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le teorie della critica letteraria (Muzzioli) e Autore\Personaggio (Medaglia), Dispense di Critica Letteraria

Riassunti dei materiali necessari all'esame di introduzione alla critica letteraria con Francesca Medaglia: libri integrati con appunti.

Tipologia: Dispense

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Scarica le teorie della critica letteraria (Muzzioli) e Autore\Personaggio (Medaglia) e più Dispense in PDF di Critica Letteraria solo su Docsity! Introduzione alla critica letteraria Platone e Aristotele I metodi sono ipotesi di lavoro, non procedure rigide. Nella critica letteraria ci riferiamo per lo più al '900 ma questa fonda le sue radici molto più indietro. Platone nella Repubblica afferma che non dobbiamo guardare alle favole dei poeti che sono false, ma alle imitazioni che presentano uno stato reale. Inoltre, nello Ione, afferma che la poesia è il sacro furore che rende il poeta quasi un essere divino e che questa riesce ad andare oltre la superficie. L'autore in questo senso subisce una sorta di possessione e, colui che ascolta, viene preso dal medesimo sacro furore. Si presentano quindi due figure: l'autore e il lettore\ascoltatore, ma la lettura è meschina. Da un lato è fasulla, dall'altro divina. Aristotele tratta questi argomenti nella Poetica per cui la poesia è solo un modo diverso di vedere le cose. Mentre lo storico scrive storie realmente accadute, il poeta è verosimile, fa delle ipotesi; tuttavia il verosimile può convivere con il vero. Ogni opera ha dei mezzi che variano, così come variano gli oggetti (commedia e tragedia) e i modi. La definizione di genere ci dice come un'opera dovrebbe essere e, a seconda delle scelte che si compiono, ci si inserisce all'interno di un genere (es. il giallo ha un detective - buono-, un assassino -cattivo-, un ucciso -ininfluente-; i gialli di Jessica Fletcher sono molto lineari, Sherlock Holmes rientra nei canoni del giallo classico, sebbene il personaggio moderno sia cambiato in quanto è tatuato e ha problemi di droga). Aristotele afferma che è necessario captare l'oggetto: quello di cui si parla (nobili\ignobili); i modi: scelte dei criteri espressivi; una serie di indicazioni quali il tema che non muti, i toni adatti alla vicenda, il carattere dei personaggi che deve rimanere costante, il fatto che se il personaggio appartiene alla tradizione il carattere non deve essere cambiato. Platone e Aristotele criticano attraverso la forma-trattato: ci dicono come deve essere guardata un'opera, configurandosi come una guida per il critico. A questa aggiungono la forma-commento messa a servizio del testo e del lettore che, con un approccio di tipo filologico, rende il testo più comprensibile. La critica ha pertanto origini antichissime e, già allora, sono numerose le tematiche che sorgono. Muzzioli, capitolo III L'apporto della linguistica Analisi del linguaggio si è sviluppata nel Novecento sotto lo stimolo della linguistica, fondata da Ferdinand de Saussure (1857-1913). Quest'ultimo, nel Corso di linguistica generale, poneva tre distinzioni: 1. significante e significato: il supporto materiale e il contenuto mentale; 2. langue e parole: il codice (sistema della lingua) e il messaggio (esecuzione individuale di ogni parlante); 3. sincronia e diacronia: stato della lingua in un determinato momento e in un arco di tempo. Il formalismo e lo strutturalismo prediligono l'aspetto sincronico. Anche la glossematica del danese Louis Hjelmslev (1899-1965) fornirà un importante contributo. In I fondamenti della teoria del linguaggio viene chiarito che l'aspetto formale riguarda sia il significante, sia il significato pertanto si avranno forma e sostanza dell'espressione e forma e sostanza del contenuto. Il formalismo Il formalismo è una tendenza critica organizzata in gruppi diffusasi fin dagli anni '10 in Russia, tra Mosca e San Pietroburgo. Tra i personaggi principali è bene ricordare: Roman Jakobson (Iacobson); Viktor Sklovskij (Sklobski); Jurij Tynianov (Tinianov) e Vladimir Propp. Il formalismo considera l'innovazione linguistica come costituente del testo letterario. Ciò si riscontra nella nozione di “straniamento” proposta da Sklovskij per cui è necessario porsi in una prospettiva inedita e sorprendente affinché si combatta l'automatismo dei rapporti consueti (es. racconto di Tolstoj in cui i fatti vengono narrati dal punto di vista di un cavallo). I formalisti hanno al centro dell'interesse la nozione di “scarto” e di “deviazione”, in un approccio sincronico. I formalisti hanno in comune con la critica stilistica la nozione di “scarto”, sebbene in questo caso si faccia riferimento alla “letterarietà” in quanto tale. È necessario definire cosa si intende per “specifico” della letteratura. Per far ciò i formalisti si servono della contrapposizione tra linguaggio letterario e linguaggio pratico: nel primo la parola è fine a sé stessa, nel secondo la parola è un mezzo per realizzare i vari scopi della vita. Gli scarti indagati sono, principalmente, il ritmo e la rima in poesia e l'intreccio nella narrativa, in quanto sono questi gli elementi che fanno la differenza. Merito del formalista Osip Brik è aver distinto l'impulso ritimico dalle leggi della metrica in modo da poter avviare l'analisi del verso libero, in cui non c'è più una misura costante. Allo stesso modo Sklovskij si occupa di individuare i vari tipi di intreccio, e ne classifica tre: 1. a gradini: si ha l'aggiunta di informazione (tipico dei romanzi d'avventura); 2. ad anello: si ha un azione a seguito di una controazione; 3. intrecci paralleli: si hanno più intrecci (es. Decameron). La visione non è monolitica, pertanto queste teorie possono coesistere. Il compito dei formalisti non è quello di valutare, ma di spiegare come è fatto un testo, portando alla luce i procedimenti secondo cui l'opera utilizza i propri materiali. Tali leggi vengono scoperte dalla trasgressione di queste norme, ponendo quindi l'attenzione sulla tecnica. I formalisti vedono la letteratura come fosse un edificio per comprenderne la forma. Le leggi vengono studiate grazie alla trasgressione delle stesse, vi è quindi un orizzonte di attesa. Un tentativo di osservare più da vicino le “funzioni” dei singoli elementi testuali venne compiuto da Propp sul corpus delle fiabe russe di magia. Molti di questi episodi erano facilmente riconducibili ad un unico schema. La “funzione” (serie di situazioni che in qualche modo sono ricorrenti ma che vengono applicate differentemente) viene definita come l'atto del personaggio, ben determinato dal punto di vista della sua importanza per il decorso dell'azione (usa l'esempio della proibizione). Saranno gli strutturalisti a verificare se il metodo di Propp sia valido o meno. Tuttavia per Sklovskij la letteratura non avanza il linea retta, ma per scarti e salti discontinui. La storicità e il rapporto con la storia sono stati fatti entrare nel formalismo grazie a Tynjanov poiché egli diede alla sistematicità l'estensione più ampia e arrivò a pensare gli stessi “fatti letterari” come soggetti a cambiamenti nel corso del tempo, affermando che la letteratura si ,muove per un “avvicendamento di sistemi” vale a dire una lotta continua tra tradizione e innovazione. Le avanguardie rompono la tradizione ma poi si canonizzano (es. Picasso, Magritte, Van Gogh). Il discorso di avvicendamento, balzi etc. non pare seguire una strada prettamente sincronica, infatti alla fine i formalisti non riescono infatti a eliminare 2. destinatario: funzione conativa; 3. contesto: funzione referenziale; 4. messaggio: funzione poetica; 5. contatto: funzione fatica; 6. codice: funzione metalinguistica. Jacobson ipotizza un ordine gerarchico delle funzioni che ne preveda una dominate, ma non è detto che queste non possano coesistere. Per lui gli aspetti fondamentali del comportamento linguistico si basano sulla selezione e sulla combinazione. La prima è fondata sull'equivalenza dei termini possibili, la seconda prevede che, per essere compatibili, i termini debbano svolgere ruoli diversi.il sistema dei significanti trama la propria rete organizzativa sopra quella della grammatica e della sintassi della lingua e, sebbene Jacobson parli di sovrapposizione del principio di equivalenza sulla successione delle parole egli mostra in definitiva il prevalere della scansione specifica dei ritmi e dei suoni sulla forma usuale. Compare l'ipotesi di un legame latente tra suono e significato. Lotman definisce l'arte letteraria un sistema di simulazione secondario poiché utilizza materia preesistenti nella lingua naturale e di simulazione perché, pur realizzandosi nella sequenza lineare della scrittura, si organizza in modo da configurare con i suoi rapporti interni una rappresentazione della realtà, una simulazione del proprio contenuto. Egli propone, per definire l'opera d'arte letteraria, la nozione di segno integrale. Se nella lingua naturale il testo è composto da sei segni ognuno scomponibile in elementi, nell'arte verbale il significato è dato soltanto dal testo preso per intero. Pertanto il testo diventa segno e i segni che lo compongono ne diventano gli elementi. È al livello semantico-lessicale che Lotman attribuisce il valore di strato base non eludibile su cui si innestano tutti gli altri contributi al senso complessivo. L’apporto dei significanti è considerato quindi non tanto in chiave di autonomia totale ma come aumento della ricchezza del gioco semantico, come incremento dell’informazione portata dal testo. La scienza del racconto La narratologia è una diramazione del metodo strutturale. È una deviazione che parte dagli studi di Propp. Alcune delle figure più importanti sono quella di Bremond e Greimas (Greimà). Bremond nella sua Logica del racconto prende le mosse da una contestazione di questi studi, affermando che non sia possibile decidere in anticipo la successione delle funzioni. Propp era stato in grado di far ciò perché lavorava con un materiale in qualche modo stereotipato e rigido. Bremond ritiene che l’unità minima della narrazione non sia la funzione isolata ma la sequenza che raggruppa più funzioni. Ogni sequenza consiste nell'apertura di una possibilità narrativa che può essere sfruttata, l'intreccio sarebbe quindi costituito da una serie di opzioni dicotomiche o biforcazioni disgiuntive. La sequenza elementare sarebbe dunque un processo in tre tempi composto da virtualità, passaggio all’atto e conclusione. Quanto al montaggio di queste sequenze elementari nella sequenza complessiva Bremond individua tre modi caratteristici: il testa a coda (quando ogni situazione di arrivo offre la possibilità di ripartire con una nuova sequenza), la sacca (quando la sequenza si interrompe per dar luogo a una sottosequenza che si svolge al suo interno) e la legatura (quando due sequenze si sviluppano simultaneamente o parallelamente). I ruoli narrativi dei personaggi vengono suddivisi in attivi e passivi. Gli agenti a loro volta si scindono tra volontari e involontari. Greimas privilegia invece il sistema dei personaggi. In questi vengono riconosciuti sei ruoli o funzioni: un soggetto (colui che compie l'azione); un oggetto; un destinatore (il mandante del soggetto, innesca l'azione che il soggetto compie); il destinatario (colui a cui viene affidato l'oggetto); l'aiutante; l'oppositore. Si ha quindi un totale di sei attanti a costituire quello che Greimas chiama il modello attanziale. Naturalmente si possono avere casi di totale sovrapposizione. Todorov arriverà addirittura a tradurre l'intreccio in formule algebriche. Toccherà a Genette nel 1972 con il Discorso del racconto a sistematizzare l'analisi degli aspetti e dei modi della narrazione, uscendo dalla mera sequenza di vicende. Vi sono infatti alcuni problemi che lo studio dell'intreccio non riesce a toccare, ad esempio quello dell'enunciazione: a raccontare la storia può essere un narratore intradiegetico o extradiegetico il quale potrà o meno avere parte nella vicenda, risultando in tal modo omodiegetico o eterodiegetico. Barthes, accanto alle funzioni, suggerisce di considerare anche degli indizi, vale a dire quelle notazioni spesso appena accennate volte a indicare il carattere dei personaggi e l’atmosfera della vicenda, le quali servono a preparare gli sviluppi della storia. Inoltre