotte e che sono associate al consumo di prodotti stampati o a mutate abitudini mentali. Tali conseguenze naturalmente hanno notevole importanza storica e influenzano quasi tutte le attività umane. Tuttavia è difficile descriverle con precisione o anche determinare con esattezza quali sono: non è facile, infatti, stabilire in che modo l’accesso a una maggiore quantità o varietà di documenti scritti influenzò i modi di apprendere, pensare e percepire delle élite alfabetizzate, né è facile stabilire come e fino a che punto leggi, lingue o costrutti mentali furono influenzati da testi più uniformi. Ancora oggi, sappiamo ben poco del modo in cui l’accesso a materiali stampati influenza il comportamento umano. 5 che si intende con «avvento della stampa» abbia contribuito ad attenuare l’interesse sulle sue conseguenze e ne abbia reso più difficile l’individuazione; tanto che, quando si fanno altre indagini, si considera prudente aggirare un avvenimento tanto problematico: ma questo non si può fare per la comparsa di nuovi gruppi professionali che impiegarono tecniche nuove e installarono nuove apparecchiature in botteghe di tipo nuovo mentre estendevano le reti commerciali e cercavano nuovi mercati per accrescere i profitti ricavati dalle vendite. Sconosciute ovunque in Europa prima della metà del ‘400, nel ‘500 le tipografie si trovavano in ogni importante città, e questo non si può ignorare. La ricerca della Eisenstein – che trascura volutamente la già enorme letteratura circa l’invenzione della stampa di Gutenberg – parte da dove molti studi si fermano, cioè da quando vengono pubblicati i primi prodotti stampati datati e si mettono all’opera i diretti successori di Gutenberg. Quindi, per «avvento della stampa» (dove, per stampa, l’autrice intende un insieme di innovazioni come l’impiego di caratteri mobili metallici, inchiostri oleosi, torchi manuali di legno, etc.), la Eisenstein intende l’installazione di stamperie nei centri urbani al di là della Renania durante un periodo che comincia nel decennio 1460 e coincide, molto approssimativamente, con il periodo degli incunaboli. Gli studi dedicati a questo punto di partenza sono così pochi che nessuna definizione convenzionale è ancora stata data a questo periodo. Si può parlare di mutamento cruciale di un modo di produzione, di rivoluzione delle comunicazioni o dei media, o forse, con maggiore semplicità e chiarezza, di passaggio dalla scrittura a mano alla stampa. Qualunque definizione si usi, essa deve comprendere un folto gruppo di cambiamenti relativamente simultanei, strettamente collegati, ciascuno dei quali meritevole di uno studio più accurato e di un trattamento più esplicito. In primo luogo, meritano una maggiore attenzione il netto aumento della produzione di libri e la drastica riduzione del numero di ore lavorative necessarie per produrli. Oggi si tende a credere a un aumento costante nella produzione di libri durante il primo secolo della stampa, ma occorre fermarsi a riflettere: Michael Clapham, ad esempio, afferma (1957) che «un uomo nato nel 1453, l’anno della caduta di Costantinopoli, a cinquant’anni poteva vedere dietro di sé una vita durante la quale erano stati stampati circa otto milioni di libri, forse più di quanto avevano prodotto tutti gli amanuensi d’Europa da quando Costantino aveva fondato la sua città nel 330 d.C.». La prima critica va all’espressione «tutti gli amanuensi d’Europa»: infatti, anche prescindendo dal problema di non poter calcolare il numero di libri che non furono catalogati e poi andarono distrutti, è necessario accostarsi con cautela alle fonti dell’epoca, perché molto spesso danno indicazioni false del numero di libri esistenti. Poiché, infatti, era consuetudine registrare come un libro solo molti testi rilegati in una sola serie di copertine, non è facile appurare il numero reale di testi presenti in una data collezione di manoscritti. Analoga è la situazione quando passiamo al problema di calcolare le ore lavorative necessarie per copiare i manoscritti. Alcuni vecchi calcoli, basati sul numero di mesi impiegato dai 45 amanuensi di Vespasiano da Bisticci per produrre 200 libri per la biblioteca di Cosimo de’ Medici, si sono dimostrati privi di valore, sulla base di recenti ricerche approfondite. Insomma, il numero complessivo di libri prodotti da «tutti gli amanuensi d’Europa» dal 330 o anche dal 1400 resterà difficile da afferrare. Nondimeno, è possibile fare qualche confronto, da cui risulta che la produzione degli stampatori è in netto contrasto con le tendenze precedenti. Albinia de la Mare (1956) afferma che «nel 1483, la Stamperia di Ripoli chiese 3 fiorini per quinterno per comporre e stampare la traduzione di Ficino dei Dialoghi di Platone. Un amanuense avrebbe chiesto 1 fiorino per quinterno per copiare lo stesso libro. La Stamperia di Ripoli produsse 1.025 copie; l’amanuense ne avrebbe prodotta una». 6 Parlare, quindi, di un semplice “aumento di copie” è molto riduttivo. Indubbiamente, la copiatura a mano poteva essere abbastanza efficiente per riprodurre un editto reale o una bolla papale; ma produrre un’unica edizione completa di qualche testo non era impresa da poco nel Duecento. Molti testi preziosi manoscritti furono a malapena preservati dall’estinzione; un numero incalcolabile non sopravvisse. La sopravvivenza più certa era quella delle copie occasionali fatte da singoli studiosi interessati che fungevano da amanuensi di se stessi. D’altra parte, non si poteva certo parlare di «copie identiche moltiplicate» prima della stampa, per cui, specie quando si trattava di letteratura tecnica, la difficoltà di avere anche una sola copia «identica» di un libro tecnico importante era tale che l’interessato, lungi dal poter affidare il compito a un lavoratore a pagamento, decideva di fare da sé la copia pedissequa di tabelle, diagrammi e termini inconsueti. Va osservato che l’introduzione della carta, già introdotta precedentemente, non ebbe un effetto “moltiplicatore”. La produzione di carta, infatti, soddisfaceva le esigenze di mercanti, burocrati, predicatori e letterati; accelerò il ritmo della corrispondenza e permise a più uomini di lettere di diventare gli amanuensi di se stessi; ma era necessario lo stesso numero di ore lavorative per produrre un dato testo. Si moltiplicarono le botteghe gestite da cartolai in risposta a un aumento della domanda di taccuini, blocchi, fogli predisposti e altri strumenti: oltre a vendere il materiale per scrivere e i libri scolastici, così come il materiale e il lavoro di rilegatura, alcuni mercanti aiutavano anche i clienti a caccia di libri, mettendo in vendita libri preziosi. Avevano copie fatte su commissione e ne tenevano alcune nelle loro botteghe. Ma il loro impegno nel commercio di libri era più casuale di quanto si potrebbe pensare. Neppure Vespasiano da Bisticci, il più famoso mercante di libri fiorentino, che serviva prelati e principi e faceva di tutto per attirare clienti e vendere, non riuscì mai a far diventare “all’ingrosso” la sua attività. Infatti, non ci sono segni che egli si sia arricchito con i suoi affari. Ad ogni modo, Vespasiano ebbe clienti importanti e divenne famoso come «principe degli editori»; la sua bottega fu elogiata da poeti umanisti con versi simili a quelli usati, più tardi, per Gutenberg e Aldo Manuzio (editore di Venezia). Per quanto, in una sua biografia postuma, si lascia intendere che i manoscritti che uscirono dalla sua bottega per la Biblioteca di Urbino erano così belli che si sarebbero vergognati di stare in compagnia di un libro stampato, in realtà si sa che, nel 1470, i bibliofili fiorentini si rivolgevano a Roma per avere libri stampati. Sotto Guidobaldo da Montefeltro, la stessa Biblioteca ducale di Urbino acquistò edizioni stampate (con qualche imbarazzo) e le fece rilegare con le stesse splendide copertine dei manoscritti. La stessa corte incoraggiò anche l’installazione di una prima stamperia nel 1482. Tanto che, ad un certo punto, Vespasiano non riuscì più a trovare, da parte dei principi suoi patroni, un sostegno sufficiente per continuare il suo commercio esclusivo. Il suo più acerrimo rivale fiorentino, Zanobi, riuscì a far sopravvivere la sua bottega solo perché iniziò a vendere libri stampati (cosa che Vespasiano si rifiutò di fare). La chiusura della bottega di Vespasiano simboleggia il varo di un autentico commercio di libri su vasta scala. All’inizio, sulla stampa si ebbero giudizi duplici: per alcuni era un bene, per altri un male, anche se, in genere, la stampa era associata alla potenza divina più che a quella diabolica. Ovviamente, è altamente probabile che coloro che trovavano lavoro in una stamperia avessero sulla stampa un’opinione più favorevole rispetto ai membri delle corporazioni che si guadagnavano da vivere con i manoscritti (i quali, peraltro, lavorarono ancora a lungo anche dopo l’avvento della stampa). Che la nuova arte fosse considerata una benedizione o una maledizione, che fosse attribuita a Dio o al Diavolo, resta il fatto che l’aumento iniziale della produzione colpì gli osservatori 7 contemporanei come un evento abbastanza notevole da suggerire l’intervento soprannaturale. Anche gli studiosi moderni ancora si stupiscono quando vanno a calcolare il numero di pelli di vitello necessarie per fornire pelle sufficiente per la Bibbia di Gutenberg! Non sembra così difficile, quindi, consentire sul fatto che nella seconda metà del ‘400 si ebbe un incremento improvviso anziché graduale. È molto difficile vincere lo scetticismo passando dall’analisi della quantità a quella della qualità: infatti, se si confronta una copia tardo manoscritta di un testo con una sua prima copia stampata, si ha quasi l’impressione che nulla sia cambiato. Questo perché i primi stampatori (come Peter Schoeffer) cercavano di copiare un manoscritto il più fedelmente possibile, così come gli amanuensi quattrocenteschi ricambiarono la cortesia (cercando di scrivere le lettere spaziate in modo regolare e dedicando più tempo a revisione e correzione! In tal modo, lavoro a mano e a macchina continuarono a sembrare a lungo indistinguibili, anche dopo che lo stampatore ebbe cominciato ad abbandonare le convenzioni degli amanuensi e a sfruttare alcune delle nuove caratteristiche insite nella sua arte. È necessario, comunque, dare il giusto peso all’esistenza di caratteristiche nuove e al loro sfruttamento. Nonostante i suoi tentativi di riprodurre i manoscritti il più fedelmente possibile, il Peter Schoeffer stampatore seguiva procedure diverse da quelle seguite in precedenza dal Peter Schoeffer amanuense. Al di là dell’assenza di evidenti segni di cambiamento, ci fu, infatti, una trasformazione completa dei metodi di produzione, che diede vita alla paradossale combinazione di continuità apparente e cambiamento radicale. La somiglianza temporanea tra lavoro a mano e a macchina sembra suffragare la tesi di un cambiamento evolutivo molto graduale, ma si può sostenere anche la tesi opposta, sottolineando la netta differenza tra i due diversi modi di produzione già prima della fine del ‘400: nel giro di una generazione, il nuovo modo di curare i testi da parte degli stampatori avevano determinato una profonda separazione dalle convenzioni degli amanuensi per favorire la comodità del lettore. Il carattere commerciale altamente concorrenziale del nuovo modo di produzione del libro incoraggiò l’adozione relativamente rapida di ogni innovazione utile. Ben prima del 1500, ad esempio, gli stampatori cominciarono a sperimentare l’uso di «tutta la gradazione dei corpi di un carattere, dei titoli correnti [...] delle note [...] dell’indice generale [...] dei numeri esponenti e deponenti [...] e di tutte le altre possibilità che si offrono allo stampatore» – fatti che indicano «la superiorità dello stampatore rispetto allo scrivano»15. I frontespizi diventarono sempre più comuni, e ciò facilitò la compilazione di elenchi/cataloghi di libri; inoltre, le illustrazioni disegnate a mano furono sostituite da silografie e incisioni riproducibili più facilmente. Un’innovazione, quest’ultima, che rivoluzionò la letteratura tecnica, poiché diede la possibilità di ripetere con esattezza le illustrazioni in tutti i volumi di consultazione. Il fatto che immagini, mappe e diagrammi identici potessero essere visti contemporaneamente da lettori lontani costituì in sé una sorta di rivoluzione delle comunicazioni. William Ivins, già conservatore delle stampe al Metropolitan Museum ha sottolineato con forza questo concetto, anche se la sua tendenza a esagerare la portata della “rivoluzione” ha suscitato le obiezioni di altri specialisti, i quali fanno notare che immagini identiche erano già ripetibili e visibili ovunque sulle monete e sui sigilli antichi, mentre quelle ottenibili a stampa erano soggette a difetti dovuti all’usura delle matrici di legno. Qui, come altrove, bisogna stare attenti a non sottovalutare o sopravvalutare i vantaggi della nuova tecnologia. Anche quando un’illustrazione si doveva copiare a mano in centinaia di manoscritti poteva capitare che la precisione non fosse sempre garantita, nonostante alcuni 10 diffusione dell’alfabetizzazione fino a quando altri dati e studi intervengano ad analizzare la questione con un’attenzione maggiore. Ci sono, invece, altri problemi che meritano un approfondimento: ad esempio, l’espansione del pubblico dei lettori o la diffusione di nuove idee: infatti, quando si considerano le trasformazioni iniziali determinate dalla stampa, i cambiamenti subìti dai gruppi già alfabetizzati devono avere (almeno secondo la Eisenstein) la priorità sul problema innegabilmente seducente della rapidità con cui tali gruppi si ingrandirono. Una volta focalizzata l’attenzione sui settori già alfabetizzati, è chiaro che la loro composizione sociale richiede un’ulteriore riflessione:  la stampa servì dapprima prelati e patrizi come «arte divina» o dovremmo invece considerarla «l’amica del povero»? Dai contemporanei fu definita in entrambi i modi, ma, probabilmente, può essere fuorviante supporre che i nuovi torchi mettessero a disposizione di persone di umili condizioni prodotti in precedenza destinati solo ad altolocati; al contrario, sembra probabile che molte zone rurali non siano state toccate dall’avvento della stampa fino all’era della ferrovia;  un altro punto incerto è se si debba definire il primo pubblico di lettori quello costituito dalla classe media. È certamente necessario procedere con cautela quando si cerca di definire il pubblico di lettori. Troppo spesso si dà per certo che i libri di basso livello (o volgari) riflettano i gusti di una classe più umile, nonostante le diverse prove contrarie. Prima dell’avvento dell’alfabetizzazione di massa, i libri più popolari non erano quelli che si rivolgevano alla plebe, ma quelli che si rivolgevano a diversi gruppi di lettori. La distinzione tra pubblico che legge in latino e pubblico che legge in lingua parlata non andrebbe messa in relazione con le condizioni sociali: è vero che il medico cinquecentesco che usava il latino era considerato superiore al chirurgo che non lo usava, ma è altrettanto vero che probabilmente nessuno dei due apparteneva alle classi superiori del regno. Nei Paesi Bassi, una traduzione dal latino al francese spesso non era rivolta al pubblico laico cittadino, che conosceva solo i dialetti della Bassa Renania, ma a circoli di corte relativamente esclusivi; al tempo stesso, una traduzione in «olandese» poteva essere rivolta più ai predicatori, che avevano bisogno di citare passi della Bibbia nei loro sermoni, che ai laici (che troppo spesso sono considerati l’unico obiettivo dei libri devozionali «in lingua parlata»). La spinta più energica alla divulgazione della stampa nacque dall’esigenza dei predicatori di attirare un maggior numero di gruppi esterni alle congregazioni. Si deve quindi fare attenzione all’analisi dei libri richiesti, poiché non sono indicatori attendibili del tipo di lettore (un esempio eloquente è la definizione della Bibbia illustrata quattrocentesca come Bibbia «del povero»; in realtà, tale definizione si basa sull’abbreviazione del titolo latino completo - Bibbia Pauperorum Praedicatorum -, il quale indica chiaramente che essa non era rivolta alle persone povere, ma ai predicatori poveri che avevano una semplice infarinatura di latino e trovavano più facile l’esposizione delle Scritture quando avevano come guide libri illustrati). Solo in seguito, diverse analisi hanno suggerito la necessità di distinguere tra i lettori effettivi, individuabili attraverso i cataloghi delle biblioteche, e i destinatari