Barthes distingue tra le funzioni quelle cardinali, o nuclei, e quelle catalisi o di riempimento che offrono all’interprete dettagli non trascurabili. Egli indica la necessità di un passaggio dalle macrostrutture alle microstrutture verso il modo di organizzare i significati, dove le analisi della poesia e della prosa si congiungono. Semantica-semiotica Del metodo messo in campo da Greimas sono da ricordare soprattutto alcune nozioni basilari: la suddivisione del significato in semi, il formarsi di catene coordinate di semi dette isotopie e la connessione ai semi di marche valutative (di segno positivo o negativo). Sulla scia di queste indicazioni greimasiane si sono mossi alcuni studiosi belgi dell’Università di Liegi raccolti sotto la sigla del Gruppo Mi, i quali hanno riclassificato nei termini della semantica strutturale l’antichissimo bagaglio della retorica. I ricercatori di Liegi passano a individuare quattro possibili forme di deviazione: soppressione (quando viene tolto un elemento); aggiunzione (quando l’elemento viene aggiunto); soppressione-aggiunzione (la sostituzione di un elemento con un altro); permutazione (invertire l’ordine degli elementi). La metafora è intesa come soppressione-aggiunzione nel significato di una parola, mentre la rima come aggiunzione ripetitiva a livello dei suoni. Il Gruppo Mi ha precisato la propria ipotesi teorica nella Retorica della poesia. Nel testo poetico le metafore e le altre figure produrrebbero un proliferare di semi secondari che vanno a formare varie catene di isotopie. Mentre il linguaggio normalmente si basa su una sola isotopia, la poesia è dotata di poli-isotopia; ciò significa che normalmente il linguaggio ha un solo significato ma nella poetica si hanno catene di significati multipli e molteplici, quelle su cui è necessario basare l'analisi e che rientrano nelle quattro forme di deviazione. Tali reti semantiche possono essere ricondotte a tre grandi ambiti: un triangolo che ha per vertici l’uomo, il cosmo e il linguaggio stesso (anthropos, cosmos e logos). Il compito della poesia è quindi quello di mediare tra queste tre aree e riunirle, dando vita alla polisemia. Il modello greimasiano è il quadrato semiotico dove il termine chiave si sviluppa in una dialettica più aperta e complessa combinandosi con i termini contrari e contraddittori. La cultura come universo di segni La scienza dei segni ha ricevuto contributi significativi da parte di Maria Corti e Cesare Segre. La prima ha considerato la comunicazione letteraria come scampo di tensioni tra istanze alla codificazione e spinte trasformatrici, mentre il secondo ha riattivato l'interesse verso la storia del confronto tra scrittori mediante il sistema semio-letterario. Il Gruppo di Mosca e Tartu (Scuola di Tartu-Mosca) raccolto attorno a Lotman e a Uspenskij sostiene che se ogni testo non può essere pienamente compreso nel suo valore altro che in rapporto al contesto culturale in cui si inscrive, è allora alla cultura in quanto sistema dei sistemi che l’analisi deve in ultima istanza giungere. La cultura risulterà dal modo di sommarsi e di organizzarsi dei diversi codici e sarà interpretabile come sistema di segni sottoposto a regole strutturali. Sono queste le basi della culturologia, la quale analizza la cultura come sistema di sistemi. Ogni testo contiene infatti un dato modello di mondo e, con questo, si partecipa al generale quadro culturale. La cultura è quindi un sistema di segni sottoposto a regole strutturali. Per queste ultime si intendono quelle che permettono di costruire qualcosa con la convinzione che, in ogni cultura, si possa arrivare a descrivere il modello fondante. Alla base di tutto vi è l'interscambio: l'opera letteraria è calata all'interno della vita, in uno spazio definito semiosfera in cui i diversi segni di una cultura possono sussistere e generare nuove informazioni. Secondo Lotman il modello culturale consiste essenzialmente in uno schema spaziale. Lo spazio viene suddiviso a opera di una frontiera che serve a distinguere i valori dai disvalori: il gruppo sociale dai nemici, i vivi dai morti, le divinità buone da quelle cattive. Le vicende dell’eroe sono significative in quanto lo portano ad attraversare alcune importanti barriere del modello culturale. I personaggi possono essere vincolati (legati a una particolare zona e non possono oltrepassarla) oppure mobili (assurgono al rango di protagonisti e di forze trainanti dell’azione narrativa). Per identificare i tipi culturali Lotman ha avanzato varie proposte utilizzando le categorie tratte dalla linguistica. La classificazione più articolata è quella approntata prendendo in considerazione l’atteggiamento rispetto al segno. Questi versanti in linguistica ricevono il nome di paradigma e sintagma. Si aprono quattro possibilità: privilegio del primo aspetto o del secondo, di nessuno dei due o entrambi. Lotman legge lo svolgimento della cultura russa prima del sec. XX come successione di quattro tipi: • nel medioevo predomina l’aspetto paradigmatico: il segno è fortemente valorizzato a scapito di ciò che non è segno; • con i secoli XVI-XVII si impone la cultura del praticismo: i segni non sono più presi per il rapporto con un livello superiore ma per il posto che occupano in un piano determinato. È questo il tipo sintagmatico dove predomina la capacità di combinare e organizzare i segni; • l’illuminismo rappresenta il caso del rifiuto di entrambi gli aspetti; • tra il secolo XVIII e XIX con l’instaurarsi della società borghese prende piede un modello culturale che concilia l’aspetto paradigmatico con quello sintagmatico. Perché una cultura dopo aver funzionato bene a un certo punto viene sostituita da un’altra la risposta degli studiosi russi è che il dinamismo non sia imposto da cause estranee ma che sia intrinsecamente connesso alla cultura. Senonché una volta inteso il dinamismo una proprietà ineliminabile della cultura, si finisce per ritenere il cambiamento un fatto naturale per deresponsabilizzare le forze culturali. Nell’ultima fase della sua attività Lotman ha indicato il punto di passaggio tra i diversi stati con l’immagine dell’esplosione. L’arte è un’esplosione di senso che accade senza preavviso in un dato momento temporale. La semiotica ha consentito a Lotman di toccare il del discorso sulla letteratura. Sarebbe infatti non solo vano ma assurdo pretendere di far spuntare nuovi geni artistici: ciò che è possibile fare è lottare per la formazione di una “nuova cultura”, per una “nuova vita morale”, in maniera tale da creare il retroterra da cui nasceranno nuove opere d'arte. Riflettendo sul fatto che l'opera è un “processo” e che ogni cambiamento nel contenuto deve determinare un cambiamento nella forma, Gramsci perviene a ipotizzare una priorità relativa del contenuto e dunque, in esso, dei valori culturali. Attraverso l'interpretazione del Canto X dell'Inferno di Dante, Gramsci affronta il problema della “struttura”, affermandone l'essenzialità per la comprensione del testo. Gramsci oppone che, senza la conoscenza della pena, il dramma di Cavalcante sarebbe incomprensibile e quindi ne subirebbe danno l'intero esito della scena dantesca. La conclusione risiede nel fatto che il “brano strutturale” è necessario e ineliminabile: non è mera struttura, ma anche poesia e su di esso cade l'accento estetico. Rispecchiamento e prospettiva in Lukacs Gyorgy Lukacs (Lucach, 1885-1971) si pone nell'ottica di un'estetica sistematica. L’idea che l’arte debba rispecchiare fedelmente la realtà è tributaria della nozione aristotelica di mimesi. Lukacs la adatta e la aggiorna alla luce delle tesi marxiste: non si dovranno più tradurre in immagini plastiche o verbali determinati oggetti o situazioni della vita reale, ma cogliere attraverso l’arte le proprietà del momento storico della società umana, dei conflitti di classe e dei rivolgimenti rivoluzionari che vi si svolgono. La totalità che l’arte è chiamata a rappresentare non è soltanto quella dell’esistente, deve anche porre in evidenza la direzione del futuro. È ciò che Lukacs chiama la prospettiva. Uno scrittore che raggiunge un simile rispecchiamento della realtà può essere definito realista. Alla critica viene demandato il ruolo valutativo di giudicare la giustezza del contenuto delle opere, ovvero l’adeguatezza del rispecchiamento rispetto alla verità storica. Nelle intenzioni di Lukacs la teoria del rispecchiamento doveva esaltare l’apporto conoscitivo dell’arte. Mentre il sapere scientifico e quello storico partono dal singolo fenomeno per giungere alla legge universale, il rispecchiamento artistico si appoggia su una categoria intermedia tra singolarità e universalità, che non è più il singolo fenomeno e non ancora l’essenza dispiegata nell’universale. È un termine medio tra i punti di partenza e di arrivo del processo conoscitivo. In sede letteraria ala categoria del particolare corrisponde il tipico: esso è l’accadere individuale orientato nel giusto rispecchiamento rispetto alla totalità storico-sociale. Il giusto rispecchiamento deve dar conto della viva dialettica del reale: il tipo viene caratterizzato dal fatto che in esso convergono tutte le contraddizioni più importanti, sociali e morali e psicologiche di un’epoca. Una tale tipicità esige che il personaggio sia dotato di una visione del mondo che sia costruito con una fisionomia intellettuale fortemente caratterizzata. Personaggio, carattere, intreccio: un privilegio del genere narrativo. È prevalentemente con il romanzo che il suo metodo può produrre risultati. E in particolare con il romanzo storico. Affinché ci sia un autentico realismo si richiede che i fatti raccontati non siano fine a se stessi ma che rinviino alla rappresentazione delle forze sociali portanti dell’epoca. La letteratura realista si distingue non soltanto da quella irrealista ma anche dalla riproduzione fotografica delle cose così come si presentano. La polemica di Lukacs contro il naturalismo e contro le poetiche moderne che procedono per somma di dati sensoriali senza volerli organizzare e interpretare. Egli pone in alternativa narrare e descrivere. Mentre nel narrare ogni aspetto è focalizzato sul nucleo drammatico della vicenda con una forte partecipazione dell’autore che si trasfonde poi in partecipazione del lettore, nel descrivere prevale il distacco dell’osservatore. Bertold Brecht fa un’obiezione alla posizione di Lukacs sostenendo che proprio per rispondere all’esigenza di giungere al fondo della causalità sociale bisogna provare sperimentalmente i nuovi strumenti formali: una forma che andava bene in passato può non andar bene per oggi, non si può usare lo stesso specchio per rispecchiare epoche diverse. Nella concezione di Lukacs il mutamento storico viene considerato come mutamento del contenuto da rispecchiare, ma lo specchio rimane di per sé immutabile. Lo svolgimento letterario per Lukacs prende la fisionomia di una ricorsività ciclica. Questo ciclo corrisponde secondo l’impostazione marxista all’arco dell’evoluzione storico-sociale delle forze propulsive della borghesia che vengono sostituite dalle forze fresche del proletariato. Lukacs risolve anche il problema marxiano del perdurante effetto delle opere del passato: che si tratti di Ulisse o di Don Chisciotte, il nostro interesse di lettori rimane vivo perché le avventure dell’eroe ci hanno rivelato i tratti essenziali della vita umana. Così la teoria lukacsiana che tanto sembrerebbe rivoluzionaria risulta piuttosto conservatrice. Accetta le gerarchie di valore ereditate dalla tradizione e rimane anche ferma alla visione romantica del genio inconsapevole, del grande artista che raggiunge con un balzo intuitivo la vera realtà delle cose. Benjamin: l'autore come produttore Negli anni trenta del '900 assume particolare rilievo la figura di Walter Benjamin (1892-1940), il quale presenta una soluzione per lui l'autore è sentito come produttore, pertanto non può essere collegato all'esterno del mondo produttivo. Benjamin si sforza di considerare società ed arte su un piano paritario e si chiede come si situi una data opera nei rapporti di produzione. Pertanto la stessa letteratura è considerata un apparto produttivo dotato di suoi particolari mezzi di produzione che Benjamin individua sia nei concreti modi organizzativi degli scrittori sia negli strumenti delle tecniche letterarie. Egli conferisce un ruolo fondamentale alle innovazioni tecniche. Queste portano di fronte ad un bivio: possono essere sfruttate o in senso produttivo o in senso distruttivo. In questa dicotomia risulta determinante la scelta politica. La riproducibilità tecnica moderna porta le opere verso il pubblico con maggiore disponibilità e viene superato l'atteggiamento individuale verso l'arte. La scelta della giusta tendenza politica non garantisce il valore letterario: questa deve essere accoppiata alla qualità dell'opera e tale somma deve essere, di volta in volta, verificata e dimostrata sul testo in questione. Per Benjamin il punto decisivo del giudizio critico riguarda quindi la tendenza letteraria dell'opera. Egli non solo considera nella tecnica il punto di interpenetrazione tra forma e contenuto, ma riprende anche dall'antica esegesi la nozione di allegoria ampliandone la stessa nozione e facendone il principio della costruzione complessiva dell'opera. Al contrario del simbolo l'allegoria elabora il suo discorso trasformando oggetti e personaggi in segni di una scrittura, estraniandoli dal mondo naturale. Benjamin, per contro allo storicismo, crede che il critico non debba limitarsi a ricostruire in una sequenza cronologica, ma a comprendere cosa di un'opera passata interessa il presente e che, ai tempi, non è stata riconosciuta con un “nocciolo conoscitivo” che dal passato si proietta verso il presente (es. bomba a orologeria). Tale “filosofia della storia” è molto vicina a quella del tedesco Bloch concordando sul fatto che le aspirazioni umane alla felicità continuino a volgere il loro appello all'ora attuale. Tra passato e presente è messa quindi in atto una convergenza di tensioni: da un lato il primo vale se ha la forza d'urto per mettere in crisi il secondo, dall'altro l'interprete deve saper mettere in discussione i valori consolidati dalla tradizione. La parola d'ordine adottata da Benjamin è quella di “leggere tra le righe” in quanto gli oggetti essenziali non compaiono quasi mai in forma di descrizioni. La connessione del particolare alla totalità deve venir fuori ricavando dai testi al maggior grado possibile tutta l'energia che essi potenzialmente contengono. Gli “studi sociali” di Francoforte La Scuola di Francoforte, fondata nel 1924, diede una particolare angolatura allo “studio sociale” dell'arte. I membri principali dell'istituto furono: Horkheimer (1895-1973), Marcuse (1989-1779) e Adorno (1903-1969). Anche per i francofortesi l'arte e la letteratura vanno considerate nell'ambito della società che le produce ma i nuovi fenomeni della cultura di massa li convinsero che l'ideologia non era pericolosa tanto per il distacco dalla prassi, quanto per il fatto di essere troppo dipendente dall'ottica utilitaristica del mercato come uno strumento di alienazione. Con l'industria culturale la cultura viene fatta rientrare tra i divertimenti eventualmente allestiti per il tempo libero e, in tal modo, viene svilita, uniformata e neutralizzata nelle sue punte contestative. Essi colgono la caduta di prestigio dell'arte e della letteratura nelle società industriali avanzate ma, tagliata fuori dalla società, diviene l'ultimo rifugio dalle istanze dell'utopia in quanto è in grado di resistere a quella che Horkheimer definisce la “chirurgia plastica praticata dal sistema economico stabilito, che mira a ridurre tutti gli uomini a una norma unitaria”. L'idea per cui l'arte raccoglie quella “promessa di felicità” è stata stravolta da Marcuse poiché egli considera la società moderna come un apparato dominato dalla logica del guadagno la cui unica forma di godimento è quella del “dopolavoro”. Pertanto per lui è necessario liberare l'esperienza estetica dalle incombenze ideali di cui è stata caricata e restituirla alla “felicità sensibile”. Negli anni ’50 Marcuse si appoggerà alla psicoanalisi per precisare l’arte come ritorno del represso e come serbatoio delle istanze di liberazione. Ma se il condizionamento sociale è essenziale negativo, per assumere la giusta posizione nel suo tempo l’arte dovrà tagliare i ponti proprio con ciò che la determina e la deprime. Le opere d’arte rappresentano quel che esse non sono. Ciò vuol dire che la loro storicità sta nel modo in cui si pongono fuori della situazione storica a loro toccata. L’arte è dunque rivoluzionaria per sua stessa natura. Mentre per Lukacs l’arte è rivoluzionaria perché rispecchia fedelmente le forze della prassi che tendono alla rivoluzione, invece, per Adorno la testimonianza che l’arte rende riposa nella forza di resistenza alla prassi, a qualunque genere di prassi. Adorno respinge il progetto di demistificazione portato avanti dal marxismo inteso a ricondurre le creazioni spirituali ai moventi materiali. In questo quadro proprio l’arte autonoma verrà apprezzata esattamente nel suo essere priva di scopo. Nell’epoca moderna l’arte percorre le soluzioni estremiste dell’avanguardia e nella dissonanza esprime il conflitto tra la vocazione alla conciliazione e la vocazione alla verità che rende impossibile una sintesi felice. Sulla considerazione del carattere rivoluzionario dell’arte per Marcuse questo carattere risiede nella conservazione positiva delle istanze utopiche che possono così ritornare disponibili all’azione liberatrice. Per Adorno si tratta di capacità negativa. L’arte è pensata per principio come estranea in quanto tale al mondo empirico. Sebbene Adorno si adoperi a mantenere il rapporto tra la criticità dell’arte e la situazione storica. L’efficacia dell’opera sta nella partecipazione allo spirito, il quale contribuisce al cambiamento della società in processi sotterranei e si concentra nelle opere d’arte. verbale. La valutazione dell’autore deve riguardare il suo grado di eccedenza. L’autore è produttore ma solo come ingranaggio di una macchina più grande di lui anche nel senso (come in Benjamin) che produce novità e consapevolezza. Il lavoro dei segni può, anzi deve essere anche lavoro sui segni. Muzzioli, capitolo V L'analisi del “profondo” L’indirizzo critico assume una nuova impostazione dopo l’avvento della psicoanalisi. I termini e i concetti della psicoanalisi provengono dalle innovazioni introdotte da Sigmund Freud (1856-1939) nel trattamento delle malattie mentali alle soglie del ‘900. Freud affrontava i casi clinici non attribuendone le cause a disfunzioni cerebrali, ma cercandone il motivo in accadimenti traumatici dell’esistenza trascorsa. Il medico doveva vestire i panni dell’analista attraverso un minuzioso lavoro di interpretazione e di scavo delle espressioni meno controllate, soprattutto i sogni e le libere associazioni.Freud portò avanti le ipotesi che andarono a costituire l’apparato scientifico della psicoanalisi innanzitutto con la nozione di inconscio. La psicoanalisi afferma che le ragioni del comportamento umano risiedono in piccola parte nella coscienza, mentre sono molto più forti i moventi inconsci. Freud descrive l’inconscio come il luogo delle pulsioni. Nell’inconscio agiscono le forze aggressive e le energie vitali primarie. La psicoanalisi è dunque un metodo interpretativo che non accetta le apparenze immediate e non si stupisce di dover mettere in mora ciò che il parlante dice e asserisce di voler dire. Alla triade coscienza-preconscio-inconscio si aggiunse una nuova terna formata da Io (il serbatoio primario dell’energia psichica contenente le pulsioni ereditarie, innate e quelle rimosse), Es (la parte della psiche in contatto con l’esterno attraverso la percezione) e SuperIo (solo in parte cosciente e costituito da quei divieti che l’Io è stato costretto ad accettare e ad introiettare). Così dall’osservazione delle devianze e delle anomalie la psicoanalisi giungeva a costruire una teoria dei processi costitutivi della psiche. E poteva andare anche oltre applicando le proprie scoperte alle aree delle scienze umane, ivi compresa la letteratura. La sorte della società moderna dipende per Freud dall’esito di grandi conflitti tra le istanze profonde dell’uomo: da un lato tra principio del piacere e principio di realtà, dall’altro tra eros e pulsioni di morte. Una certa attenzione alla letteratura è presente nella psicoanalisi fin dalle origini. Il punto di partenza della ricerca freudiana era stato l’interpretazione dei sogni. Di fronte al racconto del sogno l’analista si comporta come un critico letterario che cerca di ritrovare il senso al di là della lettera del testo. La concezione dell'arte in Freud Freud ha scritto che per la psicoanalisi i poeti sono alleati preziosi in quanto essi sanno in genere una quantità di cose fra cielo e terra che il nostro sapere accademico neppure sospetta. Non c’è da stupirsi che egli utilizzi accanto ai casi clinici anche le finzioni della letteratura o che si abbandoni a digressioni nel campo dell’arte. Per lui l’arte e la scrittura creativa si trovano in una posizione privilegiata quasi a metà strada tra la coscienza e l’inconscio. Freud sottolinea che la tragedia greca su Edipo si incentra sul complesso psichico dell’attrazione per la madre e dell’odio verso il padre, ma lo mostra secondo la cultura del tempo come conseguenza ineluttabile della volontà esterna del destino. I sogni ad occhi aperti ci ricompensano dei desideri che la realtà non è stata in grado di soddisfare. L’arte sarebbe un tipo speciale di fantasticheria che si distingue per essere un atto di comunicazione, mentre la fantasticheria vera e propria è un’attività privata che difficilmente si confessa. Allo scrittore dunque è concesso il privilegio di esporre pubblicamente senza vergogna le proprie fantasticherie. Freud ha proceduto con grande cautela nel trasferire le scoperte della psicologia del profondo al campo della letteratura e dell’arte. In particolare egli ritiene che su un punto la psicoanalisi non possa dir nulla, cioè sul problema dell’origine dell’arte. Il dono meraviglioso che contraddistingue l’artista rimane un enigma e la psicoanalisi non si intromette nella questione della valutazione estetica. Lo spettatore condannato a un’esistenza piena di rinunce e di frustrazioni è portato a identificarsi con l’eroe che vede sulla scena. La convinzione che il comportamento di un personaggio di finzione possa essere analizzato allo stesso modo di quello di una persona e l’idea che il personaggio protagonista risulti il portavoce diretto dell’autore, assegnatario dei problemi interiori di quello. Sebbene Freud non abbia sottovalutato l’importanza dei materiali anonimi nella sua opera, è stato prevalente l’interesse per la figura dell’autore, da raggiungere al di là dell’opera. Freud pur incoraggiando l’uso della psicoanalisi al servizio della biografia era consapevole delle difficoltà di un’indagine condotta in assenza del soggetto in esame e operante con documento non sicuri, parziali e lacunosi. L’analisi di Freud ci insegna a indovinare cose segrete e nascoste in base a elementi poco apprezzati e inavvertiti dell’osservazione. Psicoanalisi dell'autore, psicoanalisi del personaggio e psicoanalisi degli effetti I continuatori di Freud guardarono molto di più ai materiali che non all'effetto. Sarà quindi il nesso personaggio-autore o, semmai, il rapporto tra i motivi letterari e le strutture psichiche a predominare nei primi tentativi di critica letteraria ispirati alla psicoanalisi. Molti di questi tentativi furono affidati alle pagine della rivista Imago, nata nel 1912. Il viennese Otto Rank (1884-1939) ha dedicato al tema del doppio saggio in cui si propone di spiegare le ripetute apparizioni di un personaggio in tutto identico al protagonista, che lo sostituisce, lo perseguita e lo conduce alla morte. Tutti i casi del doppio entrano a far parte secondo lui di una costellazione psichica dominata dalla scissione dell’Io. Il tema del doppio è stato trattato da quasi tutti i romantici. Il saggio dà il primo posto a Hoffmann (definito per eccellenza il poeta del doppio) e a Poe oltre che a Maupassant, Dostoevskij e Oscar Wilde, prevalentemente autori della letteratura fantastica. Ma mentre Freud si adopera a spiegare l’effetto sinistro di inquietudine o di terrore indotto da questi e altri simili racconti, Rank procede invece a ritroso, dall’opera all’autore. La frequentazione del tema del doppio viene ricondotta alla psiche degli autori. Ma questa propensione verso