che autori ed editori avevano in mente. Ad es., i libretti riguardanti il comportamento delle giovani non attiravano necessariamente solo lettrici, ma erano probabilmente interessanti anche per precettori, confessori o tutori; i libri di etichetta non erano letti solo da genitori, ma, molto probabilmente, anche da autori, traduttori ed editori di altri libri di etichetta; i libri che descrivevano la contabilità a partita doppia erano letti non tanto dai mercanti, quanto dagli scrittori di libri di contabilità e dagli insegnanti di contabilità; le ricette assurde contenute nei trattati medici 11 fanno sperare che non venissero lette tanto dai medici, quanto dai poeti (considerati gli ingredienti esotici descritti, si può supporre che fossero pochi i farmacisti che tentavano davvero di preparare tali ricette, anche se potevano sentirsi costretti a riempire gli scaffali di prodotti stravaganti nel caso in cui la nuova pubblicità li rendesse richiesti. Una considerazione interessante può essere la distinzione tra alfabetizzazione e abitudine alla lettura: tutti coloro che hanno conosciuto la parola scritta, non sono diventati di certo membri di un pubblico di lettori, inoltre imparare a leggere è diverso da imparare leggendo. Affidarsi a particolari tecniche mnemoniche era una conoscenza che procedeva di pari passo con quella delle lettere degli amanuensi. Tuttavia, dopo l’avvento della stampa, la trasmissione dell’informazione scritta diventò più efficace. Non solo l’artigiano fuori dall’università ne trasse profitto, ma molto importante fu anche la possibilità data agli studenti brillanti di acquistare determinate conoscenze per conto loro, senza più essere costretti a pendere dalla labbra del proprio insegnante. L’apprendimento mediante la lettura assunse molta importanza, laddove diminuì nettamente il ruolo sostenuto dagli ausili mnemonici: non erano più necessarie rime o cadenze per ricordare certe formule o ricette. Si trasformò la natura della memoria collettiva. La stampa non solo cancellò molte funzioni svolte in precedenza dalle immagini sui portali di pietra o sulle vetrate, ma modificò le stesse immagini modificando la tendenza iconoclasta. Rendendo possibile fare a meno delle immagini a fini mnemonici, la stampa alimentò un movimento «dalla cultura dell’immagine alla cultura della parola». Tuttavia la metamorfosi culturale prodotta dalla stampa fu molto più complessa: infatti, da un lato le immagini incise divennero meno onnipresenti, ma dall’altro l’immagine stampata fu sfruttata non meno della parola stampata (su impulso dei protestanti): infatti, stampa e incisione accrebbero le opportunità di architettura, geometria, geografia, etc. Molti testi fondamentali di Tolomeo, Vitruvio, Galeno e di altri antichi, che avevano perduto le loro illustrazioni a mano a mano che venivano copiati nel corso dei secoli, le riottennero dopo l’avvento della stampa. Alla diffusione delle immagini contribuirono anche (A) il fatto che i riformatori delle istruzioni progettassero nuovi libri illustrati allo scopo di insegnare ai bambini, e (B) che il disegno fosse considerato dai pedagoghi un elemento sempre più utile. Insomma, i tentativi di riassumere i cambiamenti prodotti dalla stampa nella concisa formula «dall’immagine alla parola» o «dalla parola parlata a quella scritta» portano fuori strada. Infatti, pur riconoscendo che si fece più affidamento sulle norme scritte sui libri che sulle regole empiriche, o che l’apprendimento tramite la lettura crebbe a spese dell’ascolto o dell’azione, bisogna anche considerare che la stampa favorì nuove obiezioni al sapere libresco basato su una copiatura «pedissequa» e che permise a molti osservatori di verificare i dati appena registrati con le regole invalse. Allo stesso modo, bisogna essere cauti nel supporre che la parola parlata sia stata gradualmente ridotta al silenzio dal moltiplicarsi delle parole stampate o che la facoltà dell’udito sia stata sempre più trascurata a favore di quella della vista. In definitiva, il passaggio dalla scrittura a mano alla stampa comportò così tanti cambiamenti, che ciascuno merita di essere analizzato singolarmente, perché nell’insieme sono troppo complessi per essere incapsulati in un’unica formula. Ma dire che non esiste un modo semplice per riassumere questo articolato complesso non equivale a dire che nulla era cambiato. Semmai, è il contrario. *** 12 Capitolo terzo Caratteristiche della cultura tipografica Ammesso che nel ‘400 sia avvenuta una sorta di rivoluzione delle comunicazioni, che influsso ebbe tale rivoluzione su altri sviluppi storici? Quasi tutti gli studi si soffermano sulla divulgazione di tomi umanistici o di trattati protestanti, minimizzando però gli effetti del nuovo processo. Ad esempio, durante i primi secoli della stampa, i vecchi testi furono riprodotti più rapidamente rispetto ai nuovi: alcuni non ritengono, in realtà, che ciò abbia contribuito ad affrettate l’adozione di teorie/cognizioni nuove, tuttavia è innegabile che nel ‘400 si diffusero molte teorie nuove: è quindi necessario fare il punto della situazione per capire se il fenomeno sia o meno collegato alla stampa. Uno sguardo ravvicinato alla disseminazione dei testi: crescita della produzione e modificazione del consumo. In relazione all’avvento della stampa, spesso di parla di un’esplosione della conoscenza. Eppure, ogni volta che si analizzano i mutamenti intellettuali del XVI secolo, si tende a ignorare il fermento generato dall’accesso ad una maggiore quantità di libri. In realtà, scaffali più pieni aumentavano le possibilità di consultare e paragonare diversi testi tra loro: ciò, da un lato, indeboliva la fiducia verso le vecchie teorie (era, infatti, più facile vedere le contraddizioni e più difficile conciliare le tradizioni divergenti), dall’altro, garantiva, attraverso un materiale di lettura più ricco, incoraggiava lo sviluppo intellettuale: infatti, una volta che molti testi venivano raccolti in uno stesso studio, si potevano combinare insieme diversi sistemi di idee e diverse discipline. In breve, la maggiore produzione creò le premesse per nuove combinazioni di vecchie idee, portando alla nascita di nuovi sistemi di pensiero. Va notato che lo scambio culturale incrociato fu, prima di tutto, un’esperienza proprio dei nuovi gruppi professionali responsabili delle edizioni a stampa. Prima che un libro di consultazione venisse stampato, avvenivano diversi incontri tra fonditori di caratteri, correttori, traduttori, curatori, illustratori o commercianti e altri impiegati del lavoro editoriale, e i proto-tipografi erano i primi a leggere i libri che uscivano dalle loro stamperie, tra l’altro guardando con occhio preoccupato alla produzione dei loro concorrenti. Gli effetti dell’accesso a un numero maggiore di libri furono così provati in primis nelle botteghe degli stampatori. Non a caso, è stato spesso osservato che, all’inizio dell’età moderna, una parte considerevole del lavoro innovatore, sia in campo letterario sia in campo scientifico, si svolse al di fuori dei centri accademici, proprio in queste botteghe, che esercitarono un grande fascino su uomini di cultura e di lettere. Anche gli scambi agevolati tra artisti e studiosi o tra professionisti e teorici, tanto fruttuosi nella prima scienza moderna, furono agevolati dalla stampa, che cambiò i rapporti tra gli uomini di cultura oltre che tra i sistemi di idee. Lo scambio culturale incrociato stimolò le attività mentali in tutte le direzioni. Il primo secolo di stampa fu caratterizzato soprattutto da un fermento intellettuale e da uno «studio piuttosto generale, non focalizzato»: anzi, all’inizio, quando «la tecnologia andò in stampa», vi andò anche un ricco gruppo di vecchie tradizioni legate all’occultismo e alla magia, e pochi lettori erano in grado di distinguere tra le due cose. Pertanto, quando si considerano gli effetti della stampa sulla cultura, non si deve pensare solo a nuove forme di progresso, ma anche a nuove forme di mistificazione, anch’esse incoraggiate dalla stampa stessa. 15 dove era arrivato amanuense, diffuse una «valanga» di libri su «come fare», che spiegavano passo per passo come impadronirsi di diverse tecniche, suonare uno strumento musicale, tenere la contabilità. Indubbiamente, l’esplorazione di mappe, tavole, carte, diagrammi, dizionari e grammatiche alimentarono un nuovo tipo di lavoro mentale. Nella prefazione al suo atlante pionieristico, che conteneva testi e indici supplementari, Abraham Ortelio paragonò il suo Theatrum a «una bottega ben fornita», organizzata in modo tale che i lettori potevano trovare con facilità tutti quegli strumenti che potevano desiderare di ottenere. «È molto più facile trovare le cose quando sono tutte messe a posto e non sparse a casaccio», osservava un altro editore cinquecentesco, giustificando il modo in cui aveva riorganizzato un testo da lui curato. Alcuni effetti della riorganizzazione di testi e guide: razionalizzazione, codificazione e catalogazione dei dati Le decisioni editoriali prese dai primi stampatori su impaginazione e veste tipografica contribuirono a riorganizzare il pensiero dei lettori, i cui pensieri, com’è noto, sono guidati proprio dal modo in cui sono disposti e presentati i contenuti dei libri. Cambiamenti fondamentali nel formato del libro potrebbero sfociare in cambiamenti dei modelli mentali. Ad esempio, le opere di consultazione a stampa incoraggiarono un ripetuto ricorso all’ordine alfabetico. A partire dal ‘500, imparare a memoria l’alfabeto è stata la via d’accesso alla cultura dei libri per tutti i bambini in Occidente, e, nelle biblioteche, i cataloghi in ordine alfabetico permisero un facile accesso ai volumi cercati. Nel Medioevo, venivano spesso usati altri modi per ordinare i libri da consultazione manoscritti: infatti, nei cataloghi delle biblioteche, il sistema alfabetico – pur in uso già presso la Biblioteca alessandrina – era svanito con l’istituzione stessa. Ad Alcuino è attribuito addirittura un indice delle opere della Biblioteca di York dell’VIII secolo scritto in rime, ma l’elenco dei libri era incompleto, perché le esigenze metriche richiedevano l’esclusione di varie opere. Certo, il catalogo in rima non era la prassi nel Medioevo, ma i cataloghi delle biblioteche medievali era comunque lontani dall’essere ordinati secondo le direttrici degli schedari moderni, o secondo un qualsiasi altro tipo di metodo uniforme. Riflettevano, invece, il carattere multiforme della cultura degli amanuensi e per la maggior parte erano organizzati in modo idiosincratico, con l’obiettivo primario di aiutare i custodi a orientarsi tra i libri riposti in armadi, cassettoni o apposite sale. Talora, si tentava di rendere un indice valido per diverse copie, ma si finiva per inserire molteplici errori di varia natura. Inoltre, chi possedeva un compendio medievale ne preparava l’indice personalmente, a proprio uso, e non sentiva, quindi, il dovere di impiegare il sistema di qualcun altro, ma seguiva piuttosto un metodo a sua scelta. Analogamente, il conservatore di una raccolta libraria non aveva incentivi a organizzare il proprio archivio in conformità con altri bibliotecari, ma di solito disponeva i volumi in un ordine chiaro soltanto a lui. Dopo l’avvento della stampa, gli elenchi dei libri custoditi nelle biblioteche furono integrati dai cataloghi dei libri in vendita, destinati a lettori al di fuori delle mura della biblioteca, mentre ogni indice compilato per un testo poteva essere riprodotto centinaia di volte. Così il carattere commerciale e concorrenziale del commercio di libri stampati, quando fu affiancato dalla standardizzazione tipografica, rese non solo fattibili, ma anche altamente desiderabili, una catalogazione e un’estensione di indici sistematiche. E’ vero che i primi stampatori promisero spesso più di quanto potevano offrire, ma la pressione della concorrenza portò a un graduale miglioramento di cataloghi e indici. I cinque cataloghi parigini di Robert Estienne, pubblicati tra il 1542 e il 1547, riflettono un rapido progresso su molti fronti: essi sono, infatti, divisi per linee trilingui, con ogni sezione disposta in progressione uniforme, partendo dagli alfabeti in ebraico, 16 greco e latino, per passare a grammatiche, dizionari e testi; non a caso, tali cataloghi sono stati giustamente definiti, da Pollard ed Ehrman, «un miracolo di lucidità nell’ordinamento». In realtà, alcuni tentativi lessicografici (di codificazione e sistematizzazione) erano stati fatti già prima della stampa, da predicatori e insegnanti che avevano compilato concordanze ad uso di altri ecclesiastici o classificato per sé passi delle Scritture, argomenti di sermoni e commenti. Tali trattati erano circondati da glosse e irti di abbreviazioni e notazioni a margine; altri erano dotati di piccole etichette fatte di pergamena o carta per agevolare la consultazione: pertanto, bisogna stare attenti a non esagerare le novità introdotte dalla stampa e a non trascurare il modo in cui sviluppi precedenti contribuirono a convogliare gli usi che furono fatti del nuovo strumento; infatti, il desiderio di «mettere tutto al posto giusto» era comune sia allo scolastico medievale sia al primo capitalista. D’altro canto, bisogna stare attenti anche a non esagerare la portata delle occasionali anticipazioni medievali di tendenze che non poterono essere realmente avviate fino a dopo la stampa. Solo con l’avvento della stampa, infatti, poté vedere la luce un’opera colossale come la revisione, da parte di Plantin, della Bibbia poliglotta complutense del 1517-1522, che venne a constare di 5 volumi di testo + 3 volumi di materiali di consultazione, tra cui grammatiche e dizionari per le lingue greca, ebraica, aramaica e siriaca. Altre aggiunte intervennero con l’edizione poliglotta parigina del 1645, e soprattutto con quella inglese del 1657 (la quale presentava testi in ebraico, samaritano, greco dei Settanta, caldeo, siriaco, arabo, etiopico, persiano e latino della Vulgata, accrescendo così la quantità di assortimenti di caratteri usati dagli studiosi occidentali per gli studi orientali). Allo stesso Plantin si deve la nascita del Thesaurus Theutonicae Linguae, il primo dizionario olandese degno di tale nome, compilato a mano a mano che l’autore, trasferitosi ad Anversa, mise in ordine alfabetico tutte le parole che via via apprendeva. Nella bottega dello stampatore, accumulare le parole (e le lettere) secondo l’ordine alfabetico divenne una routine. La preparazione di un indice era di per sé un esercizio di analisi testuale, applicata a molti libri che prima non erano mai stati dotati di indice. Certo, all’inizio, quando gli stampatori si limitarono a copiare le edizioni manoscritte, i problemi di “disordine” rimasero; ma il disordine che prima la presentazione orale e la copiatura pezzo a pezzo tenevano nascosto divenne più visibile ai curatori e agli estensori degli indici e più sgradevole per gli editori, che apprezzavano procedure sistematiche. Così, la chiarezza e la logica dell’organizzazione, divennero una preoccupazione dei redattori e degli editori, i quali, inoltre, adottarono entusiasticamente la dottrina ramista, secondo cui ogni materia poteva essere affrontata per argomenti. Come spiega Neal Gilbert, il termine methodus, che era stato bandito dai primi umanisti perché barbaro dai primi umanisti, fu pienamente riconosciuto nel ‘500, tant’è vero che appare con frequenza quasi incredibile nei titoli dei trattati cinquecenteschi. La dottrina ramista dovette gran parte del suo successo al fatto che la stampa fece della manualistica (preparazione di manuali a diversi livelli per l’insegnamento di varie discipline) un genere nuovo e redditizio. Il nuovo accento posto sul metodo non fu però esclusivamente pedagogico e non si limitò alla manualistica, ma fu applicato anche a testi che i primi umanisti spregiavano, ossia quelli usati per gli studi umanistici universitari dalle facoltà di teologia, legge e medicina. Così, mentre chi, nel Medioevo, insegnava il Corpus Juris non si preoccupava di spiegare come ciascuna delle sue parti si legasse alle altre, perché nessun, né insegnanti, né studenti, aveva modo di vedere un’edizione completa del testo (l’unica copia era a Pisa, nel Codice Fiorentino, strettamente sorvegliato ed esaminabile solo per un breve periodo), dopo l’avvento della stampa, ci fu la possibilità, per Budé, di pubblicare, nel 1553, il Corpus nella sua antica forma; successivamente, 17 le correzioni di Cujas e il suo indice delle citazioni migliorarono ulteriormente l’opera. Al volgere del secolo, l’intera compilazione era disponibile in forma emendata e rubricata. Ma, proprio perché liberato dall’incrostazione delle glosse, l’antico testo, reso stilisticamente e internamente sempre più coerente, si mostrò meno pertinente alla giurisprudenza contemporanea e il suo spirito svanì per sempre. Così. Mentre compilazioni quali il Corpus Juris o altre antiche raccolte di leggi persero d’importanza per la pratica corrente, alcuni statuti e ordonnances in vigore assunsero una definizione più stringente. Nell’Inghilterra dei Tudor, i proclami reali, una volta stampati, non venivano più solo affissi a mura, porte e in altri luoghi pubblici, ma raccolti in un volume e muniti di indice per la consultazione. In breve, si diffuse l’uso di pubblicare compendi ed elenchi di statuti, come quelli compilati da John Rastell e figlio, che diedero maggior ordine e metodo a un importante corpo di diritto pubblico. Tra l’altro, stampando il Great Boke of Statutes 1530-1533, John Rastell non si limitò a fornire un indice, ma premise anche una rassegna sistematica della storia parlamentare, la prima che molti lettori avessero mai visto. Innovazioni straordinarie come questa, pur meritando un attento studio, non devono distogliere l’attenzione dai cambiamenti più generali anche se molto meno vistosi: così, i numeri di pagina, i segni di punteggiatura, la divisioni in capitoli e paragrafi etc. ebbero conseguenze cruciali: indici, annotazioni e rimandi più accurati. L’innovazione di maggiore portata fu peraltro il frontespizio, che contribuì moltissimo alla catalogazione dei libri e al lavoro bibliografico Il nuovo processo di raccolta dei dati: dalla copia corrotta all’edizione riveduta e corretta Producendo edizioni successive di una data opera di consultazione o di una serie di mappe, gli stampatori non solo competevano con i rivali e facevano progressi rispetto ai loro predecessori, ma perfezionavano anche gradualmente il proprio lavoro. La serie di atlanti prodotti da Ortelio, ad esempio, suggeriscono che la tendenza antichissima della cultura amanuense era stata non solo arrestata, ma rovesciata. Alcuni studiosi potrebbero obiettare che tali affermazioni non valgono per i prototipografi, dediti ad una copiatura acritica e – ancor peggio – a una correzione rozza. Paragonando testi di consultazione manoscritti con le prime versioni stampate, spesso si constatano addirittura dei peggioramenti: ad es., nel campo dell’illustrazione biblica, cliché di qualità inferiore usati ripetutamente produssero iscrizioni illeggibili, così come l’errata interpretazione di didascalie confuse da parte di artigiani ignoranti produsse giustapposizioni ingannevoli. Anche i primi libri di botanica subirono più o meno lo stesso tipo di degradazione: infatti, una serie di erbari, stampati tra il 1480 e il 1526, rivela un aumento costante del numero di alterazioni, con un prodotto finale – un erbario inglese del 1526 – che fornisce un esempio notevolmente triste di ciò che accade all’informazione visiva quando passa da copista a copista. Tuttavia, tale processo di corruzione testuale, grazie alla stampa e alla rapida diffusione, divenne subito visibile agli uomini di cultura e suggerì un modo per superarlo. Infatti, se nelle mani di stampatori ignoranti volti a ottenere rapidi profitti, i dati tendevano a ingarbugliarsi, sotto la guida di maestri tecnicamente esperti finalmente nuove osservazioni potevano essere duplicate senza rischiare di diventare indistinte o di cancellarsi nel corso del tempo. E se è vero che continuarono ad esistere editori cinquecenteschi che non fecero altro che riprodurre vecchi compendi, è altrettanto vero che ve ne furono molti altri che crearono estese reti di corrispondenti e sollecitarono critiche alle loro edizioni, promettendo talora di menzionare pubblicamente i nomi dei lettori che avessero inviato nuove informazioni o individuato errori da espungere. Lo stesso Ortelio, ad esempio, fece del suo Theatrum una sorta di impresa in collaborazione su base internazionale, accogliendo utili suggerimenti da ogni dove e ricevendo dai cartografi le loro più recenti carte geografiche, da incorporare in edizioni successive. 20 pose più il problema di conservare intatte le forme non scritte, si poterono conseguire profitti grazie a una pubblicità aperta a patto che non venissero imposte nuove limitazioni. L’iniziativa individuale fu liberata dal vincolo della protezione della corporazione, ma nello stesso tempo vennero messi nuovi poteri nelle mani di un apparato burocratico. Inoltre la concorrenza per diritto di pubblicare un certo testo introdusse una controversia sui problemi relativi al monopolio e alla stampa clandestina. La stampa venne a caratterizzare l’atteggiamento degli scrittori verso il proprio lavoro: i termini plagio e proprietà letteraria, che in passato non esistevano, dopo la stampa cominciarono ad avere importanza per l’autore. Come oggi, la fama personale era legata alla pubblicità stampata, ma la stessa ricerca della fama può essere stata influenzata dall’immortalità data dalla stampa. La spinta a produrre opere scritte era nota fin dai tempi più antichi, ma il desiderio di vedere stampata la propria opera è cosa diversa dal desiderio di scrivere qualcosa che non potrà mai essere fissata in forme durature. Un’ulteriore conseguenza della stampa, fu il recupero di tanta sapienza perduta: iniziarono ad accumularsi nuove edizioni migliorate di testi antichi, scoprendo più scuole di filosofia antica di quante ne fossero state immaginate prima. Fu possibile liberarsi degli aspetti poco chiari delle tradizioni ereditate, anche perché il compito della conservazione era divenuto meno urgente, e copiatura, memorizzazione e trasmissione richiedevano l’impiego di meno energia. Si moltiplicarono i libri sulle arti della memoria e contemporaneamente se ne fece un minore utilizzo. I sistemi degli amanuensi, rielaborati in stampa, non vennero più adoperati, ma ancora oggi la venerazione per gli amanuensi e per la cultura antica non è scomparsa. Amplificazione e rafforzamento: la persistenza di stereotipi e di divisioni sociolinguistiche Molti temi presenti negli scritti degli amanuensi, separati dalle culture vive che li avevano creati, furono lanciati come «tipologie» sulle pagine stampate. Nel corso del tempo gli archetipi si trasformarono in stereotipi, e la lingua dei giganti, come dice Merton, nei cliché dei nani. Sia «stereotipo» che «cliché» sono termini tratti dai processi tipografici. La ripetizione sempre più frequente di capitoli, versi, aneddoti e aforismi identici, attinti da limitatissime fonti manoscritte, e la costante riedizione di opere classiche o bibliche o dei primi testi nelle lingue nazionali, hanno fatto sì che, per 500 anni, alcuni vecchi messaggi siano stati trasmessi collettivamente con maggiore frequenza. Quindi, quanto più oggi il lettore spazia, tanto più frequente sarà l’incontro con versioni identiche e tanto più sarà profonda l’impressione che esse lasceranno; pertanto, quando si tratta di creare stereotipi, oloro che andarono in stampa per primi partono già avvantaggiati in partenza sui moderni. Quante volte è stata ripetuta la descrizione di Tacito dei Teutoni amanti della libertà, da quando in un monastero del Quattrocento fu scoperto un unico manoscritto della Germania? E in quanti contesti diversi – anglosassone, franco, oltre che tedesco – è apparsa questa descrizione particolare? La frequenza con cui venivano trasmessi tutti i messaggi dipendeva in primo luogo dal superamento delle barriere linguistiche: non tutte le medesime parti della cultura latina ereditata furono tradotte contemporaneamente nelle diverse lingue nazionali; inoltre, cosa più importante, furono anche composte e fissate in modo più stabile cronache dinastiche, municipali ed ecclesiastiche completamente diverse, insieme con altre tradizioni locali, sia orali che scritte a mano. La mescolanza di res gestae medievali provinciali con diverse fonti classiche e bibliche, all’inizio del Seicento aveva impresso stereotipi nettamente differenti in ogni letteratura in lingua locale. Al contempo, certamente, si andava estendendo anche una più cosmopolita “Repubblica delle Lettere”, e i messaggi venivano diffusi a un pubblico internazionale attraverso le frontiere 21 linguistiche, prima in latino e poi anche in francese. Un mezzo ancora più efficace per superare le barriere linguistiche fu sviluppato da coloro che contribuivano alla letteratura tecnica. Le espressioni matematiche e pittoriche trasmettevano messaggi identici a esperti e corrispondenti scientifici in tutte le nazioni senza bisogno di traduzione. La fissazione, nel XVI secolo, di frontiere religiose che attraversavano quelle linguistiche ebbe un forte effetto sulla frequenza con cui venivano trasmessi certi messaggi. L’abbandono del latino ecclesiastico rese possibile mescolare tradizioni ecclesiastiche e dinastiche più intimamente all’interno dei regni protestanti che in quelli cattolici; inoltre, la penetrazione sociale a fasi irregolari dell’alfabetizzazione, la formazione un po’ casuale delle abitudini di lettura, la distribuzione disuguale di nuovi libri costosi e di ristampe economiche in settori sociali diversi influenzarono anche la frequenza con cui messaggi diversi furono recepiti all’interno di ciascun gruppo linguistico. *** Capitolo quarto. L’espansione della Repubblica delle lettere La nascita di un pubblico di lettori Alcuni studiosi, come McLuhan, hanno esagerato il carattere degli scambi orali, tipico del Medioevo, e hanno erroneamente attribuito alla stampa la responsabilità di aver introdotto la lettura silenziosa. In realtà, essa era già sviluppata al tempo degli amanuensi, come ha dimostrato Paul Saenger, ma la stampa la incoraggiò fortemente. Certo, bisogna stare attenti ad affermare, come ha fatto McLuhan, che la diffusione dell’abitudine alla lettura silenziosa abbia portato a un ricorso sempre minore alla parola parlata: infatti, se da un lato fiorì l’industria dei libri di testo, non scomparvero mai le lezioni scolastiche; allo stesso modo, i sermoni e le orazioni stampate non fecero scomparire i predicatori dai pulpiti o gli oratori dai palchi. Indubbiamente, però, il ricorso crescente a una pubblicazione muta alterò indubbiamente il carattere di alcune parole parlate. Gli scambi tra parlamentari, ad esempio, furono probabilmente influenzati dalla stampa dei dibattiti parlamentari; la stampa di opere in versi, commedie e canzoni alterò il modo in cui i «versi» venivano recitati, composti o cantati. Una certa cultura letteraria creata dalla tipografia veniva trasmessa all’orecchio e non all’occhio attraverso compagnie teatrali stabili e incontri di poesia. Non ci sono formule semplici per descrivere tutti i cambiamenti che queste nuove attività riflettono. Lo stesso vale per il modo in cui furono influenzati gruppi diversi. La maggioranza degli abitanti dei villaggi rurali, ad es., apparteneva probabilmente fino al XIX secolo a un pubblico di soli ascoltatori. Ma in molti casi ciò che udivano era stato trasformato dalla stampa: dopo l’avvento della stampa, infatti, il cantastorie era stato sostituito dal villico d’eccezione che sapeva leggere e scrivere, e che leggeva ad alta voce attingendo a uno scaffale di libri economici e a fogli di ballate sfornati anonimamente e distribuiti da venditori ambulanti. Quindi, ben prima della pressa a vapore e dei movimenti di alfabetizzazione di massa dell’Ottocento, era nata una cultura «popolare» alquanto leggera (fatta di antiquati romanzi medievali in lingua locale), anche se il grosso di questa 22 produzione era consumato da un pubblico di ascoltatori, separati da un gap profondo dal coevo pubblico di lettori. Da parte sua, i lettori non leggevano solo le guide per una vita devota o manuali e testi pratici: il silenzio, la solitudine, gli atteggiamenti contemplativi, che prima erano associati alla devozione spirituale, ora accompagnavano anche la lettura di fogli scandalistici, di ballate indecenti, di libri ameni e racconti. La curiosità sociale poteva essere soddisfatta con la lettura silenziosa di riviste, giornali e bollettini. Le lamentele circa il “tetro silenzio” nei caffè dimostrano gli effetti della stampa e della lettura muta anche su alcune forme di vita sociale. Come osservarono i contemporanei, c’erano delle analogie tra i caffè e le conventicole religiose, ma i frequentatori dei primi, immersi nella lettura dei giornali tra il fumo delle loro pipe, assegnavano una bassa priorità alle preoccupazioni oltremondane: si tratta della cosiddetta «secolarizzazione» (o «desacralizzazione») della cristianità occidentale: entro il Settecento il pulpito sarebbe stato definitivamente rimpiazzato dalla stampa periodica. Di fronte alla «furiosa smania di novità» e alla generale sete di notizie, gli sforzi dei moralisti cattolici e degli evangelici protestanti e perfino le scuole domenicali e altre misure per il rispetto delle feste religiose si rivelarono scarsamente utili. Il giornale mensile fu sostituito dal settimanale e infine dal quotidiano. Furono fondati sempre più giornali provinciali. Nell’ultimo secolo, i pettegoli frequentatori di chiese spesso potevano conoscere gli affari locali scorrendo le colonne dei giornali in silenzio in casa propria. La sostituzione del pulpito con la stampa spiega anche l’indebolimento dei legami nella comunità locale. Prima, per ascoltare un discorso, la gente doveva riunirsi; ora, la lettura di un rapporto scritto induce gli individui ad appartarsi. In particolare, l’ampia diffusione di pezzi identici di informazione fornì un legame impersonale tra individui sconosciuti gli uni agli altri. D’altronde, per sua natura, il pubblico di lettori era più “disperso” di un pubblico di ascoltatori. E’ vero che librerie, caffè e sale di lettura fornirono un nuovo tipo di luoghi di raduno della comunità, ma la ricezione di messaggi stampati in ogni dove richiedeva perlomeno un isolamento temporaneo – come avviene ancora oggi nelle sale di lettura di una biblioteca. Peraltro, se le popolazioni urbane, per certi versi, furono separate, furono anche legate in modi nuovi dai più impersonali canali di comunicazione, e, mentre diminuiva la solidarietà della comunità, aumentava la partecipazione ad avvenimenti più lontani; grazie alle versioni economiche delle splendide stampe che commemoravano cerimonie civiche (come le cerimonie reali), anche le celebrazioni pubbliche che si tenevano in città lontane potevano essere vissute da chi restava a casa. Si è già visto, poi, come i ritratti sempre più dettagliati dei regnanti resero possibile ai membri stessi delle varie dinastie una presenza personale più profonda nella coscienza collettiva. L’effetto della riproduzione di immagini e ritratti di regnanti – che furono anche incorniciati e appesi nelle bicocche dei contadini in tutta l’Europa cattolica a fianco di santi e icone – deve ancora essere valutato dagli scienziati politici. Il seguito di massa di un singolo leader e l’estensione a livello nazionale del suo fascino carismatico, in ogni caso, sono possibili sottoprodotti del nuovo sistema di comunicazioni che meritano studi più approfonditi. La nascita di una nuova classe di «uomini di lettere» Oltre alle vecchie élite e ai cittadini istruiti, si formarono nuovi gruppi di intellettuali, sui quali, come specifica “classe sociale”, è stato scritto ben poco. E’ ancora da valutare la distanza che separava nomi di spicco, come Erasmo e Voltaire, da letterati sconosciuti come Grub Street, che ancora oggi attende il suo storico. Alcune visioni fugaci di quella caratteristica sottocultura legata al lavoro letterario di basso livello sono presentate in studi sparsi dedicati a Venezia e alla Londra 25 quest’ambizione più elevata un obiettivo sempre più difficile per ogni nuova generazione. Tra la varietà di reazioni, possiamo sceglierne due: - da un lato, veniva attaccata selvaggiamente una cultura da museo, conservata nelle antologie e insegnata nell’aula scolastica,; - dall’altro, erano nostalgicamente ripudiate la moderna «anarchia» culturale e la società che ne era la base. Questa breve escursione al di là della prima età moderna è stata giustificata dalla Eisenstein come mezzo per indicare che bisogna tenere conto di perturbazioni particolari, provenienti da una cultura prodotta dalla stampa permanente, cumulativa, quando si cerca di ricostruire l’esperienza delle élite letterarie negli ultimi secoli. Bisogna tenerne conto anche quando si cerca di comprendere il senso di crisi culturale che