la psicoanalisi dell’autore non esaurisce il lavoro del critico, che passa in un capitolo successivo ad analizzare le analogie del tema letterario con le produzioni del folklore. Così arricchito di spessore, il tema letterario può essere messo in rapporto con un meccanismo psichico di portata generale che travalica le epoche e i generi. George Groddeck (1866-1934) sviluppa il tentativo di interpretare la produzione anonima e popolare sulla base di un rinvenimento quasi ossessivo della simbologia sessuale. Marie Bonaparte (1822-1962) si distingue per il suo lavoro sulla linea della psicoanalisi applicata alla biografia su Edgar Allan Poe. La critica psicoanalitica si trova ad utilizzare l'opera in funzione della biografia e a dare per scontata l'identificazione dell'eroe con l'autore. Ernest Jones (1879-1958) ha puntato i criteri della psicoanalisi nel suo saggio su Amleto. Jones svolse le sue riflessioni seguendo l'indicazione freudiana dei rapporti sotterranei tra Amleto ed Edipo. Da un lato non manca la biografia di Shakespeare, dall'altro applica il metodo comparativo mettendo in relazione la trama di Amleto con i temi primordiali dei miti e delle leggende. Nel secondo dopoguerra i critici mostrano una maggiore libertà di azione rispetto ai canonici schemi freudiani, ma in definitiva l'impostazione di fondo e i problemi affrontati restano gli stessi. Jean Paul Sartre propone una psicoanalisi esistenziale, un'indagine sull'individuo autore che non sia rivolta alle cause risposte nel passato, ma che si interroghi sulla scelta della posizione nel mondo che il soggetto in questione ha compiuto, nella situazione in cui si è trovato tra le tecniche e i ruoli, facendo i conti con l'ideologia della sua classe. Sartre ricade nel modello della ricerca biografica: le opere sono funzionalizzate alla ricostruzione della totalità dell'autore. In Italia Giacomo Debenedetti (1901-1967) pur mantenendo l'idea del personaggio come emissario dell'autore, l'attenzione a certe configurazioni di immagini conduce in prossimità della critica tematica. Kate Millet (1934-vivente), critica femminista, devia dall'ortodossia psicoanalitica propendendo non verso l'indagine eziologica ma verso la denuncia radicale dell'ideologia maschile. Bruno Bettelhaim (1903-1989) rappresenta il terzo ramo della critica ispirata alla psicoanalisi il quale considera la questione degli affetti manifestato nello studio delle fiabe. Il testo della fiaba è quello più adatto ai bisogni del piccolo lettere per esteriorizzare in modo controllabile i propri conflitti interiori e così lo aiuta a strutturare la personalità. L'ipotesi di Bettelhaim che la rielaborazione immaginaria sia utile a ridurre la dannosità del materiale inconscio e a fare in modo che parte delle sue energie servano a scopi positivi, potrebbe applicarsi in generale a tutta la finzione letteraria. Nella rete delle immagini Già nell'Interpretazione dei sogni Freud aveva notato la presenza di simboli, vale a dire di rappresentazioni inconsce. Tale aspetto verrà approfondito da Carl Gustav Jung (1857-1961). Egli collaborò con Freud per poi staccarsene e fondare quella linea della ricerca che prenderà da lui il nome di junghiana. La deviazione di Jung consiste proprio nella considerazione dell’inconscio collettivo, uno strato dell’inconscio più profondo di quello individuale, un repertorio di immagini ancestrali presenti da sempre nell’uomo. Queste immagini arcaiche e originarie sono denominate da Jung archetipi. Quanto ai problemi letterari, che Jung affronta nel saggio Psicologia e poesia, la creazione artistica è considerata una delle migliori vie di accesso alla realtà psichica soprattutto quando si tratti di creazione visionaria. Nell’ottica junghiana il grande poeta è colui che riesce a superare la coscienza singola per far parlare gli archetipi, secondo l’esigenza psichica della collettività. Da ciò discende un atteggiamento di disponibilità nei confronti dell’opera: lasciamo che l’opera d’arte agisca su di noi come ha agito sul poeta. Per comprenderne il significato, bisogna lasciarsi plasmare da lei come essa ha plasmato il poeta. Riemerge qui il modello platonico: l’effetto non va spiegato, ma ci si deve abbandonare ad esso. La versione della psicoanalisi offerta da Jung ha molto stimolato lo studio dell’immaginario collettivo. Secondo Gaston Bachelard (1884-1962) il regno della fantasia è diviso in quattro grandi ambiti che corrispondono ai quattro elementi primordiali: fuoco, aria, acqua, terra. Ogni scrittore è portato a propendere nella scelta dei propri temi e delle proprie metafore più verso l’uno o verso l’altro elemento. La ricerca bachelardiana ha affrontato le fantasie sul rapporto tra l’uomo e la dimensione essa stessa un profitto di piacere. Queste indicazioni freudiane possono essere estese a tutto il campo della letteratura. Mentre Freud parla di ritorno del rimosso, le pulsioni censurate, Orlando preferisce parlare di ritorno del represso, allargando a comprendere le censure imposte da forze sociali e storiche. Questo attacco alla repressione può avvenire in forme non solo inconsce ma anche di consapevole e progettata rivendicazione. Orlando istituisce tutta una gradazione del ritorno del represso i letteratura. Si va dall’assenza di consapevolezza, in cui il ritorno del represso è inconscio e quindi oscuro all’autore stesso; al ritorno del represso conscio ma non accettato, quando l’autore lotta all’interno del proprio testo contro i contenuti che vi emergono; al ritorno del represso accettato ma non propugnato, che prevede il riconoscimento da parte della coscienza dell’autore fino ai casi di maggiore consapevolezza, che sono quelli della cosiddetta letteratura impegnata: il ritorno del represso propugnato ma non autorizzato e infine il ritorno del represso autorizzato proprio della contesa tra diverse posizioni culturali. Questa suddivisione è per Orlando uno strumento operativo e non una griglia di classificazione delle opere. A differenza della gran parte della critica psicoanalitica, Orlando lega strettamente l’emersione dei contenuti alla considerazione della specifica tecnica della letteratura. La società consente allo scrittore la finzione e il gioco con il linguaggio: è quindi possibile, secondo Orlando, applicare la formula del ritorno del represso alla stessa forma del testo letterario definendolo il ritorno del represso formale. I vari giochi del testo sono riconducibili nel loro insieme agli spostamenti del legame tra significante e significato sotto il termine usato in retorica antica di figura. Se gli spostamenti e le deviazioni tra significanti e significati sono in eccesso, il testo diventa completamente oscuro. È quello che accade in certe manifestazioni dell’inconscio come il sogno. Orlando ritiene che ogni figura debba essere ricondotta a un principio di organizzazione generale come strumento appropriato a esprimere determinati contenuti. Orlando ritiene che i significanti vadano sempre visti quali portatori di significati. Il livello del contenuto e quello della forma ricevono pari attenzione e risultano collegati fra loro. L’idea freudiana che il piacere prodotto dalla tecnica linguistica renda accettabili certi contenuti non consentiti, viene così rielaborata e sviluppata. In Orlando la letteratura come formazione di compromesso fa i conti soprattutto con i divieti formulati dalla società. La critica, allora, recupera la prospettiva storica che andrebbe altrimenti perduta. La manifestazione linguistica di tipo letterario è, secondo Orlando, l’esito di uno scontro di forze psichiche, che sono leggibili nel testo come significati in contrasto. Muzzioli, capitolo VI La lettura come esperienza La critica, in quanto offre le coordinate per avvicinarsi a un testo e capirlo, ha sempre di mira la lettura. La lettura sta sempre a valle (come finalità della critica) ma anche a monte: il critico non è altro che un lettore come tutti gli altri, ma in più propone la sua interpretazione ed esperienza. È un rapporto “a due” nel quale il testo non ha la possibilità di controbattere, per cui il critico- lettore ha tutta la responsabilità di quanto accade. Il critico è al servizio dell’autore, ma più che altro è un servo-padrone. I nodi legati alla lettura di un testo sono tuttora dibattiti aperti e lo scetticismo accompagna ogni critica che è dichiaratamente soggettiva. Ma come difendere i diritti di un testo dalla libertà del suo interprete? In cosa il critico si differenzia da un lettore comune? Cosa lo autorizza a rendere pubblica la sua esperienza? Dal punto di vista storico, come si ricostruisce il mutare dell’orizzonte nella ricezione del testo? All’interno del testo poi, com’è l’atteggiamento del lettore? Si impadronisce del testo per intenderlo a suo piacere o si lascia condizionare e quindi percorre il sentiero previsto che è implicito nel testo? Intorno a questi nodi si è svolto dunque il dibattito sulla critica nella seconda metà del Novecento. Gli sviluppi novecenteschi hanno tratto il loro fondamento teorico soprattutto nelle “filosofie della vita”: la fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938) e l’esistenzialismo di Martin Heidegger (1889-1938). Da Husserl e dal suo metodo di apertura ai fenomeni e al mondo della vita, la critica di indirizzo fenomenologico ha ripreso l’atteggiamento di continua interrogazione tra il ricercatore e “la cosa”. Da Heidegger e dalla sua concezione dell’esistenza come “comprensione” dell’essere-nel-mondo è sorto il ritorno all’ermeneutica (l’arte di intendere e interpretare i testi e i documenti antichi). L’attenzione sul momento della lettura si è diffusa in varie forme. Secondo il saggista belga Georges Poulet (1902-1991) la lettura deve essere l’incontro di due coscienze: se l’essenza dell’opera è la coscienza soggettiva che si manifesta in essa, allora la “coscienza critica” deve prestarsi a ospitare questa coscienza altrui. La lettura consiste per Poulet nel cedere il posto a un altro essere, per poterlo comprendere intuitivamente. Diversa angolatura per l’italiano Luciano Anceschi (1911-1996) la sua critica e la sua ricerca, di ispirazione fenomenologia, puntano a riconoscere le particolarità dei fenomeni, ma anche a individuare le linee portanti di una data situazione (le “direzioni vettoriali” o le “istituzioni”). Il caso Blanchot Nel clima letterario prodotto dall’esistenzialismo un posto a parte merita il critico francese Maurice Blanchot (1907-2003) considera la letteratura “assurda” e “paradossale”. Lo “spazio letterario”, appunto per essere tale, dovrebbe portare chi gli si avvicina all’esperienza limite della perdita di se stesso. Flaubert, Mallarmé, Kafka, Rilke, Proust vengono letti in questa chiave come coloro che aprono l’accesso a un’“alterità negativa” (uso di termini quali “morte”, “notte”, “abisso”, “oscuro”). Partendo dalla constatazione che per scrivere bisogna essere soli, Blanchot sviluppa all’estremo il rapporto della parola letteraria con la solitudine e col silenzio. Ma la solitudine e il silenzio sono in contrasto, appunto, con la parola. Perciò, si interroga Blanchot, “come è possibile la letteratura?”