sta diventando oggi sempre più acuto. Quest’ultimo punto va sottolineato con forza alla luce della possibilità che i nuovi mezzi elettronici costituiscano uno strumento di perturbamento. Non è ancora certo quali siano stati i danni fatti alle abitudini di lettura dei giovani; di fatto, non c’è alcun segno che le nostre biblioteche e musei senza mura abbiano cominciato a contrarsi; nonostante l’autrice reputi che la cultura degli amanuensi sia ormai conclusa, non è convinta che si possa dire lo stesso della cultura tipografica. Gli effetti della stampa sembrano essersi prodotti sempre in un modo irregolare e tuttavia continuo e con forza crescente, fino a oggi. Non tutti gli studiosi sono d’accordo su questa affermazione, ma va anche ammesso che sono davvero pochi gli storici che si sono pronunciati sul punto. Con questo 4°capitolo, termina la prima parte del libro. L’autrice ricapitola i contenuti, dicendo che cinque secoli or sono fu sviluppato e utilizzato per la prima volta un nuovo metodo per riprodurre la scrittura a mano – un’ars artificialiter scribendi. Tale metodo produsse la trasformazione più radicale nelle condizioni della vita intellettuale della storia della civiltà occidentale. I suoi effetti, presto o tardi, si fecero sentire in ogni ramo dell’attività umana», ma non è chiaro quali siano stati precisamente questi effetti, Così, questa prima parte serviva per abbozzare l’argomento in generale, mentre nei prossimi capitoli gli sviluppi saranno trattati più nel dettaglio. ___________________________________________________________________________ ___________________________________________________________________________ Parte seconda. Interazioni con altri sviluppi Capitolo quinto. Il Rinascimento permanente: metamorfosi di una rinascita classica Fino al XV secolo, tutti i libri europei furono scritti a penna, mentre, a partire da quel momento, la maggioranza di essi è stata stampata. In quello stesso XV secolo, la cultura occidentale si liberò delle sue caratteristiche medievali e diventò decisamente moderna. Resta però difficile formulare realisticamente una connessione tra questi cambiamenti tecnologici e culturali, tranne che avvennero nello stesso periodo. Questa difficoltà era già colta negli anni ‘40 26 del Novecento, ma perdura tuttora: infatti, nonostante il rapporto tra tecnologia e cultura in generale sia stato analizzato da sempre più studiosi, quello più specifico tra l’avvento della stampa e il cambiamento culturale del Quattrocento non è ancora stato affrontato. Anche se il passaggio dal libro scritto a penna a quello stampato può essere considerato un fatto noto, esso non «parla da solo», anzi, fu un complesso di innumerevoli cambiamenti interdipendenti. Tra l’altro, non è neppure così scontato il secolo in cui la cultura occidentale diventò «decisamente moderna». In assenza di un accordo tra gli studiosi e alla luce di un annoso dibattito senza soluzione, si può essere tentati di trascurare il problema. In realtà, esiste una differenza tra teoria e pratica storica: in teoria, i problemi di periodizzazione possono non essere mai risolti, ma in pratica è necessario tracciare linee di demarcazione precise. Nella maggior parte dei corsi universitari e delle riviste storiche, le linee tracciate sembrano confermare il XV secolo; ma le cose non sono semplici come potrebbe pensare un profano: infatti, secondo la rivista «Studies in the Renaissance», ossia secondo la maggior parte degli studiosi del Rinascimento, l’avvento della stampa giunge troppo tardi per poterlo considerare un punto di partenza del passaggio ai tempi moderni. Dal loro punto di vista, tale passaggio inizia con le generazioni di Giotto e Petrarca e con una rinascita classica che all’inizio del Quattrocento era già avviata, ben prima dell’avvento della stampa e ancora nell’età degli amanuensi. Il fatto che la «rinascita» si affermò in Italia prima che a Magonza fosse sviluppata la stampa può essere considerato assodato. Ma nonostante che il problema della cronologia sia facilmente risolto, resta quello della periodizzazione: non è facile, infatti, dimostrare perché Petrarca e i suoi successori debbano essere considerati agenti di un cambiamento epocale. Poiché non c’è accordo, molti storici hanno fatto ricorso alla nozione di età di transizione = un periodo elastico che comprende circa trecento anni, durante i quali si ritiene che l’Europa occidentale abbia sperimentato il passaggio di cui sopra, senza che però venga definita la natura precisa della transizione culturale. Essi dicono che avvenne «qualcosa di importante e rivoluzionario», ma la natura di questo «qualcosa» è elusiva; continua a non essere chiaro il modo per ricostruirlo: che cos’è stata veramente la svolta culturale e civile che chiamiamo Rinascimento? In che cosa è consistito il cambiamento, che cosa ha prodotto? Alcuni studiosi obiettano che il problema si basa su una falsa premessa. Individuano alcuni cambiamenti decisivi già nel XII secolo o anche prima; altri nel XVII secolo o anche dopo; ma niente di importante nel periodo intermedio. Prolungando da una parte il Medioevo e anticipando dall’altra l’avvento dei tempi moderni, essi riducono il presunto divario ed eliminano la necessità di un’età di transizione che lo colmi. Queste posizioni contrastanti sono avvolte in una confusione semantica, dato che il termine «Rinascimento» è usato da entrambe le scuole per definire una rinascita classica e uno stile estetico specifici. La confusione genera un’altra polemica: il periodo, comunque lo si definisca, contiene una maggiore trasformazione storica e va quindi considerato distintamente? oppure è una creazione spuria e dev’essere abbandonato? Un elemento discutibile di questo dibattito è il modo in cui induce entrambe le parti a passare sotto silenzio una trasformazione reale in modo da sostenerne una ipotetica che non può essere definita con chiarezza. Per risolvere il problema del Rinascimento, dobbiamo paragonare il Medioevo al Rinascimento e il Rinascimento alla cultura moderna e analizzare le differenze essenziali sia tra la civiltà medievale e quella moderna sia dei caratteri che furono tipici dell’età di transizione»6. Ma che cosa fu tipico di questa età? Sicuramente, la stampa merita di essere messa al primo posto. Il passaggio dalla scrittura a mano alla stampa comportò non solo un insieme specifico di 27 cambiamenti, ma anche, in poco tempo, una trasformazione a livello europeo: in pochi decenni, infatti, furono installate stamperie in città di tutta Europa e, nel 1500, si registravano già diversi effetti della produzione di materiali stampati. In confronto con i tre secoli che vanno dal 1250 al 1550 o dal 1300 al 1600, il periodo degli incunaboli è effettivamente breve, ma ovunque, dall’Etna alle regioni a nord di Stoccolma, dalle coste atlantiche alle montagne del Montenegro orientale, lo stesso genere di nuove botteghe apre nei maggiori centri urbani e va producendo libri in quasi tutte le lingue dell’Europa occidentale. Nascono nuovi mestieri, come quelli del compositore e del fonditore di caratteri, e procedimenti tradizionali vengono diretti verso nuovi fini. In tutte le regioni, imprenditori laici mobilitano nuovi gruppi professionali e cercano di occupare nuovi mercati, mettendo in mostra i loro prodotti in fiere annuali del libro. Si può dire con una certa sicurezza che nel 1500 era ormai finita l’età degli amanuensi ed era cominciata l’età degli stampatori. Ma allora, perché esiste la polemica, di cui si è detto prima, su dove finisce un’epoca e ne comincia un’altra? Perché è diventato “normale” mescolare gli sviluppi avvenuti nell’ultimo secolo dell’era degli amanuensi con quelli avvenuti durante il primo secolo della cultura tipografica, creando in tal modo una problematica era di transizione e occultando una genuina trasformazione rivoluzionaria? Di fatto, gli studiosi delle idee e della cultura dicono che l’avvento della stampa fu l’avvenimento più importante «nella storia culturale dell’umanità», e che «produsse la trasformazione più radicale nelle condizioni della vita intellettuale della storia della civiltà occidentale», eppure non hanno saputo fargli spazio nei loro schemi di periodizzazione. Per spiegare questo paradosso è necessario osservare più da vicino la natura peculiare di questa trasformazione radicale, cioè non associare l’avvento della stampa ad altre innovazioni o sviluppi, ma distinguerlo come avvenimento sui generis e a cui non si possono applicare modelli convenzionali di cambiamento storico. Nonostante l’avvento della stampa trasformasse i modi in cui i testi venivano prodotti, distribuiti e consumati, ciò non avvenne scartando i prodotti della cultura degli amanuensi, ma riproducendoli in quantità maggiori. Per questo, gli studiosi, riandando al primo secolo della stampa, vedranno ben pochi segni dell’avvento di una nuova cultura, perché gli stampatori, inizialmente, contribuirono al «progresso delle discipline» non tanto commercializzando nuovi libri, quanto fornendo ai lettori individuali l’accesso a più libri. Tuttavia, anche l’aumento della quantità di copie in circolazione ebbe un’importanza enorme: infatti, incoraggiò il fermento intellettuale. La stampa produsse addirittura una mutazione della stessa rinascita classica. La Eisenstein, mettendo per il momento da parte il problema di situare cronologicamente la transizione dal periodo medievale ai tempi moderni, si accosta al rapporto tra il cambiamento tecnologico e il cambiamento culturale NON ritenendoli coincidenti, MA anzi riconoscendo che ebbero luogo in momenti diversi e analizzando il modo in cui interagirono. Assumendo come punto di partenza la rinascita culturale italiana che precedette la stampa, e dando quindi per avviata tale rinascita, l’autrice cerca di rispondere innanzi tutto a come essa fu influenzata dal passaggio dalla scrittura a mano alla stampa. La sua prima considerazione corrisponde a quanto disse il celebre storico dell’arte Erwin Panofsky, il quale affermò che «le due rinascenze medievali furono limitate e transeunti; il Rinascimento fu totale e permanente». Considerato che una rinascita classica era ancora in atto al momento dell’avvento di nuovi strumenti di conservazione, ci si aspetterebbe che quella stessa rinascita acquistasse caratteristiche peculiari е fosse più permanente delle precedenti. La questione della permanenza è attualmente invocata per puntellare la tesi secondo cui il Rinascimento italiano produsse un cambiamento epocale, ma non si dà alcuna spiegazione del perché le rinascite classiche medievali furono più transitorie di quella avvenuta nell’Italia del Quattrocento. Il fatto che quest’ultima si sia dimostrata più duratura e si sia prestata ad uno sviluppo 30 materia effimero, orazioni, corrispondenze personali e disegni, che poi furono raccolti da Giorgio Vasari per le sue “Vite”; la sua opera è considerata il primo libro dedicato alla storia dell’arte e i suoi sforzi mettono in risalto come l’arte della biografia si giovò dei cambiamenti prodotti dalla stampa. Affiancare alle opere d’arte documenti biografici per 250 casi separati rappresentò un’impresa senza precedenti. Quella di Vasari fu la prima indagine sistematica basata su interviste, corrispondenze, viaggi sul campo... Tra le innovazioni più notevoli, furono disegnati ritratti silografici ad affiancare ogni profilo biografico (per quelli vissuti prima del ‘400 si dovette usare ritratti congetturali). Prima del ‘400, anche gli autoritratti degli artisti erano privi di individualità. A forza di essere copiati, i lineamenti del viso di un autore finivano per diventare confusi o stereotipati: la figura allo scrittoio o lo studioso togato che teneva un libro in mano diventarono un simbolo impersonale dell’autore in generale. Queste immagini impersonali – come si è già detto nella prima parte del libro – non scomparvero nel momento in cui la stampa sostituì la scrittura a mano; anzi, esse furono ancor più standardizzate e moltiplicate da silografie e incisioni. Come l’immagine di una città poteva servire a definire luoghi diversi, così un identico profilo umano serviva a illustrare individui diversi che svolgevano lo stesso ruolo professionale. Ma, sotto l’impulso della fama, l’autoritratto acquistò una nuova stabilità, e alla standardizzazione si affiancò un crescente riconoscimento dell’individualità, e si collegarono in misura crescente fisionomie distinte a nomi distinti. Quando si possono attribuire volti precisi ai personaggi storici, essi acquistano anche una personalità più caratteristica. La tipica individualità dei capolavori rinascimentali rispetto a quelli precedenti è probabilmente legata alla nuova possibilità di conservare, duplicandoli, volti, nomi, luoghi di nascita e storie personali dei creatori di oggetti d’arte. Il nuovo mezzo, oltre a essere usato per pubblicizzare il nome e il volto di autori e artisti, fu sfruttato anche dai disegnatori di macchine d’assedio, chiuse di canali e altre grandi opere pubbliche. Le nuove silografie, le incisioni, i manifesti e i medaglioni resero più visibile e valorizzarono anche una varietà di congegni «ingegnosi». Le maggiori «opere pubbliche», una volta pubblicate, diventarono attrazioni turistiche che rivaleggiavano con i vecchi luoghi di pellegri- naggio e le rovine romane. Le imprese di ingegneria furono illustrate con lo stesso tono eroico dei poemi epici. Durante il Rinascimento, si colmò il divario che aveva separato lo studioso e il pensatore dal professionista: molti gruppi diversi (medici, musicisti, architetti…) cercarono di combinare lavoro manuale e intellettuale in movimenti diversi, ma, secondo la Eisenstein, l’acquisizione definitiva di tale combinazione poté aver luogo solo dopo l’avvento della stampa. Eppure, quando si cerca di spiegare le nuove interazioni tra teoria e pratica, tra professore e artigiano, sono pochi gli studiosi che menzionano la stampa. Eppure, fu proprio questa invenzione che rese i libri più accessibili agli artigiani e i manuali pratici più accessibili agli studiosi.La stampa sottopose l’opera dei filosofi all’attenzione degli artigiani e viceversa. Inoltre, il nuovo modo di produzione del libro mise anche insieme di persona nelle stesse botteghe topi di biblioteca e meccanici in qualità di collaboratori. La figura dello studioso-stampatore rappresentò un «uomo nuovo», capace di maneggiare macchine e vendere prodotti curando al contempo i testi, fondando società erudite, incoraggiando artisti e autori, proponendo nuove forme di raccolta dei dati e favorendo branche diverse di discipline erudite. I poteri di conservazione della stampa permisero il superamento di quelle «barriere» (di cui parla Panofsky) che avevano tenuto le diverse forme di conoscenza separate – come in compatimenti stagni – durante il Medioevo. Nell’età degli amanuensi, era necessario che molte forme di conoscenza fossero esoteriche, se volevano sopravvivere: nonostante che molte raccolte 31 di documenti fossero disperse o distrutte, nel corso dei secoli si poterono imparare molte cose procedendo per tentativi; ma le tecniche avanzate non poterono essere trasmesse senza circondarle da segretezza; simboli, rituali e incantesimi particolari svolgevano la funzione necessaria di organizzare i dati, preparare i programmi e conservare le tecniche in forme facilmente memorizzabili (curiosamente, le dottrine coltivate da monaci di clausura e suore erano meno avvolte dal segreto dei mestieri e misteri noti a eruditi e artigiani laici. Pur affidandosi agli amanuensi, la Chiesa riuscì a trasmettere la dottrina cristiana proclamandola apertamente e rifiutando il tipo di segretezza che aveva caratterizzato i culti sacri pagani. Fu probabilmente l’unica istituzione in grado di istruire i suoi preti proclamando contemporaneamente la Verità ai laici). Quando questi due sistemi a compartimenti stagni diventarono di dominio pubblico, si verificò un processo di fecondazione incrociata che non fu né ordinato né elegante, tant’è vero che si ebbero associazioni come quella delle arti meccaniche con le arti magiche, o quella dell’alchimia con la chimica; tutte avevano fatto parte dello stesso “mondo sotterraneo del sapere” e tutte videro la luce nello stesso momento. Per almeno un secolo e mezzo perdurò la confusione: le pubblicazioni che trattavano di forze naturali invisibili giravano dappertutto; scoperte di pietre filosofali, le chiavi di tutto il sapere, le panacee, erano reclamizzate con abilità; molti artigiani conservavano atteggiamenti medievali di segretezza. Il ricorso deliberato