. La letteratura poggia dunque su una paradossale ambiguità che va intesa come compresenza di significato e assenza di significato. L’opera rappresenta dunque un conflitto interno fra il vuoto dell’angoscia e il tentativo di comunicare. Ma, mentre l’autore, spinto dal vuoto, non può che continuare a scrivere, l’opera, una volta compiuta, si distacca dal suo autore per finire nelle mani del lettore il quale libera definitivamente l’opera dal suo autore. L’ingresso nello “spazio letterario” comporta per il lettore il rischio della perdita delle proprie certezze, l’opera è dunque il luogo della perdita delle sicurezze del suo lettore. Il lettore è chiamato a “partecipare” all’opera ma l’opera, in quanto manifestazione del vuoto, lo tiene a distanza. La lettura si gioca quindi tra fascinazione ed estraneità. Il giusto modo di leggere deve accettare questo gioco: sarà più vicino all’opera colui che “mantiene integra” la distanza e “la riconosce opera senza di lui”. Questo è, per Blanchot, il metodo della “discrezione”. L’opera è quindi inattaccabile dalle interpretazioni: la critica è un tramite non solo inutile, ma anche dannoso quando si frappone fra l’opera e il lettore dettandogli le norme dell’approccio al testo. Il giudizio del critico sarebbe anche colpevole di coprire il vuoto costitutivo della letteratura, di spostarne lo spazio paragonando l’opera a qualcosa d’altro, fosse la morale o le regole di estetica, violando quell’”ambiguità essenziale”. Per assurdo l’opera “più è apprezzata, più è in pericolo”. Se invece messa da parte e dimenticata l’opera può preservarsi intatta da strumentalizzazioni. Ma è naturalmente un paradosso perché Blanchot è un critico e lavora per promuovere i suoi autori prediletti, quindi non può non ammettere che esiste un compito positivo della critica, a patto che questa lasci alla profondità dell’opera la possibilità di manifestarsi. Il dibattito sull'ermeneutica Ripresa nell’Ottocento, è soprattutto nel Novecento che l’ermeneutica (l’arte di intendere e interpretare testi e documenti antichi), con la filosofia esistenzialista di Heiddeger, assurge a modello generale. Heidegger vede un aspetto ermeneutico (interpretativo) nella situazione dell’uomo “gettato” nel mondo: l’agire in una determinata situazione necessita prima di una “comprensione” della situazione stessa; questa comprensione globale viene prima di ogni analisi dei particolari. Il “circolo ermeneutico” (da una visione del tutto si procede verso l’individuazione dei particolari per poi tornare al tutto) è caratteristico di ogni esperienza umana. Su questa linea tracciata da Heidegger si è mosso un altro pensatore tedesco, Hans Gadamer (1990-2002). Per Gadamer, la comprensione di qualsiasi messaggio parte da un “pregiudizio”: noi ci accostiamo a un testo avendo già idea di quello che troveremo. Per Gadamer il pregiudizio non nasce da un’esperienza soggettiva ma dipende da un sostrato culturale comune a tutti. L’interprete (un esperto) ha il compito di mediare il rapporto tra l’opera del passato e i lettori di oggi. Il lavoro dell’esperto illustra ciò che il testo voleva dire tanto quanto un attore o un musicista “attualizzano” un testo teatrale o uno spartito. Per Gadamer il dovere del critico è dunque quello di consentire alla parola di superare il divario storico e di parlare ancora. Ma la ricostruzione storica (il senso “originario” rispetto ai lettori del suo tempo) è semplicemente impossibile; il critico deve però permettere un adattamento all’orizzonte attuale e contemporaneo, una “fusione d’orizzonti” che vede l’interpretazione come un “dialogo” fra passato e presente. In Verità e metodo (1960), la sua opera più importante, se l’interpretazione deve assomigliare all’apertura di un dialogo con il testo, le regole prefissate di un qualsiasi metodo applicato sarebbero disturbanti. L’interpretazione deve assolvere il suo compito di interpretazione nel modo meno appariscente possibile: “paradossalmente un’interpretazione è giusta proprio quando è capace di scomparire”. Per Gadamer il giudizio estetico (l’opera è bella o brutta) è secondario, infatti la coscienza estetica viene chiamata a intervenire solo in un secondo momento. Il grande successo delle sue tesi, soprattutto negli anni ottanta, si spiega proprio come reazione all’egemonia delle tesi degli anni sessanta/settanta (marxismo e strutturalismo). Dunque l’ermeneutica, con la sua intima unità di comprendere e interpretare, riduce il peso della critica e ne limita di molto gli strumenti. Ma non è mancato anche un animato dibattito che si è snodato su tre punti: 1. un primo problema è quello dell’attualizzazione del testo. Se l’ermeneutica è “l’arte di far parlare di nuovo qualche cosa”, essa adatta e traduce il senso alla situazione attuale dell’interprete. Noi uomini del presente cerchiamo di entrare in dialogo con ciò che è stato scritto nel passato intendendolo non nel suo senso originario ma, mediato dalla letterario. Fish nel suo relativismo preferisce sostituire al verbo “leggere” il verbo “scrivere”: è il lettore che scrive il testo. C’è un testo in questa classe? è il titolo del suo libro più noto e “no”, risponde Fish, “un solo testo non esiste perché ogni lettore mette in atto modelli interpretativi differenti”. Non si possono quindi redimere controversie sulle interpretazioni in quanto anche le caratteristiche “oggettive” in realtà sono già effetti della particolare angolatura adottata. La posizione di Fish può essere assegnata al pragmatismo: il significato (o la verità) di un testo esiste solo all’interno della situazione che si viene a creare nella lettura. A differenza del decostruzionismo, che vede nella lettura un messaggio costitutivamente ambiguo, Fish sostiene che il significato è sempre unico, ma è esattamente quel significato che il metodo da noi scelto ci consente di ottenere. Secondo Fish è impossibile redimere le controversie delle interpretazioni anche ricorrendo alla “lettera” del testo: non esiste un significato “letterale”. Ma allora il numero di interpretazioni è infinito? No, risponde Fish poiché nessuno inventa il proprio metodo interpretativo. Ognuno sceglie e si orienta fra i metodi già inventati da altri, aderendo a una “comunità interpretativa”. Niente però ci garantisce che le interpretazioni che apparirebbero oggi assurde possano domani risultare plausibili: basta che riescano a persuadere e ad avere successo per creare una nuova “comunità interpretativa”. La teoria della ricezione e il lettore nel testo La scelta metodologica nota come “Teoria della ricezione”, sorta in Germania presso l’università di Costanza (da cui il nome Scuola di Costanza), mette a fuoco il momento della lettura non per “relativizzare” l’interpretazione, ma per vederne la base nell’attività dei soggetti che leggono. La Scuola di Costanza trova i suoi principali esponenti in Hans Jauss (1921-1997) e Wolfang Iser (1926-vivente). Jauss rintracciava la crisi della storia letteraria nella mancata considerazione della prospettiva dei lettori e notava come gli stessi metodi della critica marxista e formalista tardassero a rendersi conto dell’importanza della “ricezione” e dell’“efficacia” dell’opera. Guardando unicamente alla ricezione ci si limiterebbe alla registrazione della fortuna di un opera o di un autore, secondo i gusti del pubblico. L’efficacia invece vuole evidenziare l’impatto dell’opera sul pubblico anche a dispetto dei gusti vigenti. Per calcolare l’efficacia Jauss inserisce la nozione di “orizzonte d’attesa”. Il rapporto fra opera e lettore è infatti condizionato da ciò che il lettore si aspetta, sulla base delle opere del passato e dei generi letterari. È dunque possibile che tra “ricezione” ed “efficacia” ci sia disparità o che, proprio il valore innovativo di un’opera, condizioni negativamente la sua accoglienza. Contraddicendo la concezione di Gadamer per cui classica è quell’opera che da sempre è in grado di rendersi comprensibile al lettore, Jauss fa notare che spesso quelli che oggi appaiono come classici indiscutibili hanno avuto difficoltà ad affermarsi, a causa della delusione delle attese dei contemporanei. Jauss finisce per modificare nel tempo le proprie concezioni, lasciando più spazio all’estetica, cioè alla “godibilità” dell’opera. In polemica con Adorno, l’“esperienza estetica” viene rilanciata in quanto liberazione dell’uomo dai propri vincoli quotidiani. Recentemente si è rifatto all’ermeneutica, articolando la lettura de testo in tre stadi: il primo livello, di “comprensione estetica”, costituirebbe la percezione del testo; il secondo livello prevede la riflessione in cui si torna all’intero componimento per un’interpretazione globale; il terzo livello corrisponde allo studio della ricezione sopra illustrato. Attraverso questa articolazione in livelli, Jauss ha conferito spessore alla sua teoria. L’altra importante direzione della Scuola di Costanza è stata seguita da Iser. Più che “ricezione”, Iser preferisce parlare di “risposta”: il testo fornisce gli stimoli a cui il lettore è chiamato a rispondere. Il fatto letterario possiede due polarità: quello “artistico” e quello “estetico”. L’opera occupa lo spazio intermedio e il significato deriva dall’interazione fra testo e lettore. Il testo presenta margini di “indeterminatezza” che vengono colmati dal lettore, il quale partecipa alla formazione del senso portando le proprie esperienze. L’opera suscita nella fantasia del lettore immagini mentali che integrano il testo. Nessuna descrizione è mai talmente dettagliata da non consentire l’intervento della nostra immaginazione. Iser considera importanti anche le strategie che il testo dispiega lungo l’asse temporale. Ogni frase, a causa della sua indeterminatezza, genera delle aspettative. Una completa saturazione delle aspettative è poco probabile e soprattutto farebbe cadere l’interesse del lettore. Perché ci sia “coinvolgimento”, secondo Iser, è necessario che le nostre aspettative non ottengano piena soddisfazione. I critici, di fatto, “non fanno altro che cercare di tradurre il loro coinvolgimento in un linguaggio referenziale”. Anche l’italiano Umberto Eco (1932-2016) ha analizzato la “cooperazione” del lettore. Secondo Eco il lettore è nel testo, nel senso che il testo prevede già in partenza il suo ruolo e il suo apporto partecipativo. Elaborata in contemporanea con quella di Iser, la teoria di Eco sembra lasciare minori spazi alla fantasia del lettore: mentre Iser parla di “lettore implicito”, Eco crea il ruolo del “lettore modello”, quel lettore previsto dal testo per la realizzazione dei suoi effetti. Delle competenze del “lettore modello” si suppone faccia parte anche un bagaglio di “sceneggiature”, ossia quelle sequenze canoniche che possiamo prevedere come sviluppi probabili di determinate situazioni (Es: se in una comica compare una torta per noi è presumibile che verrà tirata in faccia a uno dei personaggi). Secondo Eco, l’interpretazione di un testo consiste proprio nel mettersi nei panni del “lettore modello”, nell’accettare di giocare il gioco predisposto dal testo. Muzzioli, capitolo VII Bachtin e la letteratura pluridiscorsiva Tra i critici al confine delle grandi correnti del Novecento, una delle figure principali è Michail Bachtin (1895-1795). La sua posizione non allineata né al formalismo, né alla critica marxista dominante nella cultura sovietica gli costò una dura emarginazione. Il punto di partenza di Bachtin è la concezione del linguaggio come “dialogo”. Qualsiasi parola, secondo Bachtin, è dialogica: più che esprimere l’interiorità del parlante, è diretta a raggiungere l’interlocutore e viene quindi impostata per questo scopo. Perciò l’analisi di un testo basata solo su elementi linguistici è considerata da Bachtin come un esame parziale. Bisogna capire rispetto a quali discorsi (letterari e non) il testo intende intervenire ed assumere posizione. Bachtin preferisce parlare di “senso” piuttosto che di “significato”. Qui sta la sua distanza dal formalismo, che ritaglia procedimenti verbali staccati dal senso complessivo e non riflette fino in fondo il loro coordinamento interno all’opera, né la relazione con le lingue “sociali”. Il linguaggio invece deve essere collegato con la società e con la storia (sotto questo aspetto Bachtin si avvicina molto al materialismo storico). Ancora contro il formalismo, la sua opinione è che nessun testo sia mai autonomo e autosufficiente: non solo ogni parola è già stata detta da altri, ma ogni “enunciazione” interviene in discorsi che pre-esistono. Da ciò si deduce che il testo deve essere considerato come l’anello di un a catena e dunque va collocato nell’avvicendarsi della tradizione, variegata e composita. La tradizione non è costituita soltanto da testi: Bachtin sottolinea l’importanza dei “generi”, cioè delle “forme tipiche” che si vengono accumulando nel tempo. Nella sua ottica i “generi” costituiscono una ricca molteplicità di vie possibili . Non parla solo di “generi letterari”, ma di “generi di discorso”: i generi della “grande letteratura” coesistono con la lingua “colloquiale”, “burocratica”, “oratoria”, “giornalistica”, ecc. I confini tra i generi devono consentire scambi e interferenze. Non sono codici fissi ma principi organizzativi elastici e plasmabili. Nei “generi” circolano anche altre caratterizzazioni che determinano l’appartenenza dei parlanti dei parlanti ai ceti professionali e sociali. Nella prospettiva di Bachtin la “pluridiscorsività della lingua” è un valore: il testo può