a un linguaggio esopico, l’uso di allusioni velate e di commenti criptici furono più comuni dopo la stampa che prima. Solo col tempo, lo stregone che sfruttava la paura dell’ignoto si trasformò nel ciarlatano che sfruttava la semplice ignoranza e lo studio di «magia e cabala» fu separato dalla ricerca erudita. La differenza tra magia ed erudizione è oggi così netta che riesce difficile capire perché lo studio di carte polverose e lingue morte abbia potuto provocare un tale trambusto: quando un filologo moderno decifra un’iscrizione antica, tende a prevedere la scoperta di una polizza di carico di un mercante o il listino di una drogheria, non certo un qualche segreto divino. Qualche studioso si è chiesto come potesse una teoria come quella dell’imitazione più rigida garantire una tale presa su persone intelligenti, o come potesse esistere una simile stravagante e servile venerazione per uomini vissuti molte epoche prima?», cioè, in poche parole, come potessero essere così strenuamente difesi gli antichi. La risposta è spesso che persisteva il tema classico della «decadenza della natura», ma la Eisenstein ritiene più probabile che questo tema si sia trasformato dopo essere stato separato dal contesto della cultura degli amanuensi: presso gli amanuensi, infatti, era dato per scontato il fatto che, con il passare del tempo, avvenivano perdita e corruzione (poiché la cultura antica doveva essere trasmessa mediante testi copiati a mano, era più probabile che fosse oscurata o cancellata anziché arricchita e migliorata nel corso dei secoli). Inoltre, si dava anche per scontato che il più antico deve necessariamente essere il giusto, perché quanto più vicina è la Fonte tanto più pure sono le correnti, e gli errori scaturiscono con il succedersi delle epoche. Quando, invece, l’età degli amanuensi ebbe fine, la “superiorit࣠degli antichi necessitò di una difesa. E ciò non fermò il progresso, perché, anche se probabilmente noi oggi stentiamo a cogliere o fraintendiamo l’effetto dell’attribuzione agli antichi di tante conquiste superiori in tutti i campi, proprio la credenza in una precedente conquista superlativa incoraggiò gli emulatori ad andare oltre le loro normali possibilità. Il Rinascimento fu dunque un’epoca di “rinascita” rispetto ai secoli bui del medioevo e in cui si spera di poter di nuovo camminare nel fulgore puro del passato (come diceva Petrarca). Anche l’Illuminismo mantenne quest’idea di passare dal buio alla luce, ma in una direzione diversa (l’ispirazione fu contrapposta all’imitazione, i moderni agli antichi): ciò non significa negare che i primi umanisti italiani credessero di appartenere a un’epoca nuova, ma uno studioso moderno deve sforzarsi per cogliere il contesto originale dello sviluppo di tale idea. 32 Secondo la Eisenstein, che pure concorda con l’affermazione che avvenne qualcosa d’importante e rivoluzionario tra il XIV e il XVI secolo, non ci si può spingere a ritenere che questo “qualcosa” sia il Rinascimento. Ella propone, invece, di distinguere tra due dei numerosi sviluppi oggi coperti dalla stessa scomoda definizione: - ha senso ricorrere al termine “Rinascimento” quando ci si riferisce a un movimento culturale in due fasi che fu avviato da letterati e artisti italiani nell’età degli amanuensi e si estese nell’età della stampa fino a comprendere molti settori di studio; - la confusione si genera quando, con tale termine, si vogliono abbracciare anche i cambiamenti introdotti dalla stampa: ciò, infatti, oscura la decisiva rivoluzione delle comunicazioni e anche il riorientamento del movimento culturale. In tal modo, il nostro concetto moderno dell’“antichità” come “totalità disgiunta dal presente” si mescola confusamente con il concetto quattrocentesco di un “antichità sul punto di rinascere”, generando la “Rinascita permanente”, che è una contraddizione in termini. Le cose che vivono sono mortali; solo quelle morte possono essere imbalsamate e conservate all’infinito. L’idea di una “autopsia permanente” può essere compatibile con la storia accademica moderna, ma è agli antipodi del senso di risveglio che si manifestò nel movimento culturale del Rinascimento. Prolungando un processo di recupero e privandolo del suo significato ispiratore, i poteri di conservazione della stampa sembrano aver avuto un effetto negativo e soffocante. Dal punto di vista della critica romantica della cultura moderna, lo storico accademico sembra una creatura vecchia ed esangue a paragone con l’uomo rinascimentale. Tuttavia, va ricordato che la fioritura completa della cultura alto-rinascimentale nell’Italia del ‘500 dovette molto ai primi stampatori, soprattutto a quelli di Venezia: così, si bilanciano gli effetti devitalizzanti e negativi del nuovo mezzo con l’effetto stimolante delle capacità inventive e immaginative e il contributo dato alla crescita del senso di individualità e personalità. Prima di passare al prossimo capitolo, la Eisenstein ammonisce che sarebbe sbagliato ipotizzare, come talora accade, che l’avvento della stampa abbia influenzato tutti i movimenti vitali allo stesso modo. Bisogna tener conto dell’ubicazione regionale del movimento, del contenuto specifico della tradizione testuale e soprattutto dell’«accidente» del tempo. Ad es., in Italia, sotto l’egida della prima stampa, fu riorientata una rinascita classica, mentre in Germania nacque il protestantesimo tedesco. *** Capitolo sesto La cristianità occidentale si spacca: la nuova scenografia della riforma A. Dickens ricorda, in un suo saggio, che, «tra il 1517 e il 1520, le trenta pubblicazioni di Lutero vendettero circa 300.000 copie, il luteranesimo fu fin dall’inizio figlio del libro stampato, e grazie a questo veicolo Lutero fu in grado di esercitare un impressione chiara, standardizzata e inestirpabile sulla mente dell’Europa. Per la prima volta nella storia umana, un grande pubblico di lettori giudicò la validità di idee rivoluzionarie attraverso un mezzo di comunicazione che usava le lingue locali insieme con le arti del giornalista e del caricaturista». 35 Molti ragazzi dotati, che avrebbero potuto diventare predicatori, diventarono invece pubblicisti, perché «predicare sermoni è parlare a pochi: stampare libri è parlare a tutto il mondo». Era, questa, una forma di “apostolato per mezzo della penna”, la cui nascita segnalava l’elevato valore attribuito alla parola scritta come mezzo per compiere la missione della Chiesa sulla terra. Ciò spiega l’entusiastico benvenuto dato alla stampa dalla Chiesa Cattolica del ‘400, vedendola come “il più alto atto della grazia di Dio”. La Chiesa non solo legittimò l’arte della stampa ma le fornì un ampio mercato; i preti poveri avevano più bisogno di libri dei laici ricchi. Per 50 anni prima della rivolta protestante, religiosi di tutte le religioni accolsero con favore la nuova invenzione: ma l’ironia è che proprio la stampa di Gutenberg contribuì a distruggere la concordia cristiana e a scatenare la guerra religiosa! L’elaborazione di testi nelle nuove botteghe era certo un’attività pacifica, intrapresa da pacifici artigiani, ma ciò mise a fuoco molti problemi spinosi che in precedenza erano stati confusi o trascurati. Il prete poteva pretendere la funzione sacra di mediazione tra Dio e l’uomo, ma quando si trattava di esegesi biblica molti curatori ed editori pensavano che gli studiosi greci ed ebraici fossero meglio attrezzati per quel lavoro. La stampa diffuse e rese visibile forme più democratiche e nazionali di culto. Secondo alcuni, l’invenzione di Gutenberg, quindi, fu “un’arma a doppio taglio”, poiché stimolò una rinascita cattolica mentre diffondeva trattati luterani. Se si pensa alla semplice diffusione di libri e trattati, quindi, si può essere propensi a credere che la stampa sia stata sfruttata più o meno nello stesso modo da cattolici e protestanti. Ma le funzioni svolte dalla stampa andavano al di là della sola divulgazione; le scelte fatte dai cattolici a Trento avevano l’intento di mettere fine a tali funzioni, rifiutando le versioni in lingua locale della Bibbia, imponendo restrizioni alla lettura laica, sviluppando nuovi apparati come l’Indice e l’Imprimatur. Le decisioni prese a Trento furono solo le prime di una serie di azioni di retroguardia volte a contenere la forza e gli effetti della stampa. Ostinandosi a sostenere la versione latina della Bibbia, la politica cattolica mirava sia a contrastare la minaccia proveniente dagli studi greci ed ebraici sia quella che proveniva dalle traduzioni in lingue locali. La pubblicazione della Bibbia, infatti, portava un duplice attacco all’autorità del clero medievale, minacciata (A) dall’erudizione laica da parte di un’élite colta e (B) dalla lettura laica della Bibbia tra il pubblico in generale: infatti, - a livello dell’élite, i laici divennero più eruditi dei religiosi e gli studi greci ed ebraici entrarono nelle scuole; - a livello popolare, uomini e donne comuni cominciarono a conoscere la Scrittura altrettanto bene dei parroci. Il duplice attacco proveniva dallo stesso luogo, cioè dalla nuova bottega dello stampatore. Il nuovo impulso dato all’erudizione da compilatori di lessici e guide di consultazione si accompagnò all’interesse, nuovo, allo sfruttamento dei mercati di massa e alla promozione di bestseller. Lo stampatore londinese Richard Grafton, che tormenta Thomas Cromwell affinché ordini di consegnare il Vangelo di San Matteo in ogni parrocchia e abbazia, fornisce un esempio degli effetti dirompenti della stampa biblica nel ‘500. Nonostante fossero accomunati sotto molti aspetti, ci sono comunque buoni motivi per considerare separatamente i due rami dell’attacco. Il fatto che le edizioni erudite circolassero tra una ristretta cerchia di lettori e che le traduzioni in lingua locale fossero rivolte a un pubblico di massa sembra molto ovvio, ma ci sono altre distinzioni meno ovvie, su cui occorre riflettere: ad esempio, gli approcci degli studiosi e degli evangelici al Sacro Verbo non sempre convergevano, a volte, anzi, erano agli antipodi: Lutero attaccava Erasmo per essere stato più un grammatico che un teologo, Tommaso Moro attaccò i traduttori luterani come Tyndale e si oppose alla pratica di 36 mettere nelle mani degli studenti le scritture in lingua locale anziché in latino. Inoltre, i prìncipi rinascimentali, condividendo la posizione di Moro, preferivano le edizioni erudite. Enrico VIII, nel 1453, promulgò un decreto che era quasi contraddittorio, con cui, da una parte, autorizzava la lettura della Bibbia in inglese in chiesa, ma, dall’altra, ne impediva la circolazione per tenerla fuori dalla portata dei lettori laici; tale decisione probabilmente concorse ad ampliare il mercato delle Bibbie inglesi (come sempre accade, quando una cosa viene proibita, l’appetito della gente viene stuzzicato); peraltro, dopo la morte di Enrico VIII, tali proibizioni furono abbandonate e la corona seguì una politica meno ambivalente. L’anglicizzazione della Bibbia procedette sotto gli auspici reali, giungendo a una conclusione trionfale sotto Giacomo I. Con la Versione Autorizzata gli inglesi si unirono ad altre nazioni protestanti. La Bibbia fu quindi “nazionalizzata”, così da dividere le chiese protestanti e rafforzare le frontiere linguistiche esistenti, che si scontravano con il cosmopolitismo incoraggiato dall’erudizione biblica. La pubblicazione di Bibbie poliglotte mise a contatto studiosi di fedi diverse provenienti da regni diversi e la collaborazione con enclavi eterodosse di ebrei e greci favorì uno spirito ecumenico e tollerante. I movimenti ottocenteschi per la traduzione in lingua locale ebbero anche implicazioni anti-intellettuali. Infatti, molti pubblicisti sostenevano la causa dell’anglicizzazione della Bibbia, condannando duramente erudizione e pedanteria. Le obiezioni dei protestanti al celare la verità del Vangelo furono riprese dai traduttori e usate per obiettivi più secolari: ad es., questi sostenevano che le arti liberali e le scienze non dovessero essere «nascoste in lingua greca o latina», ma fatte conoscere alla «gente volgare»; cercavano così di colmare il divario tra élite accademiche o professionali e lettori «comuni» (= quelli che non conoscevano la lingua latina). In tal modo, legarono l’evangelismo laico dei protestanti alla causa dei divulgatori, schierati contro i monopoli accademici e le élite professionali. Teologi scolastici, professori aristotelici e medici galenici furono attaccati più o meno nello stesso modo dai vari avversari della cultura latina. L’attacco alle vecchie élite professionali non risparmiò le élite politiche, anzi, i due temi si combinarono durante la rivoluzione inglese: ribelli come John Lilburn sostennero che la legge terrena non doveva essere nascosta in latino o francese antico, ma doveva essere in inglese, cosicché «ogni uomo libero potesse leggerle al pari degli avvocati». In effetti, l’impulso a mettere la Bibbia alla portata di tutti presentava aspetti paradossali che chiariscono gli effetti contraddittori della rivoluzione delle comunicazioni nel suo insieme. L’uomo comune parlava in molte lingue, e le Scritture cristiane dovevano essere nazionalizzate per essere messe alla sua portata. Spesso si trascura il processo – pure importante – secondo cui il desiderio di diffondere la buona novella, quando fu realizzato dalla stampa, contribuì alla frammentazione della cristianità. La Bibbia diventò più insulare quando diventò più popolare. Non è un caso che il nazionalismo e l’alfabetizzazione di massa si siano sviluppati insieme: i due processi si sono intrecciati quando gli europei cessarono di parlare la stessa lingua citando le Scritture o recitando le preghiere (fu eccezionale il caso del calvinismo, perché la lingua parlata dagli abitanti del piccolo cantone svizzero che costituì la Roma protestante coincideva casualmente con quella del regno seicentesco più popoloso e potente). In molti casi, a sostituire il latino come lingua internazionale fu il francese, sia per la nuova irradiazione della cultura ginevrina nell’età di Calvino, sia per l’eccellente arte di governo dei Borboni; tuttavia, il francese non acquisì mai la posizione cosmopolita conseguita dal latino medievale negli affari religiosi. 37 La divergenza più fondamentale tra cultura cattolica e protestante si può trovare dentro le case. Ai capifamiglia protestanti fu affidato il dovere di condurre le liturgie domestiche e catechizzare figli e apprendisti, cosa che non era assolutamente propria dei padri di famiglia cattolici (i cattolici non potevano condurre in casa le funzioni religiose: infatti, la religione in famiglia era ritenuta un vivaio di sovversione, per cui la Chiesa della Controriforma scoraggiò la lettura domestica della Bibbia). I capofamiglia protestanti, per quanto in chiesa fossero classificati in basso tra i parrocchiani, potevano trovare in casa un riconoscimento gratificante della propria dignità e del proprio valore: erano re e sacerdoti a casa propria. In questo campo, lo stampatore fu pronto a incoraggiare il far da sé, creando manuali tascabili quali Werke for Householders (1530), una guida di preghiere. Volendo paragonare l’effetto dell’ascolto di un passo del Vangelo letto dal pulpito con la lettura dello stesso passo in casa, per conto proprio, nel primo caso il Verbo proviene da un prete che sta lontano e in alto, nel secondo sembra invece provenire da una “voce interna”, intima. Diverse conseguenze sociali e psicologiche scaturirono dalla nuova possibilità di sostituire la lettura della Bibbia alle cerimonie tradizionali, come la Messa. L’apertura dei libri, in alcuni casi, determinò una chiusura delle menti. Infatti, nell’Europa protestante, l’impatto della stampa produsse due effetti contrapposti: da un lato, una tendenza critica e un modernismo maggiori; dall’altra, un’ortodossia più rigida che culminò nel fondamentalismo letteralistico e nelle «fasce bibliche», le aree in cui predominava una religiosità esclusivamente biblica. La traduzione della Bibbia in lingua locale approfittò dell’erudizione umanistica solo per minarla, alimentando tendenze patriottiche e populistiche. Inoltre, essa coincise, diversamente dalle edizioni erudite e poliglotte senza fini di lucro, con le spinte al profitto dei primi stampatori. Non tutti gli stampatori erano studiosi, né erano tutti devoti, ma dovevano ottenere dei profitti per restare nel commercio. Dopo che la riproduzione di indulgenze e la propaganda di reliquie diventarono compito degli stampatori, le tradizionali pratiche ecclesiastiche furono più palesemente contaminate dallo spirito affaristico; ma ciò caratterizzò anche il campo del movimento antipapale. Anzi, i protestanti fecero ancor più affidamento dei papisti sulla stampa (in pratica, aggirarono l’autorità del papa solo per dipendere ancora di più dagli stampatori e dei venditori di bibbie). Pur definendo l’arte della stampa come “il più alto atto della grazia di Dio”, Lutero rimproverò aspramente gli stampatori che alteravano passi del Vangelo, stampando copie affrettate pur di guadagnare di più; tuttavia, insistendo sulla lettura della Bibbia come unico modo per giungere alla vera fede, dipendeva da un’impresa capitalistica in espansione. Di fatto, le dottrine protestanti sottomisero una religione tradizionale a una nuova tecnologia, con il risultato che la cristianità occidentale imboccò una direzione mai presa prima da alcun’altra religione al mondo, e sviluppò ben presto caratteristiche peculiari che, a paragone con altre fedi, sembrano indicare una sorta di mutazione storica: - nelle regioni protestanti gli ordini regolari furono sciolti e lo stampatore fu incoraggiato a diffondere le Scritture in lingue diverse; - nel territorio governato dalla chiesa della Controriforma furono creati nuovi ordini (come quello dei gesuiti), e la predicazione fu repressa dall’Indice e dall’Imprimatur. Quindi, le fortune degli stampatori diminuirono in regioni in cui le prospettive erano prima sembrate ottime e crebbero negli Stati in cui mise radici la religione riformata. Si spiega così, ad es., l’espansione delle stamperie di Wittenberg e Ginevra. Entrarono invece in declino gli stampatori di Lione, Anversa e Venezia, sia a causa del grande spostamento del commercio dal Mediterraneo all’oceano, sia per la Controriforma. 40 sul libro, ma anche perché fraintende l’indagine dei fenomeni naturali. Si tratta di una concezione ingenua dell’attività scientifica, considerata come il rifiuto di vecchi libri a favore di osservazioni personali di prima mano, con i propri occhi: insomma, gli empiristi del XVI secolo contrapponevano l’osservazione ex novo alla cultura libresca latina insegnata nelle scuole. Il loro slogan era “usar e i propri occhi e credere nella natura, non nei libri”. In effetti, prima della stampa, la raffigurazione precisa dei fenomeni naturali, delle piante o degli animali a favore dei lettori era un’attività marginale: certo, era possibile assumere un bravo miniaturista per decorare un manoscritto unico per un cliente particolare, ma c’era poco da guadagnare ad assumere illustratori per abbellire un testo tecnico. Inoltre, nell’età degli amanuensi ancora non esisteva la ricerca botanica o zoologica sul campo: le illustrazioni che circolavano erano copie rozze e convenzionali di illustrazioni precedenti; quindi, il divario sostanziale tra disegno-capolavoro e immagine deforme nelle prime edizioni a stampa fu un’eredità dell’età degli amanuensi. La “rivoluzione” del ‘500 consisté proprio nel capire che la descrizione puramente verbale era del tutto inadeguata e nel consentire che l’opera di abili disegnatori si conservasse intatta in centinaia di copie. Tuttavia, non è stato il rifiuto della “vecchia” letteratura tecnica (quella su manoscritti) a far nascere la scienza moderna; non fu il rogo dei libri, ma la loro stampa a costituire il passo indispensabile. Con il passaggio dalla scrittura a mano alla stampa, si poté arrivare a diffondere ovunque le “immagini del mondo”: non bisogna, dunque, confondere la nostra moderna struttura uniforme di riferimento con le multiformi “immagini del mondo” che circolavano al tempo della copiatura a mano (ciò significherebbe non vedere gli ostacoli che in passato si opponevano a una sistematica raccolta di dati e ignorare ciò che accadde quando tali ostacoli furono rimossi). Ovviamente, per trasmettere certezze attraverso le immagini occorsero molti decenni: anche nel caso delle mappe e carte geografiche, ci vollero secoli per conseguire la certezza assoluta di un atlante moderno. Dal 300 al 1300 ci furono molti mercanti avventurieri che si misero in mare o viaggiarono via terra. Dalle prove raccolte dopo il 200 sappiamo che cartografi esperti fecero buon uso dei rapporti inviati a sale nautiche e a compagnie mercantili nel tardo medioevo, ma un particolare atlante, una volta terminato, non poteva essere “pubblicato”; inoltre, la produzione di più copie non comportava un miglioramento, ma una corruzione dei dati (per la qualità delle copiature). Lo stesso discorso si può fare per numeri e cifre, per parole e nomi; non fa meraviglia che si credesse che uno dei maggiori segreti affidati da Dio a Adamo fosse come dare un nome a tutte le cose. Nel XVI secolo, quando non si comprendevano le difficoltà create dalla trasmissione pre- tipografica, spesso sembrava che le autorità precedenti fossero state deliberatamente oscure. Le visioni di animali, piante, metalli e pietre che erano state trasmesse per secoli diventarono insoddisfacenti per abili illustratori cinquecenteschi, come Agricola. Il suo interesse per le “tecniche descrittive comunicabili” è importante e deve essere collegato al nuovo sistema di comunicazioni del suo tempo. Circa la cartografia, la sua età dell’oro si fondò sulla padronanza e sull’assimilazione della cultura alessandrina. Furono superati anche i limiti imposti dalle massime biblioteche di manoscritti. In un tributo allo stampatore veneziano Aldo Manuzio, Erasmo dice che mentre la biblioteca alessandrina era sostenuta all’interno di una singola struttura, quella di Aldo non aveva altri limiti se non il mondo stesso. 41 La nuova scenografia della rivoluzione copernicana Se ci si rendesse maggiormente conto dell’importanza della ricerca di archivio per gli astronomi sarebbe più facile comprendere le prime fasi della rivoluzione copernicana. Come contemporaneo di Aldo Manuzio, Copernico ebbe la possibilità di esaminare una gamma più ampia di documenti e usare più libri di consultazione rispetto agli astronomi che lo avevano preceduto: pertanto, vale la pena di soffermarsi sull’interazione di molti testi diversi su un’unica mente. Essendo libero dalla «schiavitù» della copiatura, avendo a disposizione più dizionari, libri di consultazione, cataloghi librari e altri rudimentali sussidi bibliografici, Copernico fu in grado di intraprendere un esame della letteratura sulla scala più vasta fino a quel momento possibile: per chi si occupava di cicli celesti nell’ordine di 25.000 anni era utile l’accesso a più documenti scritti e a guide bibliografiche (anche se Copernico non fu mai disposto ad accettare qualunque serie di osservazioni raccolte in modo acritico). L’accesso a tanta documentazione gli consentì anche di affrontare alcuni problemi tecnici relativi ai cicli di lungo termine che erano rimasti fuori della portata degli astronomi al cui servizio lavoravano gli amanuensi. Indubbiamente, Copernico imparò molto anche da un professore neoplatonico di Bologna dai dibattiti condotti a Padova dagli aristotelici; ma poi abbandonò il ruolo di studioso errante, studiando per molti anni a Frombork. La sua opera indica che conosceva un gran numero di testi, dai Vangeli Sinottici alle tavole dei seni; studiava assiduamente nomi di luoghi e calendari, cronologie e monete antiche per accertare i diversi punti assunti dagli osservatori del passato, per conoscere le osservazioni che risalivano al periodo pre-cristiano, e per paragonare le osservazioni fatte dagli alessandrini e dagli arabi. Di fatto, nessuna fondamentale scoperta astronomica, nessun nuovo tipo di osservazione astronomica convinsero Copernico dell’insufficienza dell’astronomia antica oppure della necessità di cambiare. Tuttavia, mentre, quand’era studente a Cracovia negli anni 1480, il giovane Copernico probabilmente incontrava difficoltà a trovare una sola copia dell’Almagesto di Tolomeo, grazie all’avvento della stampa, prima di morire, ne aveva a disposizione tre edizioni diverse: in realtà, le prime edizioni a stampa dell’Almagesto appaiono deludenti agli occhi dei moderni, ma allora schiusero nuove ed eccitanti prospettive agli astronomi. Il giovane Tycho Brahe, all’età di 20 anni, potendo confrontare testi di Copernico e Tolomeo, giunse alla conclusione che solo mediante una serie continua di osservazioni sarebbe stato possibile pervenire a una migliore comprensione dei moti dei pianeti. Egli «aprì gli occhi» davanti all’esigenza di raccogliere dati nuovi proprio perché aveva a disposizione più dati precedenti rispetto ai giovani studenti di astronomia prima di lui. Anzi, come matematico autodidatta che studiava l’astronomia sui libri, Tycho stesso fu un nuovo tipo di osservatore. La sua scoperta di una cometa segnò un passo importante nell’interpretazione teorica di questi corpi celesti: tra il 1572 e la fine del XVII secolo, quasi tutte le carte e i globi stellari mostravano dove la cometa era apparsa, inducendo gli astronomi a guardare il cielo per osservarne il ritorno. Quando si studia la visione cinquecentesca di fenomeni di antica data come le comete, è necessario non dimenticare i cambiamenti introdotti dalla stampa. L’astronomo danese Tycho non fu solo l’ultimo dei grandi osservatori ad occhio nudo, ma fu anche il primo che approfittò pienamente dei nuovi poteri della stampa, potendo individuare le anomalie nei vecchi documenti, registrare in cataloghi le posizioni di ogni stella, fissare in forma permanente ogni nuova osservazione e apportare le correzioni nelle edizioni successive. Keplero, che portò a 1005 le 777 stelle registrate da Tycho, si batté eroicamente tra il 1623 e il 1627 per far stampare le sue utili tavole (Tavole rudolfine) durante gli sconvolgimenti della Guerra 42 dei Trent’anni. Usando i logaritmi di Napier per le Tavole rudolfine, Keplero compì un operazione che il suo maestro non aveva potuto fare. Al tempo in cui Keplero era studente a Tubinga, gli astronomi dovevano scegliere tra 3 teorie differenti. Un secolo prima, quando Copernico era a Cracovia, gli studenti erano fortunati se ne conoscevano una. È indicativo di un cambiamento notevole il fatto che a uno studente universitario si insegnassero ora 3 diversi modi per determinare la posizione del sole e della terra. Nessuna delle tre era corretta (il sistema di Tycho, come quello di Tolomeo, sarebbe stato successivamente scardinato), tuttavia la comparsa di due teorie planetarie alternative tra cui “scegliere” sviluppate nel corso di un solo secolo era segno di un processo conoscitivo senza precedenti. Nel 1631 Gassendi, seguendo un suggerimento avanzato da Keplero, pubblicò una lettera aperta agli astronomi europei chiedendo loro di osservare il transito di Mercurio davanti al sole, che doveva avvenire il 7 novembre del 1631. Un osservatore tedesco che accettò la sfida non solo scoprì che le Tavole rudolfine fornivano la previsione più precisa, ma pubblicò anche un libello (1632) che informava i lettori delle sue scoperte, delineava la teoria di Keplero e rimandava i lettori interessati alle pubblicazioni di Keplero per ulteriori particolari. La resistenza a logaritmi strani e a procedure apparentemente farraginose fu superata nel momento in cui un editore fu convinto della dimostrazione che si potevano stampare tavole migliori solo conoscendo le tecniche di Keplero. L’editore era Vincent Wing, autore dell’Astronomia Britannica, in seguito letta e annotata da Newton. Riesame del processo a Galileo Mentre Keplero era impegnato nella pubblicazione della sua presentazione della struttura copernicana, il libro di Copernico fu proibito e, nell’estate del 1619, fu data notizia che anche la prima parte della sua Epitome, uscita nel 1617, era stata inserita nell’Indice dei libri proibiti. La notizia lo allarmò: temeva che, se la censura fosse passata anche in Austria, non sarebbe più riuscito a trovare stampatori. Temeva addirittura di dover abbandonare la professione di astronomo. Gli amici gli dissero che i suoi timori erano esagerati e che i suoi libri erano letti anche in Italia da eruditi con permessi speciali, inoltre un corrispondente veneziano gli suggerì che spesso gli autori traevano vantaggio dalla proibizione dei loro libri. Tuttavia, il problema era quando il libro non si riusciva a stampare a causa delle paure suscitate tra gli stampatori dai proclami ufficiali. È possibile quindi rintracciare connessioni importanti tra la nascita della scienza moderna e avvenimenti politici apparentemente estranei. Infatti, l’esito delle guerre dinastiche e religiose influenzava il tipo di programmi editoriali realizzabili in un dato regno, e determinava il grado di rischio che comportava la stampa di un dato libro. Il movimento dei centri scientifici è difficile da ricostruire: anzi, resta da discutere se esistesse qualche reale centro di attività scientifica quando spuntarono nelle città i primi gruppi di stamperie. E si discute ancora su dove e come applicare il termine «scienziato» a uomini che non si consideravano tali. Inoltre, tra il 1500 e gli anni 1640, le indagini oggi considerate «scientifiche» erano ancora, in larga misura, non coordinate. Data l’incertezza sulla posizione dei centri principali dell’attività scientifica, inevitabili sono i contrasti sui fattori che ne favorirono la formazione e la crescita iniziale: - c’è chi sostiene che un ruolo principale durante la fase di “decollo” fu svolta dalle regioni cattoliche, soprattutto dall’Italia, dove fiorì una rinascita platonica e le università laiche; - altri rivolgono l’attenzione alle regioni che ruppero con Roma, sostenendo che le dottrine protestanti stimolarono una nuova indagine sistematica del “libro aperto di Dio”; - altri ancora considerano le università e i circoli calvinisti e puritani troppo conservatori e legati alla tradizione, guardando quindi ai circoli eterodossi e ai gruppi non accademici; 45 in questo modo, tarpò le ali alla propria immaginazione. Il “Monde” completo non fu mai pubblicato neppure postumo; inoltre, nel 1640, le leggi di Keplero non erano state accettate: erano in circolazione tre modelli planetari alternativi e sei serie di tavole contraddittorie. In Italia, aveva preso piede un’editoria clandestina, e i programmi di pubblicazione scientifica perdevano terreno: pare quasi che la scienza, anziché «nascere» tra i compatrioti di Galileo, diventasse clandestina; essa fu in grado di espatriare grazie all’aiuto dato dalla Royal Society, i cui sforzi a sostegno del lavoro straniero vanno conosciuti. Ma, assieme ai servigi speciali resi dalle pubblicazioni della Royal Society, sono comunemente ignorate anche le minacce particolari rappresentate dalla censura sulla stampa. È diventato sempre più di moda sminuire le ripercussioni del processo a Galileo e considerare il subbuglio che provocò una conseguenza dell’abile propaganda protestante. Anche se dopo il 1632 in Italia l’attività scientifica non cessò, gli studi dei Lincei, del Cimento, degli Investiganti e di membri individuali di tali società rivelano quanto fu mutilata: infatti, - i Lincei interruppero gli studi di fisica e astronomia; - la successiva accademia del Cimento (basata sul mecenatismo dei Medici) ebbe vita breve, e fu sciolta 10 anni dopo la fondazione (e due suoi membri furono incarcerati dall’Inquisizione). I suoi scritti collettivi, i Saggi, furono pubblicati nel 1667, ma non erano acquistabili nelle librerie italiane: grazie alla Royal Society, si diffusero all’estero. I Saggi cercarono di proteggere dalla persecuzione i collaboratori mantenendone l’anonimato, ma così li privarono dell’incentivo a dare un contributo pubblico acquistando al contempo fama e riconoscimento personale; per questo l’accademia di Cimento fallì; - politiche editoriali avverse danneggiarono anche la principale società scientifica di Napoli, l’Accademia degli Investiganti: i suoi membri erano spesso sul punto di pubblicare, ma quasi mai si decidevano all’ultimo passo; alcuni rimandarono a tal punto da perdere la reputazione. Alcuni dicono che Napoli dovrebbe essere affiancata a Padova, Firenze, Copenaghen, Parigi e Londra come centro di attività scientifica nel XVII secolo. A Napoli nel Seicento c’erano molti illustri studiosi, ma questa città non era una buona sede per gli scienziati che speravano di far stampare le sue opere principali prima di morire. Per gli studiosi italiani il «libro della natura» era sottoposto a espurgazioni, e molto era dichiarato proibito. La paura della persecuzione produsse un tipo di auto-censura; scienziati e letterati italiani non avevano accesso ai fondi per i programmi editoriali e pochi erano gli stampatori e i finanziatori disposti a correre il rischio di