chiudersi nel“monolinguismo” di un unico stile o aprirsi al “plurilinguismo”, alla concretezza della “parola viva”. Questa seconda ipotesi è appannaggio del romanzo, per lui l’unico genere ancora “giovane e in divenire”. Poiché il romanzo contiene in sé tutte le “voci” (del narratore e di tutti i personaggi diversi), contiene anche tutti i “generi” di discorso orale (conversazione, oratoria...) o di scrittura (documenti, lettere, memorie...). Per Bachtin “il romanzo è l’unione degli stili; la lingua del romanzo è il sistema delle lingue”. Questa sua idea del romanzo trova la massima concretizzazione nel suo studio su Dostoevskij, visto come il culmine del romanzo “polifonico”; egli ha saputo dare la parola, attraverso i suoi personaggi, a una grande quantità di linguaggi e di punti di vista facendoli interagire fra loro. Nei suoi studi ha posto particolare attenzione nel ricostruire la cultura popolare espressa nel carnevale e nelle manifestazioni folkloristiche, analizzando il “sentimento carnevalesco del mondo” che si sviluppa parallelamente e contro la cultura “ufficiale”. I caratteri della tradizione carnevalesca (ribaltamento comico dei rapporti gerarchico-sociali, la mescolanza e il contatto familiare, il superamento dei contrari) penetrano nella letteratura “dal basso” attraverso i generi minori quali la satira, il comico, il grottesco. Il vero epicentro del “riso generale” è però l’autore francese rinascimentale Rabelais, l’altro autore a cui Bachtin ha dedicato una copiosa ricerca. L'approccio “mitico” di Frye Lo studio del canadese Frye (1912-1991) è volto ad attenuare le divisioni metodologiche: il critico non deve restare confinato in un unico metodo. Frye si rivolge all’indietro, alle radici del fenomeno letterario; non si interroga sugli effetti (sulla riuscita) ma piuttosto sulle cause. Frye ricerca la “causa formale”, ossia quelle forme elementari che le opere, di epoca in epoca, continuano a utilizzare e a riadattare. Frye denomina queste forme elementari “archetipi”, derivato dalla psicanalisi di Jung. Questo tipo di critica assume il nome di “critica archetipica”. L’archetipo per Frye è un’immagine tipica o ricorrente che si può riscontrare in diverse opere e che può servire a collegarle fra di loro. Gli archetipi si collegano non solo alle immagini ma anche alle azioni che si ripetono sempre uguali. Il mito per Frye disegna l’archetipo a livello dell’organizzazione del testo. Anche la produzione moderna è legata al mito (Moby Dick di Melville), una storia moderna di caccia alla balena che può essere fatta confluire nella nostra esperienza immaginativa di mostri e draghi. Solo il contenuto delle opere muta, ma la forma (il modello mitico) rimane identica. La convergenza di Frye con la tendenza metodologica del formalismo e dello strutturalismo non si ritrova solo nella concezione della solidità delle forme ma anche nell’atteggiamento da assumere davanti al testo: anche Frye rifiuta i attenersi alle immediate scomparso perché, se fosse effettivamente morto, niente di nuovo può essere pensato. Inoltre, pur essendo morto, non si fa altro che parlare ancora di lui rimanendo il protagonista indiscusso delle scene pertanto il mito della morte non ha certo il potere di far sparire l'autore strategico o l'autore immagine ma può modificare lo statuto dell'artista nell'immaginario collettivo. Benedetti demanda l'autore al ruolo di scriptor. Barthes si focalizzava sul linguaggio più che su chi fosse lo scrittore in quanto è quello a parlare, pertanto l'autore diviene la sua stessa scrittura e non una persona biografica, la cui vita diventa oggetto di una trasposizione romanzesca. Ciò che resta in vita nella letteratura contemporanea non è tanto la persona autore quanto l'autore inteso come autorialità e, solo successivamente, declinato in una persona. Nel 1969 Foucault scrive che la relazione della scrittura con la morte appare evidente nella scomparsa delle caratteristiche individuali di chi scrive, rifacendosi all'idea di spersonalizzazione presente in Barthes. Foucault riprende Beckett affermando che non ci interessa chi sia la persona dietro la scrittura, affermando che l'opera è il diretto assassino del suo autore. Per lui la questione autoriale abbraccia un campo teorico e filosofico piuttosto ampio giacché si individua la storia di idee, conoscenze, letterature nonché la storia, la filosofia e le scienze; in questo senso l'opera diviene assassina del suo stesso autore, eclissando dei caratteri individuali del soggetto scrivente. Il compito della critica diviene pertanto quello di analizzare l'opera nella sua struttura, nella sua architettura, nella sua forma intrinseca e nel gioco dei suoi rapporti interni. L'opera è quindi segno e l'autore funzione, pertanto la persona scrivente cessa di essere un elemento da prendere in considerazione perché la persona-autore fa parte del mondo reale, mentre l'opera e il segno fanno parte dell'universo teorico-narrativo. Le caratteristiche della funzione- autore appartengono a numerosi ambiti e la sua figura svolge un compito che la persona-autore non potrebbe svolgere: l'autorialità diventa un orizzonte d'attesa del prodotto letterario mentre la persona, allontanata dall'impianto testuale, diventa del tutto inutile per la comprensione delle dinamiche testuali. Foucault e Barthes sostengono fortemente la morte dell'autore in quanto persona biografica mettendo in campo l'idea di una sopravvivenza e di un cambiamento della funzione-autore. Pertanto l'autore rimane vivo nella sua funzione e non nel suo aspetto biografico, lasciando al testo l'autorialità che gli è necessaria. Lessing affermava che l'autore assume una certa rilevanza solo quando l'opera stessa non è ritenuta di fondamentale importanza pertanto l'autore dovrebbe solo condurre sulla soglia della letterarietà e non esserne un elemento costituente, assumendo la qualifica di portiere. Todorov è concorde a ciò, quindi i due estremizzano il concetto di morte dell'autore, affermando che la sua figura sia del tutto inutile. Per compagno il tema della morte dell'autore è stato affrontato anche da filosofi quali Wittgenstein e Peirce, sostenendo che la morte dell'autore sia l'antitesi della fallacia intenzionale e soprattutto una critica alla teoria fenomenologica del linguaggio e ha due aspetti principali: uno psicologico e filosofico che esiste dentro l'individuo e uno che riguarda il significato dei testi, il modo in cui vengono interpretati. Attribuire a Wittgenstein la questione della morte dell'autore potrebbe essere un fraintendimento, poiché sebbene venga affrontata la questione del linguaggio e dell'intenzione del parlante, questa non viene mai collegata all'idea di morte dell'autore. Compagno è convinto che quando Wittgenstein sostiene che “io posso sapere quello che pensa l'altro, non quello che penso io” stia riflettendo sulla morte dell'autore sostenendo che dell'autore non si possa parlare giacché non se ne può davvero sapere. Egli inoltre che Anscombe, allieva del filosofo, trovi addirittura una soluzione alla questione, considerando il soggetto esistente solo nell'uso dei segni. Tuttavia sembrerebbe incorrere in un equivoco poiché viene addebitata a Wittgenstein una questione di cui egli non si occupa esplicitamente, così come per Anscombe; viene erroneamente sovrapposta l'idea di parlante con quella di autore. Anche Benedetti rivolge il suo interesse in materia verso alcuni filosofi, in particolare con Hegel il quale afferma che “l'artista è l'Io che da sé tutto pone e dissolve”; egli sostiene pertanto che nel dibattito degli anni Sessanta la morte dell'autore non è altro che un mito post- moderno e che, come tale, è una sorta di wishful thinking (desiderio). Per Benedetti l'autore non è morto e funge da pilastro all'istituzione letteraria. Per Soulillou la funzione-autore non rimane stabile dal punto di vista diacronico o diatopico ma la sua istituzione, avvenuta in Occidente, è uno degli elementi sostanziali del mito della modernità e dell'esclusività dell'arte, pertanto l'autorialità è una simulazione di cui l'autore è l'indiscusso protagonista. Iovinelli a tal proposito sottolinea che la scomparsa dell'autore si realizza in tre differenti modi: quando l'autore si nasconde dietro l'opera (modalità criptica); quando l'autore è toccato dal testo (modalità aptica); quando l'autore si sopprime rimettendo in causa il principio della proprietà letteraria attraverso l'apologia del furto (modalità cleptica). Tutte queste categorie sono strategie dell'autore. Per Iovinelli tale figura è malleabile, che esce dal ruolo di funzione e ri-assume quello di elemento fondante. Genette non parla di autore ma di narratore focalizzando l'attenzione sul fatto che non sia importante sapere chi scrive bensì chi narra. La figura del narratore si amplifica fino a fagocitare le tipologie di ruoli a esso liminali. Egli sostiene che la narrazione non deve spingersi oltre l'istanza narrativa e le istanze dell'implied author e dell'implied reader si situano al di fuori di questa. In Booth la nozione di “autore implicito” si identifica ampiamente con quella di narratore; pertanto l'implied author (autore implicito) serve a segnalare la differenza tra autore (reale) e narratore. Questa figura non è altro che un'immagine dell'autore (reale) costruita dal testo e percepita come tale dal lettore. Per Genette i casi in cui si viene a creare un'immagine dell'autore sono due: la rivelazione involontaria di una personalità inconscia e la simulazione volontaria. Il campo della narratologia esclude completamente l'autore reale ma include l'autore implicito: l'autore diviene l'immagine che il testo stesso suggerisce e che il lettore ipotizza, mentre il narratore corrisponde al punto di vista della narrazione. L'analisi della questione autoriale conduce alla problematica dell'annullamento della barriera tra il ruolo dell'autore e quello del personaggio all'interno dei romanzi. Ciò che interessa non è tanto l'autore, che non sembra essere affatto morto, quanto la sua autorialità come forma particolare di investimento sulla funzione-autore. Ciò che sembra essere morta è la soggettività dell'autore mentre resta in vita la sua funzione. Secondo Calvino il romanzo corrisponde a un testo che sostituisce all'unicità di un io pensante una molteplicità di soggetti intravedendo una serie di possibile tipologie autoriali, giacché l'autore si identifica con quella proiezione di sé stesso nel momento in cui scrive. Egli inoltre enuncia i sei pilastri che rappresentano un valore fondamentale del testo letterario: leggerezza; rapidità; esattezza; visibilità; molteplicità; carenza. Per Pitt l'io appare in varie forme che portano alla sparizione di un io monolitico, costituendo un ambiente multiforme. Da queste analisi non solo si dimostra che l'autore non è morto ma che è ancor più prolifico che in passato e ciò dipende anche dall'incremento dei mass-media e delle nuove tecnologie. Per Mukarowsky l'opera d'arte, come segno, può avere con la cosa significata un rapporto indiretto e per Booth sarebbe necessario mantenere una sorta di bilanciamento tra le varie arti. Per giudicare un testo l'unico modo possibile è ricollocarlo nella sua contemporaneità poiché la coscienza collettiva è un fatto sociale. L'avvento dei cambiamenti successivi al post-moderno ha portato alla creazione di nuovi pattern narrativi, che portano al disfacimento della distinzione tra la cultura alta e la cultura di massa. Vi è la sparizione del soggetto individuale che, conseguentemente, per Jameson porta alla scomparsa dello stile personale generando la pratica quasi universale del pastiche; la produzione culturale viene ricondotta a uno spirito oggettivo collettivo degradato. Il fatto che ciò che viene prodotto dall'industria culturale sia una merce obbliga a ripensare le categorie analitiche: ciò che deve essere tenuto in considerazione non è tanto il valore artistico, quanto la possibilità di analizzare le dinamiche culturale complesse presenti anche in opere di consumo. Per riuscire a nominare questa nuova modernità si è tentata una distinzione di termini usati spesso in maniera sovrapponibile: postmodernità (dalla metà degli anni '50 ad ora, sebbene si trovi a una svolta); postmodernismo (1965-1995); post-moderno (epoca culturale che ha risposto ai