aiutarli a realizzarli. Spesso si trascurano i colpi più duri inferti alla prima scienza moderna dalla censura clericale. Il decreto del 1616 definiva la dottrina di Copernico contraria alle Sacre Scritture e quindi non difendibile e sostenibile. Tale editto, così come quello del 1633, ebbe un effetto deleterio e inibitore sui programmi di pubblicazione scientifica nei paesi cattolici. A febbraio del 1616 Galileo voleva recarsi a Napoli per incontrare lo stampatore Foscorini e organizzare una campagna a favore di Copernico, ma il 5 marzo fu pubblicato il decreto sulle dottrine copernicane. La “Lettera” di Foscorini, che cercava di conciliare le idee copernicane con le Scritture, fu totalmente proibita e condannata; per contro, il “De Revolutionibus” fu “solo” sospeso “finché non fosse stato corretto”. La distinzione tra la proibizione e la sospensione viene spesso sottolineata dagli apologisti cattolici e da tutti coloro che cercano di sminuire l’effetto del colpo. Così, c’è chi sostiene che «in realtà non fu un serio rovescio per il progresso in astronomia» o che l’«effetto del decreto sulla discussione e sulla ricerca scientifica fu di lasciarle all’incirca allo stato in cui erano prima»; ma pochi hanno notato che, nel 1617, un anno dopo il decreto, il fabbricante di mappamondi ed editore di carte geografiche Willem Blaeu 46 pubblicò ad Amsterdam una terza edizione del De Revolutionibus, forse perché sperava di approfittare del vantaggio di comparire sull’Indice, o forse perché aveva pianificato quella data da tempo; fatto sta che l’edizione di Blaeu uscì in un momento in cui i programmi di pubblicazione scientifica relativi a fisica e astronomia seguivano un modello consueto. Gli studiosi impegnati nella ricerca scientifica non rimasero estranei a questa svolta: un membro dei Lincei si dimise, accusando Galileo di sostenere opinioni proibite; Galileo rinunciò al progetto di visitare Napoli, ufficialmente a causa delle «cattive strade». Insomma, dopo il 5 marzo 1616, la «strada per Napoli era cattiva in più d’un senso»: lo stampatore del libro di Foscarini sarebbe stato poco dopo incarcerato e l’autore stesso morì quello stesso anno in circostanze poco chiare. Dopo il 1633, Galileo poté contare su molti editori, stampatori e librai per neutralizzare le azioni papali, perché, appoggiandolo, essi traevano profitto. Secondo il resoconto di de Santillo, i profitti fatti con il “Dialogo sui massimi sistemi” di Galileo sul mercato nero erano alti, poiché era un trattato provocatorio e polemico, che sembrava quasi cercarsi la censura. I “Discorsi su due nuove scienze” non fecero in tempo ad essere autorizzati a Vienna che tutte le copie scomparvero immediatamente in seguito a una spietata caccia al libro. La difesa di Milton della “libertà di stampa senza limiti” e i suoi commenti sul fatto che Galileo sia «invecchiato come prigioniero dell’Inquisizione per aver pensato in astronomia diversamente dal pensiero dei censori domenicani» non vanno liquidati frettolosamente come semplice propaganda antipapista; il caso di Galileo non fu usato solo per legare la scienza al protestantesimo: mise a nudo un legame che si era formato fin da quando le industrie tipografiche avevano cominciato a fiorire a Wittenberg e Ginevra e a declinare a Venezia e Lione. L’attività di case editrici fuori dalla portata di Roma era di vitale importanza per gli scienziati europei occidentali. Il caso di Galileo semplicemente evidenzia meglio questa lezione. *** Capitolo ottavo. Epilogo: scrittura e natura trasformate Gli elementi che intervengono nella costruzione della «modernità» si possono riscontrare per la prima volta nei secoli XVI e XVII. In passato, alcuni storici hanno attribuito il cambiamento alla liberazione della mente dell’uomo durante il Rinascimento e la Riforma. Oggi, invece, molti sono propensi a sottolineare il conservatorismo di questi due movimenti e tendono a mettere in evidenza «la rivoluzione scientifica», espressione con cui si intendono in particolare le conquiste immaginative associate ai nomi di Copernico, Galileo e Newton. Nel corso di un secolo e mezzo, era avvenuta una rivoluzione nel modo in cui gli uomini guardavano l’universo, e ciò soprattutto grazie all’applicazione della matematica ai problemi del mondo naturale. Oggi tutto ciò è ben noto, benché molti particolari siano ancora da definire: ciò che non è chiaro è in che modo tutto ciò ebbe luogo. Così Hugh Kearney, nell’introduzione a Origins of the Scientific Revolution (1966). La Eisenstein, con questo libro, si è proposta di elaborare una nuova strategia per affrontare i problemi sollevati dalla precedente citazione. Sembra inutile discutere circa gli «elementi che intervengono nella costruzione della modernità», perché la «modernità», in quanto tale, è sempre in 47 mutamento, per stare al passo con i tempi. A mano a mano che l’età di Planck e Einstein si allontana nel passato, le «conquiste immaginative associate a Copernico, Galileo e Newton» faranno probabilmente la stessa fine di quelle di precedenti umanisti rinascimentali e riformatori protestanti. In effetti, le recenti interpretazioni di Copernico mostrano che la sua opera comincia già ad apparire sempre più conservatrice e sempre meno legata all’emancipazione da modi di pensiero tradizionali. Sposare la prima scienza moderna a una sfuggente nozione di modernità porta a paragoni odiosi tra successivi movimenti «liberatori» e precedenti movimenti «conservatori» e non aiuta a capire «come tutto ciò ebbe luogo». Se pare inutile chiedere agli storici di cercare gli elementi che intervennero nella creazione di una «modernità» indefinita, più promettente pare alla Eisenstein l’analisi degli effetti di un definito cambiamento delle comunicazioni che intervenne in ciascuno dei movimenti discussi. Tra gli altri vantaggi, questo approccio dà una possibilità di svelare relazioni che i dibattiti sulla modernità non fanno che nascondere. Si possono quindi evitare sterili discussioni sul fatto che i primogeniti dell’Europa moderna siano da cercare tra gli umanisti dell’Italia rinascimentale o che si debba aspettare che il papa sia sfidato da Lutero o, ancora, che i calvinisti trasformino Ginevra in una Roma protestante; e si può evitare di discutere sul fatto che la vera modernità sia giunta con la rivoluzione scientifica o che debba essere ulteriormente rimandata fino all’industrializzazione. Si possono invece impiegare energie costruttive per discernere, in ciascuno dei movimenti discussi, elementi che non erano presenti in epoche precedenti e che mutarono le tradizioni testuali su cui si basava ciascun movimento. In pratica, concentrandosi sulle conseguenze paradossali di un processo concreto di duplicazione, dovrebbe essere possibile - risolvere con maggior chiarezza i problemi di periodizzazione; - notare come i movimenti che miravano a tornare a un passato aureo (sia classico sia protocristiano) furono riorientati in modo tale da distoglierli dal loro fine iniziale, e come il processo stesso di ricupero di testi a lungo perduti allontanò ulteriormente le generazioni successive dall’esperienza dei Padri della chiesa e dei poeti e oratori dell’antichità; - comprendere come umanisti laici, preti e filosofi naturali vissero la comune esperienza di acquisire mezzi nuovi per conseguire vecchi obiettivi, e come tale esperienza produsse, a sua volta, una divisione delle opinioni e una nuova valutazione delle idee ereditate. L’adozione di questa strategia non permette di fornire una risposta esauriente al problema di «come tutto ciò ebbe luogo», ma apre la strada a risposte più adeguate di quelle che sono state fornite fino ad oggi. Secondo la Eisenstein, quindi, in tal modo ci si troverà in una posizione migliore per spiegare perché teorie scientifiche di vecchia data furono giudicate meno accettabili ancor prima che fossero stati fatti nuovi esperimenti/osservazioni o costruiti nuovi strumenti. Uno dei paradossi di tutto l’argomento in questione consiste nel fatto che (A) il passo più importante verso la rivoluzione scientifica nel campo dell’astronomia è stato compiuto molto tempo prima della scoperta del telescopio; (B) William Harvey portò a termine la sua opera rivoluzionaria prima che ci si potesse servire di un microscopio veramente utile; (C) lo stesso Galileo, esaminando i normali fenomeni della vita di ogni giorno, si servì di palline su piani inclinati come si era soliti fare da molto tempo. Gli sforzi che si fanno per spiegare questo apparente paradosso non portano molto lontano. Ci si chiede di ipotizzare una trasformazione che ebbe luogo nella mente degli stessi scienziati, ma la letteratura tecnica su cui si basavano gli astronomi aveva subìto già prima un cambiamento; e 50 - le giovani menti munite di edizioni aggiornate, in particolare di testi di matematica, cominciarono a superare non solo chi era più anziano di loro, ma anche la sapienza degli antichi, - metodi di misurazione, registrazioni di osservazioni e ogni tipo di raccolta di dati furono influenzati dalla stampa, e così anche la carriera che potevano intraprendere insegnanti e predicatori, medici e chirurghi, maestri di conto e artisti-ingegneri. Una separazione netta tra fattori interni e esterni è fuori discussione, ma, come scrisse anni or sono G. Elton, il lavoro va fatto e non proclamato a parole. Tuttavia, prima di svolgere il lavoro, la Eisenstein invita ad aprire qualche direttrice di ricerca prestando più attenzione alla presenza di nuove botteghe a fianco delle precedenti aule universitarie; bisogna, cioè, riconsiderare le divisioni che si vuole separassero gli studiosi dagli artigiani, e le università dalle botteghe cittadine. Questo vale per le teorie che interiorizzano la risoluzione di problemi scientifici tanto da ignorare la rivoluzione delle comunicazioni e trascurarne il possibile peso sulle lezioni e gli studi degli eruditi; ma vale anche per le teorie che negano che ecclesiastici e scolastici fossero in grado di avviare tendenze innovative. Sotto questo aspetto le teorie marxiste della lotta di classe sembrano più un ostacolo che un aiuto. Contrapporre un’avanguardia protocapitalista a una retroguardia di eruditi che leggono in latino contribuisce poco a chiarire gli sviluppi medievali e nasconde i nuovi scambi che ebbero luogo dopo la diffusione delle stamperie. Esistono ottime ragioni per associare gli stampatori ai mercanti e ai capitalisti, ma anche per associarli a professori e frati – soprattutto nell’età dello studioso-stampatore, in cui una stretta collaborazione era la norma. Anzi, insegnanti e predicatori usavano spesso forme nuove di pubblicità con minore incertezza degli artigiani, abituati a mantenere i segreti del mestiere. I proto-tipografi furono invitati a installare stamperie in monasteri e collegi, mentre insegnanti e precettori erano molto richiesti come curatori e traduttori. La formazione di centri culturali laici al di fuori delle università e del movimento per la traduzione in lingua locale fu di grande importanza, ma non meno importanti furono i cambiamenti che modificarono le facoltà universitarie e influenzarono gli studenti che volevano conseguire titoli professionali. Quando si isolano le élite professionali che si affidavano al latino dagli effetti della nuova tecnologia, le divisioni interne alla comunità erudita diventano più sconcertanti del necessario e si perde una rara opportunità di vedere entrare forze «esterne» nella vita «interna» della scienza. I punti qui sollevati vanno oltre il settore particolare della storia della scienza e sconfinano nel problema più generale di collegare gli sviluppi socio-economici e politici a quelli intellettuali e culturali. Concentrare l’attenzione su un cambiamento nelle comunicazioni porta a collegare mente e società e contemporaneamente permette di evitare connessioni forzate tra classe economica e sovrastruttura intellettuale che portano ad uno schema prefabbricato. Si possono tracciare relazioni plausibili tenendo conto degli anelli di congiunzione costituiti da una nuova rete di comunicazioni che coordinò diverse attività intellettuali, producendo al contempo merci concrete da commerciare per un profitto. Poiché le loro merci erano sostenute o censurate da funzionari, oltre che consumate da gruppi istruiti, le attività dei proto-tipografi costituiscono un legame naturale tra il movimento delle idee, gli sviluppi economici e gli affari di chiesa e Stato. Le politiche seguite da alcuni dei mercanti-editori cinquecenteschi di maggior successo offrono un utile correttivo alla nozione convenzionale che contrappone «avanzati» sovrani accentratori e statisti edificatori di nazioni a «arretrati» piccoli principati e città-stato tardomedievali chiuse nelle loro mura. Le industrie tipografiche rappresentavano un’impresa «avanzata», su larga 51 scala, che fioriva più in piccoli Stati confederati che in regni vasti e ben consolidati. Gli stampatori immisero anche in diverse culture letterarie protestanti elementi secolari estranei che appariranno anomali, a meno che non si tenga conto del funzionamento tutto peculiare di un commercio librario sottoposto alla censura. Quando si segue il movimento delle idee dal meridione europeo cattolico al settentrione protestante, bisogna dare il giusto peso ai fattori che determinarono il movimento precedente delle industrie tipografiche. In ogni storia sociale delle idee, il modo in cui il centro di gravità della repubblica delle lettere si spostò dalla Venezia cinquecentesca alla Amsterdam della fine del ‘600 merita particolare considerazione. Quando si cercano i «vivai del pensiero illuministico», il modus operandi dei più famosi maestri- stampatori (come Manuzio, Estienne, Oporinus, Plantin) merita uno studio più attento, così come la natura relativamente aristocratica della loro clientela. Come sottolinea la biografia di Martin Lowry su Manuzio, quando lo stampatore veneziano scartò il grande in folio a favore di un più piccolo formato in ottavo, intendeva offrire una comodità agli studiosi-diplomatici e agli aristocratici consiglieri di stato; non pensava certo di sfruttare mercati popolari con testi dedicati ad opere greche classiche. Dall’in ottavo aldino degli anni 1500 all’in dodicesimo degli Elzevier degli anni Trenta del ‘600, la diffusione di comode edizioni tascabili mutò in primo luogo la situazione nella repubblica del sapere. Ma, prima di ipotizzare che una mutata visione del mondo comporta l’ascesa di una nuova classe, è il caso di analizzare meglio il nuovo schieramento intellettuale delle élite che leggevano in latino, ovviando così allo squilibrio creato dall’attribuzione di un peso eccessivo alle tendenze divulgatrici e ai movimenti di massa. La spinta evangelica che alimentò le nuove stamperie ebbe le conseguenze più rapide e spettacolari e provocò una partecipazione di massa di nuovo tipo. Ma ciò non deve distogliere l’attenzione da trasformazioni più sottili e tuttavia altrettanto irreversibili che alterarono la visione del mondo di élite che si affidavano al latino. Nella rivoluzione scientifica intervennero diversi elementi nuovi, introdotti dalla stampa, e che ebbero una parte essenziale anche nella riforma religiosa. Nel collegare i due movimenti, i deve considerare in che modo si concretizzarono vecchi atteggiamenti all’interno delle comunità colte, prima di pensare alla creazione di atteggiamenti nuovi, e a maggior ragione alla propagazione della cultura a intere classi nuove. Questo approccio è proficuo anche per quanto riguarda le tendenze evangeliche. I precedenti atteggiamenti di lollardi, valdesi, ussiti e Fratelli della Vita Comune si concretizzarono in modo nuovo grazie alla stampa, prima che nascessero dottrine protestanti pienamente mature. Inoltre, allestendo la scena per la Riforma, bisogna prestare una certa attenzione alle numerose controversie precedenti, che avevano a che fare non tanto con la traduzione in lingua locale quanto con gli studi trilingui e l’esegesi dotta di testi latini. Nella bottega dello studioso-stampatore, i curatori di testi patristici e alessandrini avevano un punto di incontro comune. Una maggiore attenzione ai cambiamenti nella trasmissione testuale tra le élite colte aiuterebbe a capire come si possono collegare tra di loro diversi elementi della storia intellettuale all’inizio dell’età moderna. In particolare, potrebbe chiarire il rapporto tra cambiamento religioso e scientifico. Si può così osservare che il destino dei testi ereditati da Aristotele, Galeno e Tolomeo ebbe molte cose in comune con il destino dei testi ereditati da San Girolamo. Come gli studiosi amanuensi avevano fatto quanto in loro potere per emendare la versione di San Girolamo e proteggerla da ulteriori corruzioni, così anche gli astronomi medievali lavorarono per conservare ed emendare la «grande composizione» di Tolomeo. Come gli studi trilingui, invocati più volte, furono avviati solo dopo l’avvento della stampa, così anche la riforma del calendario giuliano fu 52 spesso sollecitata, ma mai realizzata. Dopo l’avvento della stampa, la versione di Girolamo fu protetta da ulteriori corruzioni solo per essere minacciata dalle chiose di studiosi che avevano imparato l’ebraico e il greco. Allo stesso modo, l’opera di Tolomeo fu attaccata non appena emendata attaccata. In qualità di “secondo Tolomeo”, a Copernico (nonostante la sua lontananza personale dalle stamperie) fu attribuito lo stesso ruolo di Erasmo, che aveva voluto rifare il lavoro di San Girolamo. Entrambi volevano realizzare programmi tradizionali: San Girolamo, emendare la Bibbia e riformare la chiesa; Copernico, emendare l’Almagesto e contribuire alla riforma del calendario. Ma entrambi utilizzarono mezzi non tradizionali e questo spinse il loro lavoro in una direzione non convenzionale, cosicché aprirono strade nuove nell’atto stesso di puntare a vecchi obiettivi. I problemi nuovi posti dai libri del ‘500 che indicavano strade originali spinsero i filosofi naturali e i teologi a dividersi al loro interno in modo simile. I conservatori di entrambi i gruppi si trovarono nella scomoda posizione di allontanarsi dai precedenti pur difendendo lo status quo: - i difensori di Aristotele e Galeno, che volevano punire i professori per essersi scostati da testi fissi, assomigliavano a quei difensori della traduzione di Girolamo che censuravano gli studiosi per aver chiosato edizioni bibliche; - nello stesso tempo, molti ecclesiastici e professori laici erano attratti dalle nuove opportunità date agli stampatori di raggiungere un pubblico più vasto, conquistare nuovi protettori e arrivare alla celebrità. I membri di entrambi i gruppi offrirono il loro contributo, come curatori, traduttori e autori, tanto alle tendenze popolari che a quelle erudite. I teologi che sostenevano un sacerdozio universale di tutti i credenti e traducevano la Bibbia si trovavano nella stessa posizione dei frati, dei medici e degli insegnanti che compilavano manuali dei mestieri e traducevano testi di matematica e medicina. Il movimento per la traduzione in lingua locale non solo permise ai movimenti evangelisti di offrire a tutti il Vangelo, ma sfruttò anche una grande riserva di talenti scientifici latenti sollecitando il contributo di maestri di conto, fabbricanti di strumenti e artisti-ingegneri. L’incoraggiamento dato dai protestanti alla lettura laica e al far da sé favoriva particolarmente lo scambio tra lettori ed editori, che sfociò nella pacifica destituzione delle antiche autorità come Plinio e in ampie raccolte di dati di tipo nuovo. Infine, le stesse politiche censorie e tendenze elitiste che scoraggiarono gli stampatori cattolici della Bibbia bloccarono i canali per la pubblicazione scientifica nei paesi cattolici. Ma anche se la pubblicazione scientifica era sempre più monopolizzata dalle case editrici protestanti, evangelici e scienziati usarono comunque i nuovi poteri della stampa per fini fondamentalmente diversi. I secondi miravano non a diffondere il verbo di Dio ma a decifrarne l’opera. L’unico modo per «aprire» il libro della natura all’esame pubblico esigeva (paradossalmente) una preliminare codificazione dei dati in equazioni, diagrammi, modelli e grafici sempre più sofisticati. Per gli scienziati l’uso della pubblicità era molto più problematico che per i divulgatori del Vangelo. In questo senso il caso di Galileo può trarre in inganno. Sfruttando il suo fiuto per la pubblicità e le sue doti di polemista, egli operò come agente della causa copernicana. Tuttavia, la caduta di Tolomeo, Galeno e Aristotele non avvenne grazie alle vignette e ai libelli. Il cambiamento scientifico segue un modello diverso dalle rinascite religiose. La pubblicazione era indispensabile per chiunque cercasse di dare un contributo scientifico, ma il tipo di pubblicità che crea il bestseller era spesso indesiderabile. Ancora oggi scienziati rispettabili temono la pubblicità sensazionale che nasce da un’enunciazione prematura delle loro idee. Gli scienziati della prima età moderna avevano motivi ancora più validi per nutrire questi timori. Molti 55 Mentre lo studio della natura era sempre più libero da problemi di traduzione, lo studio della Scrittura ne era sempre più irretito: non solo le traduzioni in lingua locale frammentarono l’esperienza religiosa dei popoli della cristianità latina, contribuendo a provocare prolungate guerre civili, ma anche le successive versioni poliglotte non riuscirono ad avvicinare gli studiosi della repubblica del sapere alla scoperta delle pure parole originali di Dio. Tycho Brahe, di fronte a 2 tavole astronomiche contraddittorie basate entrambe su dati corrotti, poté controllare le due versioni con l’«originale puro»; ma l’insoddisfazione per le copie corrotte della traduzione latina di San Girolamo non poteva essere superata allo stesso modo. Anzi, provocò una confusione multilingue e un fiorire di varianti testuali e a teorie alternative sulla composizione dei Libri Sacri. Così, l’obiettivo di pervenire a una chiara visione del volere divino, diveniva più irraggiungibile di prima. Certo, una delle ironie della storia della civiltà occidentale è il fatto che gli studi biblici volti a squarciare le tenebre gotiche per ricuperare una verità cristiana pura (volti, cioè, a eliminare glosse e commentari per mettere a nudo il puro testo) finirono per frapporre tra lettore della Bibbia e Libro Sacro un bosco impenetrabile di chiose oscure. Nella conferenza inaugurale a Wittenberg, il giovane Melantone parlò in tono sprezzante dei dottori angelici che trascuravano gli studi greci, delle glosse superficiali di scribi ignoranti e dell’insozzamento delle Sacre Scritture con materia estranea, e invocò un ritorno alle «pure» fonti greche ed ebraiche. Ma quanto più progredivano gli studi trilingui, tanto più gli studiosi si azzuffavano sul significato di parole e frasi e perfino sulla collocazione dei punti vocalici. Un giorno del XVIII secolo, alcuni scienziati svedesi scoprirono che le coste del Baltico avevano subìto qualche modificazione. I teologhi di Stoccolma presentarono immediatamente al governo una protesta affinché questa osservazione degli scienziati, non essendo in accordo con la Genesi, fosse condannata. Ad essi fu risposto che Dio aveva fatto sia le coste del Baltico che la Genesi, e che, se esisteva un contrasto tra le due opere, l’errore doveva essere senz’altro nella copia che si possiede del libro piuttosto che nel Mar Baltico, di cui possediamo l’originale! Dunque, l’effetto della stampa sullo studio biblico fu in netto contrasto con il suo effetto sullo studio della natura. Questo contrasto non viene alla luce quando si sottolineano solamente i temi della divulgazione e si affianca alla diffusione delle Bibbie in lingua locale quella dei testi tecnici. Per osservare questa divergenza bisogna studiare le trasformazioni interne di una repubblica del sapere in cui da tempo si studiavano Bibbie latine, anche se non si erano mai viste edizioni poliglotte complete. Oltre ai problemi nuovi posti a questa comunità dalle traduzioni poliglotte delle parole sacre, bisogna tenere conto anche dei vecchi limiti posti alla raccolta dei dati e dei nuovi vantaggi offerti da tavole, carte e mappe stampate. Si può quindi allestire la scena per il pensiero illuministico senza ricorrere a concetti indefiniti come la «modernità» o restare prigionieri dei dibattiti sull’ideologia borghese. Secondo la Eisenstein, i cambiamenti prodotti dalla stampa forniscono il punto di partenza più plausibile per spiegare come la fiducia si sia spostata dalla rivelazione divina al ragionamento matematico e alle mappe prodotte dall’uomo. Il fatto che le tradizioni religiose e scientifiche siano state influenzate dalla stampa in modi del tutto diversi denota la natura complessa e contraddittoria del cambiamento delle comunicazioni e la difficoltà di liquidarne le conseguenze in una formula. Quando si studia l’iconoclastia protestante o il diffondersi della lettura della Bibbia, può apparire utile ravvisare un movimento che va «dall’immagine alla parola»; ma bisogna essere pronti ad usare la formula opposta, «dalla parola all’immagine», quando si allestisce la scena per la nascita della scienza moderna. Nel secondo caso, la stampa ridusse i problemi di traduzione, 56 superò le divisioni linguistiche e contribuì a superare precedenti divisioni tra lezioni universitarie e mestieri artigiani. Ma negli affari religiosi il cambiamento nelle comunicazioni ebbe l’effetto di dividere, frammentando in modo permanente la cristianità occidentale lungo linee sia geografiche sia sociologiche. Non solo le regioni cattoliche furono separate da quelle protestanti, ma nelle diverse regioni l’esperienza religiosa si biforcò internamente. La perdita di fiducia nella parola di Dio tra le élite cosmopolite si affiancò a maggiori opportunità per evangelici e preti di diffondere la buona novella e riaccendere la fede. In tutte le regioni, il flusso e riflusso della devozione religiosa influenzò strati sociali diversi in momenti diversi. Ma la Bibbia divenne «il tesoro degli umili» solo nei paesi protestanti. Tra i protestanti, la spinta a diffondere in ogni dove il Vangelo ebbe risultati paradossali particolari. Le Bibbie in lingua locale autorizzate dai sovrani protestanti contribuirono a «balcanizzare» la cristianità e a nazionalizzare quello che prima era stato un libro sacro più cosmopolita. I capifamiglia che leggevano la Bibbia acquisirono un più vivo senso del valore individuale; nacquero sètte diverse. Ma mentre la vita spirituale si arricchiva, essa era anche macchiata da impulsi commerciali. Se, da un lato, caddero in disgrazia i venditori di indulgenze, dall’altro si moltiplicarono i venditori di Bibbie. Soprattutto nelle stamperie, i vecchi impulsi missionari si combinarono con le esigenze di un’impresa capitalistica in espansione. Ma anche lì convergevano diversi altri impulsi. Tra editori di mappe, maestri di conto e artigiani, la stampa agì come una meravigliosa alchimia, trasformando l’interesse privato in bene pubblico. Soddisfece anche la vanità di pedanti, artisti e letterati. Analizzando i nuovi poteri della stampa, si può sostenere giustamente una spiegazione a più variabili: la mescolanza di molte cause fornì un impulso più potente di quanto ogni singola causa avrebbe potuto fornire da sola. La convergenza di impulsi diversi si rivelò irresistibile, producendo in campo culturale un massiccio e irreversibile «cambiamento di fase». Le prime stamperie, che furono installate tra il 1460 e il 1480, furono mosse da molte forze diverse che erano state in incubazione nell’età degli amanuensi. In un contesto culturale diverso, la medesima tecnologia avrebbe potuto essere usata per fini differenti (come avvenne in Cina e in Corea), o avrebbe potuto non essere gradita e quindi non venire usata affatto (come avvenne in molte regioni extraeuropee, in cui le stamperie dei missionari furono le prime ad essere installate): per questo motivo, si può concordare con quegli studiosi che sostengono che il processo di duplicazione sviluppato a Magonza nel XV secolo non aveva di per sé più importanza di un qualunque altro strumento inanimato: se non fosse stato giudicato utile agli agenti umani, non sarebbe mai stato messo in funzione nelle città europee del ‘400: inoltre, in circostanze diverse avrebbe potuto essere accolto e utilizzato in modi completamente diversi (ad es., monopolizzato da preti e sovrani, e sottratto a liberi imprenditori urbani). Questo ragionamento ipotetico è utile per indicare l’importanza del contesto istituzionale in cui venne a svilupparsi l’innovazione tecnologica. Tuttavia, resta il fatto che, dopo l’installazione di stamperie in numerose città europee, i poteri di trasformazione della stampa cominciarono a operare. Bisogna dare spazio agli elementi particolari che distinguono l’avvento della stampa da altre innovazioni: - non si può considerare la stampa solo uno tra i tanti elementi in un complesso nesso causale, perché il cambiamento dei mezzi di comunicazione trasformò la natura stessa del nesso causale, - essa ha un’importanza storica speciale perché produsse alterazioni fondamentali nei modelli prevalenti di continuità e cambiamento (a questo riguardo, bisogna respingere le 57 opinioni espresse dagli umanisti, che spingono la loro ostilità alla tecnologia fino a deprecare lo strumento stesso). La vita intellettuale e spirituale fu fortemente influenzata e trasformata dalla moltiplicazione di nuovi strumenti per riprodurre i libri nell’Europa del ‘400. Il cambiamento nelle comunicazioni alterò il modo in cui i cristiani consideravano il loro libro sacro e il mondo naturale. Fece apparire più multiformi le parole di Dio e più uniforme la sua creazione. La stampa gettò le basi sia del «fondamentalismo» testuale sia della scienza moderna. Qualche osservazione finale Il libro della Eisenstein si è limitato a considerare l’età del torchio di legno azionato a mano; ha appena sfiorato l’industrializzazione della fabbricazione della carta e l’uso di stampatrici di ferro mosse dal vapore. Non ha parlato affatto dei binari ferroviari e dei fili del telegrafo che collegarono le capitali europee a metà dell’Ottocento, o di linotype e monotype, che accompagnarono l’alfabetizzazione di massa e il giornalismo popolare. Macchina per scrivere, telefono e numerosi altri più recenti mezzi di comunicazione sono stati completamente ignorati. Poiché sono state espresse opinioni contrarie, è necessario puntualizzare che nella rivoluzione tipografica della prima età moderna sono insiti elementi di irreversibilità: a metà del ‘400, furono messi in moto processi cumulativi che non hanno cessato di acquistare impeto nell’età della stampa automatizzata e della guida televisiva. Naturalmente, sarebbe sciocco ignorare le trasformazioni che le tecnologie della comunicazione stanno subendo in questo stesso momento, dopo l’avvento dei PC. Per quanto però le stamperie e le case editrici esistenti possano alla fine diventare obsolete, sembra tuttora probabile che la moderna industria della conoscenza continuerà ad espandersi. Di sicuro, al momento, non ci sono segni tali da indicare che la pressione sulle risorse bibliotecarie stia diminuendo o che i problemi posti dal sovraccarico possano essere alleviati. Dall’avvento dei caratteri mobili, una maggiore capacità di immagazzinare e recuperare, conservare e trasmettere ha tenuto il passo con una maggiore capacità di creare e distruggere, innovare o scartare. L’aspetto alquanto caotico della cultura occidentale contemporanea è frutto dei poteri di duplicazione della stampa altrettanto, se non di più, dello sfruttamento di nuove forze nell’epoca presente. Alcune delle conseguenze impreviste che giunsero sull’onda dell’invenzione di Gutenberg possono essere oggi oggetto di analisi retrospettiva, ma altre si stanno ancora manifestando e queste sono ancora impossibili da valutare. Dei cambiamenti che abbiamo delineato solo pochi erano prevedibili. Anche retrospettivamente sono difficili da descrivere. È chiaro che è necessario uno studio maggiore, se non altro per evitare avventati salti nel buio. Un’accumulazione continua di stampati presenta alcuni rischi, ma conferisce anche qualche modesto vantaggio: ad es., possiamo vedere come i nostri predecessori interpretavano presagi e pronostici e paragonarne le profezie con ciò che accadde realmente. La tendenza a mettere fine a storie che ancora vanno avanti è frutto anzitutto del prolungarsi di schemi storici ottocenteschi, in particolare quelli di Hegel e Marx, che danno a conflitti dialettici logici conclusioni dialettiche logiche. In questi grandi progetti non è contemplata la possibilità di un prolungarsi infinito di tendenze fondamentalmente contraddittorie. Tuttavia, alla Eisenstein sembra che ancora si stiano sperimentando gli effetti contraddittori di un processo che attizzò il fuoco del fanatismo religioso e del bigottismo, pur alimentando un interesse nuovo per la concordia ecumenica e la tolleranza; che fissò in modo più permanente divisioni linguistiche e nazionali pur
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