problemi posti dalla modernità). Non esistono accezioni univoche e universalmente accettate pertanto si è preferito utilizzare “moderno” e “modernità” (e i corrispettivi post-) come sinonimi giacché indicano i medesimi orizzonti concettuali. Per Franzini il postmoderno è una strategia che intende scardinare alcuni meccanismi di riferimento. È dagli anni '90 che Bruner individuerà un cambiamento che porterà l'autore a divenire il personaggio e viceversa. All'interno di questo rinnovamento l'autore non è morto ma non è neanche quello che poteva essere in precedenza, né può venire identificato con il narratore. Gli autori giocano con la loro stessa funzione in un gioco che non si contrappone mai alla conoscenza. Raccontare diviene al tempo stesso giocare con le dinamiche strutturali del testo. Tra gli usi letterari latini della parola “genere” sono due i più notevoli: genus scribendi (stile) e genera letterari (raggruppamenti dove sussiste una differenza di generalizzazione). Tale termine ha talvolta funzione nomenclativa, altre volte ha una funzione normativa. La questione dei generi nasce con Platone nella Repubblica, con la tripartizione tra genere mimetico (tragedia e commedia), espositivo (ditirambo, nòmo e poesia lirica) e misto (epopea). Nell'età alessandrina con Aristotele si mettono in relazione i generi con gli stili e li classificano precisamente distinguendone dei sottogeneri. I medievali creano generi ex-novo. Nella contemporaneità nascono delle forme miste tra un genere e l'altro, collocate sotto generi principali, per lungo tempo in una “gerarchia di generalità”. Quando si parla di un genere è necessario tenere in considerazione anche lo stile. Secondo Todorov i generi derivano da altri generi attraverso la loro trasformazione, lo spostamento o la combinazione di uno o più generi antichi. I paratesti potrebbero essere identificati come una modificazione dell'ipertesto. Il romanzo è per sua stessa struttura e formazione un genere in divenire, che si impone su altri generi disgregandoli. Da tutto ciò si dispiega il processo di relativizzazione dell'io di Krysinski, che porta in relazione l'io con l'alterità, avvenuta in seguito al distanziamento dialettico, la quale si amplifica quando la scrittura è operata seconda l'autore è dichiaratamente Pym, nella terza il curatore conferma che l'autore dell'opera è Pym e che Poe ne ha fatta una prima edizione scorretta, nell'ultima si trova Poe nuovamente come autore empirico al pari dell'autorialità di Pym. L'autore è anche il personaggio e viceversa. José Maria Eca de Queiros e José Duarte Ramalho Ortigao Interessante è il caso pre-novecentesco de Il mistero della strada di Sintra di J.M. Eca de Queiros e J.D. Ramalho Ortigao, un romanzo giallo composto a quattro mani. Questo uscì inizialmente come un servizio di cronaca nera con relativa inchiesta di polizia con una lettera e con la conseguente soluzione del delitto , che si era trattato solo di una finzione letteraria. Viene continuamente sottolineata l'importanza del lettore in quanto l'interesse non si fissa più sulla stessa opera ma sul rapporto comunicativo tra testo e lettore. Nell'ambito della scrittura a quattro mani questo rapporto si moltiplica e si amplifica perché gli attanti che si relazionano diventano tre: due autori e almeno un lettore. Per Eca de Queiros e Ramalho Ortigao la scrittura risulta da ciò che lo scrittore vive in prima persona nella realtà, utilizzando l'opera come un manifesto delle proprie idee. L'opera è complessa dal punto di vista della tessitura autoriale, tempestato da lettere che rivelano sempre nuove identità. Nella modernità: l'autore diventa personaggio Casi in cui l'autore diviene personaggio del suo stesso romanzo. Luigi Pirandello Luigi Pirandello con Personaggi, La tragedia d'un personaggio e Colloquii con i personaggi presenta un'alterazione nel piano divisorio tra autore e personaggio. In tutti i casi Pirandello diviene il personaggio dell'autore. Miguel de Unamuno Niebla di Unamuno si accosta a Pirandello, tant'è che il primo scrive anche un articolo intitolato Pirandello y yo. Il romanzo si configura come una nivola (novellona\nuvolona), anche in relazione alla nebbia da cui ogni essere umano è circondato. Il testo presenta una lunga discussione tra l'autore e il personaggio (Augusto), quest'ultimo conosce Unamuno prima ancora dell'incontro tra i due di persona. Jeorge Luis Borges – parte prima Borges è tra i più influenti discepoli di Unamuno. All'interno della raccolta appare interessante il racconto che dà il nome all'intero volume: L'Aleph, poiché Borges si inserisce all'interno di questo come personaggio. La storia si spiega intorno all'incontro tra il protagonista-personaggio Borges e Carlos Argentino Daneri, il cugino della donna da lui amata da poco scomparsa, Beatriz Viterbo. La presenza di Carlos come autore di un'opera, essendo poeta, risulta funzionale a porre il problema della possibilità della narrazione e del funzionamento della creazione artistica. Dall'inizio della narrazione Borges ricopre molteplici ruoli: autore del racconto, scrittore, protagonista e narratore. Ad aumentare la discrepanza tra la persona e l'autore risulta interessante il breve racconto Borges y yo. Kurt Vonnegut Due casi di frantumazione narrativa sono riscontrabili in piena postmodernità con La colazione dei campioni (1973) di Vonnegut e Lonark (1981) di Gray. Vi è il continuo spostamento degli attanti che rende tali romanzi complessi sebben la trama risulti apparentemente semplice così come il linguaggio adoperato. L'autore rimane tale solo fintanto che resta esterno al suo testo ma quando diventa uno dei personaggi, subisce le stesse norme che regolano la vita di questi. Indicativo è il fatto che Vonnegut per operare la sua riflessione abbia scelto come portavoce Trout: il fallimento autoriale sotto ogni punto di vista. Al termine del volume l'autore svela il perché della necessità di far incontrare l'autore con i suoi personaggi, che corrisponde al bisogno di entrare nel mondo della letteratura in una presa di coscienza che avviene solo nel momento in cui il creatore smette di sentirsi Dio e interiorizza l'idea di non essere autonomo, così come non lo sono le sue creature. Autore e personaggi sono legati da rapporti di interdipendenza: l'uno non può esistere senza la presenza degli altri. Alasdair Gray Lanark è la prima opera di Gray composta da quattro libri che non rispecchiano l'ordine di edizione. Il primo e il secondo libro si configurano come una sorta di romanzo di formazione postmoderno seguendo l'evoluzione di Duncan attraverso gli anni. Il terzo e il quarto pongono invece l'attenzione su Lanark. Ciò che rende quest'opera così postmoderna è la sua ambiguità costitutiva: l'essere altamente postmoderna e intensamente realistica. Nell'epilogo del quarto libro l'autore entra nel racconto al pari dei suoi personaggi. Anche in questo caso, l'autore creatore che si crede Dio viene messo in discussione dal libero arbitrio del suo personaggio che gli domanda come sia possibile che uno dei suoi personaggi abbia potuto agire fuori controllo. Alla luce di ciò, l'autore si definisce un illusionista. Emerge fondamentale il rapporto con il lettore poiché autore e personaggio dipendono da lui. L'epilogo contiene inoltre anche l'Indice dei Plagi, una sezione dedicata al furto di testi o di parti di esso che Gray ha ipoteticamente operato ai danni di altri scrittori, delineando le diverse tipologie di plagio (di blocco, integrato e diffuso). Infine, definisce il rapporto triadico tra autore, personaggio e lettore. Sebastiano Vassalli Abitare il vento di Vassalli è un racconto basato sulla frantumazione del linguaggio e della trama. Quest'ultima, apparentemente semplice, risulta complessa e macchinosa e, in alcuni punti, volutamente incomprensibile. Il protagonista è Antonio Cristiano Rigotti detto Cris inserito negli anni '70. Fin dall'inizio l'autore si presenta come facente parte del racconto e, lo stesso protagonista, si rivolge a lui. Già nell'incipit la triade autore, personaggio e lettore è in piena interconnessione. La presenza dell'autore, sebbene non compaia esplicitamente, è costante e necessaria. C'è un'ossessiva ricerca dell'autore da parte del protagonista e la sua figura viene analizzata. Ciò che il protagonista afferma è che autore e personaggio sono alla pari all'interno di un mondo complesso come quello a metà tra la realtà e l'immaginazione. Pertanto in qualche modo l'autore sarà sempre personaggio e che il personaggio sia in parte autore della propria trama. Philip Roth Operazione Shylock: una confessione (1993) di P. Roth affronta la questione dell'autorialità. Sebbene non vi sia l'ingresso dell'autore nel testo l'autorialità e la figura dell'autore sono posti al centro del racconto. L'autore non entra nel suo racconto con la volontà di riflettere meta-letterariamente sul suo ruolo, su quello dei personaggi e su quello del lettore in maniera esplicita, ma entra a tutti gli effetti come un personaggio, addirittura moltiplicato. L'autore può quindi operare una serie di slittamenti tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Roth comunica al lettore che il solo nome di un autore basta a dare rilevanza a qualcuno o qualcosa (caso Marra): l'autore diviene patrimonio indiscusso del pubblico e, in qualche modo, si allontana dalla stessa scrittura. Andrea Camilleri Montalbano si rifiuta (1999) di Camilleri presenta un ulteriore esempio di abbattimento della barriera autoriale e di interferenza tra autori e personaggi. Questo racconto breve è una sorta di manifesto la cui trama è estremamente semplice. Il personaggio Montalbano si lamenta poi con lo stesso autore del racconto in cui è stato inserito, descrivendo l'immagine che lo scrittore ha lasciato al pubblico. Camilleri non è il Dio dei suoi personaggi ma collabora con loro sullo stesso livello. Nel 2010 con Acqua in bocca scritto a quattro mani da Camilleri e Lucarelli che si orienta verso la “letteratura di consumo”. I due scrittori collaborano per far agire insieme le loro due creature cercando un campo neutro completamente ascrivibile l'uno all'altro. Il romanzo è intriso di immagini che permettono al lettore di ricostruire l'indagine: da una parte ciò mette in risalto che i due investigatori sono al centro delle mire dei servizi segreti deviati, dall'altra è funzionale per ricordare al pubblico dei lettori chi siano i due protagonisti. I volti dei personaggi sono quelli degli attori che li hanno interpretati nelle serie televisive. L'identificazione tra Montalbano e l'attore Luca Zingaretti è totale, sebbene il personaggio abbia subito nel tempo una serie di cambiamenti fisici, facendo agire il linguaggio del romanzo su più livelli. Mario Quatrucci Il volume è costituito da cinque racconti ambientato nella solita Roma di Marè. I lettori vengono informati che Montalbano è stato ucciso da un killer dopo aver lasciato un Convegno svoltosi presso Sapienza. Marè si distacca dal pubblico perché da un lato non si complimenta affatto con Montalbano, dall'altro usa poco riguardo nei confronti dell'autore. Egli è l'ennesimo personaggio che si ribella alla divinità autoriale. Tutto il racconto è giocato tra il piano del reale e quello dell'immaginario. Dalle indagini emerge che i principali sospettati sono la consorte Livia, l'amante Inge e, infine, L'Autore con la A maiuscola. La lingua rispecchia l'interferenza di ruoli. In conclusione si scopre che l'assassino non è Camilleri ma Marq Antoni e lo stesso Marè. Gli scambi di ruolo sono amplificati dal medium televisivo. John Maxwell Coetzee Un ulteriore esempio di opera all'interno della quale l'autore diviene personaggio al pari delle sue creature è Tempo d'estate. Scene di vita di provincia (2009) di Coetzee. È il terzo volume di una serie di romanzi che rappresentano una sorta di biografia fittizia dell'autore; le prime due opere possono essere affiancate all'ambito dell'autofiction, quell'insieme di testi che presentano l'autore come personaggio a partire dalla sua autobiografia. Il terzo volume è però a tutti gli effetti un romanzo vero e proprio, non vi è un titolo legato a un preciso periodo di vita e viene dato minor spazio all'elemento esaggistico. Un ulteriore differenza riguarda la focalizzazione: l'idea è quella di dar vita a un giovane accademico inglese attraverso gli occhi di cinque intervistati che lo hanno conosciuto in vita, in maggioranza donne. Il risultato è un'opera in fieri. Si è davanti a una narrazione ad alto tasso di complessità: Coetzee non è l'unico al centro del romanzo, condivide il ruolo con lo scrittore che si occupa della biografia, con gli intervistati e con la figura del padre. Quest'ultimo è spesso al centro delle sue opere, nel caso specifico è ormai anziano e necessita di cure ma il figlio non è in grado o non vuole assisterlo. Si presenta un'ambiguità che da un lato evidenzia l'adultità dell'autore, dall'altro al figura del padre risulta fondamentale. Ciò porta alla ricerca di una terza posizione in cui non è presente né l'abbandono del padre, né il prendersi cura di lui. Mediante questa figura si affronta lo stesso problematico lavoro della scrittura attraverso la metafora del padre come narrativo in unità frammentate; subjectivy: capacità di mutare focalizzazione sulla narrazione e porsi in modo innovativo; performance: capacità delle estensioni narrative di far collaborare i fan attirandoli e facendoli diventare parte della transmedialità (Jenkins). Se l'espansione e la serialità sono fenomeni in un certo senso antichi (Don Quijote, epica antica, romanzo di età ellenistica, il roman medievale), con la modernità le tecniche transmediali sono diventate più numerose e massive. Esistono tre differenti tipologie di paratesti: quelli che servono a pubblicizzare un testo; quelli che servono ad espandere continuamente la narrazione; i paratesti orientativi, che guidano lo spettatore alla comprensione di quanto trattato. Per Jenkins sono otto e caratteristiche fondamentali del nuovo panorama mediatico contemporaneo che deve essere: innovativo; convergente; quotidiano; interattivo; partecipativo; globale; generazionale; ineguale. Al centro di ogni movimento e mutamento vi è la convergenza, tanto che Jenkins definisce quella attuale una cultura di tipo convergente. Questa si realizza grazie a due spinte provenienti da lati opposti: dall'alto verso il basso guidato dalle corporation e dal basso verso l'alto guidato dai consumatori. A questo concetto si aggiunge quello di rimediazione: un singolo medium non è in grado di operare in modo isolato e si appropria di tecniche, forme e significati che sono proprie di altri media, rimuovendoli, pertanto ad essere nuove sono le modalità secondo cui i nuovi media rimodellano i vecchi. Di queste ne esistono tre tipologie: mediazione di mediazione; inseparabilità tra narrazione e realtà; riforma, il cui obiettivo è quello di rimodellare altri media (Bolter, Grusin). Per Bolter e Grusin un medium non è altro che un qualcosa che tende alla rimediazione. Si aggiungono anche due tensioni opposte: la questione dell'immediatezza e dell'ipermediazione. Queste convivono in quanto la seconda serve a rendere consapevoli della necessità della prima. Uno degli esempi più celebri è il paratesto letterario Diario segreto di Laura Palmer (1990) derivato dalla serie televisiva Twin Peaks – Il ritorno (la serie evento del 2017). Oltre a questo libro sono stati pubblicati anche altri volumi: nel suo complesso Twin Peaks sembra essere un prodotto transmediale completo. Un ulteriore esempio viene offerto da Bad Twin (2006), estensione transmediale letteraria della serie Lost. Può anche essere citato Dawson's desktop, paratesto transmediale della serie Dawson's Creek: un sito web che veniva aggiornato quasi giornalmente e riempiva lo spazio che intercorreva tra un episodio e l'altro al fine di far comprende meglio agli spettatori la psicologia dei personaggi. I paratesti transmediali letterari derivati dalle serie televisive di tipo complesso sembrano spesso essere visti e analizzati solo in qualità di fenomeni legati alla produzione e all'industria culturale: questi rimangono però un punto di accesso all'insieme dell'universo mediale cui pertengono e al contempo sono da considerarsi come un prodotto a sé stante.. Paratesti transmediali: gli esempi Nell'episodio Ship in a Bottle di Star Trek viene affrontato in maniera esplicita il tema del personaggio in relazione all'abbattimento del limite tra la realtà e la finzione narrativa. Al centro di questo episodio vi è il Professor James Moriarty, personaggio della serie di Sherlock Holmes. Egli sembra avere coscienza della sua condizione di personaggio e del momento stesso in cui è stato creato, il suo unico desiderio è quello di uscire dal programma cui pertiene ed entrare all'interno dell'Enterprise. Afferma inoltre di essere reale poiché in grado di pensare autonomamente: prendendo coscienza della sua natura fittizia, abbatte la barriera presente tra la realtà e la finzione narrativa. Jessica Fletcher La Signora in giallo è una serie andata in onda dal 1984 al 1996 per un totale di 12 stagioni ambientata nel Maine e ha per protagonista la scrittrice di gialli Jessica Beatrice MacGill coniugata Fletcher, interpretata da Angela Lansbury. Jessica è un'insegnante di inglese in pensione che, rimasta vedova, si è dedicata alla scrittura. Gli episodi si aprono con un delitto e poi seguono le indagini sull'omicidio: di norma viene sospettato qualcuno che Jessica decide di aiutare a scagionare. L'episodio termina solitamente con una conversazione tra Jessica e l'omicida il quale ammette le sue colpe e, a quel punto, intervengono le forze dell'ordine. La serie nasce dall'ispirazione del noto personaggio Miss Marple di Agatha Christie. Nella setie TV Jessica è autrice di numerosi romanzi, spesso best-sellers che vengono menzionati o dei quali appaiono le copertine all'interno dell'episodio. Questi, tuttavia, non esistono nella realtà. Jessica Fletcher è divenuta reale al punto che la famosa scrittrice di gialli della serie televisiva vede pubblicati nella realtà alcuni romanzi di cui ne è a tutti gli effetti l'autrice. Il primo romanzo della serie Gin & Dagers (1989) è un'opera apparentemente scritta a quattro mani: a scrivere il romanzo è ovviamente stato Donald Bain ma il nome di Jessica Fletcher risulta comunque fondamentale in quanto è lei l'autrice a cui il pubblico è interessato. Lo scrittore dell'opera non è affatto libero, in quanto deve adattarsi all'autorialità della Fletcher. Scrivere un romanzo firmandosi con uno pseudonimo è qualcosa di così positivo che anche Jessica ne adotta uno: anzi, specifica che nel momento in cui lei firmò con il nome di Cynthia Syms, questa divenne reale e nacque un altro autore, esattamente come avviene nella realtà. Se Jessica Fletcher è diventata un'autrice di gialli del mondo reale, i suoi testi non possono non essere considerati dei prodotti appartenenti alla narrativa contemporanea. La serie dei paratesti testuali derivati da Murder, She Wrote è un'estensione transmediale letteraria che porta alla nascita di un autore letterario nuovo che utilizza lo spazio narrativo per riflettere sulla scrittura stessa. Richard Castle Il meccanismo della serie Castle è lo stesso di Murder, She Wrote e anche l'ambito rimane quello della crime fiction della serialità complessa. I nove romanzi pubblicati dal personaggio Richard Castle durante la serie con protagonista Nikki Heat sono stati poi scritti e pubblicati nel mondo reale: lo pseudobiblium diviene realtà. L'autore è a tutti gli effetti Richard Castle e la casa editrice americana ha confermato che il romanziere reale potrebbe essere uno degli scrittori realmente apparsi nella serie televisiva. Anche Castle nel suo passaggio transmediale diviene da personaggio fittizio di una serie televisiva complessa un autore di bestsellers nella realtà. Tuttavia il suo nome è l'unico che compare nell'opera e allo scrittore del romanzo è stato imposto il silenzio assoluto fino alla fine della serie. Le somiglianze tra la serie TV e i romanzi sono molteplici, a partire dai personaggi stessi della serie a cui viene cambiato il nome, ma che vengono mantenuti con le medesime caratteristiche e gli stessi ruoli. Rispetto ai romanzi della serie della Fletcher quelli relativi a Nikki Heat non presentano la stessa riflessione meta- letteraria: se i primi hanno per protagonista una scrittrice che in molte occasioni riflette il suo ruolo di autrice, nei secondi la protagonista è una poliziotta che è semmai portata a riflettere più che altro su sé stessa. La narrazione viene conseguentemente influenzata profondamente dalla focalizzazione del protagonista che si trova a narrare il racconto: nel primo caso l'autore corrisponde anche al protagonista, nel secondo l'autore fa da corollario. Inoltre, Jessica scrive romanzi a quattro mani in cui compare non solo come firmataria ma come personaggio principale; Castle, d'altro canto, compare come unico autore ma nel testo si trova una sua versione trasposta e adattata, quella di Rook. Con nome, volto, passato e con la scrittura i due personaggi divengono a tutti gli effetti autori della contemporanea fluidità letteraria: attraverso i paratesti transmediali vi è la manifestazione di un'estensione diegetica in grado di ammettere un oggetto, originariamente appartenente al mondo narrativo, e successivamente un personaggio che si trasforma in autore nel mondo reale. Un nuovo medium... L’interpretazione di un nuovo medium nel momento in cui compare, e di tutto ciò che esso comporta, è un problema che si è sempre posto: a partire dal XX secolo «si è semplicemente aggravato per la velocità delle trasformazioni che hanno contrassegnato il Novecento [...] e rischia di assumere dimensioni difficili da controllare sul piano teorico nella fase in cui i processi di convergenza sembrano sovrastare la capacità di identificare analiticamente le singole componenti dei sistemi mediali e di concettualizzarle in forma pressoché compiuta» (Bolter, Grusin 2002, 12). Il nuovo panorama mediatico per Jenkins Per Jenkins sono otto le caratteristiche fondamentali della nuovo panorama mediatico contemporaneo, che deve essere: innovativo, in quanto ci troviamo in un momento di profondo cambiamento tecnico e tecnologico, in cui, in modo estremamente rapido, nuovi media vengono creati e guadagnano la loro posizione, altri vengono invece adattati e assorbiti; convergente, nel senso che ogni prodotto si distenderà attraverso una gamma molteplice di canali mediatici; quotidiano, in quanto la molteplicità mediatica è stata assorbita all’interno della nostra vita quotidiana ed è divenuta così famigliare, al punto di essere diventata in qualche modo invisibile; interattivo, in quanto le nuove tecnologie rendono meno complesso il campionamento e il ri-orientamento delle immagini attraverso i media, giungendo a una sorta di riscrittura di materiali presi in prestito dai media; partecipativo, perché si è passati a un modello in cui ogni partecipante fa parte di una rete a cui accede liberamente e che, in parte, contribuisce a creare; globale, poiché le nuove reti mediatiche si estendono al punto che le persone possono liberamente interagire tra loro senza barriere spaziali; generazionale, nel senso che i giovani appartenenti alla contemporaneità vivono all’interno di ambienti mediatici profondamente diversi e sconnessi da quelli caratteristici del passato; ineguale, in quanto questa nuova cultura mediatica sarebbe fortemente elettiva, nella misura in cui la partecipazione a queste nuove comunità mediatiche rappresenta una forma di potere a tutti gli effetti (Jenkins 2014, 318-324). Per Bolter e Grusin: la rimediazione Al concetto di convergenza, in ambito mediatico, si aggiunge quello di rimediazione, nel senso che un singolo medium, all’interno della cultura contemporanea, non è in grado di operare in modo isolato e si appropria di tecniche, forme e significati che sono proprie degli altri media, rimodellandoli: secondo Bolter e Grusin «Minacciati dalle nuove tecnologie digitali, i vecchi media elettronici e a stampa stanno cercando di riaffermare la loro posizione all’interno della nostra cultura» (Bolter, Grusin 2002, 30). In questo senso, però, ciò che si rivela come nuovo sono «le modalità secondo le quali i nuovi media rimodellano i vecchi e, allo stesso tempo, i vecchi media provano a • Polisenso, pluridiscorsività: chi ne parla? • Kurt Vonnegut: quando c'è abbattimento della barriera, come? • Cosa sostiene Pirandello? 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